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Argomento di questa composizione è Il Mio Primissimo Viaggio.

Il mio primo e l’ultimo, otto anni fa. Veramente non fu per niente il mio viaggio, ma il viaggio di Toni. L’acido lisergico dietilammide non è mai passato attraverso il mio tratto intestinale, se si deve dire la verità. Quello che ho fatto è stato l’autostop nel viaggio di Toni. In un certo senso io sto ancora facendo l’autostop in quel viaggio, quel pessimo viaggio. Lasciate che ve ne parli.

Successe nell’estate del ’68. Quell’estate era già brutta in se stessa; vi ricordate l’estate del ’68? Fu quella in cui noi tutti aprimmo gli occhi sul fatto che tutto stava andando a rotoli. Intendo parlare della società americana. Quell’impressione di crollo e di collasso imminente, che ti permea completamente, a noi tutti così familiare, penso che risalga, di fatto, al 1968. Quando il mondo attorno a noi divenne una metafora del violento processo d’incremento entropico che si svolgeva nelle nostre anime… nella mia anima, perlomeno.

Quell’estate alla Casa Bianca c’era Lyndon Baines MacBird, giusto per la scena, che cercava di far passare il tempo dopo la sua abdicazione in marzo. Bobby Kennedy aveva finalmente incontrato la pallottola con sopra il suo nome, e così Martin Luther King. Nessuno dei due omicidi era stato una sorpresa; l’unica sorpresa era che si fossero fatti attendere tanto a lungo. I negri stavano appiccando il fuoco alle città, erano i loro stessi quartieri, a cui appiccavano il fuoco, ricordate? La gente comune di tutti i giorni cominciava a portare abiti stravaganti per andare a lavorare, midi e body e minimini, e i capelli si facevano sempre più lunghi anche per quelli al di sopra dei venticinque. Era l’anno delle basette e dei mustacchi alla Buffalo Bill. Gene McCarthy, un senatore del… (di dove? Minnesota? Wisconsin?) citava poesie nelle sue conferenze per arrivare alla nomina a rappresentante dei democratici per la presidenza, ma ci si poteva tranquillamente scommettere che i democratici la nomina l’avrebbero data a Hubert Horatio Humphrey, quando si riunirono a Chicago per la loro convention (e non è stata, quella convention, un delizioso festival del patriottismo americano). In campo avversario Rockefeller dopo tanta fatica era lì lì per raggiungere Dick l’imbroglione, Richard Nixon, ma tutti sapevano dove sarebbe arrivato. Tanti bambini stavano morendo per denutrizione in un posto chiamato Biafra, che voi non ricordate, e i russi stavano portando truppe in Cecoslovacchia per un’ulteriore dimostrazione di fraternità socialista. In un posto chiamato Vietnam, che probabilmente non vorreste ricordare, noi stavamo sganciando bombe al napalm su tutto ciò che si muoveva allo scopo di promuovere la pace e la democrazia, e un tenente di nome William Calley aveva di recente coordinato l’eliminazione di oltre cento sinistri e pericolosi vecchi, vecchie e bambini nel villaggio di Mylai, anche se noi non ne sapevamo ancora niente. I libri che tutti leggevano erano Coppie, Myra Breckenridge, Le confessioni di Nat Turner e I giochi d’azzardo. Dimentico i film di quell’anno. Easy Rider non era ancora uscito e Il laureato era dell’anno prima. Forse quello era l’anno di Rosemary’s Baby. Sì, mi pare esatto: il 1968 era di sicuro l’anno del demonio. Fu anche l’anno in cui un mucchio di gente di mezza età e delle classi medie cominciò ad usare, con affettazione, parole come “fumata” e “erba” per indicare la marijuana. Alcuni di loro la fumavano con la stessa facilità con cui ne parlavano. (Io. Stavo avviandomi ai miei 33 anni). Vediamo, che altro c’è? Il presidente Johnson nominò Abe Fortas per rimpiazzare Earl Warren come presidente della Corte Suprema. Dove sei adesso, presidente della Corte Fortas, adesso che noi abbiamo bisogno di te? Gli incontri per la pace di Parigi, lo si creda o no, sono cominciati proprio quell’estate. Negli anni seguenti sembrò che i colloqui fossero un’istituzione senza tempo, eterni come il Gran Canyon e il Partito Repubblicano; invece no: furono inventati nel 1968. Denny McLain era sulla buona strada per vincere 31 partite in quella stagione. Suppongo che McLain sia stato l’unico essere umano a trovare il 1968 un’esperienza che valeva la pena di essere vissuta. La sua squadra, però, perse i campionati del mondo. (No. Che cosa sto dicendo? I Tigers vinsero per quattro a tre. Però fu Mickey Lolich il numero uno, non McLain). Ecco che tipo di anno fu quello. Oh, Cristo, ho dimenticato un grosso significativo pezzo di storia. Nella primavera del ’68 ci sono stati i disordini alla Columbia, con gli studenti estremisti che occuparono il campus («Kirk deve andarsene!») e con le lezioni sospese («Sospendetele!») e gli esami finali che saltavano e scontri notturni con la polizia, con la conseguenza di un bel po’ di crani studenteschi messi a nudo e tanto sangue d’alta qualità versato per la strada. Com’è buffo che io abbia cacciato fuori dalla mia mente questo fatto, quando di quello che ho elencato qui era l’unico di cui io abbia realmente avuto un’esperienza diretta. Ero a Broadway, nella 116a Strada, a osservare i plotoni di “fuzz” dagli occhi di ghiaccio che correvano verso la Butler Library. (Chiamavamo “fuzz” i poliziotti, prima di cominciare a chiamarli porci, il che successe poco dopo, quello stesso anno). Tenevo ben alzata la mano con due dita tese a V, come segno-di-vittoria-per-la-pace, e urlavo slogan idioti come facevano i più impegnati. Mi rannicchiai nell’anticamera della Furnald Hall quando la brigata in blu, ben fornita di grossi randelli, portò il suo violento attacco. Parlai di tattica con un barbone, un SDS gauleiter, che alla fine mi sputò in faccia e mi chiamò fetente spia borghese. Guardavo le attraenti ragazze del Barnard che si stracciavano le camicette e facevano ballare le loro tette nude davanti a poliziotti feroci ed esasperati, e contemporaneamente urlavano scurrili espressioni anglosassoni che le ragazze del Barnard della mia remota era non avevano mai neppure sentito. Stavo lì a osservare un gruppo di irsuti giovani della Columbia che, come di rito, pisciavano su una pila di documenti di ricerca tirati fuori dall’armadietto ben ordinato di qualche sfortunato assistente che stava per prendere il dottorato. Fu allora che mi resi conto che non ci potevano essere più speranze per l’umanità, quando anche i migliori tra noi erano capaci di trasformarsi in selvaggi scatenati in nome dell’amore, della pace e dell’uguaglianza fra gli uomini. In quelle notti buie io scrutai dentro le menti di parecchia gente e vi trovai soltanto isteria e pazzia e una volta capito, con disperazione, che stavo vivendo in un mondo dove due fazioni di matti erano in lotta fra loro per il controllo del manicomio mi allontanai per andare a vomitare in Riverside Park dopo uno scontro particolarmente sanguinoso e fui colto alla sprovvista (io, colto alla sprovvista!) da un agile borsaiolo quattordicenne che brillantemente mi alleggerì di 22 dollari.

Nel ’68 abitavo vicino alla Columbia, in un malandato alberghetto sulla 114°, dove avevo una stanza medio-grande più cucina e servizi; gli scarafaggi non entravano nel conto. Era proprio lo stesso posto in cui avevo vissuto i miei anni da matricola e da studente anziano, 1955-56. La costruzione già allora era in declino ed era un abominevole buco quando vi ritornai 12 anni dopo; il cortile era tutto disseminato di siringhe ipodermiche rotte, proprio come un altro cortile poteva essere disseminato di mozziconi. Ho una strana tendenza, masochista se volete, a tornare sui luoghi del mio passato, per quanto brutti, e quando ho bisogno di un posto in cui vivere, scelgo soltanto quello, sempre quello. Oltretutto era a buon mercato — 14 dollari e 50 la settimana — e dovevo tenermi vicino all’Università a causa del lavoro che stavo facendo, quel libro su Israele. Mi state ancora seguendo? Stavo parlandovi del mio primo “viaggio”, che di fatto poi era stato il viaggio di Toni.

Avevamo condiviso la nostra cameretta malandata per quasi sette settimane — un pezzettino di maggio, tutto giugno e una parte di luglio — nella buona e nella cattiva sorte, passando attraverso ondate di entusiasmo e docce fredde, incomprensioni e riconciliazioni; era stato un periodo di felicità, forse il più felice della mia vita. Io l’amavo e penso che lei mi amasse. Non ho avuto molto amore nella mia vita. Non prendetelo come un tentativo di ottenere la vostra pietà, ma soltanto come un puro e semplice dato di fatto, oggettivo e freddo. La natura stessa della mia condizione riduce la possibilità di amare e di essere amato. Un uomo nella mia situazione, ricettivo ai più intimi pensieri di chiunque, concretamente non arriva a sperimentare una grossa fetta di amore. È povero nel dare amore perché non si fida molto degli esseri umani suoi simili: conosce troppo bene i loro piccoli sforzi segreti e questo uccide i suoi sentimenti. Incapace di dare amore, non ne può ricevere. La sua anima, indurita dall’isolamento e dall’incapacità di dare amore, diventa inaccessibile, per cui non è per niente facile agli altri amarlo. Il cerchio si chiude su se stesso e ci si resta intrappolati dentro. Nonostante questo, io amavo Toni, avendo badato a non curiosare troppo in profondità dentro di lei, e non dubitavo che il mio amore fosse ricambiato. Dopo tutto, che cosa definisce quel che è amore? Noi preferivamo la compagnia l’uno dell’altro in tutti i modi possibili. Non ci siamo mai infastiditi a vicenda. I nostri corpi riflettevano l’intimità delle nostre anime: io non fallii mai un’erezione, lei non mancò mai di bagnarsi, i nostri accoppiamenti ci portarono sempre tutti e due all’estasi.

Chiamavo queste cose i parametri dell’amore.

Il venerdì della nostra settima settimana Toni ritornò a casa dall’ufficio con due quadratini di carta macchiata nella borsetta. Al centro di ognuno dei due quadrati c’era una strana macchia verde-azzurra. Li studiai un secondo o due, senza capire.

— Acido — disse lei alla fine.

— Acido?

— Ma sì, lo sai. LSD. Me l’ha dato Teddy.

Teddy era il suo capo, il redattore-capo. LSD, sì. Lo conoscevo. Avevo letto Huxley a proposito della mescalina nel 1957. Ero affascinato e tentato. Per anni avevo flirtato con l’esperienza psichedelica, tentando addirittura una volta di presentarmi come volontario in un programma di ricerca sull’LSD al Columbia Medical Center. Mi ero iscritto troppo tardi, però; e poi, quando la droga diventò di moda, vennero tutte le orripilanti storie di suicidi, psicosi, viaggi finiti male. Ben conoscendo la mia vulnerabilità, decisi che sarebbe stato saggio lasciare l’acido agli altri. Mi restava però ancora addosso tutta la curiosità. Ed ecco qui, adesso, questi quadretti di carta macchiata sul palmo della mano di Toni.

— Dicono che questa roba sia dinamite — disse lei. — Materiale assolutamente puro, di laboratorio. Teddy ha già viaggiato per fare un controllo di questa partita e dice che è proprio liscia, proprio pulita, che non c’è accelerazione o accidenti del genere. Ho pensato che domani potremmo passarlo viaggiando, e poi dormire tutta la domenica.

— Tutti e due?

— Perché no?

— Pensi che sia saggio essere fuori di noi tutti e due nello stesso momento?

Mi lanciò un’occhiata tutta particolare. — Credi che l’acido ti faccia andare “fuori di te”?

— Non lo so. Ho sentito un mucchio di storie paurose.

— Non hai mai fatto un viaggio?

— No — dissi. — E tu?

— Be’, no. Però ho visto alcuni miei amici in viaggio. — Provai una fitta acuta al pensiero della vita che aveva condotto prima che io l’incontrassi. — Non uscivano dalla loro mente, David. C’è una specie di esaltazione selvaggia per un’ora o giù di lì, in cui le cose, qualche volta, si fanno confuse, però, fondamentalmente, chi è in viaggio sta lì seduto lucido, calmo come… be’, come Aldous Huxley. Ti immagini Huxley che esce di senno? Che farfuglia e dice sciocchezze e che sfascia i mobili?

— Che ne dici di quello che ha ucciso la sua matrigna mentre era sotto l’azione dell’acido? E della ragazza che si è buttata dalla finestra?

Toni si strinse nelle spalle. — Erano instabili — disse altezzosamente. — Forse era proprio l’assassinio o il suicidio la loro vera inclinazione, e l’acido ha solo fornito la spinta di cui avevano bisogno. Questo, però, non vuol dire che sarebbe così per te, o per me. Può anche darsi che le dosi fossero eccessive, o la roba fosse tagliata con qualche altra droga. Chi lo sa? Quelli sono un caso su un milione. Io ho amici che hanno viaggiato cinquanta, sessanta volte, e non hanno mai avuto nessun disturbo. — Era irritata con me. C’era un tono condiscendente, da paternale, nella sua voce. Pareva che la sua stima nei miei riguardi stesse diminuendo per quelle mie esitazioni da vecchia zitella; eravamo al limite di una vera e propria spaccatura. — Dov’è il problema, David? Hai paura di un viaggio?

— Penso che non sia saggio viaggiare insieme, tutto qui. Quando non siamo sicuri dove questa roba ci porta.

— Viaggiare insieme è la cosa più bella che due persone possano fare — disse lei.

— Ma è una cosa rischiosa. Non lo conosciamo bene. Ascoltami: si può prendere più acido di quello che serve, non è vero?

— Ritengo di sì.

— Okay, allora. Facciamolo con ordine, un passo alla volta. Non c’è fretta. Tu viaggi domani e io starò a guardare. Io viaggerò domenica e starai a guardare tu. Se ad ambedue piacerà quello che l’acido combina alle nostre teste, la prossima volta faremo il viaggio insieme. Va bene, Toni? Okay?

Non andava bene. Vidi che lei stava per cominciare a parlare, per imbastire qualche argomentazione, qualche obiezione; però la vidi anche trattenersi, fare marcia indietro, riflettere sulla sua posizione, e decidere di non farne niente. Benché non fossi entrato nella sua mente neanche per un secondo, l’espressione del suo volto rendeva tutta la sequenza dei suoi pensieri, con un’evidenza completa. — Tutto bene — lei disse adagio. — Non vale la pena di insistere.

Sabato mattina lei saltò la colazione — le era stato detto di fare il viaggio a stomaco vuoto — e, dopo che io ebbi mangiato, rimanemmo seduti per un po’ in cucina con uno dei quadratini di carta sporca che stava lì, tutto innocente, sul tavolo tra noi due. Fingemmo che non ci fosse. Toni sembrava un po’ tirata; non sapevo se fosse seccata per la mia insistenza di fare il viaggio separati oppure se, proprio all’ultimo momento, fosse turbata dall’idea del viaggio. Non parlammo molto. Lei riempì un portacenere con un grande lugubre mucchio di sigarette fumate a metà. Ogni tanto ridacchiava nervosamente. Ogni tanto io le toccavo una mano e sorridevo incoraggiante. Durante queste scene patetiche alcuni degli inquilini con cui noi condividevamo la cucina entrarono e uscirono. Prima Eloise, la melliflua torbida puttana. Poi la signorina Theotokis, l’infermiera dalla faccia dura, che lavorava al St. Luke. Il signor Wong, il misterioso piccolo grassoccio cinese che girava sempre in mutande. Aitken, l’erudito omosessuale che veniva da Toledo, con il suo cadaverico compagno di stanza tossicomane, Donaldson. Un paio di loro fecero un cenno con la testa nella nostra direzione, però nessuno disse niente, neppure «Buon giorno». In quel posto si usava comportarsi come se i propri vicini fossero invisibili. Le belle tradizioni della vecchia New York! Verso le dieci e mezzo Toni disse: — Dammi un succo di arancia, vuoi? — Ne versai un bicchiere prendendolo, nel frigorifero, da un contenitore che portava un’etichetta con il mio nome. Ammiccando verso di me e facendomi un ampio sorriso, una smargiassata menzognera, lei appallottolò la cartina macchiata e se la spinse in bocca, inghiottendola senza masticarla e mandando giù il succo d’arancia in un sorso solo.

— Quanto tempo ci vuole perché faccia effetto? — chiesi.

— Circa un’ora e mezzo — rispose.

In realtà andò meglio: cinquanta minuti. Eravamo ritornati nella nostra stanzetta, avevamo chiuso a chiave la porta; deboli ineguali note di Bach provenivano dal giradischi portatile. Tentai di mettermi a leggere, e anche Toni; le pagine non le voltavamo troppo alla svelta. Di colpo lei alzò lo sguardo e disse: — Comincio a sentirmi un po’ strana.

— Strana come?

— Ho le vertigini. Un leggero senso di nausea. Sento un formicolio sul collo, qui dietro.

— Posso darti qualcosa? Un bicchier d’acqua? Un succo?

— Niente, grazie. Sto benissimo. Veramente. — Un sorriso, timido ma genuino. Sembrava un po’ tesa, però per niente impaurita. Impaziente di cominciare il viaggio. Misi giù il libro e la osservai, vigile, sentendomi protettivo, desiderando quasi di avere qualche occasione per essere utile. Non volevo assolutamente che lei facesse un brutto viaggio, soltanto desideravo esserle utile.

Lei mi tenne continuamente informato sul progredire dell’acido attraverso il suo sistema nervoso. Io presi nota finché lei osservò che lo scricchiolio della matita sul foglio la distraeva. Gli effetti visivi erano incominciati. Le pareti le parvero leggermente concave, e le crepe nell’intonaco avevano assunto uno straordinario disegno di grande complessità. Il colore di ogni minima cosa diveniva naturalmente brillante. I raggi di luce solare che entravano attraverso la finestra sconnessa erano frammenti prismatici dello spettro vomitati sul pavimento. La musica — avevo messo sull’automatico un mucchio dei suoi dischi preferiti — aveva acquistato una curiosa nuova intensità; lei cominciava ad avere difficoltà a seguire le linee melodiche, e le pareva che il piatto si arrestasse e ripartisse, però il suono stesso, in quanto suono, aveva un’indescrivibile qualità di densità e di tangibilità che l’affascinava. C’era un fischio nelle sue orecchie, come di aria che passasse veloce sopra le sue guance. Parlò di un senso di estraneità che la pervadeva. — Sono su qualche altro pianeta — disse due volte. Appariva arrossata, eccitata, felice. Ricordando i racconti terrificanti di cui avevo sentito parlare, di discese agli inferi indotte dall’acido, resoconti strazianti di paurose vicende amabilmente riportati per la delizia di milioni di persone dai diligenti anonimi giornalisti di Time e Life, stavo quasi per piangere rilevando, di fronte all’evidenza, che la mia Toni sarebbe passata attraverso il suo viaggio indenne. Avevo temuto il peggio. Invece lei stava facendolo proprio benissimo. Aveva gli occhi chiusi, la sua faccia era serena ed esultante, il suo respiro profondo e rilassato. Era perduta nei trascendentali regni del mistero, la mia Toni. Adesso mi stava parlando semplicemente, rompendo i suoi silenzi soltanto ogni qualche minuto per mormorarmi qualcosa di indistinto e di contorto. Era passata una mezz’ora da quando lei aveva cominciato a dire di provare strane sensazioni. Via via che si immergeva più profondamente nel suo viaggio, anche il mio amore per lei si faceva sempre più profondo. La sua abilità di tener testa all’acido era la prova della radicale solidità della sua personalità, e questo mi piaceva immensamente. Io ammiro le donne capaci. Già avevo programmato il mio viaggio per il giorno seguente, dopo aver selezionato l’accompagnamento musicale, dopo aver tentato di immaginare il tipo di interessanti distorsioni della realtà che avrei sperimentato, non vedendo l’ora di poter, poi, analizzare le annotazioni insieme a Toni. Ero molto pentito della vigliaccheria che mi aveva privato del piacere di viaggiare con Toni quello stesso giorno.

Però, cos’è questo, adesso? Che cosa sta succedendo alla mia testa? Perché questo improvviso senso di soffocamento? Questo peso sul mio petto? Questa sensazione di aridità alla gola? Le pareti stanno piegandosi; l’aria sa di chiuso e pesante; il mio braccio destro è di colpo un piede più lungo del sinistro. Questi sono effetti che Toni ha comunicato e descritto pochi attimi fa. Perché adesso li provo io? Sto tremando. Sulle mie cosce i muscoli scattano per conto loro. È quello che chiamano alto contatto? Soltanto perché sono così vicino a Toni mentre lei è in viaggio, lei mi trasmette delle particelle di LSD e io inavvertitamente assorbo un qualche contagio presente nell’atmosfera?

— Mio caro Selig — dice la mia poltrona con aria di sufficienza — come puoi essere così stupido? È ovvio che tu stai captando questi fenomeni direttamente dalla sua mente!

È ovvio? È proprio così ovvio? Prendo in considerazione questa possibilità. Sto leggendo Toni senza saperlo? Apparentemente sto facendolo. Prima, c’è sempre voluto qualche sforzo di concentrazione, anche se leggero, per mettere bene a fuoco la mente di un altro. Sembra, però, che l’acido intensifichi la sua emissione e me la offra senza che l’abbia cercata. Quale altra spiegazione ci potrebbe essere? Lei sta irradiando il suo viaggio; e in qualche modo io sono sintonizzato sulla sua lunghezza d’onda, a dispetto di tutti i miei nobili propositi di rispettare la sua privacy. E ora le stranezze dell’acido infettano me allo stesso modo, affluiscono attraverso la breccia aperta tra noi.

Devo tirarmi fuori dalla sua mente?

Gli effetti dell’acido mi distraggono. Guardo Toni e lei appare trasformata. Una piccola escrescenza nera in fondo alla sua guancia, vicino all’angolo della bocca, lampeggia in un vortice di colori sfavillanti: rosso, azzurro, viola, verde. Le sue labbra troppo piene, la sua bocca troppo larga. Tutti quei denti. File su file su file, come un pescecane. Come ho fatto a non accorgermi prima di quella bocca da animale feroce? Lei mi spaventa. Il suo collo si allunga; il suo corpo si comprime; sul suo petto il solito golfino rosso va su e giù come sotto il respiro di animali infaticabili, quel golfino che ha assunto un’inquietante, minacciosa sfumatura porporina. Per sfuggire a lei, guardo verso la finestra. Un tipo di crepe di cui non mi ero mai accorto prima corrono sui vetri sporchi. Certamente, da un momento all’altro, la finestra scoppierà e ci coprirà di taglienti frammenti di vetro. La costruzione dall’altra parte della strada oggi è innaturalmente tozza. C’è minaccia nella sua forma alterata. Il soffitto sta venendo contro di me, anche quello. Sento sulla mia testa sordi colpi di tamburo — i passi dei miei vicini del piano di sopra, dico a me stesso — e immagino cannibali che stanno preparandosi da mangiare. È questo un viaggio? È questo che i giovani della nostra nazione hanno fatto a se stessi, volontariamente, addirittura avidamente, per il gusto di divertirsi?

Devo troncarlo, prima che mi renda completamente folle. Ho bisogno di uscire.

Bene, presto fatto. Ho i miei metodi per bloccare le emissioni, per sospendere il flusso. Soltanto che questa volta non funzionano. Sono senza risorse contro il potere dell’acido. Tento di chiudermi fuggendo via da queste sensazioni insolite e sconvolgenti, e loro continuano ad avanzare dentro di me, come se niente fosse. Io sono completamente spalancato a ogni emanazione di qualsiasi tipo che provenga da Toni. Ci sono preso dentro. Vado sempre più in profondità. Questo è proprio un viaggio. È un brutto viaggio. È proprio un bruttissimo viaggio. Che strano: Toni sta facendo un buon viaggio, è chiaro. Pare così a qualunque osservatore esterno. Allora perché io, che per puro caso ho fatto l’autostop nel suo viaggio, mi ritrovo a farne uno così brutto?

Tutto quello che c’è nella mente di Toni fluisce nella mia. Il captare l’anima di un altro non è un’esperienza nuova per me; questo, però, è un transfert che non ho mai sperimentato prima, perché l’informazione modulata della droga mi arriva spaventosamente distorta. Sono uno spettatore involontario nella mente di Toni, e quello che vedo è un sabba di démoni. È possibile che simili tenebre allignino veramente in lei? Non avevo visto niente del genere le altre due volte: forse l’acido ha fatto affiorare qualche livello da incubo che prima mi era inaccessibile? Il suo passato è lì, in sfilata. Immagini sfarzose, immerse in una luce fosca. Amanti. Accoppiamenti. Abominazioni. Un torrente di sangue mestruale; oppure questo fiume scarlatto è qualcosa di più sinistro ancora? Ecco un grumo di dolore: che cos’è? Crudeltà verso gli altri? Crudeltà verso se stessa? E guarda come si offre a quella schiera di uomini mostruosi! Avanzano meccanicamente, un’enorme legione. I loro cazzi rigidi lanciano scintillii di una terrificante luce rossastra. Uno dopo l’altro si immergono dentro di lei e vedo la luce sprizzar fuori dai suoi lombi, mentre la scopano. Le loro facce sono maschere. Non ne conosco nessuno. Perché non ci sono anch’io in riga? Dove sono io? Ah, eccomi là: fuori tiro, in un angolino, insignificante, irrilevante. Sono io quella cosa lì? Così lei mi vede di fatto? Un peloso pipistrello, vampiro, un succhiatore di sangue accovacciato lì casualmente? O è soltanto l’immagine che David Selig ha di David Selig, che rimbalza tra di noi come riflessi in specchi paralleli di un negozio di barbiere? Dio mi aiuti, sto proiettando su di lei il mio viaggio nero, per poi leggerlo di ritorno da lei e finire col biasimarla, perché accoglie incubi che non si sarebbe mai sognata?

Come posso spezzare questa concatenazione?

Non mi reggo in piedi. Barcollo, con le gambe allargate, i piedi piatti e spinti all’infuori, nauseato. Dov’è la porta? La maniglia si ritrae quando cerco di afferrarla. Brancolo, cercandola.

— David? — La sua voce risuona all’infinito. — David David David David David David…

— Un po’ d’aria fresca — mormoro. — Metto fuori la testa soltanto un minuto…

Non va per niente bene. Quelle immagini da incubo mi seguono attraverso la porta. Mi appoggio contro la parete che trasuda umidità, aggrappandomi a un riparo vacillante. Il cinese va alla deriva accanto a me come un fantasma. Molto lontano sento suonare il telefono. La porta del frigorifero sbatte, sbatte di nuovo, e sbatte di nuovo, e il cinese mi passa accanto per la seconda volta provenendo dalla stessa direzione, e la maniglia cerca di scappare alla mia mano, come se l’universo si ripiegasse all’indietro su se stesso, rinchiudendomi in un attimo a forma di nodo. L’entropia diminuisce. La parete verde trasuda sangue verde. Una voce, che sembra un cardo, dice: — Selig? Qualcosa non va? — È la voce di Donaldson, lo spacciatore di droga tossicomane. La sua faccia è un teschio. La sua mano sulla mia spalla è solo ossa. — Sta bene? — chiede. Scuoto la testa. Si piega verso di me finché le sue orbite vuote sono vicinissime al mio volto, e mi studia per un lungo momento. Dice: — Lei è in viaggio, caro mio! Non è vero? Ascolti, se le salta il ticchio, venga giù nella hall, le procureremo della roba che l’aiuterà.

— No. Non c’è problema.

Barcollando ritorno nella camera. La porta, diventata all’improvviso flessibile, non si vuole chiudere; la spingo con tutt’e due le mani e la tengo ferma al suo posto finché scatta la serratura a molla. Toni è ancora seduta dove l’ho lasciata io. Appare indistinta. La sua faccia è una cosa mostruosa, puro Picasso; giro la testa, sgomento.

— David?

La sua voce è fessa, aspra; sembra modulata con la sfasatura di due ottave alto e basso, con in mezzo uno spessore irregolare di lana. Agito disordinatamente, freneticamente le braccia nel tentativo di farla smettere di parlare, lei invece continua, manifesta ansietà per me, vuol sapere che cosa sta succedendo, perché esco ed entro dalla stanza. Ogni sua parola, ogni suono, è per me un tormento. E neanche le immagini smettono di fluire dalla sua alla mia mente. Quel vampiro peloso dai denti acuminati con la mia faccia, mi fissa ancora minaccioso da un angolino del suo cranio. Toni, pensavo che tu mi amassi. Toni, pensavo di farti felice. Mi lascio cadere in ginocchio e mi metto ad analizzare minutamente lo zerbino incrostato di sporcizia, vecchio di un milione di anni, un pezzo del Pleistocene, un pezzo che sta svanendo sfoltito, logoro. Lei mi viene vicino, si piega giù tutta preoccupata, lei che è in viaggio sta a preoccuparsi che stia bene il suo compagno che non è in viaggio, ma che misteriosamente è in viaggio anche lui. — Non capisco — bisbiglia. — Urli, David. Hai la faccia tutta piena di chiazze. Ho fatto qualcosa di sbagliato? Ti prego, non far lo scemo. Stavo facendo un viaggio così bello e adesso… non riesco proprio a capire…

Il pipistrello. Il pipistrello. Dilata le sue ali gommose. Mette a nudo i suoi denti gialli.

Addenta. Succhia. Beve.

Riesco a dire, la gola strozzata, poche parole: — Anch’io… sono… in viaggio…

La mia faccia preme contro lo zerbino. L’odore della polvere nelle mie narici. Trilobiti strisciano nel mio cervello. In mezzo a loro striscia un vampiro. Una risata stridula dal corridoio. Il telefono. La porta del frigorifero: slam, slam, slam! la danza dei cannibali sul pianerottolo. Il soffitto mi schiaccia, sulla schiena. La mia mente affamata saccheggia l’anima di Toni. Chi spia dal buco della porta, può vedere cose che gli faranno del male. Toni dice: — Hai preso l’altro acido? Quando?

— Non l’ho preso.

— Ma allora, com’è che stai viaggiando?

Non rispondo. Mi rannicchio, mi ammucchio in qualche modo, sto sudando, mi lamento. Questa è la discesa all’inferno. Huxley mi aveva messo in guardia. Io non lo volevo il viaggio di Toni. Non ho mica chiesto di vederne qualcosa. Adesso le mie difese sono distrutte. Lei mi ha sconvolto. Mi ha inghiottito.

Toni dice: — Leggi nella mia mente, David?

— Sì. — La miserabile definitiva confessione. — Ti leggo nella mente.

— Cos’hai detto?

— Ho detto che ti leggo nella mente. Posso vedere ogni pensiero. Ogni esperienza. Vedo me stesso, come tu mi vedi. Oh, Cristo, Toni, Toni, Toni, è così spaventoso!

Lei mi dà uno strattone e mi obbliga a guardarla. Alla fine alzo la faccia. La sua è orribilmente pallida; i suoi occhi sono rigidi. Chiede spiegazioni. Che cos’è questa storia di leggere nei pensieri? Ho proprio detto così, oppure è qualcosa inventato dalla sua mente oscurata dall’acido? Ho proprio detto così! Glielo ridico. Tu mi avevi chiesto se ti stavo leggendo nella mente e io ti ho risposto di sì, ti leggevo nel pensiero.

— Non ti ho chiesto niente del genere — dice lei.

— L’ho sentito io che me lo chiedevi.

— Però io non… — Adesso sta tremando. Tutti e due tremiamo. La sua voce è incolore. — Hai tentato di scroccarmi un viaggio, non è così, David? Non capisco. Che bisogno avevi di farmi del male? Perché hai buttato tutto per aria? Era così un bel viaggio. Era un così bel viaggio.

— Non per me — dissi.

— Ma tu non eri in viaggio.

— Invece ero proprio in viaggio.

Lei mi lancia un’occhiata di completa incomprensione. Si allontana da me e si butta sul letto, singhiozzando. Dalla sua mente, incuneandosi tra gli orrori grotteschi delle immagini provocate dall’acido, arriva una raffica di crude emozioni: paura, risentimento, dolore, rabbia. Pensa che io abbia deliberatamente tentato di offenderla. Adesso non posso dire niente per rimettere le cose a posto. Non potrò mai dire niente per farlo. Mi disprezza. Io per lei sono un vampiro, un succhiatore di sangue, una sanguisuga; conosce il mio dono per quello che è. Abbiamo oltrepassato una soglia fatale, e lei non penserà mai più a me senza provare angoscia e vergogna. E neppure io nei suoi riguardi. Mi precipito fuori dalla stanza, attraverso il pianerottolo, nella stanza occupata da Donaldson e Aitken: — Un terribile viaggio — mormoro. — Mi spiace di darvi noia, ma…


Restai con loro per tutto il pomeriggio. Mi diedero un tranquillante e con molta gentilezza mi aiutarono, quasi mi condussero per mano, nella fase di uscita dal viaggio. Le immagini psichedeliche, provenienti da Toni, continuarono ad arrivarmi per ancora una mezz’ora o giù di lì; come se un inesorabile cordone ombelicale ci legasse per tutta la lunghezza del corridoio; poi però, per mia consolazione, il senso del contatto cominciò a scivolar via e a svanire, e di colpo, con una specie di click udibile al momento del distacco, se ne andò completamente. I fantasmi fiammeggianti smisero di tormentare la mia anima. Colori e dimensioni e strutture ritornarono ad assumere le loro forme tipiche. E alla fine mi ritrovai libero da quella spietata immagine di me stesso, riflessa. Quando di nuovo mi ritrovai completamente solo nel mio cranio, sentii quasi il bisogno di piangere per festeggiare la liberazione, però le lacrime non volevano venire, e io restai lì, seduto, passivamente, centellinando un bromo-tranquillante. Il tempo gocciolava via. Donaldson, Aitken e io parlammo tranquillamente, educatamente e con calore di Bach, dell’arte medievale, di Richard M. Nixon, di marijuana, e di moltissime altre cose. Li conoscevo appena quei due, eppure erano disposti a dedicare il loro tempo ad alleviare le pene di un estraneo. Finalmente mi sentii bene. Poco prima delle sei, ringraziandoli con tutto il cuore, ritornai nella mia stanza. Toni non c’era. Sembrava che ci fosse qualcosa di strano, di cambiato. I libri erano caduti dagli scaffali, le stampe dalle pareti; la porta del gabinetto era spalancata e mancavano molte cose. Nel mio stato confuso, affaticato, mi ci volle un po’ di tempo per afferrare quello che era successo. Dapprima pensai a un furto con scasso, poi, però, afferrai la verità. Lei se n’era andata.

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