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Nyquist disse: — Il tuo vero guaio, Selig, è che tu sei un uomo profondamente religioso che, guarda caso, non crede in Dio. — Nyquist diceva sempre cose del genere, e Selig non riusciva mai a capire se lui voleva proprio dire quello oppure semplicemente giocava con le parole. Non aveva nessuna importanza quanto profondamente Selig penetrasse nell’anima di quell’altro uomo, non sarebbe mai riuscito a essere sicuro di niente; Nyquist era troppo furbo, troppo sfuggente.

Stando sul sicuro, Selig non disse niente. Voltava la schiena a Nyquist, guardando fuori dalla finestra. Stava nevicando. Lì sotto, le strette viuzze erano ingombre di neve; neanche gli spartineve del comune potevano farcela, e regnava una strana serenità. Folate di vento sferzavano la neve mandandola alla deriva. Le macchine parcheggiate stavano scomparendo sotto il mantello bianco. Fuori c’erano soltanto pochi portinai dei condomini di quell’isolato, che spalavano con decisione. Erano tre giorni che nevicava in continuazione. La neve cadeva su tutto il Nordest. Cadeva su tutte quelle sporche città, sugli aridi suburbi, cadeva dolcemente sugli Appalachi e, più lontano, verso est, cadeva sulle onde fresche e turbolente dell’Atlantico. A New York City non si muoveva niente. Era tutto chiuso: le costruzioni adibite a ufficio, le scuole, le sale da concerto, i teatri. Le ferrovie erano fuori servizio e le autostrade erano bloccate. Negli aeroporti tutto era fermo. Le partite di pallacanestro erano state cancellate dal tabellone al Madison Square Garden. Incapace di mettersi a lavorare, Selig aveva aspettato che passasse il grosso della bufera, nell’appartamento di Nyquist, passando tanto tempo con lui che aveva finito per trovare la compagnia del suo amico soffocante e ossessiva. Quello che prima gli era sembrato divertente e brillante era diventato corrosivo e malizioso. La blanda sicurezza di Nyquist, adesso, gli pareva mediocrità tutta compiaciuta di sé; le sue casuali incursioni nella mente di Selig non erano più affettuosi gesti di intimità, ma, piuttosto, deliberati atti di aggressione. La sua abitudine di ripetere ad alta voce quello che Selig stava pensando, diventava sempre più irritante, e non c’era niente che poteva impedirglielo, a quanto pareva. Ecco che stava rifacendolo, captando un suggerimento dalla mente di Selig e declamandolo con un tono quasi canzonatorio: — Ah! Com’è grazioso! «La sua anima lentamente svanì, sentendo la neve cadere lieve lieve su tutto l’universo, e, lieve lieve, cadere, come la discesa della loro ultime fine, su tutti i vivi, su tutti i morti.» Mi piace. Che cos’è, David?

— James Joyce — disse Selig, acido. — I morti, da Gente di Dublino. Ieri ti avevo chiesto di non farlo.

— Io invidio il respiro e la profondità della tua cultura. Mi piace prendere in prestito da te queste elaborate citazioni.

— Carino. E sei abituato a usarle sempre contro di me?

Nyquist, con ampi gesti, mentre Selig si allontanava dalla finestra, umilmente girò verso l’esterno le sue palme. — Mi spiace. Mi ero dimenticato che non ti faceva piacere.

— Tu, Tom, non hai mai dimenticato niente. Tu non fai mai una sola cosa a casaccio. — Poi, turbato, dal suo cattivo umore: — Cristo, ne ho avuto abbastanza di questa neve!

— La neve è generale — disse Nyquist. — Non accenna per niente a smettere. Che cosa facciamo oggi?

— Quello che abbiamo fatto ieri e l’altro ieri, immagino. Ce ne stiamo seduti, guardando i fiocchi di neve che cadono e ascoltando dischi e passando il tempo a far niente.

— Che ne dici di andare a letto?

— Non sei il mio tipo — disse Selig.

Nyquist spiattellò lì un sorriso vacuo. — Buffone. Voglio dire di andare a pescare un paio di ragazze in ozio da qualche parte in questo palazzo e di invitarle a un piccolo party. Pensi che non ci siano due femmine disponibili sotto questo tetto?

— Potremmo dare un’occhiata — disse Selig, con una scrollata di spalle. — C’è ancora un po’ di bourbon?

— Lo prendo io — rispose Nyquist.

Tirò fuori la bottiglia. Nyquist si muoveva con una strana indolenza, come in un’atmosfera densa, resistente, di mercurio o di qualche altro fluido viscoso. Selig non lo aveva mai visto affrettarsi. Era pesante senza essere grasso, un uomo dalle spalle larghe, dal collo taurino, la testa quadrata, capelli gialli rapati a zero, un naso piatto dai contorni ampi, un sorriso semplice, innocente. Ariano puro, purissimo: era scandinavo, forse uno svedese, passato in Finlandia e trapiantato negli Stati Uniti all’età di dieci anni. Conservava ancora qualche sfuggente traccia di inflessione nella pronuncia. Diceva di avere 28 anni, e a Selig, che ne aveva appena compiuti 23, sembrava un pochino più vecchio. Si era nel febbraio del 1958, in un’epoca in cui Selig conservava ancora l’illusione di potercela fare in un mondo adulto. Eisenhower era presidente, il mercato valutario era andato in malora, i crolli emotivi post-Sputnik stavano ancora turbando tutti sebbene il primo satellite spaziale americano fosse appena entrato in orbita, e la moda femminile ultimo grido era la casacca di tela. Selig abitava a Brooklyn Heights, in Pierrepont Street, e si spostava per vari giorni alla settimana nella parte bassa della Quinta Strada in un ufficio di una casa editrice per conto della quale faceva il correttore di bozze senza contratto di lavoro a tre dollari l’ora. Nyquist abitava nello stesso palazzo, quattro piani più in alto.

Tra le persone che Selig conosceva, lui era l’unico che avesse il potere. E in più il possederlo non lo cambiava in nessun senso. Nyquist si serviva del suo dono con la stessa semplicità e naturalezza con cui si serviva dei suoi occhi o delle sue gambe, a suo proprio unico vantaggio, senza scuse e senza sensi di colpa. Forse era la persona meno nevrotica che Selig avesse mai incontrato. Come mestiere faceva il predone, mettendo a frutto la capacità di leggere nella mente della gente; però, come ogni animale della giungla, assaliva soltanto quando era affamato, mai per il puro gusto di assalire. Prendeva quello che gli serviva, senza mai mettersi a discutere con la provvidenza che lo aveva reso così superbamente dotato, e prendeva soltanto quello che gli serviva, e gli serviva poco. Non aveva nessun lavoro e apparentemente non ne aveva mai avuti. Se gli servivano soldi, faceva un giretto di dieci minuti in Wall Street, bighellonava un po’ nei canyon tenebrosi del distretto finanziario, e andava a frugare con tutta libertà nelle menti dei finanzieri rinchiusi in quelle nobili sale consiliari. Qualunque fosse il giorno, c’era sempre qualche importante sviluppo che stava covando che avrebbe provocato un duro colpo sul mercato — una fusione di imprese, una spaccatura, una scoperta mineraria, una diceria su facili guadagni — e Nyquist non aveva difficoltà a impadronirsi dei dettagli essenziali. Le informazioni poi le vendeva a prezzi piuttosto buoni ma ragionevoli a una quindicina di investitori privati i quali, nel modo più lieto, avevano imparato che Nyquist era un informatore più che attendibile. Parecchie rapide fortune degli anni ’50 sono opera sua. In tal modo si guadagnava una vita confortevole, sufficiente per mantenersi nel tenore a lui congeniale. Aveva un appartamento piccolo in cui si stava bene, tappezzeria Naugahyde nera, lampade Tiffany, parati alla Picasso, una credenza ben fornita di liquori, uno stupendo sistema di amplificazione da cui usciva un ininterrotto flusso di Monteverdi e Palestrina, Bartok e Stravinsky. Viveva una piacevole vita da scapolo, uscendo spesso, facendo il giro dei suoi ristoranti preferiti, tutti oscuri e tipici, giapponesi, pakistani, siriani, greci. Il suo cerchio di amicizie era limitato, ma selezionato: pittori, scrittori, musicisti, poeti, soprattutto. Andava a letto con parecchie donne; Selig, però, raramente lo vide due volte con la stessa.

Come Selig, Nyquist era capace di ricevere ma incapace di trasmettere; lui, però, riusciva a trasmettere nel momento in cui la sua mente veniva sondata. E fu così che si incontrarono. Selig, appena arrivato nel palazzo, si era dedicato al suo hobby, lasciando che la sua coscienza frugasse liberamente piano per piano le menti dei suoi vicini per farsene un’idea. Saltava un po’ qui un po’ là, ispezionando questa mente e quell’altra, non trovando proprio niente che meritasse un interesse speciale, quando, di colpo: “Dimmi dove ti trovi”.

Un succedersi cristallino di parole che sgorgava dalla superficie di una mente vigorosa, sicura di sé. L’affermazione arrivò con l’immediatezza di un messaggio esplicito. Selig si rese conto inoltre che non c’era stato nessun atto di trasmissione attiva; semplicemente, lui aveva trovato le parole che passivamente erano lì in attesa. Diede un’immediata risposta.

“Al 35 di Pierrepont Street.”

“No, questo lo so. Intendo dire dove sei nel palazzo?”

“Quarto piano.”

“Io sto all’ottavo. Come ti chiami”?

“Selig.”

“Nyquist.”

Il contatto mentale era stupendamente intimo. Era quasi un fatto sessuale. Come se lui fosse scivolato in un corpo, non in una mente, e rimase sconcertato dalla risonante mascolinità dell’anima in cui era entrato; aveva l’impressione che ci fosse qualcosa di assolutamente illecito in una simile intimità con un altro uomo. Però non si ritirò. Questo rapido scambio di comunicazione verbale attraverso la gola dell’oscurità era un’esperienza deliziosa, troppo gratificante per rifiutarla. Selig provò la momentanea illusione di aver esteso i suoi poteri, di aver imparato a inviare messaggi alle altre menti tanto bene quanto sapeva tirarli fuori. Era, e lo sapeva, soltanto un’illusione. Lui non stava trasmettendo niente, e neanche Nyquist. Lui e Nyquist si erano limitati a captare informazioni l’uno nella mente dell’altro. Ognuno di loro aveva messo lì delle frasi perché l’altro le trovasse, il che, in termini di dinamica situazionale, non era per niente la stessa cosa che mandare messaggi a un altro. Tuttavia era una distinzione sottile e assolutamente priva di importanza; il netto effetto di contatto di due ricettori completamente spalancati era un efficiente circuito rice-trasmittente confrontabile a un circuito telefonico. Un vero e proprio matrimonio tra due menti, per l’esistenza del quale non potevano esserci impedimenti. A titolo di prova, volontariamente, Selig avanzò nei livelli più profondi della coscienza di Nyquist, cercando di afferrare l’uomo con la stessa nitidezza con cui aveva afferrato i messaggi, e nel farlo arrivò a un’indistinta consapevolezza di inquietudine nel profondo della sua mente, probabilmente un indice del fatto che Nyquist stava facendo lo stesso con lui; Per lunghissimi minuti si esplorarono l’un l’altro come innamorati che si avvinghiano nelle prime carezze di scoperta reciproca, anche se non c’era niente di amabile nel tocco di Nyquist, freddo e impersonale. Ciononostante Selig fremeva; si sentiva come sull’orlo di un abisso. Alla fine dolcemente si ritirò, e altrettanto Nyquist. Poi, proveniente dall’altro:

“Sali su. Ti aspetto alla porta dell’ascensore”.

Era più grosso di quello che Selig si aspettava, un pezzo d’uomo, occhi azzurri poco attraenti, un sorriso puramente formale. Era distante senza essere veramente freddo. Andarono nel suo appartamento: luci morbide, una musica insolita, un’atmosfera di eleganza non vistosa. Nyquist gli offrì un drink e conversarono, mantenendosi fuori il più possibile l’uno dalla mente dell’altro. Fu una visita piena di cautela, per niente sentimentale, niente lacrime di gioia per essersi finalmente trovati insieme. Nyquist si dimostrò affabile, accessibile, soddisfatto che Selig fosse apparso, ma nient’affatto in delirio per l’eccitazione di aver scoperto un compagno di anormalità. Era anche possibile che fosse così perché lui si era imbattuto in altri fratelli di anormalità in precedenza. — Ce ne sono altri — disse lui. — Tu sei il terzo, quarto, quinto che ho incontrato io da quando sono arrivato negli Stati Uniti. Vediamo un po’: uno a Chicago, uno a San Francisco, uno a Miami, uno a Minneapolis. Tu sei il quinto. Due donne, tre uomini.

— Sei ancora in contatto con gli altri?

— No.

— Che cos’è successo?

— Mi sono fatto da parte — disse Nyquist. — Che ti aspettavi? Che avessimo formato un clan? Ma pensaci, noi parliamo, giochiamo con le nostre menti, finiamo per conoscerci, e dopo un po’ ci scocciamo. Penso che due di loro, adesso, siano morti. Non ho nessuna intenzione di restare isolato dal resto dei miei simili. Non penso affatto a me come a un membro di una tribù.

— Io non ne ho mai incontrato un altro — disse Selig. — Prima d’oggi.

— Non è una cosa importante. Quello che importa è vivere la propria vita. Quanti anni avevi quando hai scoperto che riuscivi?

— Non lo so. Avevo cinque o sei anni, forse. E tu?

— Non mi sono reso conto di possedere qualcosa di speciale prima degli undici anni. Pensavo che tutti potessero farlo. Fu soltanto dopo il mio arrivo in America, quando ho sentito la gente parlare una lingua diversa, che ho capito di avere nella mente qualcosa fuori dal comune.

— Che lavoro fai? — chiese Selig.

— Lavoro meno che posso — fu la risposta di Nyquist. Fece un largo sorriso e bruscamente insinuò i suoi sensori nella mente di Selig. Pareva quasi una specie di invito; Selig accettò e spinse avanti le sue antenne personali. Vagando nella coscienza dell’altro uomo, rapidamente afferrò il quadro delle uscite di Nyquist in Wall Street. Vide tutta la vita di quell’uomo, equilibrata, ritmata, senza ossessioni. Era stupito dalla freddezza di Nyquist, dalla sua integrità, dalla sua chiarezza di spirito. Com’era limpido lo spirito di Nyquist! Quanto poco l’aveva segnato la vita! Dove la teneva la sua angoscia? Dov’era nascosta la sua solitudine, la sua paura, la sua insicurezza? Nyquist, ritirandosi, disse: — Perché provi tanto dolore per te stesso?

— Io?

— La tua testa ne è piena zeppa. Qual è il problema, Selig? Ho guardato dentro di te e non ho visto il problema, soltanto il dolore.

— Il problema è che mi sento isolato dagli altri esseri umani.

— Isolato? Tu? Ma se tu puoi addirittura entrare nella testa della gente? Tu puoi fare una cosa che il 99,999 per cento della razza umana non può assolutamente fare. Loro sono obbligati ad arrabattarsi usando parole, approssimazioni, segnali di semafori, mentre tu vai dritto al nocciolo del significato. Come puoi considerarti isolato?

— L’informazione che mi procuro è inutile — disse Selig. — Non posso farne un punto di partenza per agire. Potrei agire allo stesso modo anche se non leggessi nel pensiero.

— Perché?

— Perché è soltanto voyeurismo. Sono uno che spia dentro di loro.

— Ti senti in colpa per questo?

— Tu no?

— Io non mi pongo domande sulle mie capacità — rispose Nyquist. — Si dà il caso che le abbia. Dal momento che le ho, me ne servo. Mi piace il tipo di vita che faccio. Mi piace come sono. Perché a te, Selig, non piace come sei?

— Dimmelo tu.

Nyquist, però, non aveva niente da dirgli, e quando lui ebbe finito il drink scese giù. Quando rientrò, il suo appartamento gli parve così estraneo che lui passò qualche minuto a toccare alcuni oggetti familiari: la fotografia dei suoi genitori; la sua piccola collezione di lettere d’amore dell’adolescenza, il giocattolo di plastica che lo psichiatra gli aveva dato anni prima. La presenza di Nyquist continuava a ronzargli in testa, un rimasuglio della visita, niente di più, perché Selig era sicuro che Nyquist adesso non lo stava sondando. Si sentiva così in subbuglio per il loro incontro, così disturbato dentro, che decise di non rivederlo mai più, di traslocare da qualche parte il più presto possibile, a Manhattan, a Filadelfia, a Los Angeles, da qualunque parte purché fosse fuori tiro da Nyquist. Per tutta la vita aveva sognato di incontrare qualcuno che condivideva il suo stesso dono, e, adesso che lo aveva incontrato, se ne sentiva minacciato. Nyquist controllava attentamente la sua esistenza da riuscire terrificante. Mi umilierà, pensò Selig. Mi distruggerà. Però quel panico svanì. Due giorni più tardi Nyquist tornò più volte all’attacco per chiedergli di uscire a cena. Mangiarono in un ristorante messicano da quelle parti, concedendosi carta bianca. Sembrò ancora a Selig che Nyquist stesse giocando con lui, stuzzicandolo, tenendolo a distanza e solleticandolo; però lo faceva tanto amabilmente che Selig non provò nessun risentimento. Il fascino di Nyquist era irresistibile, e la sua forza meritava di essere presa come modello di comportamento. Nyquist sembrava un fratello più vecchio che lo aveva preceduto in quella valle di traumi e ne era emerso indenne tanto tempo prima; adesso stava prendendosi gioco di Selig per portarlo ad accettare i termini della sua esistenza. La condizione superumana, così la chiamava Nyquist.

Divennero intimi amici. Uscivano insieme due o tre volte alla settimana, mangiavano insieme, bevevano insieme. Selig aveva sempre immaginato che l’amicizia con qualcun altro di quel genere sarebbe stata unica, intensa, ma non così; dopo la prima settimana, davano per scontata la loro particolarità e quasi mai discussero del dono che condividevano. Non accadde mai che si congratulassero l’un l’altro per aver formato un’alleanza contro il mondo non dotato che il circondava. Loro comunicavano certe volte a parole, certe volte per contatto mentale diretto; diventò un rapporto di amicizia piacevole, allegro, messo alla prova soltanto quando Selig scivolava in quello stato d’animo tutto rimuginazioni che gli era abituale: allora Nyquist lo prendeva in giro per la sua autocommiserazione. Però anche questo non rappresentò un vero ostacolo fra loro prima dei giorni della tormenta di neve, quando tutte le tensioni furono moltiplicate dal fatto che stavano passando troppo tempo insieme.

— Prendi il tuo bicchiere — disse Nyquist.

Gli versò uno spruzzo ambrato di bourbon. Selig si accomodò di nuovo per bere, mentre Nyquist si metteva in giro alla ricerca delle ragazze. Gli ci vollero cinque minuti. Sondò tutto il palazzo e scoprì un paio di ragazze che vivevano insieme, proprio al quinto piano. — Dà un’occhiata — disse a Selig. Selig entrò nella mente di Nyquist. Nyquist si era sintonizzato sulla coscienza di una delle ragazze — sensuale, indolente, felina — e, attraverso gli occhi di lei, stava guardando un’altra ragazza, una bionda alta, magra. Nonostante subisse una doppia riflessione, l’immagine mentale era nitidissima: la bionda aveva gambe lunghe, era sensuale, un portamento da modella. — Questa è mia — disse Nyquist. — Adesso dimmi se ti piace la tua. — Balzò, trascinando con sé Selig, nella mente della bionda. Sì, un figurino, più intelligente dell’altra ragazza, fredda, egoista, passionale. Dalla sua mente, via Nyquist, arrivò l’immagine della sua compagna di stanza, scompostamente sdraiata su di un sofà, con indosso una vestaglietta tutta rosa: piccola, tonda, dai capelli rossi, ben dotata in fatto di seni, un viso da luna piena. — Ma sicuro — disse Selig. — Perché no? — Nyquist, rovistando in quelle due menti, scovò il numero di telefono delle ragazze, le chiamò, mise in opera tutto il suo fascino. Loro scesero per un drink. — Che spaventosa bufera di neve — disse la bionda, rabbrividendo. — C’è da diventar matti! — I quattro passarono attraverso un mucchio di liquori con un ronzante accompagnamento jazz: Mingus, MJQ, Chico Hamilton. La rossa era meglio di quel che Selig si aspettava, non proprio così grassottella, non sgraziata — la doppia riflessione doveva aver introdotto qualche distorsione — ma rideva scioccamente, e lui scoprì che non gli piaceva quasi per niente. Comunque non si poteva certo far marcia indietro a quel punto. Finalmente, molto tardi nella serata, si accoppiarono. Nyquist e la bionda in camera da letto, Selig e la rossa in soggiorno. Quando furono finalmente soli, Selig le ridacchiò in faccia tutto imbarazzato. Non era mai riuscito a imparare come eliminare quel modo di ridere tutto infantile, che, lo sapeva bene, rivelava un miscuglio di timida pregustazione e opprimente terrore. — Salve — disse lui. Si baciarono e le mani di lui si portarono sui seni e lei si spinse sopra di lui in un modo spudoratamente affamato. Pareva avesse qualche anno più di lui, però la maggioranza delle donne gli dava questa impressione. I loro abiti partirono. — Mi piacciono gli uomini magri — disse lei, e faceva risatine sciocche pizzicando la sua carne scarsa. I suoi seni si alzarono verso di lui come uccelli rosati. La accarezzò con una timida insistenza, da vergine. In quei mesi di amicizia, Nyquist occasionalmente gli aveva passato le donne che lui scartava, ma erano settimane che non andava a letto con nessuna, e aveva paura che la sua astinenza potesse procurargli qualche guaio imbarazzante. No: il liquore raffreddava la sua foga al punto giusto e lui si controllò, infilandola solennemente e energicamente senza paura di venire troppo presto.

Quando, più o meno, si rese conto che la rossa aveva bevuto troppo per venire, Selig si sentì solleticare nel cranio; Nyquist lo stava sondando! Questa dimostrazione di curiosità, questo voyeurismo, assunse l’aspetto di una strana deviazione dal solito Nyquist riservato. Quella di spiare è un’abitudine mia, pensò Selig, e per un momento si sentì tanto disturbato dall’essere sotto osservazione mentre faceva all’amore, che cominciò ad afflosciarsi. Con uno sforzo cosciente si ricompose. Non c’è nessun profondo significato, si disse. Nyquist è completamente amorale e fa quello che gli salta in mente, sbircia di qua e sbircia di là senza il minimo riguardo alla decenza, e perché dovrei permettere che quel suo scandagliare mi turbi? Ristabilendosi, si lanciò contro Nyquist e ricambiò il sondaggio. Nyquist gli diede il benvenuto.

“Come ti va, Davey?”

“Benino. Proprio benino.”

“Mi sono procurato una di quelle proprio calde. Dà un’occhiata.”

Selig invidiava il freddo distacco di Nyquist. Niente vergogna, niente sensi di colpa, niente ostacoli di nessun genere. Però neppure nessuna traccia di orgoglio esibizionistico o di voyeurismo ansioso: a lui pareva assolutamente naturale scambiarsi simili contatti in un momento come quello. Selig non poteva trattenersi al sentirsi nauseato mentre scrutava, a occhi chiusi, Nyquist che si dava da fare sopra la bionda, e scrutava Nyquist che stava scrutando lui alla stessa maniera, riecheggiando immagini dalle loro copulazioni parallele che vertiginosamente rimbalzavano da mente a mente. Nyquist, fermandosi un attimo per scoprire e isolare il senso di disagio di Selig, lo prese in giro dolcemente. Sei infastidito dal fatto che c’è una specie di godimento latente in questo, gli disse Nyquist. Io, però, penso che quello che ti spaventa veramente è il contatto, ogni tipo di contatto. Giusto? Sbagliato, disse Selig, però sentiva che aveva fatto centro. Per altri cinque minuti continuarono a controllare l’uno la mente dell’altro, finché Nyquist decise che era ora di venire, e gli scossoni violenti del suo sistema nervoso scagliarono Selig fuori dalla sua coscienza, come al solito. Subito dopo, cominciando a sentirsi infastidito dalla deprimente, scattante, umida rossa, Selig lasciò che l’orgasmo lo sconvolgesse e crollò, rabbrividendo, spossato.

Nyquist ritornò in soggiorno una mezz’oretta più tardi, con la bionda, ambedue nudi. Non si preoccupò di bussare, il che sorprese un poco la rossa; Selig non sapeva come fare a dirle che Nyquist sapeva che loro avevano finito. Nyquist mise su un po’ di musica e rimasero tutti lì, tranquillamente seduti, Selig e la rossa trafficando con il bourbon, Nyquist e la bionda buttandosi sullo scotch; poi verso l’alba, quando la neve cominciò un po’ a mollare, Selig, così per provare, suggerì un secondo giro di scopate con cambio di partner. — No — disse la rossa. — Io sono tutta massacrata. Ho bisogno di andare a letto. Qualche altra volta, okay? — Si infilò a tentoni nei suoi abiti. Sulla porta, barcollando e ondeggiando, mentre dava un saluto da ubriaca, lasciò scivolar lì qualcosa. — Non riesco a trattenermi dal pensare che attorno a voi due c’è qualcosa di diverso — disse. In vino veritas. — Non siete una “strana coppia”, vero?

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