Quando l’iceberg s’inclinò, cogliendo tutti e tutto alla sprovvista, Rekchellet era intento a schizzare. Stava approfittando di un vento terso, freddo, secco e probabilmente breve proveniente da Latoscuro. Non che fossero mancati i segni premonitori; c’erano stati dei tremori, e poi un forte scricchiolio, con sufficiente anticipo da mettere in guardia, se solo fossero stati un po’ più specifici. Sembravano giungere da tutte le direzioni, non fornivano alcun indizio circa la loro causa e, secondo Rekchellet, non lasciarono a lui e ai suoi compagni altra scelta se non quella di continuare il lavoro. Quando il ghiaccio sottostante si abbassò all’improvviso inclinandosi bruscamente, la sorpresa fu totale, e quattro esseri e due oggetti non poterono che reagire obbedendo a leggi naturali elementari.
Venzeer e Rekchellet spiccarono subito il volo senza riflettere, mentre lo stilo e il blocco del registratore cadevano sul ghiaccio. Il grande pallone dell’antenna aerostatica aveva abbastanza inerzia da spezzare i quattro ormeggi, ed essendo zavorrato in modo tale da avere una lieve spinta ascensionale cominciò a sollevarsi lentamente. Il mezzo di trasporto con le provviste, lasciato momentaneamente a mezz’aria dall’abbassamento della superficie, tornò a posarsi. Trovando il terreno non più orizzontale cominciò a scendere, dato che quell’iceberg era abbastanza pulito da essere scivoloso. Janice e Hugh Cedar, attaccati al veicolo da quelle che avrebbero dovuto essere cime di sicurezza, caddero anch’essi e iniziarono a seguirlo loro malgrado verso il vicino lago di acqua di disgelo.
Naturalmente il mezzo di trasporto era galleggiante e le provviste nella sua cupola oblunga erano sigillate singolarmente, quindi la situazione era più seccante che pericolosa; ma nessuno la prese con calma. Erano troppo scossi.
— Perché i freni non erano inseriti, terricoli? — sbottò uno dei Crotoniti. La donna era troppo indaffarata a trascinarsi lungo la fune verso il veicolo per rispondere. Hugh, meno preoccupato e meno paziente, ribatté: — Prendete il pallone! Possiamo riunirla dopo una commissione d’inchiesta!
I membri alati della squadra stavano già inseguendo l’antenna di cinquanta metri, compito che ovviamente spettava a loro, e nessuno aprì bocca per almeno un minuto. Janice raggiunse la sua meta abbastanza rapidamente, trovò la leva desiderata e l’azionò, perché i chiodi del pattino direzionale destro si conficcassero nel substrato. Malgrado la gravità locale, si era sviluppata abbastanza velocità da spruzzarla di frammenti di ghiaccio, mentre il veicolo deviava verso di lei. Quando Hugh raggiunse la leva sull’altro lato, il veicolo era già fermo. Hugh la tirò ugualmente.
— Prendete! — Rekchellet era a qualche metro dal suolo, librandosi per quel che gli consentiva la sua struttura alare, stringendo una fune d’ormeggio in prossimità del pallone e lasciandola penzolare verso gli Erthumoi. Hugh afferrò l’estremità inferiore, la infilò nell’occhiello di fissaggio più vicino e l’assicurò.
— Nessun’altra? — chiese.
— Le altre si sono tutte spezzate in alto. Dovrete slegarle dalle ancore e lanciarci un capo. Sarà difficile fare dei nodi se c’è tensione; lasciatele sciolte in fondo finché non avremo finito.
— D’accordo — rispose Janice. Al pari del marito, sapeva che i Crotoniti si sarebbero sentiti offesi se fossero stati loro a ricevere istruzioni così dettagliate; a differenza del marito, non ne avrebbe mai fatto una questione. Quelle creature non potevano fare a meno di ritenere che i nonvolatori fossero adatti solo a compiti servili quali la guida di mezzi da superficie. Per fortuna, il recupero del pallone non presentò molti problemi dato che il vento era scemato. Nessuna delle due specie aveva motivo di criticare l’altra. Tutti e quattro i membri della squadra, comunque, erano concentrati nell’opera di ormeggio quando la fune successiva si ruppe.
Era la cima di sicurezza di Hugh.
Le onde superficiali si muovono lentamente in condizioni di gravità debole, però si muovono. L’inclinazione improvvisa del gigantesco iceberg aveva spinto il lago lontano dal veicolo, lungo una baia a imbuto alla sua estremità esposta al sole. Il riflesso del sole rossastro sull’acqua e sul ghiaccio avrebbe impedito al gruppetto di vedere chiaramente in quella direzione, anche se avessero guardato. C’era poco attrito; il ghiaccio stava sciogliendosi da decenni e la sua superficie, pur lungi dall’essere piatta, non aveva spigolosità accentuate o punti realmente accidentati. Perfino la vegetazione era rada in quella parte dell’iceberg, così l’onda di riflusso perse energia molto lentamente.
L’acqua si riversò nel proprio bacino, risalì lungo il fianco dell’iceberg, e raggiunse gli esploratori appena a destra della parte anteriore del mezzo di trasporto senza che nessuno si accorgesse dei pericolo, nemmeno gli alati.
La donna venne scagliata violentemente contro il veicolo. Hugh, che si trovava più in là sul lato opposto, fu proiettato all’estremità della lunghezza della propria fune; se la fune avesse resistito, sarebbe stato schiacciato da una dozzina di tonnellate di massa — oltre duemiladuecento chili di peso perfino su Habranha — quando il mezzo rotolò nel punto occupato precedentemente dall’uomo. Ma ormai Hugh era a parecchi metri di distanza.
I Crotoniti reagirono all’istante e in silenzio. Venzeer calò su Janice e la sollevò, mentre il veicolo rotolando la trascinava via. La cima di sicurezza di Janice era ancora attaccata, e per un attimo sembrò che entrambi potessero finire sotto il trasporto. Ma il fisico aveva visto il pericolo, estraendo un coltello dall’imbracatura portaattrezzi mentre scendeva. Un guizzo della lama eliminò il rischio.
Rekchellet ebbe maggiori difficoltà. Hugh era un bersaglio mobile all’inizio, e alla calma di alcuni istanti prima era subentrata una bufera di neve, così le prime due calate del Crotonita andarono a vuoto. Poi l’uomo cessò momentaneamente di essere sballottato, mentre l’onda esauriva la propria spinta. Il suo corpo era in un groviglio di cespugli strappati dall’ondata, ma gli arbusti sembravano sufficientemente bagnati, quindi il pericolo d’esplosione era limitato; al pari dei Crotoniti stessi, la vita evolutasi localmente usava lo ione azotidrato come gli esseri terrestri usavano I’atp. Il volatile si fidava abbastanza dell’isolamento elettrico della propria tuta da correre il rischio, e con un grido di trionfo sollevò Hugh prima che l’onda di riflusso potesse travolgerlo. Gli Erthumoi erano un carico pesante perfino su Habranha, però, e gli alati pur non osando posarsi troppo vicino all’acqua non si allontanarono molto.
Lo sciabordio stava diventando più circolare, e nessun’altra onda raggiunse il veicolo. Alcuni degli arbusti divelti rimasti accanto a esso, comunque, stavano bruciando lentamente senza fiamma nonostante fossero bagnati, e i soccorritori li evitarono. Venzeer volò rapido a controllare le provviste, mentre Rekchellet cominciava a cercare la propria attrezzatura da disegno.
Hugh li ignorò. Janice giaceva dove l’aveva posata Venzeer, e non appena riuscì ad alzarsi in piedi l’uomo le si portò accanto con un unico balzo.
— Jan! Tesoro! Mi senti? Stai bene? — Nessuna risposta. Hugh cominciò a controllare se ci fossero delle lesioni per quel che consentiva la mole della tuta di lei. Vide che respirava, e la piastra monitor diagnostica dell’indumento, appena sotto la gola, gli confermò che il cuore batteva, gli disse anche quale terapia fosse in atto. A quanto pareva, c’era una frattura ossea. Un accurato controllo indicò che quasi certamente non si trattava di un arto, e Hugh preoccupato per il cranio e la spina dorsale si augurò che fosse solo una costola.
In ogni caso, la frattura si sarebbe saldata in un quarto d’ora a meno che lui non annullasse l’intervento curativo della tuta. Non sembrava che ci fosse motivo di farlo; a quanto poteva vedere, non era necessaria alcuna regolazione, e anche se ci fossero state delle vertebre lese il midollo spinale sicuramente sarebbe stato più protetto se l’osso circostante si fosse saldato del tutto prima che Janice venisse spostata o cercasse di muoversi. Hugh non sapeva se fosse priva di sensi per la terapia o per l’urto; poteva solo aspettare, spostando lo sguardo dalla faccia della moglie alla piastra monitor e viceversa, finché lei non fosse rinvenuta o la terapia non fosse terminata. Fu interrotto prima che accadesse una delle due cose.
— È ferita gravemente? — Rekchellet si posò sul ghiaccio, attaccando il blocco recuperato all’imbracatura e lasciando le ali spiegate alcuni secondi per disperdere il calore corporeo. La maggioranza degli esseri umani avrebbe dato per scontato che fosse solo preoccupato per la missione; i Crotoniti non erano certo famosi per sentimenti quali l’amicizia e la compassione. Hugh, tuttavia, aveva acquisito gran parte della tendenza innata della moglie ad apprezzare le persone indipendentemente dalla loro forma, e prese la domanda alla lettera.
— Troppo presto per dirlo. Avete bisogno di me?
— Non credo. Non so se si sia ancora spezzato qualche ormeggio, ma se si è spezzato pare che Venz li abbia fissati alla slitta, adesso. — La bufera era terminata; antenna e veicolo erano di nuovo visibili. — Se lo avessimo fatto subito, probabilmente i cavi non si sarebbero mai rotti, dato che il trasporto non si è abbassato con la velocità del terreno.
— Perché è rimasto indietro. Ci siamo ancorati al ghiaccio per avere maggiore stabilità, il che è stato un errore. Arrivano ancora dei segnali?
— Penso di sì… se sono segnali. Venz ha messo in funzione l’analizzatore dopo avere assicurato l’antenna. Non gli ho parlato; ho cercato questo blocco. — Rekchellet aveva sganciato nuovamente l’attrezzatura da disegno e stava registrando Janice e i dati della sua tuta. — Hai ragione — aggiunse. — Avremmo dovuto portare l’apparecchiatura per fare dei duplicati.
— L’avio avrebbe dovuto trasportarla, e poi noi avremmo…
Rekchellet ignorò l’interruzione di Hugh. — Sono stato in ansia per qualche minuto, finché non ho trovato questo. — Finì lo schizzo, agganciò il blocco all’imbracatura e meditò brevemente. — Penso ancora che i segnali sembrino linguaggio habra, ma giungono dal basso, e non riesco a credere che un volatile assennato possa essere sott’acqua.
— O all’interno di un ice… aspetta! — Hugh aveva visto che sua moglie si era mossa. Un attimo dopo, Janice fece una smorfia e aprì gli occhi. Guardò per alcuni istanti Hugh e il Crotonita, attendendo evidentemente che il cervello le si snebbiasse; poi sorrise, un sorriso piuttosto amaro, e parlò.
— Mi fa male il torace. Se sei stato tu, ti ho già detto di andarci piano. Quanto tempo sono rimasta svenuta? Vedo che è nevicato ancora…
Hugh non si era accorto del cambiamento del vento e nemmeno della bufera di neve, finora.
— Non sono stato io — le assicurò. — Un’onda ti ha sbattuto contro la slitta. Frattura ossea, stando al monitor diagnostico. Sono contento che sia solo una costola… se è una costola. Riesci a muovere le braccia e le gambe? Come va la testa? — Lei mosse adagio tutti gli arti, tranquillizzando Hugh circa le condizioni della spina dorsale. — Bene. Stai ferma finché non si è saldata la frattura. Non ci vorrà molto; sei rimasta priva di sensi per parecchi minuti. Rek pensa che stiamo ancora captando i segnali.
Quella notizia, volutamente, servì a distrarre Janice, facendole dimenticare la sofferenza. — Continuo a non capire — disse pensierosa. — La direzione è cambiata, ma i segnali provengono sempre dal basso. Nessun cambiamento pare avere un legame con il mutamento delle condizioni atmosferiche. La linea attraversa almeno una decina di chilometri di iceberg, forse il doppio, dato che non conosciamo la forma dell’iceberg sotto la linea di galleggiamento. Poi presumibilmente raggiunge l’oceano, e non si sa per quanto prosegua. Dato che sembra che la sorgente si stia muovendo non può trattarsi di qualcuno sepolto nel ghiaccio… e nessuno degli Habra che ho conosciuto aveva una voce radio abbastanza forte da attraversare più di un paio di chilometri del tipo di suolo che esiste qui.
— Sono tecnici abili — fece notare Rekchellet. — Potrebbero usare degli amplificatori. Li usano, infatti. A loro non piace farlo, ovvio, dal momento che parlano e sentono direttamente via radio e i segnali amplificati sono dannosi per loro, però la capacità non gli manca. — Gli Erthumoi lo sapevano, come tutti gli alieni su Habranha che volevano usare la radio e non potevano a causa di quella particolarità degli indigeni. Hugh e Janice la consideravano una caratteristica più comprensibile della preferenza crotonita per le registrazioni grafiche schematiche — i disegni — rispetto alle fotografie, ma c’erano cose più importanti a cui pensare, adesso.
— Che parole indigene avete riconosciuto nella trasmissione? Qualche discorso vero e proprio? — chiese lentamente Hugh.
— No. Solo una parola. «Qui. Qui. Qui.» Seguita a volte, mai preceduta, da modulazioni diverse che non siamo riusciti a riconoscere.
Gli Erthumoi si guardarono. — Potrebbe essere una trasmittente automatica su una sonda oceanografica — disse Hugh dopo un po’. Sua moglie annuì.
— Quadra. Quadra anche con la tua idea che un volatile assennato non andrebbe mai sott’acqua. — Janice sorrise a Rekcheilet. — E con la vostra incapacità di interessarli ai viaggi interstellari. — Alzò il riscaldamento della tuta; il vento tutt’a un tratto era diventato più freddo, anche se l’aria era ancora limpida. — Il loro oceano rappresenta una sfida interessante quanto lo spazio, e d’importanza più immediata per loro.
Il Crotonita parve entusiasta della prima parte del commento di Janice e sembrava sul punto di convenire, poi però sentendo la seconda parte assunse un’espressione pensierosa.
— Immagino di sì — disse. Agitò le ali inquieto e lanciò uno sguardo verso l’antenna a un centinaio di metri, dove il compagno era ancora occupato. Entrambi gli esseri umani sapevano che i Crotoniti erano di pareri discordi sulla questione di convincere gli indigeni di Habranha a unirsi alle sei comunità di viaggiatori stellari conosciute, la settima era ancora di competenza degli archeologi. Alcuni, come Venzeer, volevano un’altra specie alata per compensare l’influenza dei terricoli e degli acquatici nel campo della diplomazia e del commercio interstellare. Altri sembravano preferire lo splendore solitario di essere l’unica razza astrale volante, o forse temevano di dover competere con dei rivali per il possesso di mondi adatti alle intelligenze alate. Moglie e marito si scambiarono una breve occhiata, poi cambiarono argomento.
— Pensi che potrebbero costruire qualcosa in grado di resistere alle pressioni oceaniche, dunque, vero? — chiese Hugh. — È logico che vogliano informazioni dettagliate sul comportamento delle correnti. La deriva dei continenti è un elemento tutt’altro che trascurabile qui, con il continente fatto di ghiaccio, centinaia di chilometri di profondità oceanica, e circolazione termica da Latosole a Latoscuro. — Né lui né la moglie conoscevano bene Habranha, dato che erano su quel mondo da appena qualche settimana. Avevano visto il continente anulare di ghiaccio galleggiante arrivando dallo spazio, e capivano grosso modo come stesse continuamente sciogliendosi sul lato esposto al sole per essere ricostruito sull’altro lato dagli iceberg provenienti dall’emisfero buio. Al pari degli altri stranieri, e degli indigeni stessi, non sapevano di preciso come mai un pianeta del genere potesse avere condizioni atmosferiche così complesse e variabili, anche se tutti ritenevano che c’entrasse in qualche modo la complicata circolazione oceanica. Venzeer e Rekchellet, come altri Crotoniti, avevano cercato di scoprire qualcosa di nuovo e di utile su Habranha per migliorare la propria immagine presso gli indigeni.
— Certo che possono. — Il traduttore espresse in modo abbastanza chiaro lo sbuffo di disprezzo del Crotonita. — Estraggono fango silicatico dal fondo, a cinquecento chilometri di profondità, per le loro coltivazioni; per rendere fertile il ghiaccio, bisogna irrigarlo con dei minerali. La tecnologia per costruire una trasmittente automatica massiccia, che non dovrebbe nemmeno resistere alla pressione, è elementare. Le informazioni sulle correnti sono importanti per loro, ed evidentemente non potevano esplorare gli abissi di persona. Non siamo molto lontani da quello che chiamano l’Oceano Solido, che copre tutto Latoscuro e parte dell’emisfero illuminato in superficie. Gli indigeni dicono che pare ci siano anche dei ghiacciai che da là si estendono per centinaia di chilometri sul fango del fondo oceanico. Dovremmo esserci sopra, se hanno ragione. Non potrebbero estrarre nulla in questa zona anche se fosse abbastanza vicino all’anello orizzontalmente. Quindi trovo sensata la vostra ipotesi di una sonda trasmittente.
Hugh, ma non Janice, colse una sfumatura di degnazione nel tono del Crotonita. — Sarà interessante esaminarla se affiorerà, e pare proprio che stia salendo.
— Forse qualche indigeno verrà ad aspettarla — disse la donna pensierosa, — Potrebbe affiorare automaticamente, o può darsi che la stiano riportando su per la manutenzione e la lettura dei dati. Forse dovremmo portarci sul bordo e vedere. Non dovreste trasmettere, fargli sapere che siamo qui? Per voi la lingua locale non è un problema…
Rekchellet rispose con un’alzata di spalle quasi umana. — Sanno che siamo qui. A Pwanpwan mi pare che gli abbiamo comunicato i nostri piani in modo abbastanza particolareggiato, ed essendo dei volatili hanno una cultura uniforme, quindi la notizia si sarà diffusa su tutto il pianeta.
Se quello che stiamo facendo è tanto importante per loro, rifletté Hugh, tenendo avvedutamente quella considerazione per sé.
— Se aspetteranno la sonda, li vedremo — proseguì l’artista. — In caso contrario, sarà l’occasione giusta per esaminare meglio la loro tecnologia. Non sembrano sempre disposti a rivelarci tutto.
Janice corrugò la fronte; non era mai felice quando il suo deciso apprezzamento per le persone si scontrava con qualche manifestazione delle loro qualità meno ammirevoli. Suo marito, comunque, le risparmiò eventuali commenti.
— Jan! La tua tuta ha terminato la terapia! Come va il torace?
Lei si drizzò a sedere adagio, si stiracchiò, piegò gambe e braccia, e respirò profondamente parecchie volte. — Ho un leggero mal di testa, ma sono di nuovo a posto, credo. Andiamo a controllare l’antenna. Immagino che Venz abbia tenuto d’occhio i segnali. — Lanciò uno sguardo in direzione del pallone.
Rekchellet ripose l’attrezzatura da disegno e spiccò il volo. — Certo. Vediamo se riusciamo a ricavare qualche dato sulla distanza di quella sorgente. Adesso potrebbe essere abbastanza vicina, e con l’interferometria… — Lasciò la frase in sospeso e si allontanò battendo le ali; gli Erthumoi s’incamminarono verso la slitta e l’antenna alla loro andatura. Erano meno ottimisti sul rilevamento della distanza attraverso ghiaccio più o meno sporco e strati termici multipli in alto mare, ma c’era sempre una possibilità; e tenere le obiezioni e i dubbi per sé favoriva la tranquillità della vita d’équipe. I Crotoniti si consideravano — in parte a ragione — i direttori del gruppo, anche se i subalterni stavano diventando abbastanza abili nell’inserire le proprie idee nelle crepe che esistevano tra le mire divergenti degli alati nei confronti della popolazione indigena.
Quando furono abbastanza vicini da sentire il suo traduttore, si accorsero che Venzeer stava infervorandosi. — L’intensità del segnale sta proprio aumentando, e la direttrice è più orizzontale, e verso la sponda. Io propongo di andare a vedere di che si tratta; sta emergendo, senza dubbio. Che ne dici, Rek? Dovrai registrare quella cosa quando affiora, comunque. Gli altri possono controllare i segnali mentre guidano.
Sono appena cinque o sei chilometri.
— D’accordo — disse subito la donna. — Possiamo permetterci di interrompere il contatto per un po’. — Il gruppo non aveva radio, naturalmente, per via della caratteristica degli indigeni, e i ricevitori neutrinici erano troppo pesanti per essere trasportati dagli alati.
I Crotoniti volarono in direzione del sole senza aggiungere altro. Hugh e Janice controllarono di nuovo gli ormeggi del pallone, salirono a bordo del mezzo di trasporto e avviarono il fusore.
Non potevano osservare bene l’antenna da dov’erano seduti, dato che la piattaforma scoperta coi comandi dei volatili — usati di rado — era proprio sopra di loro. La donna, tuttavia, monitorizzò attentamente i suoi dati direzionali.
Dovettero procedere lentamente, in parte a causa di una foschia che andava infittendosi, in parte per minimizzare la resistenza aerodinamica incontrata dall’enorme pallone nell’atmosfera densa. Con l’assenza momentanea dei volatili, la rottura di altri cavi d’ormeggio avrebbe potuto compromettere l’intero progetto. Era anche consigliabile, per sicurezza, evitare la vegetazione, poiché la maggioranza degli organismi indigeni usava lo ione azotidrato invece dell’atp. Quindi, prevedevano di raggiungere il margine dell’iceberg gigante molto tempo dopo i Crotoniti. Probabilmente i Crotoniti avrebbero trovato e smontato il congegno segnalatore prima che gli Erthumoi potessero fare qualcosa per impedire quella che perfino Janice considerava una mossa scorretta. Perfino Janice era abbastanza preoccupata da approfittare dell’assenza dei Crotoniti per inviare un rapido rapporto via raggio neutrinico all’astronave d’esplorazione erthuma in orbita attorno a Habranha. Se i volatili avessero ingannato gli indigeni, almeno qualcuno l’avrebbe saputo.
Invece, i due Erthumoi arrivarono a destinazione in tempo, per due motivi. La recente inclinazione dell’iceberg aveva fatto sì che il mare si avvicinasse parecchio; o forse, più correttamente, aveva portato gli esploratori più vicino a esso. ora il mare era solo a poco più di un chilometro dal punto di partenza della slitta. Inoltre, la cosa che stava emettendo i segnali non era ancora affiorata al loro arrivo. Rekchellet era ad alcune centinaia di metri di quota e sembrava intento a disegnare la nuova linea di galleggiamento, quando gli umani arrestarono il mezzo di trasporto. Il vento di Latoscuro aveva ripreso a spirare, sgombrando la foschia, anche se in lontananza, a sinistra rispetto al sole, si scorgeva un’altra bufera di neve. Mentre il veicolo si fermava, l’artista-registratore atterrò accanto a loro, riponendo la propria attrezzatura.
— Tutto a posto, questa volta.
— Cosa intendi dire? — chiese Janice.
— Prima, quando ho lasciato cadere il blocco, non sono stato abbastanza svelto e non ho salvato i dati, e si è mosso qualcosa quando l’acqua ha sballottato il blocco, così ho perso l’ultima registrazione. Molto imbarazzante. Non accadrà più.
Hugh rimase piuttosto sorpreso; strano che un Crotonita confessasse un errore non solo in prossimità di orecchie umane, ma addirittura, direttamente a un Erthuma. Meglio non dare rilievo alla cosa, comunque, così Hugh si limitò a chiedere se ci fossero novità riguardo i segnali. Venzeer, tornato accanto all’antenna non appena era riapparsa, riferì, ignorando il fatto che Janice avesse continuato a monitorizzarli.
La direzione dei segnali era ancora al di sotto dell’orizzontale, e adesso era quasi costante; solo l’intensità crescente indicava che la sorgente era ancora in movimento. Sembrava quasi che qualcosa stesse viaggiando verso di loro lungo il pendio dell’interfaccia ghiaccio-oceano, anziché salire semplicemente attraverso l’acqua.
La risacca era forte, un fatto né sorprendente né prevedibile su Habranha, così nessuno del gruppo poté avvicinarsi molto alla sponda, e con il sole immobile di fronte a loro era difficile osservare. Grendel — il nome dato dagli esploratori erthuma alla nana rossa di Habranha — brillava a meno di venti gradi sopra l’orizzonte. Quando l’iceberg si fosse unito al continente anulare, l’astro si sarebbe presentato a un’altezza circa doppia, questo però solo tra centinaia e centinaia di chilometri. Tutto quello che si poteva vedere facilmente al largo era che parecchia vegetazione era stata divelta dalla brusca inclinazione dell’iceberg e adesso veniva spinta verso di loro. Parte della vegetazione era già bruciata; alcune piante stavano fumando mentre rotolavano tra i frangenti, e molte di quelle ancora sott’acqua — non tutta la flora habra galleggiava — probabilmente stavano causando il ribollire di schiuma in superficie. Altre, senza dubbio, stavano aspettando che qualcosa le aiutasse a scaricare elettricità.
Gli esploratori osservarono le onde abbaglianti che avanzavano verso di loro, si sollevavano in creste e si frangevano. Una scena abbastanza consueta per tutti… ma quel che seguì era leggermente diverso. La risacca non aveva sabbia da spostare. Le onde scivolavano per centinaia di metri lungo il ghiaccio liscio in lieve pendenza, perdendo energia molto lentamente nella debole gravità di Habranha. Nonostante il fluido fosse pressoché privo di increspature, era difficile vedere se trascinasse con sé soltanto alghe marine o anche qualcos’altro. I quattro membri della squadra osservarono con estrema attenzione, ognuno con un’idea particolare a proposito di quel che sarebbe apparso.
Probabilmente si sarebbe trattato di una sfera, pensò Hugh, dato che l’ipotetico strumento doveva essere stato progettato per operare a centinaia di chilometri di profondità. Rekchellet sembrava aver accantonato quel fattore, aspettandosi a quanto pareva un congegno allo stato solido, ma l’uomo non ne era tanto sicuro.
Si sbagliavano tutti. Qualcosa che non era decisamente una pianta apparve alla fine quasi di fronte a loro — non era una coincidenza, dato che guidati dall’antenna si erano accostati il più possibile alla traiettoria della sorgente dei segnali — ma per oltre un minuto non riuscirono a scorgere che pochi dettagli mentre il moto ondoso la spingeva sempre più in prossimità della sponda.
Non era una sfera, bensì un oggetto dai contorni irregolari, e i quattro esploratori avanzarono piano con debita cautela per evitare le piante cariche. La cosa finalmente toccò la sponda e per un attimo, prima che arrivasse l’ondata successiva, rimase allo scoperto. Era ancora troppo lontana perché gli Erthumoi potessero vedere bene, ma entrambi i Crotoniti emisero dei fischi di sorpresa.
Poi fu quasi coperta dall’acqua ancora una volta e venne trascinata più vicino agli osservatori; e quando riemerse, anche gli Erthumoi non ebbero più alcun dubbio, soprattutto dal momento che la bufera di neve si era spostata di fronte al sole.
Molti particolari erano tuttora nascosti, ma non dall’acqua. Si trattava indiscutibilmente di un indigeno habra che indossava una specie di corazza o scafandro ed era attaccato mediante una corda a un contenitore cilindrico. Perfino le ali erano protette, pur essendo libere di aprirsi e muoversi. Mentre gli esploratori guardavano, l’essere si contorse, si drizzò, e cominciò a strisciare per sottrarsi ai frangenti in arrivo. Hugh e Janice — non tanto allibiti per quell’apparizione, ormai, quanto divertiti dalla probabile reazione dei Crotoniti dinanzi a un volatile subacqueo — si precipitarono ad aiutarlo, e alcuni istanti dopo l’indigeno era al sicuro, fuori dalla portata dell’oceano. Si udì una serie complessa di suoni, poi la voce di Venzeer filtrata dal traduttore.
— Sei… sei il benvenuto. Ma cosa ci fa un volatile sott’acqua?
Era esattamente quello che Hugh e sua moglie avrebbero chiesto se fossero stati in grado di parlare la lingua indigena e di trovare una formulazione inoffensiva per i Crotoniti. Erano ansiosi di sentire la risposta, ma udirono solo il borbottio incomprensibile dell’emissione radio habra trasformata in suono.
Forse i Crotoniti avrebbero tradotto, naturalmente. Le macchine erano predisposte per consentire la comunicazione nell’idioma nativo degli Erthumoi, il falgita, e nella lingua del pianeta crotonita da cui provenivano i volatili, pianeta di cui né Hugh né Janice conoscevano il nome. Una situazione potenzialmente scomoda e difficile, si resero conto d’un tratto gli umani. I Crotoniti erano su Habranha da molto più tempo di qualsiasi gruppo erthuma, e molti di loro erano in grado di capire e di parlare con gli indigeni senza traduzione. Era necessaria soltanto la conversione delle onde radio in suono normale e viceversa. Quasi sicuramente, pensò mesto Hugh, non esisteva ancora nessun sistema di traduzione tra l’habra e una qualsiasi lingua erthuma. I terricoli avevano appena scoperto quel luogo; i Crotoniti lo conoscevano da almeno parecchi decenni, e forse da parecchie generazioni — fonti diverse davano risposte diverse a tale domanda.
Lui e Janice avrebbero dovuto cercare di capire quel che potevano interpretando la parte crotonita della conversazione, augurandosi di riuscire a rimanere abbastanza vicino da afferrare tutto.
«Borbottio incomprensibile…» L’indigeno, presumibilmente.
La risposta di Venzeer: «Scariche statiche…»
Hugh si diede un calcio metaforico. La macchina non traduceva nemmeno la lingua usata dai Crotoniti con gli indigeni. Naturale. Hugh guardò la moglie, le sopracciglia inarcate visibili attraverso il tessuto trasparente della tuta. Lei alzò le spalle, un gesto quasi impercettibile. Janice non avrebbe voluto essere subdola comunque, rifletté il marito. Chiedi e ti sarà dato.
— Rek, potresti dirci cosa sta succedendo? O il tuo traduttore non potrebbe operare dalla lingua locale alla vostra e poi dalla vostra al falgita, perché noi possiamo seguire? Un indigeno vivo sott’acqua è una sorpresa anche per me… non me lo sarei mai aspettato. — Sostanzialmente vero… e un’osservazione accorta, inoltre.
I Crotoniti si scambiarono una breve occhiata. Entrambi gli Erthumoi erano abbastanza sicuri di sapere cosa stessero pensando; fu Hugh a indovinare, a conti fatti. Ne ebbe quasi la certezza quando gli altri esitarono prima di rispondere; se quella traduzione non fosse stata fattibile lo avrebbero detto subito. Probabilmente stavano domandandosi se fosse o no una buona idea permettere ai loro compagni terricoli di seguire tutta la conversazione con l’indigeno.
Uno di loro si rese conto dopo un attimo che esitando si erano traditi. Venzeer, forse; almeno, fu lui a rispondere.
— Ohhh… sì. Si può fare, credo. Abbiamo una scheda linguistica come supporto di consultazione, anche se tutti e due conosciamo bene questa lingua. Possiamo inserirla in uno dei nostri apparecchi, e non dovrebbero esserci problemi… basta rimanere a portata d’orecchio. — Cominciò ad azionare un congegno attaccato a una cinghia dell’imbracatura.
— Perché questo tipo è tutto solo, lontanissimo dall’anello, e si trovava sott’acqua, inoltre? Uno dei loro sommergibili minerari ha avuto un incidente? Io credevo non potessero estrarre minerali così vicino a Latoscuro. — Hugh venne subito a quelli che considerava i punti chiave.
— Non lo so. Noi eravamo convinti che le loro apparecchiature minerarie fossero automatiche o telecomandate. I sottomarini che abbiamo visto sono strutture aperte, specie di centine… non sembrano costruiti per resistere alla pressione sul fondo.
L’uomo annuì. — Io non ne ho visti, ma qui non ci sono praticamente metalli e la pressione sul fondo è di circa diecimila atmosfere… mi riferisco alle mie unità di misura, nel caso il traduttore non l’abbia precisato. Delle macchine automatiche che non debbano proteggere un equipaggio dalla pressione sembrerebbero la soluzione ovvia. Questo tipo, però, era sott’acqua. Spero sia disposto a dirci perché.
— Lo spero anch’io — fece prontamente Venzeer. — Cerchiamo di scoprirlo. Pare che non ci sia nessuno dei suoi compagni nelle vicinanze. Forse… — Non riuscì a terminare la frase. Rekchellet stava già rivolgendosi di nuovo all’indigeno, e questa volta gli Erthumoi poterono seguire la conversazione.
— Il tuo sottomarino ha avuto un incidente? — Discretamente esplicito per un Crotonita, pensò Hugh. La risposta arrivò in modo piuttosto frammentario; due traduzioni consecutive comportavano per forza delle pause e degli indugi, a causa delle strutture linguistiche differenti. Perfino una sola traduzione di solito aveva un andamento un po’ irregolare.
— Non avevamo nessun sottomarino. Non è stato esattamente un incidente. Pett e io ci stavamo spostando su un iceberg in profondità, tracciando una carta delle correnti, e l’iceberg è salito verso la linea di variazione di pressione profonda-media più rapidamente del previsto. La superficie si è spaccata invece di polverizzarsi, e un frammento ha ucciso Pett, temo; non l’ho più vista né sentita. Quel che è rimasto dell’iceberg era molto meno denso. Non so se per il cambiamento di fase o la perdita di fango o entrambe le cose. Comunque, è salito velocemente, e io mi sono fatto trasportare. Per poco non sono rimasto schiacciato quando ha colpito il fondo di quest’altro iceberg. Si è sgretolato, e non c’era un solo frammento abbastanza grande che valesse la pena di seguire, così sono salito per fare rapporto.
— E come? C’è qualcuno della tua gente nelle vicinanze?
— Improbabile. Mi toglierò semplicemente la corazza, mangerò tutte le provviste che potrò — l’indigeno indicò il contenitore affusolato che aveva trainato sulla sponda — e volerò fino all’anello. Basta che arrivi là… in che punto, non ha importanza.
— Lascerai qui la tua corazza?
— Il Crotonita non cercò di nascondere la propria meraviglia, o forse sperava che il traduttore non la trasmettesse. Per Hugh e Janice era una manifestazione emotiva evidente, ma non avrebbero saputo dire se l’indigeno l’avesse percepita.
— Certamente. Non potrei mai volare con la corazza, e rimpiazzarla non è difficile. Se andate in quella direzione, verso l’interno, potreste portarla lontano dall’acqua. Sarà più probabile che la trovino e possano utilizzarla, se qualcun altro dovesse averne bisogno.
— D’accordo. — Questa volta dalla voce di Rekchellet non trasparì alcuna emozione. — Possiamo sicuramente trasportarla col nostro veicolo.
— Bene. Meglio che mi muova. Prima comunicherò i dati sulla corrente, più i nostri calcoli saranno precisi. — L’indigeno, non mostrando né il minimo stupore né la minima curiosità per gli alieni, si tolse l’indumento protettivo. Se gli osservatori erthuma avessero conosciuto quel particolare del loro mondo ancestrale, di fronte a quella scena avrebbero pensato a una libellula che stesse emergendo dalla forma di pupa, anche se il corpo dell’Habra era molto più flessibile e aveva tre paia di ali anziché due. La testa era abbastanza grande da far presumere la presenza dell’intelligenza, pur sembrando piuttosto piccola sul corpo di quattro metri. Gli altri quattro arti erano molto più grossi, per le dimensioni della creatura, di quelli di qualsiasi insetto terrestre. Terminavano in polsi nodosi che potevano fungere da piedi — piedi poco adatti a un’andatura spedita sul ghiaccio, però — ed erano dotati di una mezza dozzina di appendici flessibili retrattili per il maneggio. Una volta fuori dalla corazza, la creatura si avvicinò all’involucro oblungo, aprì un’estremità, e inserì una proboscide in qualche contenitore invisibile all’interno. Per parecchi minuti rimase immobile, presumibilmente mangiando o bevendo. Poi le ali si rassodarono e si tesero, irrigidite dal fluido pompato nelle loro vene. Infine l’Habra si girò verso i quattro alieni, sempre senza mostrare la minima sorpresa.
— C’è parecchio liquido d’immersione qui, e anche del cibo… potrebbero essere utili a qualcuno… non a voi, naturalmente. Se non vi dispiace prendere anche questa roba e lasciarla più all’interno, potrebbe servire a qualcuno lontano da casa. Grazie. — Le ali cominciarono ad agitarsi lentamente, con un movimento un poco asincrono; se fossero state collegate da una membrana, questa si sarebbe increspata come le pinne di una manta — gli Erthumoi, naturalmente, non pensarono proprio a una manta, ma a un pesce simile che viveva su Falch.
E rifletterono su quel dettaglio marginale solo per un attimo. I Crotoniti si alzarono in volo con l’indigeno e lo accompagnarono per parecchie centinaia di metri. Hugh non sapeva se preoccuparsi maggiormente per quello che avrebbero potuto fargli o per quello che avrebbero potuto dirgli. Janice si rifiutò di preoccuparsi, e sembrò giustificata; i loro compagni alati poco dopo si staccarono dall’indigeno e tornarono verso l’iceberg, mentre l’Habra scompariva in lontananza nel bagliore di Grendel.
Hugh non si stupì quando i Crotoniti si posarono accanto alla corazza subacquea abbandonata dalla creatura. In fin dei conti, lui e sua moglie si trovavano già lì; era logico voler esaminare uno scafandro che a quanto pareva poteva proteggere chi lo indossava da migliaia di atmosfere di pressione.
Il sistema di snodi era ingegnoso, ma il materiale era sconcertante. Sembrava che non avesse nulla di particolarmente resistente. Le guaine per le ali e gli arti erano addirittura flessibili. L’esame accurato di un pezzo strappato — staccatosi abbastanza facilmente da complicare il mistero — rivelò che anche le piastre corporee potevano essere piegate con facilità non solo dalle mani degli Erthumoi ma anche dalle grinfie meno forti ed efficienti dei Crotoniti. Pareva impossibile che tale indumento potesse proteggere chi lo indossava da livelli di pressione elevati; e i corpi degli Habra sembravano gracili perfino secondo gli standard crotoniti… erano grandi, certo, ma tutt’altro che robusti.
Eppure quell’individuo aveva detto — con estrema chiarezza, a quanto ricordava Hugh — che stava lavorando molto al di sotto dei circa trenta chilometri toccati dal fondo della montagna di ghiaccio su cui si trovavano i quattro esploratori. Aveva parlato di cambiamenti di fase del ghiaccio che — Hugh ne era abbastanza sicuro — dovevano implicare migliaia di atmosfere. Dunque, come si spiegava il materiale flessibile dello scafandro?
— Dovremo prendere un po’ di questa sostanza per analizzarla — disse deciso Venzeer. — A me sembra più o meno simile ai polimeri che loro usano per costruire recinzioni e ripari, ma deve avere qualcosa di diverso. Forse… un momento, qualcuno di voi ha visto uscire dell’acqua dalla tuta quando si è spogliato?
— Sì, ora che ne parli… sì, l’ho vista — ammise la donna. — Non molta, ma un po’ d’acqua c’era. Ho immaginato semplicemente che prima di giungere a riva avesse allentato una giunzione o aperto una valvola per qualche motivo, e che fosse entrata dell’acqua.
— E perché lo avrebbe fatto, te lo sei chiesta?
— Mi è sembrato che non valesse la pena di azzardare un’ipotesi, visto che le risposte possibili erano tante.
— Per esempio?
— Oh, la comodità personale, se indossava la tuta da molto tempo. La voglia di respirare aria pura. La libertà di movimento. La sete… possono bere l’acqua del loro oceano?
— No. L’ammoniaca non è un problema per loro, però c’è dell’inquinamento biologico; una quantità notevole dell’azotidrato ionico che la maggior parte della vita indigena usa per immagazzinare energia (come noi, anche se ho sentito che voi usate qualcos’altro) è libera nell’oceano, per la decomposizione del plancton, suppongo. — Venzeer fornì quelle informazioni, mentre gli Erthumoi ascoltavano pensosi. Il rapido elenco di congetture di.Tanice aveva zittito momentaneamente Rekchellet, che però non aveva dimenticato l’interrogativo essenziale alla base della discussione. Rekchellet si avvicinò allo scafandro, lo esaminò e osservò attentamente il terreno, tracciando schizzi di tanto in tanto.
Era il solito ghiaccio, reso opaco dai sedimenti finissimi contenuti l’ultima volta che si era solidificato, forse polvere aerea spinta fino a Latoscuro e mescolatasi con la neve. C’erano tracce di fusione recente, cioè una striscia sottile di sedimento bianco in direzione del mare in un avvallamento quasi impercettibile, che però poteva essere stata causata tanto dal calore corporeo dell’indigeno quanto dall’acqua uscita dall’indumento. L’artista-registratore accostò la faccia al ghiaccio e annusò, la bocca spalancata — per i Crotoniti il gusto e l’odorato erano ancor meno distinti che per gli Erthumoi. Hugh si chiese incuriosito come avrebbe fatto a schizzare un odore.
— Hugh… Jan… venite qui e annusate. Non so se il vostro fiuto sia migliore del nostro… ma non sentite nulla di strano qui?
Gli umani lo accontentarono, poi si guardarono incerti. — Sì, si sente qualcosa — ammise la donna — però non so proprio cosa sia. Mi pare che gli Habra non abbiano nessun odore particolare… io non l’ho mai notato, almeno… forse però non mi sono mai avvicinata abbastanza a uno di loro da sentirlo, se c’era.
— Io mi sono avvicinato abbastanza… ma gli Habra non puzzano, per noi — disse Venzeer pensieroso. — Comunque, qui c’è qualcosa, che probabilmente è uscito dallo scafandro. Vediamo se lo scafandro manda odore.
Con la bocca aperta o meno, tutti annusarono l’indumento. Janice si strinse nelle spalle. — Lo sento anche qui, ma non vedo come questo possa aiutarci. Non sappiamo se sia una sostanza chimica… immagino stiate pensando a questo… o se sia qualcosa assolutamente normale per l’occupante.
Hugh intervenne. — A che servirebbe una sostanza chimica? A indurirgli la carne, a renderla talmente dura da permettergli di resistere alla pressione oceanica? Per me è assurdo.
— Anche per me — ammise il Crotonita. — Solo che l’intera situazione è strana, e mi piacerebbe raccogliere tutti gli elementi strani, se possibile.
— Bastava chiedermelo prima che partissi… Avreste avuto tutte le informazioni desiderate sullo scafandro senza danneggiarlo.
Umani e Crotoniti s’irrigidirono a quelle parole. Hugh, l’unico a non essere chino sull’indumento, fu il primo ad alzare lo sguardo, ma gli altri lo imitarono quasi subito. Non c’erano dubbi su chi fosse il proprietario della voce. Infatti sopra di loro, a qualche metro dal suolo, un corpo dotato di sei ali stava volando lentamente. Nonostante la tendenza erthumiana a dare la colpa agli altri nelle situazioni imbarazzanti — specialmente a un Crotonita, se era nei paraggi — Hugh si affrettò a giustificarsi per tutto il gruppo.
— Pensavamo non ci fosse nulla da chiedere. Non avevamo notato quanto fosse flessibile questo materiale, finché non l’abbiamo preso in mano… poi non siamo riusciti a capire come potesse proteggere qualcuno dalle pressioni abissali…
Venzeer l’interruppe. — Come hai fatto a sapere che lo stavamo danneggiando? Perché sei tornato indietro?
L’indigeno si posò accanto a loro. — Ho sentito il rumore di un pezzo che veniva staccato.
— Ma… — fece per obiettare Janice. Poi annuì. — Già… certo. — Il materiale dello scafandro era un polimero e sicuramente un isolante elettrico — doveva esserlo, per proteggere chi lo indossava dai contatti involontari con le piante, perfino sott’acqua. Staccando una parte dall’altra si era creata una differenza di potenziale sufficiente a produrre emissioni radio, anche se i loro traduttori non le avevano captate… e non era detto che non le avessero captate; nessuno dei due Crotoniti, come avrebbe ammesso in seguito Rekchellet, avrebbe fatto caso a delle banali scariche statiche.
L’indigeno sembrò accettare la giustificazione, ma parve un po’ sorpreso da quanto aveva detto Hugh.
— Noi non cerchiamo di resistere alla pressione. Noi… Oh, quando ho accennato al liquido d’immersione, voi pensavate che mi riferissi a della zavorra, immagino…
— No, è un’idea che non ci ha neppure sfiorato — ammise Janice. — Nessuno di noi ha pensato a quelle parole, credo. Hai anche detto che era roba che a noi non sarebbe servita, vero? — Le ali ancora gonfie dell’Habra si drizzarono in un gesto affermativo che anche gli Erthumoi conoscevano.
— Oh! — esclamò sommesso Hugh. — Ho capito. Si evitano i problemi relativi a vp tenendo basso delta-v. Tutto liquido. Tutte le cavità corporee prive di bolle d’aria. Qualcosa in grado di trasportare l’ossigeno con sufficiente rapidità in soluzione o legame debole. Ne ho sentito parlare, anche se penso che non l’abbiano mai fatto da noi. Qualcosa che risale a moltissimo tempo fa… forse addirittura sulla Terra.
— Io non ne avevo sentito parlare — disse sua moglie. — Però ho capito che l’Habra si riferiva a una cosa del genere.
— Di che state parlando? — intervenne Venzeer.
— La maggior parte dei danni causati a un essere vivente dal cambiamento di pressione deriva dalla notevole variazione di volume dei gas. La variazione volumetrica dei liquidi invece non è molto elevata al variare della pressione. Se si sale o si scende abbastanza lentamente da permettere ai fluidi corporei, perlopiù acqua per tutti noi, di diffondersi almeno un po’ attraverso le membrane e le pareti cellulari, non ci sono problemi. Anche le creature oceaniche non scoppiano, a meno che non abbiano vesciche natatorie o vengano portate verso la superficie molto velocemente. Gli Habra devono aver creato un fluido che adoperano per impregnare completamente il loro corpo, comprese le cavità normalmente usate per lo scambio d’ossigeno, e per riempire lo spazio tra il corpo e lo scafandro. Dopo di che, la pressione diventa un fattore irrilevante.
— Ma esistono altri pericoli — osservò suo marito. — Per esempio, la narcosi da azoto, no?
— Non so. Dobbiamo aver risolto anche questo problema, se i tuoi ricordi sono esatti. E forse questa gente non è soggetta alla narcosi da azoto; in fin dei conti, tollerano benissimo un po’ di cianuro di idrogeno nell’aria, come i Crotoniti.
— Certo — borbottò Rekchellet sottovoce. — Non siamo terricoli, nemmeno noi.
Janice ignorò l’interruzione. — Lo ione cianuro, l’ossido di carbonio e l’azoto molecolare hanno strutture elettroniche identiche. L’unica differenza è la polarità. Un organismo in grado di tollerare il cianuro non dovrebbe avere problemi con l’azoto.
— Sono semplici congetture, le tue — fece notare suo marito.
— Certo che sono congetture. Non c’è stato tempo per controllare in qualche banca dati, ma metterò subito in funzione la trasmittente. Abbiamo appena saputo tutte queste cose da… come dobbiamo chiamarti? — Janice cercò di assumere un atteggiamento eloquente perché l’Habra capisse che si stava rivolgendo a lui. L’indigeno parve comprendere.
— Io sono… — il resto erano scariche statiche irriproducibili.
— Mi spiace — disse Janice col massimo garbo possibile. — Questo simbolo non è traducibile in suoni che noi possiamo emettere. Una struttura acustica semplice come «William» sarebbe abbastanza chiara?
— Sembra «volatile arretrato», ma posso accettare. Mi rendo conto della difficoltà. Se «William» va bene, sarò William.
— «Bill» sarebbe ancor più facile e rapido.
— «Bill» non significa nulla, ma posso ricordarlo e produrlo.
— Grazie, Bill. Sai perché siamo qui… noi quattro?
— Pensavo steste studiando le correnti e compiendo forse altre analisi del nostro oceano e dell’atmosfera, proprio come noi. Avevo immaginato in precedenza che ci fossero probabilmente altri vostri compagni impegnati in studi simili sotto la superficie. Invece, se ho ben capito, non avete ancora iniziato.
— Noi camminatori, no… e nemmeno i Crotoniti, secondo me. Normalmente svolgeremmo un lavoro del genere con l’aiuto di macchine che noi chiamiamo robot, che dovrebbero essere di tipo molto speciale. Per ora non abbiamo nessun robot su questo pianeta… Venz? Rek? E voi?
— Noi non usiamo simili macchine. Preferiamo svolgere di persona il nostro lavoro. — Il tono di Rekchellet trasmesso da! traduttore bastò a rammentare a Hugh e a sua moglie che la maggioranza dei viaggiatori astrali non umani diffidava dell’intelligenza artificiale. La donna insistette, comunque; era un comportamento poco accorto, ma Janice voleva che Bill imparasse qualcosa riguardo i Crotoniti… qualcosa che sicuramente i Crotoniti non avevano detto agli indigeni.
— Però non avete compiuto nessuna esplorazione subacquea qui, vero?
— Né qui né in nessun altro luogo. Noi voliamo.
— Certo. E non si può volare sott’acqua.
A questo punto, Bill li interruppe. — Si può, invece. Noi lo facciamo. È così che ci si sposta, fuori dai sottomarini. È così che ho evitato di essere schiacciato dalla montagna di ghiaccio su cui mi trovavo, quando è salita e si è scontrata con la vostra.
— Voi volate sott’acqua? — sbottò Venzeer.
— Noi lo chiamiamo nuotare — disse Hugh frettolosamente. — Immagino che gli Habra usino le loro ali, però. — Si pentì della seconda frase ancor prima dì averla terminata, e maledisse tra sé la propria franchezza innata. I Crotoniti non replicarono subito, ma si guardarono meditabondi. Ci furono parecchi secondi di silenzio in cui i pensieri di ognuno dei cinque sarebbero stati di grande interesse per tutti gli altri.
L’immaginazione di Venzeer stava trastullandosi con la rivelazione dell’Habra: si poteva volare là sotto. Forse non era poi così brutto, in fin dei conti; forse si poteva scendere, vivere esperienze comuni, provare addirittura un nuovo tipo di volo, e arrivare a conoscere meglio gli indigeni… capire perché sembrassero tanto indifferenti alla possibilità di lasciare il loro mondo e volare tra le stelle. I loro antenati dovevano averlo fatto; quella razza non si era evoluta su Habranha. Non solo non c’era concatenazione — il continente anulare non aveva fauna terrestre, per non parlare di creature volanti — ma quegli alati non usavano nemmeno l’azotidrato nella loro biochimica, pur essendo elettrici quanto le piante e le creature marine sotto molti aspetti. Neppure le piante che coltivavano a scopo alimentare usavano l’azotidrato. Quindi dovevano essere coloni. Forse erano addirittura… no, sarebbe stato pretendere troppo.
Il pensiero di volare negli abissi, però… Quella avrebbe potuto essere un’esperienza vera e nuova… ma ci sarebbe stato così buio. Impossibile vedere in lontananza, spaziare con lo sguardo… solo acqua torbida e scura tutt’intorno. Avrebbero volato, certo; lo aveva detto l’indigeno. Però niente nubi, niente stelle, soltanto l’udito e il tatto per tenersi in contatto con l’universo. Gli indigeni erano volatili e sapevano meglio di qualsiasi terricolo cosa significasse vedere, ma non ne avrebbero sentito tanto la mancanza dovendovi rinunciare. Avevano quel vantaggio habra… erano in grado di captare i campi e gli impulsi elettrici, oltre a vedere e sentire… E potevano volare sott’acqua, schiacciati da pressioni mostruose. Scoprire come facessero — scoprire la formula del loro liquido d’immersione — non sarebbe servito granché ai Crotoniti. Probabilmente, sarebbe bastato chiedere, e quelle creature semplici avrebbero fornito tutte le informazioni necessarie… No, non erano creature tanto semplici, erano volatili… però, trattandosi di informazioni di scarsa utilità per i Crotoniti, perché avrebbero dovuto pretendere qualcosa in cambio per divulgarle? Ma… quant’era diversa la struttura biochimica crotonita da quella habra, comunque? E se il liquido non avesse funzionato, non era possibile trovare materiali capaci di reggere la pressione? A che servivano, se no, i tecnoricercatori? L’idea di uno scafandro, di una corazza, era qualcosa di perfettamente naturale per i terricoli, ovvio; mentre nessun volatile avrebbe pensato di gravarsi di un peso del genere solo a scopo protettivo. Ma il peso sarebbe stato un fattore insignificante sott’acqua; quella era fisica elementare. Dunque, bisognava avviare un’indagine estesa, consultare, richiedere dati. Dovevano esserci moltissime informazioni attinenti.
Le riflessioni di Rekchellet seguivano un filo diverso… Questi esseri hanno un campo che a noi manca. Hanno un mondo più grande da esplorare, che nessun altro ha mai avuto. Non solo superficie e atmosfera, ma pure un sesto del raggio sotto la superficie. Un terzo del volume planetario, in cui vivono delle cose e accadono delle cose. Perché dovrebbe interessargli lo spazio? Siano dei filosofi che mirano alla conoscenza fine a se stessa, o siano dei pragmatici che cercano di sopravvivere, hanno un mondo di materiale per le loro speculazioni e le loro opere concrete. Basterà suggerirgli qualche nuovo settore d’attività, e non dovremo preoccuparci di loro in nessun altro punto della galassia per parecchi secoli. Anche se fossero la Settima Razza, adesso non viaggiano più tra le stelle, sono cambiati. Naturalmente, dovremo conoscere il loro mondo, il loro universo, abbastanza a fondo da meritare il loro rispetto. Dovremo interessarci dei loro problemi, non interessarli ai nostri.
Ma come faremo a scendere laggiù? Gli indigeni sono diversi da noi, anche chimicamente. Per loro l’azotidrato è velenoso. Come faremo a creare qualcosa di simile al loro liquido d’immersione in breve tempo? Ci vorrà una vita, forse di più. Nemmeno i cervelli artificiali degli Erthumoi riusciranno…
Rekchellet interruppe deciso quella successione di pensieri… Eppure, volare negli abissi doveva essere divertente. Nuove cose da vedere e da disegnare. Senza dubbio si potevano collegare a qualche macchina gli occhi artificiali erthumiani per esaminare le cose là sotto, ma com’era possibile estrarre gli elementi essenziali dopo, da un’immagine indiretta? Ci sarebbero stati troppi particolari estranei e irrilevanti.
Janice fondamentalmente non si preoccupava per gli atteggiamenti dei Crotoniti; li dava per scontati, spesso sbagliando, ma si riusciva a farglielo capire di rado. Bill, comunque, era interessante. Era coraggioso; a prescindere dalla perfezione della tecnologia subacquea habra, aveva rischiato la vita. Semplice curiosità, forse… o forse senso del dovere. Poco importava. Janice comprendeva e apprezzava entrambe le cose. Sentiva il richiamo degli oceani profondi di Habranha, un ambiente completamente nuovo. Con strani organismi, correnti ancor più complesse di quelle aeree, e tempeste provocate dal distacco di iceberg e dal calore assorbito o emesso quando il ghiaccio cambiava fase a seconda della profondità e iceberg giganteschi si polverizzavano o mutavano densità più lentamente e quindi salivano o affondavano… Il breve racconto di Bill avrebbe stimolato l’immaginazione di qualsiasi chimico. Dovevano esserci nubi e piogge di limo raschiato dal nucleo di Habranha dal ghiacciaio di Latoscuro nel suo eterno strisciare sul fondo dell’oceano verso il sole, limo presente nel ghiaccio e liberato a profondità diverse e in quantità diverse quando gli iceberg si scioglievano, si sgretolavano o esplodevano. Ci sarebbero state correnti calde discendenti perché cariche di limo, correnti fredde ascendenti per il loro contenuto di ammoniaca e, nei punti d’incontro, bufere con trasformazione di colloidi in gel. William era stato laggiù e aveva visto tutto quanto, e Hugh avrebbe voluto sentire le ipotesi della moglie e verificarle…
In qualche archivio informatico dovevano esserci dei dati sul liquido d’immersione. Spostarsi su un iceberg galleggiante seguendo l’andamento caotico dei venti e delle bufere di neve era diventato di colpo un compito noioso. Janice si sarebbe data da fare col raggio neutrinico, senza badare a quante biblioteche planetarie avrebbe dovuto consultare. Non sarebbe stato difficile interessare Venzeer e Rekchellet a quella nuova ricerca…
Hugh condivideva gran parte dei sentimenti della moglie, ma non dava per scontato il comportamento dei Crotoniti. Forse le parole di Bill avrebbero persuaso Venz o Rek o entrambi ad avventurarsi nelle profondità marine, a provare qualcosa che assomigliava solo lontanamente al volo, anche se era difficile immaginare in che modo l’artista — Hugh non era sicuro che fosse davvero qualcosa di più di un illustratore registratore — avrebbe impiegato il proprio talentò. Forse sarebbe stata un’esperienza positiva; forse il caro Rek si sarebbe reso conto che quello che si vedeva non era tutto, e che chi non era in grado di volare e di dominare l’intero panorama non era necessariamente una nullità. Che gli Habra si dedicassero o meno al volo spaziale non era poi tanto importante, anche se Hugh sperava che lo facessero; non aveva intenzione di schierarsi con nessuno dei due Crotoniti, e non gli importava granché che si scoprisse che gli Habra erano la Settima Razza o che quel popolo fantomatico rimanesse per sempre un mistero. Probabilmente la Settima Razza si era estinta, comunque. Gli indigeni potevano badare al proprio futuro, nello spazio o nell’oceano. Però, sarebbe stato divertente se Venzeer e Rekchellet fossero scesi a un paio di centinaia di chilometri di profondità e avessero imparato a volare nell’acqua… il verbo usato dal traduttore non aveva importanza, quale che fosse. E poi sarebbe stato possibile farli discutere con l’unico Cephalloniano presente a Pwanpwan sulle gioie del nuoto, e sentirli deridere l’incapacità dell’acquatico di «nuotare» nell’aria. Sarebbe stato un sollievo offrire loro qualcuno da sminuire oltre ai soliti «terricoli».
E sarebbe stato divertente vedere gli abissi di Habranha. Janice senza dubbio aveva già pronta una serie di ipotesi, Hugh lo sapeva; era uno degli aspetti meravigliosi di sua moglie. Confrontare le previsioni con la realtà era sempre divertente. Certo, l’operazione poteva rivelarsi fatale, ma questo la rendeva più interessante. Da qualche parte dovevano esserci delle informazioni su quel vecchio liquido d’immersione. Alcuni minuti — o qualche ora, al massimo — di contatto con la banca dati di qualsiasi mondo erthumiano, e il problema sarebbe stato risolto. Un uso degno e adeguato del comunicatore e del periodo d’utilizzo del programma di ricerca. E non ci sarebbe voluto molto tempo per tradurre in pratica le informazioni ottenute in un laboratorio. Forse sarebbero bastate addirittura le apparecchiature della slitta… no, sarebbe stato necessario tornare a Pwanpwan o alla stazione orbitale. Comunque, la cosa era realizzabile. E chissà… forse il caos atmosferico di quello che avrebbe dovuto essere un pianeta tranquillo aveva davvero le sue origini negli oceani.
Bill, il meno cinico dei cinque, eccettuata Janice, stava riconsiderando la sorpresa iniziale provata nello scoprire che i viaggiatori astrali non erano stati negli abissi. Aveva dato per scontato che il suo pianeta, per quanto unico e complesso nei particolari, fosse solo un mondo come un altro per loro, e che loro dovessero avere dei metodi standard abituali per studiare i pianeti. L’idea che Habranha fosse abbastanza insolito da rendere inadatti quei metodi era in qualche modo piacevole. Dunque lui e i suoi colleghi potevano insegnare delle cose a quegli strani esseri così progrediti e intelligenti, nonostante l’aria di superiorità che gli alieni alati sembravano mostrare con tanta prontezza. Bill sapeva ben poco delle creature senz’ali apparse più recentemente, ma anche loro erano viaggiatori astrali, e senza dubbio si sentivano superiori per questo.
Bill era uno dei pochi della sua specie a conoscere, non solo per sentito dire, stelle che non fossero Fafnir, il sole compagno di Grendel. La maggior parte della gente stava su, sopra, o sotto il continente anulare dell’emisfero diurno di Habranha, che continuava a crescere a circa cinquanta gradi dal sole e si scioglieva a circa venti gradi, ed era costantemente illuminato. Fafnir naturalmente era visibile; i suoi movimenti avevano fornito il primo sistema ad attrito zero osservabile, portando allo sviluppo della fisica, secondo la storia. Si erano scoperte le altre stelle solo quando i ricercatori avevano trovato il modo di spingersi brevemente nell’emisfero buio; la natura delle stelle, fino all’arrivo dei Crotoniti, era stata del tutto ipotetica, e molti Habra nutrivano tuttora dei dubbi sulla loro esistenza.
Alcuni scienziati erano stati tentati dall’idea di viaggiare oltre l’atmosfera, ma quelli che avevano provato erano tornati molto in fretta e mestamente. Si vedeva abbastanza bene là fuori; era affascinante poter dimostrare con tanta facilità le teorie sulla forma del mondo e del continente. Però non si sentiva nulla. Forse perché non c’era nulla di abbastanza vicino da sentire, forse perché lo strano materiale del veicolo volante bloccava con estrema efficacia i campi elettrici… quale che fosse la causa, si trattava di un’esperienza che provocava un forte senso di claustrofobia. Gli alieni — era noto — erano privi di sensi elettrici… dovevano perfino trasformare il linguaggio normale in qualcos’altro; forse era per questo che i viaggi spaziali non creavano loro alcun problema. Nessuno era riuscito a sapere nulla in merito dai Crotoniti; Bill non sapeva di preciso se fossero state interpellate altre specie aliene. Ce n’era una nuova che addirittura volava solo nell’acqua, aveva sentito dire…
Sarebbe stato interessante accompagnare un gruppo di alieni negli abissi, sempre che si lasciassero convincere ad andare e avessero la tecnologia necessaria; il liquido d’immersione probabilmente non sarebbe stato loro di alcuna utilità, forse però il materiale che usavano per costruire le astronavi era in grado di resistere alla pressione abissale…
Bill doveva tornare all’anello e fare qualche domanda. Era improbabile, statisticamente, che lì ci fossero abbastanza alieni da fornire le risposte. Nessuno sapeva tutto…
Quei pensieri, per quanto espressi con riluttanza, non potevano concretarsi che in un modo.