24 Miele nel té

Egwene sapeva fin dall’inizio che la sua strana prigionia sarebbe stata difficile, eppure credeva che abbracciare il dolore come facevano gli Aiel sarebbe stata la parte più facile. Dopotutto era stata percossa duramente quando aveva pagalo il suo toh alle Sapienti per aver mentito, presa a cinghiate da una dopo l’altra a turno, perciò aveva esperienza. Ma abbracciare il dolore non voleva dire solo cedere a esso invece di lottare. Bisognava attirare il dolore dentro di sé e accoglierlo come parte del proprio essere. Aviendha diceva che dovevi essere in grado di sorridere e ridere di gioia oppure cantare mentre il peggio del dolore ti stringeva. Non era affatto facile.

Quella prima mattina, prima dell’alba, nello studio di Silviana, fece del suo meglio mentre la Maestra delle novizie le batteva una pantofola dalla suola dura sul sedere scoperto. Lei non fece alcuno sforzo per reprimere i singhiozzi, o più tardi le urla inarticolate. Quando le sue gambe vollero scalciare, lei permise che si dibattessero finché la Maestra delle novizie non gliele intrappolò sotto una delle sue, in modo goffo per via delle gonne, e poi lasciò che le sue dita dei piedi tamburellassero il pavimento mentre la sua testa si agitava incontrollata. Cercò di attirare il dolore dentro di sé, di assorbirlo come un respiro. Il dolore era una parte della vita quanto respirare. Era così che gli Aiel vedevano la vita. Ma, oh, Luce, quanto faceva male!

Quando infine le fu permesso di raddrizzarsi, dopo quello che parve un tempo lunghissimo, trasalì quando la sua sottoveste e il suo vestito le ricaddero contro la carne. La lana bianca pareva pesante come piombo. Tentò di accogliere di buon grado quel calore cocente. Era dura, però. Davvero dura. Tuttavia i suoi singhiozzi parvero fermarsi molto presto di loro spontanea volontà e anche il suo flusso di lacrime si asciugò rapidamente. Non piagnucolò né si contorse. Si esaminò nello specchio sul muro, con la sua doratura che andava sbiadendo. Quante migliaia di donne si erano scrutate in quello specchio nel corso degli anni? A quelle che venivano castigate in questa stanza era sempre richiesto di osservare il proprio riflesso dopo e meditare sul perché erano state punite, ma non fu questo il motivo per cui lei lo fece. Il suo volto era ancora rosso, eppure pareva già... calmo. Malgrado il calore doloroso al fondoschiena, si sentiva davvero calma. Forse avrebbe dovuto provare a cantare? Forse no. Tirando fuori un fazzoletto di lino bianco dalla manica, si asciugò con cura le guance.

Silviana la esaminò con uno sguardo di soddisfazione prima di rimettere la pantofola nello stretto armadietto di fronte allo specchio. «Penso di aver ottenuto la tua attenzione fin dall’inizio, altrimenti ci sarei andata più dura» disse in tono asciutto, dando una pacca alla crocchia dietro la sua testa.

«Dubito che ti rivedrò presto in ogni caso. Potrebbe farti piacere sapere che ho posto le domande che hai chiesto. Melare aveva già iniziato a farle. Quella donna è Leane Sharif, anche se solo la Luce sa come...» Lasciando morire la frase, scosse la testa, tiro di nuovo la sua sedia vicino allo scrittoio e si sedette. «Era molto in ansia per te, ancor più che per sé stessa. Puoi farle visita nel tuo tempo libero. Sempre che tu abbia del tempo libero. Darò disposizioni. E nelle celle aperte, e ora farai meglio a sbrigarti se vuoi mangiare qualcosa prima della tua prima lezione.»

«Grazie» disse Egwene e si voltò verso la porta.

Silviana sospirò pesantemente. «Niente riverenza, bambina?» Intingendo la sua penna nella boccetta di inchiostro su un supporto di argento, iniziò a scrivere nel registro delle punizioni con mano precisa e ordinata. «Ti vedrò a mezzogiorno. Pare che mangerai entrambi i tuoi primi pasti nella legittimità della Torre.»

Egwene avrebbe potuto lasciar perdere lì, ma durante la notte, mentre aspettava che le Adunanti si riunissero nel Consiglio nel Tel’aran’rhiod, aveva deciso la linea sottile che doveva percorrere. Intendeva combattere, tuttavia doveva farlo mentre appariva cooperare. Fino a un certo punto, almeno. Entro i limiti che si era imposta. Rifiutare ogni ordine l’avrebbe semplicemente fatta apparire ostinata — e forse l’avrebbe fatta confinare in una cella, dove sarebbe stata inutile — ma c’erano alcuni comandi a cui non doveva obbedire se voleva mantenere un briciolo di dignità. E doveva farlo. Più di un semplice briciolo. Non poteva permettere loro di negare chi era, per quanto insistessero con forza. «L’Amyrlin Seat non fa riverenze a nessuno» disse con calma, sapendo molto bene quale reazione avrebbe ottenuto.

Il volto di Silviana si indurì e lei riprese in mano la sua penna. «Ti vedrò anche all’ora di cena. Ti suggerisco di andartene senza parlare ulteriormente, a meno che non desideri finire a trascorrere l’intera giornata sul mio ginocchio.»

Egwene se ne andò senza parlare. E senza rivolgerle una riverenza. Una linea sottile, come un filo di ferro sospeso sopra un abisso profondo. Ma lei doveva percorrerla.

Con sua sorpresa, Alviarin stava camminando avanti e indietro nel corridoio lì fuori, avvolta nel suo scialle frangiato di bianco e tenendosi stretta, fissando qualcosa di invisibile in lontananza. Egwene sapeva che la donna non era più la Custode degli Annali di Elaida, anche se non perché fosse stata rimossa così all’improvviso. Spiare nel Tel’aran’rhiod forniva solo occhiale e brandelli; era un riflesso incerto del mondo della veglia in così tanti aspetti. Alviarin doveva averla sentila urlare, ma stranamente Egwene non provava alcuna vergogna. Stava combattendo una battaglia peculiare, e in battaglia si subivano ferite. La Bianca di norma gelida non appariva così fredda quel giorno. Invece pareva piuttosto agitata, con le labbra socchiuse e gli occhi ardenti. Egwene non le rivolse alcuna riverenza, tuttavia Alviarin si limitò a scoccarle un’occhiataccia malevola prima di entrare nello studio di Silviana. Una linea sottile.

Poco più in giù lungo il corridoio, un paio di Rosse se ne stavano lì a osservare, una coi volto tondo, l’altra snella, entrambe dagli occhi freddi, con scialli drappeggiati lungo le braccia in modo che la lunga frangia rossa fosse bene in mostra. Non le stesse due che erano state lì quando si era svegliata, ma non si trovavano lì per caso. Non erano precisamente guardie, d’altro canto non erano precisamente non guardie. Egwene non rivolse riverenze nemmeno a loro. Quelle la osservarono senza espressione.

Prima che avesse percorso più di mezza dozzina di passi lungo le piastrelle rosse e verdi del pavimento, udì l’urlo di dolore di una donna levarsi dietro di lei, a malapena attutito dalla pesante porta dello studio di Silviana. Dunque Alviarin stava subendo una punizione, e non stava reagendo bene se gridava con quanto fiato aveva in corpo così presto. Ameno che anche lei non stesse cercando di abbracciare il dolore, cosa che pareva improbabile. Egwene desiderò poter sapere perché Alviarin stava subendo quella punizione, sempre che si trattasse di una penitenza imposta. Un generale aveva esploratori e spie a informarlo dei suoi nemici. Lei aveva solo i propri occhi e le proprie orecchie, assieme a quel poco che poteva apprendere nel Mondo Invisibile. Qualunque frammento di conoscenza poteva rivelarsi utile, però, perciò doveva scavare ovunque possibile. Colazione o no, tornò alla sua minuscola cella negli alloggi delle novizie per lavarsi la faccia con acqua fredda al lavabo e pettinarsi i capelli. Quel pettine, che era stato nel suo borsello alla cintura, era fra i pochi effetti personali che aveva mantenuto. Nel corso della notte i vestiti che aveva indossato quando era stata catturata erano scomparsi, rimpiazzati da vesti bianche da novizia, ma gli abiti e le camicette che pendevano dai pioli sulla parete bianca erano davvero i suoi. Riposti quando era stata elevata ad Ammessa, portavano ancora cucile sugli orli delle piccole targhette col suo nome. La Torre non si dava mai agli sprechi. Non si poteva mai sapere quando a una nuova ragazza sarebbero andati bene dei vestili vecchi. Ma non avere nulla da indossare eccetto il bianco da novizia non la rendeva una novizia, qualunque cosa credessero Elaida e le altre.

Non uscì finché non fu sicura che sul suo volto non comparisse più il rossore e sembrasse ricomposta. Quando avevi poche armi, l’aspetto poteva essere una di queste. Le stesse due Rosse stavano attendendo sul ballatoio con ringhiera per pedinarla.

La sala da pranzo dove mangiavano le novizie si trovava al livello inferiore della Torre, da un lato della cucina principale. Era una camera ampia con le pareti bianche, disadorna anche se le piastrelle del pavimento mostravano tutti i colori delle Ajah, e piena di tavoli, ciascuno dei quali poteva ospitare dalle sei alle otto donne su piccole panche. Cento o più donne biancovestite erano sedute a quei tavoli, chiacchierando sopra la loro colazione. Elaida doveva essere molto orgogliosa del loro numero. Nella Torre non c’erano così tante novizie da anni. Senza dubbio perfino notizie della frattura all’interno della Torre erano state sufficienti a inculcare in alcune teste il pensiero di andare a Tar Valon. Egwene non era impressionata. Quelle donne occupavano a malapena metà del refettorio, e c’era un’altra stanza simile al piano di sopra, ormai chiusa da secoli. Una volta che lei avesse ottenuto la Torre, quella seconda cucina sarebbe stata riaperta e le novizie avrebbero comunque dovuto fare i turni per venire a mangiare, qualcosa che non si era mai visto fin da prima delle Guerre Trolloc.

Nicola si accorse di lei non appena entrò — pareva che la donna si stesse guardando attorno per cercarla — e diede di gomito alle novizie da entrambi i lati. Il silenzio scivolò per i tavoli come un’onda e ogni testa si voltò quando Egwene procedette lungo il passaggio centrale. Non guardò né a destra né a sinistra.

A metà strada per la porta della cucina, una novizia bassa e magra con lunghi capelli scuri all’improvviso mise fuori un piede e la fece inciampare. Riacquistando l’equilibrio poco prima di finire faccia a terra, Egwene si voltò con sguardo freddo. Un’altra schermaglia. La giovane donna aveva l’aspetto pallido dì una cairhienese. Da così vicino, Egwene poteva essere sicura che sarebbe stata sottoposta alla prova per il rango di Ammessa a meno che non avesse altri difetti. Ma la Torre era molto capace nello sradicare certe cose. «Come ti chiami?» domandò.

«Alvistere» rispose la giovane donna, il cui accento confermò il suo aspetto. «Perché lo vuoi sapere? In modo da poter fare la spia con Silviana? Non ti servirà a niente. Tutte diranno di non aver visto nulla.»

«Davvero un peccato, Alvistere. Vuoi diventare Aes Sedai e abbandonare la capacità di mentire, eppure vuoi che altre mentano per te. Non ci vedi alcuna incongruenza?»

Il volto di Alvistere si imporporò. «Chi sei tu per farmi la predica?»

«Io sono l’Amyrlin Seat. Una prigioniera, ma comunque l’Amyrlin Seat.» I grandi occhi di Alvistere si sgranarono e un brusio di sussurri si diffuse per la stanza mentre Egwene proseguì verso la cucina. Non avevano creduto che avrebbe ancora rivendicato il titolo abbigliata in bianco e dormendo tra loro. Era meglio che si scordassero presto di quell’idea.

La cucina era una stanza grande e dal soffitto alto con un pavimento a mattonelle grigie dove gli spiedi da cottura nel lungo focolare di pietra erano immobili, ma i fornelli di ferro e i forni irradiavano abbastanza calore che lei avrebbe iniziato a sudare all’istante se non avesse saputo come ignorarlo. Aveva sgobbato in quella cucina abbastanza spesso ed era molto probabile che l’avrebbe fatto di nuovo. Sale da pranzo la circondavano da tre lati, per le Ammesse e le Aes Sedai così come per le novizie. Laras, la padrona delle cucine, stava ancheggiando in giro col volto sudato in un immacolato grembiule bianco con il quale si sarebbero potute fare tre abiti da novizia, agitando il suo lungo cucchiaio di legno come uno scettro mentre dirigeva i cuochi, i sottocuochi e gli sguatteri che sgambettavano per lei tanto veloci quanto si sarebbero mossi per qualunque regina. Forse più veloci. Era improbabile che una regina avrebbe colpito qualcuno col suo scettro per essersi mosso con troppa lentezza.

Una grande quantità di cibo pareva andare su vassoi, a volte d’argento lavorato, a volte di legno intagliato e forse dorato, che delle donne portavano via attraverso la porta per la sala da pranzo principale delle Sorelle. Non cameriere da cucina con la bianca fiamma di Tar Valon sul petto, ma donne solenni in abiti di lana dall’ottimo taglio con un occasionale tocco di ricamo, servitori personali di Sorelle che sarebbero salite su fino agli alloggi delle Ajah.

Ogni Aes Sedai poteva mangiare nelle proprie stanze se desiderava, anche se voleva dire incanalare per riscaldare di nuovo il cibo, eppure molte gradivano la compagnia durante i pasti. Perlomeno un tempo era stato così. Il flusso costante di donne che portavano fuori vassoi coperti di stoffa era una conferma che la Torre Bianca era costellata di fratture. Egwene avrebbe dovuto provare piacere per quello. Elaida si trovava su una piattaforma in procinto di crollare sotto di lei. Ma la Torre era la sua casa. Tutto quello che provava era tristezza. E anche rabbia nei confronti di Elaida. Si meritava di essere deposta semplicemente per quello che aveva fatto alla Torre da quando aveva ottenuto la stola e la staffa!

Laras le rivolse una lunga occhiata, tirando in dentro il mento fino ad averne un quarto, poi tornò a brandire il suo cucchiaio e a guardare sopra la spalla di un sottocuoco. Quella donna aveva aiutato Siuan e Leane a scappare, una volta, dunque la sua lealtà verso Elaida era debole. Avrebbe aiutato un’altra adesso? Di certo stava facendo ogni sforzo per evitare di guardare di nuovo in direzione di Egwene. Un altro sottocuoco che probabilmente non la distingueva da qualunque altra novizia, una donna sorridente che ancora stava lavorando sul suo secondo mento, le porse un vassoio di legno con una tazza di te fumante grossa e robusta e uno spesso piatto smaltalo di bianco con pane, olive e un formaggio bianco friabile, affinché lo riportasse con sé nel refettorio.

Calò di nuovo il silenzio e ancora una volta gli occhi si concentrarono su di lei. Ma certo. Sapevano che era stata convocata dalla Maestra delle novizie. Stavano aspettando di vedere se avrebbe mangiato stando in piedi. Lei voleva davvero accomodarsi piano sulla dura panca di legno, ma si costrinse a mettersi seduta in modo normale, il che rinfocolò le fiamme, ovviamente. Non forte quanto prima, ma abbastanza da farle cambiare posizione prima di potersi trattenere. Stranamente non provò alcun vero desiderio di fare smorfie o contorcersi. Di mettersi in piedi si, ma nient’altro. Il dolore era parte di lei. Lo accettò senza lottare. Cercò di accoglierlo, tuttavia questo sembrava ancora troppo per lei.

Strappò un pezzo di pane — c’erano larve nella farina anche qui, pareva — e lentamente le conversazioni nella stanza ripresero, piano poiché ci si aspettava che le novizie non facessero troppo rumore. Anche al suo tavolo si ricominciò a parlare, anche se nessuna fece alcun tentativo di includerla. Andava bene così. Non era lì per farsi amiche tra le novizie. Né per fare in modo che la vedessero come una di loro. No, il suo scopo era molto diverso.

Lasciando la sala con le novizie dopo aver riportato il suo vassoio in cucina, trovò un altro paio di Rosse ad aspettarla. Una era Katerine Alruddin, volpina nel suo abito grigio copiosamente sferzato di rosso, con una massa di capelli corvini che le ricadevano in onde fino in vita e lo scialle avvolto attorno ai gomiti.

«Bevi questo» disse Katerine in tono imperioso, protendendo una tazza di peltro in una mano esile.

«Tutto quanto, bada.» L’altra Rossa, scura e dal volto squadrato, si aggiustò lo scialle con impazienza e fece una smorfia. Sembrava che non le piacesse fungere da servitrice anche se solo all’apparenza. O forse era disprezzo per ciò che c’era in quella lazza.

Reprimendo un sospiro, Egwene bevve. Il debole infuso di radice biforcuta pareva alla vista e al gusto come acqua tinta di un debole marrone, con appena un accenno di menta. Quasi un ricordo di menta invece del gusto stesso. La sua prima tazza era stata appena dopo svegliata, con le Sorelle Rosse in servizio che non vedevano l’ora di farla finita con lo schermo e tornare alle loro faccende. Katerine aveva lasciato che l’ora si protraesse un poco, tuttavia perfino senza quella tazza Egwene dubitava che sarebbe stata in grado di incanalare con molta forza ancora per qualche tempo. Di certo non con abbastanza forza da avere qualche utilità.

«Non voglio arrivare in ritardo alla mia prima lezione» disse, porgendole di nuovo la tazza. Katerine la prese, anche se sembrò sorpresa nel rendersi conto di averlo fatto. Egwene procedette dietro le novizie prima che la Sorella potesse obiettare. O potesse ricordarsi di richiamarla per non averle rivolto una riverenza. Quella prima lezione, in un’aula disadorna e priva di finestre dove dieci novizie occupavano panche per trenta o più, fu il completo disastro che lei si era aspettata. Non un disastro per lei, però, a prescindere dall’esito. L’insegnante era Idrelle Menford, un’allampanata donna dagli occhi duri che era stata già Ammessa quando Egwene era giunta alla Torre per la prima volta. Indossava ancora l’abito bianco con le sette bande di colore all’orlo e ai polsi. Egwene si mise a sedere all’estremità di una panca, di nuovo senza considerazione per la sua sensibilità. Era diminuita, anche se non di molto. Assorbire il dolore.

In piedi su una piccola predella sul davanti della stanza, Idrelle guardò giù per il suo lungo naso con più di un barlume di soddisfazione nel vedere Egwene di nuovo in bianco. Quasi attenuò il suo cipiglio, una sua caratteristica fissa. «Voi tutte siete andate oltre al creare semplici sfere di fuoco,» disse alla classe «ma vediamo di cos’è capace la nostra nuova ragazza. Era solita darsi tante arie, sapete.» Diverse delle novizie ridacchiarono. «Crea una sfera di fuoco, Egwene. Avanti, bambina.» Una sfera di fuoco? Quella era una delle prime cose che le novizie imparavano. A cosa mirava? Aprendosi alla Fonte, Egwene abbracciò saidar e lasciò che si riversasse dentro di lei. La radice biforcuta lo permise solo a un rivoletto, un filamento, mentre lei era abituata a Torrenti, tuttavia era il Potere e, rivoletto o no, portò tutta la vita e la gioia di saidar, con tutta l’aumentata consapevolezza di sé e della stanza attorno a lei. La consapevolezza di sé implicava anche che il suo sedere in fiamme all’improvviso le parve nuovamente appena percosso con la pantofola, ma lei non si spostò. Inspirare il dolore. Poteva percepire il fievole aroma di sapone delle novizie appena lavate quella mattina, vedere una minuscola vena pulsare sulla fronte di Idrelle. Parte di lei voleva dare uno scapaccione all’orecchio della donna con un flusso di Aria, ma data la minima quantità di Potere a sua disposizione, Idrelle l’avrebbe percepito a malapena. Invece incanalò Fuoco e Aria per produrre una piccola sfera di fuoco verde che fluttuò nell’aria di fronte a lei. Era una cosa pallida e pietosa, in realtà trasparente.

«Molto bene» disse Idrelle in tono sarcastico. Ah, sì. Aveva solo voluto cominciare mostrando alle novizie quanto erano deboli le capacità di Egwene. «Lascia andare saidar. Ora, classe...»

Egwene aggiunse una palla azzurra, poi una marrone, quindi una grigia, facendole roteare l’una attorno all’altra.

«Lascia andare la Fonte!» disse Idrelle bruscamente.

Una sfera gialla si andò a unire alle altre, una bianca e infine una rossa. Rapidamente lei aggiunse anelli di fuoco uno dentro l’altro attorno alle palle vorticanti. Per primo stavolta venne quello rosso, poiché voleva che fosse il più piccolo, mentre il verde fu l’ultimo e il più grande. Se fosse stata in grado di scegliere una Ajah, sarebbe stata la Verde. Sette anelli di fuoco ruotarono, nessuno nella stessa direzione, attorno a sette sfere di fuoco che eseguivano una danza intricata al centro. Potevano essere pallide e sottili, tuttavia era una dimostrazione impressionante oltre al fatto di dividere i suoi flussi in quattordici parti. Manipolare il Potere a quel modo non era molto più semplice che fare il giocoliere con le proprie mani.

«Smettila!» gridò Idrelle. «Smettila!» Il bagliore di saidar avviluppò l’insegnante e un frustino di Aria colpì forte Egwene alla schiena. «Ti ho detto di smetterla!» Il frustino colpì ancora, poi ancora. Egwene mantenne con calma gli anelli a ruotare e le sfere a danzare. Dopo i duri colpi della pantofola di Silviana, era facile assorbire il dolore di quelli di Idrelle. Se non accoglierli. Sarebbe mai stata in grado di sorridere mentre veniva picchiata?

Katerine e l’altra Rossa comparvero sulla soglia. «Cosa sta succedendo qui?» domandò la Sorella dai capelli corvini. La sua compagna sgranò gli occhi quando vide quello che Egwene stava facendo. Era molto improbabile che chiunque di loro riuscisse a dividere i propri flussi a quel modo. Le novizie balzarono tutte in piedi e si profusero in riverenze quando le Aes Sedai entrarono, naturalmente. Egwene rimase seduta.

Idrelle allargò le sue gonne a strisce con aria frustrala. «Non vuole fermarsi» si lagnò. «Le ho detto di farlo ma non mi da ascolto!» «Smettila, Egwene» le ordinò Katerine con fermezza.

Egwene mantenne i flussi finché la donna non aprì la bocca di nuovo. Solo allora lasciò andare saidar e si alzò in piedi.

La bocca di Katerine si chiuse di colpo e la donna trasse un profondo respiro. Il suo volto manteneva la serenità da Aes Sedai, ma i suoi occhi scintillavano. «Correrai allo studio di Silviana e le dirai che hai disobbedito alla tua insegnante e interrotto una lezione. Vai!»

Soffermandosi il tempo sufficiente a lisciarsi le gonne — quando obbediva, non doveva farlo con nessuna parvenza di impazienza o di premura — Egwene si fece strada tra le due Aes Sedai e procedette per il corridoio.

«Ti ho detto di correre» la redarguì bruscamente Katerine alle sue spalle.

Un flusso di Aria colpi il suo sedere ancora sensibile. Accettare il dolore. Un altro colpo. Assorbire il dolore come un respiro. Un terzo, tanto forte da farla barcollare. Accogliere il dolore.

«Lasciami andare, Jezrail» ringhiò Katerine.

«Non farò nulla del genere» disse l’altra Sorella con un forte accento tarenese. «Vai troppo oltre, Katerine. Un colpo o due è permesso, ma punirla ulteriormente è compito della Maestra delle novizie. Per la Luce, a questo ritmo la lascerai incapace di camminare prima che raggiunga Silviana.»

Katerine ansimò. «Molto bene» disse infine. «Ma può aggiungere la disobbedienza a una Sorella al suo elenco di trasgressioni. Me ne accerterò, Egwene, perciò non pensare di lasciartelo sfuggire di mente.»

Quando lei entrò nello studio della Maestra delle novizie, le sopracciglia di Silviana si alzarono dalla sorpresa. «Di nuovo così presto? Và a prendere la pantofola dall’armadietto, bambina, e dimmi cos’hai fatto ora.»

Dopo altre due lezioni e altre due visite allo studio di Silviana — rifiutava di essere presa in giro, e se un’Ammessa non voleva che Egwene facesse una cosa meglio di quanto lei stessa sapeva fare, la donna non glielo doveva chiedere affatto ~ più il suo appuntamento prestabilito di mezzogiorno nel mezzo, la donna dal volto severo decise che lei avrebbe dovuto iniziare ogni giornata con una Guarigione. «Altrimenti presto avrai troppi lividi per essere sculacciata senza che esca del sangue. Ma non credere che questo significhi che ci andrò leggera con te. Se ti servirà la Guarigione tre volte al giorno, ti sculaccerò ancora più forte per compensare. Se necessario, prenderò la cinghia o il frustino. Perché ti farò rimettere la testa a posto, bambina. Credimi su questo.»

Quelle tre lezioni, oltre a lasciare tre Ammesse molto imbarazzate, ebbero un altro risultato. Il suo insegnamento fu spostato a sessioni da sola con delle Aes Sedai, qualcosa di norma riservato alle Ammesse. Quello voleva dire salire i lunghi corridoi a spirale fiancheggiati da arazzi che conducevano agli alloggi delle Ajah, dove delle Sorelle stavano all’ingresso come guardie. Erano guardie, in verità. Visitatrici da altre Ajah non erano le ben venute, a dir poco. In effetti, Egwene non vide mai nessuna Aes Sedai vicino agli alloggi di un’altra Ajah.

Tranne per le Adunanti, di rado vedeva delle Sorelle nei corridoi fuori dagli alloggi se non in gruppi, sempre con indosso i loro scialli, di solito con dei Custodi che le seguivano da presso, ma quella non era come la paura che aveva stretto l’accampamento fuori dalle mura. Qui erano sempre Sorelle della stessa Ajah assieme, e quando due gruppi si incrociavano, si ignoravano del tutto quando non si lanciavano occhiatacce. Anche nei momenti peggiori dell’estate, la Torre rimaneva fresca, tuttavia l’aria pareva agitata e gelida quando delle Sorelle di Ajah differenti si avvicinavano troppo. Perfino le Adunanti che lei riconosceva camminavano a passo svelto. Le poche che si rendevano conto di chi lei era le rivolgevano lunghe occhiate meditabonde, ma per la maggior parte apparivano distratte. Pevara Tazanovni, una graziosa Adunante grassoccia per la Rossa, quasi andò a sbatterle contro un giorno — lei non aveva intenzione di farsi da parte, nemmeno per delle Adunanti —, ma Pevara prosegui in tutta fretta come se non l’avesse notata. Un’altra volta Doesine Alwain, magra come un ragazzo seppur vestita in modo elegante, fece lo stesso mentre era profondamente impegnata in una conversazione con un’altra Sorella Gialla. Nessuna delle due la degnò di una seconda occhiata. Egwene desiderò avere qualche idea su chi fosse l’altra Gialla. Conosceva i nomi dei dieci ‘furetti’ che Sheriam e le altre avevano mandato nella Torre per cercare di indebolire Elaida, e le sarebbe piaciuto davvero molto prendere contatto con loro, ma non conosceva le loro facce e chiedere di loro non avrebbe fatto altro che attirare l’attenzione su quelle Sorelle. Sperava che una di loro la prendesse da parte o le mettesse in mano un messaggio, ma nessuna lo fece. Avrebbe dovuto combattere la sua battaglia da sola, tranne per Leane, a meno che non avesse udito per caso qualcosa che la aiutasse ad attribuire delle facce a quei nomi.

Non si dimenticò di Leane, naturalmente. La sua seconda notte nella Torre scese nelle celle aperte dopo cena nonostante fosse esausta. Quella mezza dozzina di stanze nel primo sotterraneo erano quelle in cui le donne in grado di incanalare venivano tenute se non dovevano essere confinate attentamente. Ciascuna conteneva una grossa gabbia di tralicci di ferro che saliva dal pavimento al soffitto di pietra, con uno spazio attorno largo quattro passi e lampade su sostegni di ferro per fornire luce. Presso la cella di Leane, due Marroni erano sedute su panche contro la parete con un Custode, un uomo dalle spalle ampie con un volto attraente e sprazzi di bianco sulle terapie. Alzò lo sguardo quando Egwene entrò, poi tornò ad affilare il suo pugnale su una cote.

Una delle Marroni era Felaana Bevaine, snella con lunghi capelli biondi che rilucevano come se li spazzolasse diverse volte al giorno. Smise di scrivere in un taccuino rilegato in cuoio su una scrivania portatile per il tempo necessario a dire con voce roca: «Oh. Sei tu, eh? Be’, Silviana ha detto che potevi farle visita, bambina, ma non darle nulla senza averlo mostrato a Dalevien o a me, e non creare problemi.» Ritornò prontamente a quello che stava scrivendo. Dalevien, una donna tarchiata con del grigio che le striava i corti capelli scuri, non alzò mai la tosta dai due libri di cui stava comparando i testi, ciascuno di essi aperto su un ginocchio. Il bagliore di saidar risplendeva attorno a lei e stava mantenendo uno schermo su Leane, ma non c’era ragione perché lei guardasse una volta intessuto. Egwene non perse tempo e si precipitò a infilare le mani attraverso i tralicci di ferro e afferrare quelle di Leane. «Silviana mi ha detto che finalmente credono alla tua identità,» disse ridendo «ma non mi aspettavo di trovarti in mezzo a tutto questo lusso.»

Era un lusso solo paragonato alle piccole celle buie dove una Sorella poteva essere tenuta in attesa di giudizio, con un pagliericcio sul pavimento come materasso e una coperta solo se si era fortunati, tuttavia la sistemazione di Leane appariva ragionevolmente confortevole. Aveva un piccolo letto che pareva più morbido di quelli negli alloggi delle novizie, una sedia dallo schienale diritto con un cuscino azzurro con nappe e un tavolo sul quale c’erano tre libri e un vassoio con i resti della sua cena. C’era perfino un lavabo, anche se la caraffa e il bacile bianchi erano entrambi sbeccati e lo specchio era pieno di bolle, e un paravento, abbastanza opaco che lei sarebbe stata solo una forma in ombra dietro di esso, nascondeva il vaso da notte.

Anche Leane rise. «Oh, sono molto popolare» disse in tono animato. Perfino il modo in cui stava in piedi pareva languido, l’immagine vera e propria di una seducente Domanese malgrado i semplici abiti di lana scura, ma quella voce frizzante rimaneva da prima che avesse deciso di ricreare sé stessa come voleva essere. «Ho avuto un flusso costante di visitatori tutto il giorno, da ogni Ajah tranne la Rossa. Perfino le Verdi cercano di convincermi a insegnare loro come Viaggiare, e perlopiù vogliono mettere le mani su di me poiché ‘affermo’ di essere Verde ora.» Rabbrividì in modo troppo appariscente perché fosse vero. «Sarebbe altrettanto sgradevole quanto tornare con Melare e Desala.» Il suo sorriso si dissolse come nebbia nel sole di mezzogiorno. «Mi hanno detto che ti hanno messo il bianco. Meglio delle alternative, suppongo, Ti danno la radice biforcuta? Anche a me.»

Sorpresa, Egwene lanciò un’occhiata verso la Sorella che teneva lo schermo e Leane sbuffò.

«Tradizione. Se non fossi schermata, potrei schiacciare una mosca col Potere e non farle del male, ma le tradizioni dicono che una donna nelle celle aperte dev’essere sempre schermata. Ma per il resto ti lasciano andare in giro normalmente?»

«Non proprio» disse Egwene in tono asciutto. «Ci sono due Rosse che aspettano fuori per scortarmi alla mia stanza e schermarmi mentre dormo.»

Leane sospirò. «Dunque. Io sono in una cella, tu sei sorvegliata, ed entrambe siamo piene di té di radice biforcuta.» Lanciò un’occhiataccia alle due Marroni. Felaana era ancora intenta a scrivere. Dalevien voltò le pagine dei due libri sulle sue ginocchia e iniziò a borbottare sottovoce. Il Custode doveva avere intenzione di radersi con quel pugnale, tanto lo stava affilando. La sua attenzione principale pareva rivolta alla porta, però. Leane abbassò la voce. «Allora, quando fuggiamo?»

«Non lo facciamo» le rispose Egwene, e le spiegò le sue ragioni e il suo piano quasi in un sussurro mentre controllava le Sorelle con la coda dell’occhio. Raccontò a Leane tutto quello che aveva visto. E fatto. Fu difficile dire quante volte era stata sculacciata quel giorno e come si era comportata in quelle occasioni, ma era necessario per convincere l’altra donna che lei non si sarebbe lasciata spezzare.

«Posso capire che qualunque genere di irruzione è fuori questione, ma avevo sperato...» Il Custode si mosse e Leane tagliò corto, ma stava soltanto rinfoderando il suo pugnale. Incrociando le braccia sul petto e stendendo le gambe, si appoggiò all’indietro contro la parete, con gli occhi sulla porta. Pareva pronto a balzare in piedi in un batter d’occhio. «Laras mi ha aiutato a fuggire una volta,» prosegui piano «ma non so se lo farebbe di nuovo.» Rabbrividì e non ci fu nulla di finto. Era stata quietata quando Laras aveva aiutato lei e Siuan a fuggire. «Lo ha fatto più per Min che per Siuan o me, comunque. Sei certa di questo? Una donna dura, Silviana Brehon. Giusta, a quanto ho sentito, ma abbastanza dura da rompere il ferro. Ne sei assolutamente certa, Madre?» Quando Egwene disse che lo era, Leane sospirò di nuovo. «Be’, saremo due vermi che rosicchiano le radici, allora.» Non era una domanda.

Egwene faceva visita a Leane quando la spossatezza non riusciva a trascinarla a letto subito dopo cena e la trovava sorprendentemente ottimista per una prigioniera confinata in una cella. Il flusso di Sorelle che visitavano Leane stava continuando e lei faceva scivolare i frammenti suggeriti da Egwene in ogni conversazione. Quelle visitatrici non potevano ordinare che una Aes Sedai venisse punita, perfino una trattenuta nelle celle aperte, anche se alcune si arrabbiavano abbastanza da desiderare di poterlo fare, e inoltre sentire quelle cose da una Sorella aveva più peso che sentirle da una che vedevano come una novizia. Leane poteva perfino discutere apertamente, almeno finché chi la visitava non se ne andava. Ma riferì che molte non lo facevano. Alcune erano d’accordo con lei. In modo cauto, esitante, forse su un punto e non su altri, ma si dicevano d’accordo. Quasi altrettanto importante, per Leane almeno, era che alcune delle Verdi stabilirono che, dal momento che era stata quietata e pertanto non era stata Aes Sedai per un po’ di tempo, aveva il diritto di chiedere l’ammissione a qualunque Ajah una volta che fosse tornata a essere una Sorella. Non tutte, certo, ma poche erano meglio di nessuna. Egwene cominciò a pensare che Leane nella sua cella stesse avendo più effetto di lei che girava libera. Be’, libera in un certo senso. Non era esattamente gelosa. Era un lavoro importante quello che stavano facendo e non aveva importanza chi di loro lo svolgesse meglio fintanto che veniva eseguito. Ma c’erano delle volte in cui quello rendeva il viaggio verso lo studio di Silviana molto più duro. Tuttavia lei ebbe i suoi successi. Una specie.

Quel primo pomeriggio, nel soggiorno accatastato di Bennae Nalsad — i libri erano impilati in cumuli casuali ovunque sul pavimento e gli scaffali erano pieni di ossa, teschi e pelli trattate di animali, uccelli e serpenti assieme a esempi impagliati di alcune delle specie più piccole: una grossa lucertola marrone era appollaiata sull’enorme cranio di un orso, così immobile da far credere che anch’essa fosse impagliata finché non sbatté le palpebre — quel primo pomeriggio, la Marame shienarese le aveva chiesto di eseguire un vasto assortimento di flussi uno dopo l’altro. Egwene non era stata invitata a sedere, ma dal canto suo Bennae non aveva obiettato.

Egwene eseguì ogni flusso come richiesto finché Bennae non chiese con disinvoltura quello per Viaggiare, poi si limitò a sorridere e a ripiegare le mani in grembo. La Sorella si appoggiò all’indietro e si aggiustò un poco le sue gonne di seta marrone intenso. Gli occhi di Bennae erano azzurri e penetranti, i suoi capelli scuri, raccolti in una reticella argentea, abbondantemente striati di grigio. Su due delle dita aveva macchie d’inchiostro e un’altra le imbrattava il lato del naso. Aveva in mano una tazza di porcellana piena di té, ma non l’aveva offerto a Egwene.

«Credo che ti rimanga poco da apprendere del Potere, bambina, in particolare considerando le tue meravigliose scoperte.» Egwene inclinò la testa, accettando il complimento. Alcune di quelle cose erano davvero sue scoperte, e in ogni caso ora non aveva molta importanza. «Ma questo non significa che tu non abbia nulla da imparare. Hai avuto poche lezioni come novizia prima di essere...» La Marrone si accigliò nel guardare l’abito bianco di Egwene e si schiarì la gola. «E meno ancora come... be’, in seguito. Dimmi se lo sai, quali errori commise Shein Chunla che causarono la Terza Guerra delle Mura di Garen? Quali furono le cause della Grande Guerra d’Inverno tra Andor e Cairhien? Cosa causò la Ribellione Weikin e come terminò? Buona parte della storia sembra riguardare lo studio delle guerre, e le parti salienti di questo sono come e perché cominciarono, e come e perché terminarono. Moltissime guerre non avrebbero avuto luogo se solo la gente avesse prestato attenzione agli errori commessi da altri. Ebbene?»

«Lei non commise alcun errore,» disse Egwene lentamente «ma hai ragione. Ho molto da imparare. Non conosco nemmeno i nomi di quelle altre guerre.» Alzandosi, si versò una tazza di té dalla caraffa d’argento sul tavolino. A parte il vassoio argenteo con motivi a corde, in cima al tavolo c’erano una linee impagliata e il cranio di un serpente. Era grosso quanto quello di un uomo!

Bennae aggrottò le sopracciglia, ma non per il té. Parve quasi non notarlo. «Cosa intendi dicendo che Shein non commise alcun errore, bambina? Insomma, fece un pasticcio peggiore di qualunque altro io abbia mai sentito.»

«Molto prima della Terza Guerra delle Mura di Garen» disse Egwene ritornando alla sua sedia «Shein stava facendo esattamente come le diceva il Consiglio e nulla che loro non volessero.» Poteva essere carente in altre parti della storia, ma Siuan l’aveva istruita in maniera accurata sugli errori commessi da altre Amyrlin. E quella domanda in particolare le offri un varco. Sedersi normalmente richiese uno sforzo enorme.

«Di cosa stai parlando?»

«Shein cercò di gestire la Torre con un pugno di ferro, mai un compromesso o cose del genere, agendo senza rispetto per qualunque opinione si opponesse alla sua. Il Consiglio si stancò di quello, ma non riuscirono a organizzare un rimpiazzo, perciò, invece di deporla, fecero di peggio. La lasciarono al suo posto e la costrinsero a una punizione ogni volta che cercava di emanare un ordine di qualunque tipo. Di qualunque tipo.» Sapeva di procedere come se fosse lei a tenere una lezione, ma doveva tirare fuori tutto quanto. Rimanere seduta dritta sul legno duro della sedia era difficile. Accogliere il dolore. «Il Consiglio gestì Shein e la Torre. Ma loro stesse commettevano molti errori, in gran parte poiché ogni Ajah aveva i propri obiettivi e non c’era una mano a modellarli in uno scopo per la Torre. Il regno di Shein fu contraddistinto da guerre ovunque. Infine le Sorelle stesse si stancarono dei pasticci del Consiglio. In una delle sei insurrezioni nella storia della Torre, Shein e il Consiglio vennero deposti. So che si ritiene che lei morì nella Torre per cause naturali, ma in realtà venne soffocata nel suo letto in esilio cinquantini anni più tardi dopo la scoperta di un complotto per reinsediarla come Amyrlin Seat.»

«Insurrezioni?» disse Bennae in tono incredulo. «Sei? Esiliata e soffocata!»

«È tutto registrato nelle storie segrete, nel deposito Tredici. Anche se immagino che non avrei dovuto dirtelo.» Egwene prese un sorso di té e fece una smorfia, era praticamente rancido. Non cera da meravigliarsi che Bennae non avesse toccato il suo.

«Storie segrete? Un deposito Tredici? Se esistesse una cosa del genere, e penso che lo saprei, perché non avresti dovuto dirmelo?»

«Perché per legge l’esistenza delle storie segrete, così come i loro contenuti, può essere nota solo all’Amyrlin, alla Custode delle Annali e alle Adunanti. A loro e alle bibliotecarie che tengono i registri, comunque. Perfino la legge stessa è parte del deposito Tredici, perciò immagino che non avrei dovuto dirli nemmeno questo. Ma se puoi ottenere l’accesso in qualche modo oppure domandare a qualcuna che lo sa e che sia disposta a dirtelo, scoprirai che ho ragione. Sei volte nella storia della Torre, quando l’Amyrlin creò pericolose discordie o si rivelò rischiosamente incompetente e il Consiglio non agì, le Sorelle si sollevarono per deporla.» Ecco. Non avrebbe potuto piantare il seme più in profondità nemmeno con una pala. O conficcarlo in modo più deciso con un martello.

Bennae la fissò per un lungo istante, poi si portò la tazza alle labbra. Sputacchiò non appena il té toccò la sua lingua e iniziò a picchiettarsi le macchioline sul vestito con un delicato fazzoletto orlato di merletto. «La Grande Guerra d’Inverno» disse con voce roca nell’appoggiare la tazza sul pavimento accanto alla sua sedia «ebbe inizio nel tardo anno seicentosettantuno...» Non menzionò di nuovo registri segreti o insurrezioni, ma non era necessario. Più di una volta durante la lezione si interruppe, accigliandosi verso qualcosa oltre Egwene, e lei non aveva dubbi di cosa si trattasse.

Più tardi quel giorno, Lirene Doirellin disse: «Sì, Elaida ha commesso un errore madornale in quel caso.» E camminava avanti e indietro di fronte al caminetto del suo soggiorno. La Sorella cairhienese era solo poco più bassa di Egwene, ma il modo nervoso in cui i suoi occhi dardeggiavano le dava l’aria di una preda braccata, un passero timoroso dei gatti e convinto che ce ne fossero parecchi nelle vicinanze. Le sue gonne verde scuro avevano solo quattro discrete sferzate di rosso, anche se una volta era stata un’Adunante. «Quel suo proclama, oltre al tentativo di rapirlo, non avrebbe potuto avere un effetto peggiore nel tenere il ragazzo al’Thor il più lontano possibile dalla Torre. Oh, ha commesso degli errori, Elaida.»

Egwene voleva domandare di Rand e del rapimento — rapimento? —, ma Lirene non le lasciò alcun varco nel proseguire sui molti errori di Elaida, continuando a camminare avanti e indietro nel frattempo, scoccando ripetute occhiate alle sue mani che torceva inconsciamente. Egwene non era certa se quella sessione potesse essere definita o meno un successo, ma almeno non era un fallimento. E aveva appreso qualcosa.

Non tutti i suoi tentativi andarono così bene, ovviamente.

«Questa non è una discussione» disse Pritalle Nerbaijan. Il suo tono era del tutto calmo, tuttavia i suoi occhi verdi obliqui erano fiammeggianti. Le sue stanze parevano più quelle di una Verde che non di una Gialla, con diverse spade sguainate che pendevano alle pareti e un arazzo di seta che raffigurava uomini che combattevano dei Trolloc. Teneva stretta l’elsa del pugnale alla sua cinta d’argento intrecciato. Non un semplice coltello da cintura: un pugnale con una lama lunga quasi un piede e uno smeraldo che sormontava il suo pomello. Perché avesse acconsentito a tenere lezione a Egwene era un mistero, dato il suo disprezzo per l’insegnamento. Forse era perché si trattava di Egwene. «Tu sei qui per una lezione sui limiti del potere. Una lezione molto basilare, adatta a una novizia.»

Egwene voleva cambiare posizione sullo sgabello a tre gambe che Pritalle le aveva dato per sedersi, ma invece si concentrò sul bruciore, decisa ad assorbirlo. Ad accoglierlo. Quel giorno aveva già visitato tre volte Silviana e poteva percepire una quarta in arrivo... e mancava ancora un’ora al pasto di mezzogiorno. «Mi sono limitata a dire che se è stato possibile che Shemerin fosse ridotta da Aes Sedai ad Ammessa, allora il potere di Elaida non ha limiti. Perlomeno, lei pensa che sia così. E se anche tu lo accetti è davvero così.»

La stretta di Pritalle si serrò sull’elsa del pugnale finché le sue nocche non sbiancarono, tuttavia parve non accorgersene. «Dal momento che pensi di saperne più di me» disse in tono freddo «puoi far visita a Silviana quando avremo finito.» Un successo parziale, forse. Egwene non pensava che la rabbia di Pritalle fosse rivolta a lei.

«Mi aspetto un comportamento consono da parte tua» le disse con fermezza Serancha Colvine un altro giorno. La parola per descrivere la Sorella Grigia era ‘stretta’. Bocca stretta e un naso stretto che pareva fiutare in continuazione un cattivo odore. Perfino i suoi pallidi occhi azzurri sembravano stretti di disapprovazione. Altrimenti sarebbe potuta essere graziosa. «Capisci?»

«Capisco» disse Egwene, mettendosi a sedere sullo sgabello che era stato posto di fronte alla sedia dall’alto schienale di Serancha. La mattina era fresca e un fuocherello ardeva nel caminetto di pietra. Assorbire il dolore. Accogliere il dolore.

«Una risposta non corretta» disse Serancha. «La risposta corretta sarebbe stata una riverenza e: ‘Capisco, Serancha Sedai.’ Intendo stilare una lista delle tue mancanze affinché tu la porti a Silviana quando avremo terminato. Ricominciamo. Capisci, bambina?»

«Capisco» disse Egwene senza alzarsi. Serenità da Aes Sedai o meno, il volto di Serancha divenne viola. Alla fine il suo elenco coprì quattro pagine in una calligrafia minuta e illeggibile. Passò più tempo a scrivere che a fare lezione! Non un successo.

E poi ci fu Adelorna Bastine. La Verde saldeana in qualche modo riusciva ad apparire imponente nonostante fosse magra e non più alta di Egwene, e aveva un’aria imperiosa e regale che avrebbe potuto intimidirla, se Egwene l’avesse permesso. «Ho sentito che crei problemi» disse, prendendo una spazzola col manico d’avorio da un tavolino istoriato accanto alla sua sedia, «Se provi a creare problemi con me, imparerai che so come usare questa.»

Egwene lo apprese senza provarci. Per tre volte si ritrovò in grembo a Adelorna, e la donna sapeva davvero come usare una spazzola non solo per pettinarsi i capelli. Quello fece prolungare la lezione da un’ora a due.

«Posso andare ora?» disse infine Egwene asciugandosi le lacrime meglio che poteva con un fazzoletto che era già umido. Inspirare il dolore. Assorbire il fuoco. «Mie stato assegnato il compito di portare su l’acqua per la Rossa e non voglio arrivare tardi.»

Adelorna si accigliò verso la sua spazzola prima di tornare al tavolo che Egwene aveva rovesciato due volte scalciando. Poi si accigliò verso Egwene, squadrandola come se stesse cercando di guardare dentro il suo cranio. «Come vorrei che Cadsuane fosse nella Torre» mormorò. «Credo che ti reputerebbe una sfida.» Pareva esserci un pizzico di rispetto nella sua voce.

Quel giorno fu un punto di svolta per certi versi. Per esempio, Silviana decise che Egwene doveva ricevere la Guarigione due volte al giorno.

«Pare che tu invogli a essere picchiata, bambina. E pura testardaggine e io non la tollererò. Tu affronterai la realtà. La prossima volta che mi farai visita, vedremo se ti piace la cinghia.» La Maestra delle novizie le ripiegò la sottana sopra la schiena, poi si soffermò. «Stai sorridendo? Ho forse detto qualcosa di divertente?»

«Ho solo pensato a qualcosa di spassoso» disse Egwene. «Nulla di importante.» Nulla di importante per Silviana, perlomeno. Si era resa conto di come accogliere il dolore. Stava combattendo una guerra, non una singola battaglia, e ogni volta che veniva picchiata, ogni volta che veniva mandata da Silviana, era un segno che aveva combattuto una nuova battaglia e si era rifiutata di arrendersi. Il dolore era un medaglia al valore. Gridò e scalciò più forte che mai durante quella sessione, ma mentre dopo si stava asciugando le lacrime, canticchiò piano fra sé. Era facile accogliere una medaglia al valore.

Gli atteggiamenti tra le novizie parvero mutare dal secondo giorno della sua prigionia. Pareva che Nicola — e Areina, che stava lavorando nelle stalle e spesso andava a far visita a Nicola; sembravano così intime che Egwene si domandò se fossero diventate amiche di letto, sempre con le loro teste assieme e rivolgendosi sorrisi misteriosi — Nicola e Areina le avevano intrattenute tutte con racconti su di lei. Racconti molto gonfiati. Le due donne l’avevano fatta sembrare una combinazione di ogni Sorella leggendaria nelle storie, assieme a Birgitte Arco d’Argento e ad Amaresu in persona, che portava la Spada del Sole in battaglia. Metà di loro pareva in soggezione, mentre le altre erano arrabbiate con lei per qualche motivo oppure del tutto sdegnose. Scioccamente, alcune cercavano di emulare il suo comportamento durante le loro lezioni, ma una numerosa serie di visite da Silviana bastò a sedarle. Al pasto di mezzodì del terzo giorno, quasi due dozzine di novizie mangiarono stando in piedi e col volto rosso per l’imbarazzo, Nicola fra loro. E Alvistere, sorprendentemente. Quel numero scese a sette a cena, e il quarto giorno furono solo Nicola e la ragazza cairhienese. E poi basta.

Si aspettava che alcune potessero risentirsi per il fatto che lei continuava a rifiutare di piegarsi mentre loro erano state riportate all’ordine così in fretta, ma al contrario parve soltanto far diminuire il numero di quelle che erano arrabbiate o sdegnale e aumentare il rispetto. Nessuna cercò di diventare sua amica, il che andava bene. Abito bianco o no, lei era Aes Sedai, e non era appropriato che una Aes Sedai stringesse amicizia con una novizia. Era troppo il rischio che una ragazza iniziasse a darsi troppe arie e si mettesse nei guai per questo. Le novizie cominciarono ad andare da lei per chiederle consigli e per essere aiutate con le loro lezioni, però. Solo una manciata sulle prime, ma il numero cresceva giorno dopo giorno. Lei era disposta ad aiutarle ad apprendere, il che di solito consisteva soltanto nel rafforzare l’autostima di una ragazza o convincere una giovane donna che la cautela era saggia, oppure condurla con pazienza attraverso i vari passi di un flusso che stava dando problemi. Alle novizie era proibito incanalare senza la presenza di una Aes Sedai o di una Ammessa, anche se quasi sempre lo facevano comunque in segreto, ma lei era una Sorella. Si rifiutava di aiutarne più di una per volta, però. Le notizie di gruppi di certo sarebbero trapelate e lei non sarebbe stata l’unica a essere inviata da Silviana. Era disposta ad andarci quanto spesso era necessario, ma non voleva esserne la causa per altre. E per quanto riguardava i consigli... Con novizie tenute rigorosamente lontane dagli uomini, quei consigli erano semplici. Anche se tensioni fra amiche di letto potevano essere severe quanto quelle causate dagli uomini.

Una sera, di ritorno da un’altra sessione con Silviana, le capitò di udire Nicola che parlava con due novizie che non potevano avere più di quindici o sedici anni. Egwene si ricordava a stento di essere stata così giovane. Pareva passata una vita. Marah era una Murandiana tarchiata con occhi azzurri sbarazzini, Namene una Domanese alta e magra che stava sempre a ridacchiare.

«Chiedete alla Madre» disse Nicola. Alcune delle novizie avevano preso a chiamare Egwene a quel modo, anche se mai quando c’era nei paraggi qualcuna che non vestiva il bianco. Erano sciocche, ma non delle complete idiote. «E sempre disponibile a dare consigli.»

Namene ridacchiò nervosamente e si torse le mani. «Non vorrei disturbarla.»

«Inoltre,» disse Marah con voce cantilenante «dicono che da sempre gli stessi consigli, lei.»

«E sono buoni consigli.» Nicola sollevò una mano per contare sulle dita. «Obbedisci alle Aes Sedai. Obbedisci alle Ammesse. Lavora sodo. Poi lavora più sodo ancora.»

Dirigendosi verso la sua stanza, Egwene sorrise. Non era stata capace di far comportare Nicola a dovere mentre era apertamente Amyrlin, ma pareva che ci fosse riuscita mascherandosi da novizia. Notevole.

Cera un’altra cosa che poteva fare per loro: confortarle. Per impossibile che sembrasse sulle prime, l’interno della Torre a volte cambiava. La gente si perdeva cercando di trovare stanze in cui era stata dozzine di volte. Venivano viste donne uscire dai muri o entrarvi, spesso con indosso abiti dal taglio antico o talvolta con un abbigliamento bizzarro, vestiti lunghi che parevano semplici pezzi di stoffa dai colori vivaci avvolti attorno al corpo, tabarri ricamati lunghi fino alle caviglie indossati sopra pantaloni ampi e cose ancora più strane. Per la Luce, quando mai qualche donna avrebbe potuto voler indossare un abito che lasciava il suo seno completamente scoperto? Egwene fu in grado di discuterne con Siuan nel Tel’aran’rhiod, così apprese che quelle cose erano segni dell’approssimarsi di Tarmon Gai’don. Un pensiero spiacevole, eppure non c’era nulla da fare al riguardo. Quello che era... era, tanto più che Rand stesso era un annunciatore dell’Ultima Battaglia. Anche alcune delle Sorelle nella Torre dovevano aver saputo cosa significava tutto quello, ma coinvolte nelle loro faccende personali, non facevano alcuno sforzo per confortare le novizie che piangevano per lo spavento. Egwene sì.

«Il mondo e pieno di strani prodigi» disse a Coride, una ragazza dai capelli chiari che stava singhiozzando a faccia in giù sul suo letto. Solo un anno più giovane di lei, Coride era decisamente ancora una ragazza malgrado un annue mezzo nella Torre. «Perché sorprendersi se alcuni di quei prodigi appaiono nella Torre Bianca? Quale posto migliore?» Non menzionò mai l’Ultima Battaglia a quelle ragazze. Quello non sarebbe stato certo di conforto.

«Ma ha attraversato un muro!» gemette Coride, sollevando la testa. Il suo viso era rosso e chiazzato e le guance luccicavano umide. «Un muro! E poi nessuna di noi riusciva a trovare l’aula, e nemmeno Pedra, e poi se l’è presa con noi. Pedra non se la prende mai. Anche lei era spaventata!»

«Scommetto che Pedra non ha cominciato a piangere, però.» Egwene si sedette sul bordo del letto della ragazza e fu lieta di non essere trasalita. I materassi delle novizie non erano noti per la loro morbidezza. «I morti non possono fare del male ai vivi, Coride. Non possono toccarci. Pare che non ci vedano nemmeno. Inoltre si tratta di iniziate della Torre oppure servitori qui. Questa era la loro casa quanto la nostra. E per quanto riguarda stanze o corridoi che non si trovano dove dovrebbero essere, ricorda solo che la Torre è un luogo di meraviglie. Ricordati questo e non ti spaventeranno.» Le pareva un’argomentazione debole, ma Coride si asciugò gli occhi e giurò che non si sarebbe lasciata spaventare mai più. Purtroppo c’erano centodue come lei, non tutte che si lasciavano confortare con altrettanta facilità. Era sufficiente per rendere Egwene più arrabbiata verso le Sorelle della Torre di quanto non lo fosse già.

Le sue giornate non erano tutte lezioni, confortare le novizie e punizioni dalla Maestra delle novizie, anche se quest’ultima occupava una spiacevole quantità di ogni giornata. Silviana aveva avuto ragione a dubitare che avrebbe avuto molto tempo libero. Alle novizie venivano sempre affidate diverse faccende. Spesso si trattava di lavoro pensato apposta, dal momento che la Torre aveva ben oltre mille servitori e servitrici senza contare gli operai, ma il lavoro fisico aiutava a forgiare il carattere, così la Torre aveva sempre creduto. In più contribuiva a mantenere le novizie troppo stanche per pensare agli uomini, in teoria. Lei era caricata con più faccende di quelle che erano date alle novizie, però. Alcune erano assegnate dalle Sorelle che la consideravano una fuggitiva, altre da Silviana nella speranza che la stanchezza avrebbe smussato la punta della sua ‘ribellione’.

Ogni giorno, un pasto dopo l’altro, sfregava pentole sporche con sale grosso e una spazzola rigida nella stanza di lavoro della cucina principale. Di tanto in tanto Laras taceva capolino, ma non parlava mai. E non usava mai il suo lungo cucchiaio, perfino quando Egwene si massaggiava i reni, doloranti per essere stata piegata a testa in giù in un pentolone, invece di sfregare. Laras dispensava cucchiaiate in abbondanza agli sguatteri e ai sottocuochi che cercavano di giocare degli scherzi a Egwene, com’era abitudine per novizie mandate a lavorare nelle cucine. Apparentemente questo era dovuto soltanto al fatto che, come Laras annunciava ogni volta che vibrava il suo cucchiaio, avevano fin troppo tempo per giocare quando non dovevano lavorare, ma Egwene notò che Laras non era così lesta quando qualcuno dava una pacca sul sedere a una delle vere novizie o le rovesciava una tazza di acqua gelata dietro la schiena. Pareva che lei avesse una sorta di alleato. Se solo fosse riuscita a capire come avallarsene.

Trasportava secchi d’acqua che pendevano dalle estremità di un’asta in equilibrio sulle sue spalle alla cucina, agli alloggi delle novizie, agli alloggi delle Ammesse, su fino agli alloggi delle Ajah. Portava pasti a Sorelle nelle loro camere, rastrellava i viottoli del giardino, estirpava le erbacce, svolgeva commissioni per le Sorelle, assisteva le Sorelle, spazzava i pavimenti, passava lo straccio sui pavimenti, strofinava i pavimenti sulle mani e sulle ginocchia, e questa era solo una lista incompleta. Non si tirava mai indietro da quei compiti, e solo in parte perché in tal modo non avrebbe fornito a nessuna una scusa per chiamarla pigra. In un certo senso li vedeva come una penitenza per non essere stata adeguatamente pronta prima di tramutare la catena del porto in cuendillar. Le penitenze dovevano essere sopportate con dignità, tutta la dignità che si poteva avere mentre si strofinava un pavimento, perlomeno.

Inoltre visitare gli alloggi delle Ammesse le dava un’opportunità per vedere come la consideravano. Ce n’erano trentuno nella Torre, ma in ogni momento alcune stavano insegnando alle novizie e altre stavano prendendo le loro lezioni, perciò di rado ne trovava più di dieci o dodici nelle loro stanze attorno al pozzo a nove livelli chì circondava un piccolo giardino. La notizia del suo arrivo si diffondeva sempre presto, però, e non le mancava mai un pubblico. Sulle prime, parecchie di loro cercavano di sommergerla di ordini, in particolare Mair, una grassoccia Arafelliana dagli occhi azzurri, e Asseil, una Tarabonese magra con capelli chiari e occhi castani. Erano state novizie quando lei era giunta alla Torre e, quando se n’era andata, erano già gelose della sua rapida ascesa ad Ammessa. Con loro una frase ogni due era “va’ a prendere quello” oppure “porta questo”. Per tutte quante te era la “novizia” che aveva causato così tante difficoltà, la “novizia” che si credeva di essere l’Amyrlin Seat. Lei trasportava secchi d’acqua finché non le doleva la schiena, senza lamentarsi, eppure si rifiutava di obbedire ai loro ordini. Il che le fruttava altre visite alla Maestra delle novizie, naturalmente. Col passare dei giorni, man mano che quelle sue continue visite allo studio di Silviana non mostravano alcun effetto però, il flusso di comandi diminuì e infine cessò. Asseil e Mair non avevano davvero cercato di essere cattive, ma solo di comportarsi come credevano di dover fare date le circostanze, e non avevano idea di cosa fare con lei.

Alcune delle Ammesse mostravano segni di spavento per i morti che camminavano e per l’interno della Torre che mutava, e ogni volta che lei vedeva un volto esangue o rigato di lacrime diceva le stesse cose che usava con le novizie rivolgendosi direttamente alla donna, cosa che avrebbe potuto irritarla invece di calmarla, ma come se stesse parlando tra sé. Funzionava con le Ammesse come con le novizie. Molte sussultavano quando lei iniziava, oppure aprivano la bocca come per dirle di tacere, tuttavia nessuna lo faceva e si lasciava sempre alle spalle un’espressione pensierosa. Le Ammesse continuavano a uscire sui ballatoi, con ringhiere di pietra quando lei entrava, ma la osservavano in silenzio come chiedendosi cosa fosse. Prima o poi glielo avrebbe insegnato a loro e alle Sorelle.

Assistendo Adunanti e Sorelle, una donna in bianco in piedi e in silenzio nell’angolo diventava presto parte del muro perfino quando era una persona nota. Se s’accorgevano di lei cambiavano argomento, tuttavia le capitò di udire molti brandelli di informazioni, spesso di piani per vendicare qualche insulto ricevuto o qualche torto commesso da un altra Ajah. Stranamente, parecchie delle Sorelle parevano vedere le altre Ajah all’interno della Torre come nemiche più di come facessero con le Sorelle nell’accampamento fuori dalla città e le Adunanti non erano molto meglio. Le faceva venir voglia di schiaffeggiarle. Vero, contribuiva a rendere migliori i rapporti quando altre Sorelle facevano ritorno alla torre, tuttavia...

Venne a sapere altre cose. L’incredibile disastro che si era abbattuto su una spedizione inviata contro la Torre Nera. Alcune delle Sorelle parevano non crederci, tuttavia sembrava che cercassero di convincere loro stesse che non poteva essere accaduto. Altre Sorelle catturate dopo una grande battaglia e in qualche modo costrette a giurare fedeltà a Rand. Ne aveva già avuto sentore e non poteva piacerle più del fatto che alcune Sorelle fossero vincolate a degli Asha’man. Essere ta’veren o il Drago Rinato non era una scusa. Nessuna Aes Sedai prima d’allora aveva mai giurato fedeltà a nessun uomo. Le Sorelle e le Adunanti discutevano di chi fosse la colpa, ma Rand e gli Asha’man erano in cima alla lista. E un nome continuava a comparire: Elaida do Avriny a’Roihan. Parlavano anche di Rand, di come trovarlo prima di Tarmon Gai’don. Sapevano che stava arrivando malgrado non consolassero le novizie e le Ammesse, e non vedevano l’ora di mettere le mani su di lui.

Alle volte lei arrischiava un commento, un accenno al fatto che Shemerin fosse stata privata dello scialle contro tutte le tradizioni, un’insinuazione che l’editto di Elaida su Rand fosse il modo migliore al mondo per renderlo ostinato a fare a modo suo. Offriva la sua solidarietà per le Sorelle catturate dagli Asha’man, per quelle prese ai Pozzi di Dumai — lasciandovi cadere il nome di Elaida — oppure si rammaricava perla trascuratezza che faceva sì che l’immondizia marcisse nelle strade una volta immacolate di Tar Valon. Non c’era bisogno di menzionare Elaida per quello: sapevano chi era responsabile di Tar Valon. A volte quei commenti le fruttavano altre visite allo studio di Silviana e ulteriori faccende, eppure con sua sorpresa a volte non era così. Prendeva nota con attenzione delle Sorelle che si limitavano a dirle di tacere. O, meglio ancora, che non dicevano nulla. Alcune addirittura annuivano in assenso prima di potersi contenere.

Alcune di quelle faccende condussero a incontri interessanti.

La mattina del suo secondo giorno stava usando un rastrello dal lungo manico di bambù per tirar fuori del fogliame dall’acqua dei laghetti del Giardino Acquatico. C’era stato un acquazzone la notte prima e i forti venti avevano depositato fogliame ed erba nei laghetti fra le foglie verdi delle grosse ninfee colorate e gli iris d’acqua in gemmazione, e perfino un passero morto che lei seppellì con calma in una delle aiole. Un paio di Rosse se ne stavano su uno dei ponti ad arco del laghetto, appoggiate sulla convoluta ringhiera di pietra a osservare lei e i pesci che si muovevano rapidi sotto di loro in un turbine di rosso, oro e bianco. Mezza dozzina di cornacchie balzarono su da una delle ericacee e si diressero silenziose verso nord. Cornacchie! Si supponeva che i terreni della Torre fossero schermati contro corvi e cornacchie. Le Rosse non parvero accorgersene.

Lei era acquattata sui talloni accanto a uno dei laghetti a lavarsi via la terra dalle mani dopo aver seppellito il misero uccellino quando comparve Alviarin, con il suo scialle frangiato di bianco avvolto stretto attorno a lei come se la mattinata fosse ancora ventosa e non limpida e temperata. Quella era la terza occasione in cui vedeva Alviarin, e ogni volta era stata sola e non in compagnia di altre Bianche. Egwene aveva visto capannelli di Bianche nei corridoi, però. C’era forse un indizio in questo? Se era così, non riusciva a immaginare per cosa, a meno che Alviarin non fosse scansata dalla propria Ajah per qualche ragione. Di certo lo sfacelo non era arrivato così in profondità. Tenendo d’occhio le Rosse, Alviarin si avvicinò a Egwene lungo il grezzo sentiero ghiaioso che serpeggiava tra i laghetti. «Sei caduta molto in basso» disse quando le fu vicino. «Devi rimpiangerlo mollo.»

Egwene si raddrizzò e si pulì le mani sulla gonna, poi raccolse il rastrello. «Non sono l’unica.» Aveva avuto un’altra sessione con Silviana prima dell’alba, e quando aveva lasciato lo studio della donna, Alviarin era stata lì ad attendere di entrare di nuovo. Quello era un rituale quotidiano per la Sorella Bianca, e negli alloggi delle novizie non si parlava d’altro, con ogni lingua che speculava sul perché. «Mia madre dice sempre di non piangere sul latte versato. Mi sembra un buon consiglio, date le circostanze.»

Deboli chiazze di colore comparvero sulle guance di Alviarin. «Ma pare che tu pianga un bel po’. In maniera incessante, stando a ciò che si dice. Di certo fuggiresti da questo, se potessi.»

Egwene catturò un’altra foglia di quercia col rastrello e la sospinse nel secchio di legno pieno di foglie bagnate ai suoi piedi. «La tua lealtà nei confronti di Elaida è molto forte, non è vero?»

«Perché dici questo?» chiese Alviarin sospettosa. Lanciando un’occhiata alle due Rosse, che ora sembravano prestare più attenzione ai pesci che a Egwene, si fece più vicina, sollecitando toni sommessi.

Egwene pescò un lungo filamento d’erba che doveva essere arrivato fin dalle pianure oltre il fiume. Doveva menzionare la lettera che questa donna aveva scritto a Rand, praticamente promettendogli la Torre Bianca ai suoi piedi? No, quel frammento di informazione poteva rivelarsi prezioso, ma pareva il genere di cosa che poteva essere utilizzata una volta sola. «Ti ha privato della stola della Custode degli Annali e ha ordinato la tua punizione. Questo non induce certo alla lealtà.»

Il volto di Alviarin rimase tranquillo, tuttavia le sue spalle si rilassarono visibilmente. Le Aes Sedai di rado mostravano così tanto. Doveva essere sotto una tensione straordinaria per avere così poco controllo su sé stessa. Scoccò un’altra occhiata alle Rosse. «Pensa alla tua situazione» disse quasi con un sussurro. «Se vuoi trovare una via di fuga da essa, be’, potresti essere in grado di farlo.»

«Sono contenta della mia situazione» disse Egwene semplicemente.

Le sopracciglia di Alviarin schizzarono all’insù dall’incredulità, ma con un’altra occhiata alle Rosse — ora una stava osservando loro e non i pesci — si allontanò a passo svelto, tanto rapido da sfociare quasi in una corsa.

Ogni due o tre giorni compariva mentre Egwene stava eseguendo le sue faccende e, per quanto non offrisse apertamente aiuto per una fuga, usava quella parola di frequente e iniziò a mostrare frustrazione quando Egwene si rifiutò di abboccare a quell’esca. Perché di esca si trattava, poco ma sicuro. Egwene non si fidava di quella donna. Forse era quella lettera, architettata di certo per attirare Rand alla Torre e nelle grinfie di Elaida, o forse era il modo in cui lei aspettava che Egwene facesse la prima mossa, che implorasse, possibilmente. Era probabile che in quel caso Alviarin avrebbe cercato di fissare le condizioni. In ogni caso, lei non aveva intenzione di fuggire a meno che non ci fosse stata altra scelta, perciò le dava sempre la stessa risposta.

«Sono contenta della mia situazione.»

Alviarin iniziò a digrignare i denti udibilmente quando la udiva.

Il quarto giorno era inginocchiata a sfregare piastrelle bianche e azzurre quando gli stivali di tre uomini accompagnati da una Sorella in un abito di seta grigia ricamato di rosso la superarono. A pochi passi di distanza, gli stivali si fermarono.

«Quella è lei» disse la voce di un uomo con un accento illianese. «Mi è stata indicata. Credo che le parlerò.»

«È solo una novizia come le altre, Mattin Stepaneos» gli disse la Sorella. «Volevi passeggiare nei giardini.» Egwene intinse la sua spazzola nel secchio d’acqua saponata e iniziò un’altra serie di mattonelle.

«Che la fortuna mi pungoli, Cariandre, questa può pure essere la Torre Bianca, ma io sono ancora il legittimo re di Illian, e se voglio parlare con lei — con te ad assistere; tutto molto rispettabile e decoroso — allora parlerò con lei. Mi è stato detto che è cresciuta nello stesso villaggio di al’Thor.» Un paio di stivali, lucidati fino a risplendere, si avvicinò a Egwene.

Solo allora lei si alzò in piedi, con la spazzola colante in una mano. Usò il dorso dell’altra per scostarsi i capelli dal viso. Si astenne dal toccarsi i reni con le nocche, per quanto avrebbe voluto. Mattin Stepaneos era tarchiato e quasi del tutto calvo, con una barba bianca ben modellata alla maniera illianese e un volto carico di rughe. I suoi occhi erano penetranti e colmi di rabbia. Un’armatura sarebbe stata più adatta della giacca di seta verde ricamata con api dorate su maniche e risvolti che indossava. «Solo una novizia come le altre?» mormorò. «Ritengo che tu sia in errore, Cariandre.»

La grassoccia Rossa, con le labbra premute assieme, lasciò i due servitori con la fiamma di Tar Valon sul petto e si unì all’uomo dall’incipiente calvizie. Il suo sguardo di disapprovazione toccò brevemente Egwene prima di spostarsi su di lui.

«È una novizia che viene punita di continuo e ha un pavimento da strofinare. Andiamo. I giardini sono molto piacevoli stamattina.»

«Ciò che è piacevole» ribatte lui «è parlare con qualcun altro oltre a delle Aes Sedai. E solo dell’Ajah Rossa, per giunta, dal momento che riuscite a tenermi lontano dalle altre. E soprattutto i servitori che mi assegnate è come se fossero muti, e penso che anche le guardie della Torre abbiano ordine di trattenere la lingua con me nei paraggi.»

Tacque quando altre due Sorelle Rosse si avvicinarono. Nesita, paffuta, con gli occhi azzurri e cattiva come un serpente con la rogna, annuì socievolmente verso Cariandre mentre Barasine porse a Egwene l’ormai troppo familiare lazza di peltro. Pareva che fosse l’Ajah Rossa ad averla in custodia, in un certo senso — perlomeno le sue sorveglianti e badanti erano sempre Rosse — e di rado lasciavano passare molto più dell’ora promessa prima che qualcuna comparisse con la tazza di te di radice biforcuta. Lei tracannò l’infuso e gliela porse di nuovo. Nesita parve delusa che lei non protestasse o si rifiutasse, ma non pareva esserci scopo. Lo aveva fatto una volta, e Nesita aveva aiutato a versarle in gola quell’infuso ripugnante usando un cannello che aveva già pronto nel suo borsello alla cintura. Quella sì che sarebbe stata una bella manifestazione di dignità davanti a Mattin Stepaneos.

Lui osservò quello scambio silenzioso con perplesso interesse, anche se Cariandre gli strattonò la manica, esortandolo di nuovo a passeggiare nei giardini. «Le Sorelle ti portano acqua quando hai sete?» chiese mentre Barasine e Nesita si allontanavano.

«Un té che pensano possa migliorare il mio umore» gli rispose. «Hai un bell’aspetto, Mattin Stepaneos. Per un uomo rapito da Elaida.» Anche quella storia circolava negli alloggi delle novizie. Cariandre sibilò e aprì la bocca, ma lui parlò per primo, la mascella lesa. «Elaida mi ha salvato dall’essere ucciso da al’Thor» disse. La Rossa annui in approvazione.

«Perché mai ti consideri in pericolo da parte sua?» domandò Egwene.

L’uomo grugnì. «Ha assassinato Morgase a Caemlyn e Colavaere a Cairhien. Ha distrutto metà del Palazzo del Sole uccidendola, ho udito. E ho udito dei Sommi Signori di Tear avvelenati o pugnalati a morte a Cairhien. Chi può dire quali altri regnanti abbia ucciso per poi distruggerne i corpi?» Cariandre annuì di nuovo, sorridendo. Sarebbe potuto sembrare un bambino che recitava la sua lezione. Quella donna non comprendeva affatto gli uomini? Lui se ne accorse. La sua mascella si fece ancora più dura e le sue mani si serrarono in pugni per un momento.

«Colavaere si è impiccata» disse Egwene, assicurandosi di suonare paziente. «Il Palazzo del Sole è stato danneggiato in seguito da qualcuno che cercava di uccidere il Drago Rinato, forse i Reietti, e stando a Elayne Trakand, sua madre è stata assassinata da Rahvin. Rand ha annunciato il suo sostegno alla sua rivendicazione del Trono del Leone e del Trono del Sole. Non ha ucciso nessuno dei nobili cairhienesi ribellatisi contro di lui o i Sommi Signori in rivolta. In effetti ha nominato uno di loro suo Sovrintendente a Tear.»

«Credo che questo sia...» esordì Cariandre, tirando il suo scialle sopra le spalle, ma Egwene proseguì sovrastandola.

«Qualunque Sorella avrebbe potuto dirti tutto questo. Se avesse voluto. Se si parlassero tra loro. Pensa al perché vedi solo Sorelle Rosse. Hai mai visto Sorelle di due Ajah qualunque parlare? Sei stato rapito e portato a bordo di una nave che affonda.»

«Questo è troppo» sbottò Cariandre sopra l’ultima frase di Egwene. «Quando avrai finito di sfregare questo pavimento, correrai dalla Maestra delle novizie e le chiederai di punirti per esserti sottratta ai tuoi compiti. E per aver mostrato mancanza di rispetto verso una Aes Sedai.»

Egwene incontrò con calma lo sguardo furioso della donna. «Ho a malapena abbastanza tempo dopo aver finito di pulire prima della mia lezione con Kiyoshi. Posso far visita a Silviana dopo la lezione?»

Cariandre spostò il suo scialle, apparentemente colta alla sprovvista dalla sua calma. «Questo è un problema che devi risolvere tu» disse infine. «Vieni, Mattin Stepaneos. Hai contribuito a distrarre questa bambina dai suoi doveri troppo a lungo.» Non ci fu tempo di cambiarsi l’abito bagnato o nemmeno di pettinarsi i capelli dopo aver lasciato lo studio di Silviana, non se voleva avere qualche speranza di arrivare in tempo alla lezione di Kiyoshi senza correre, cosa che si rifiutava di fare. Questo la fece arrivare tardi, e venne fuori che la Grigia alta e snella era una maniaca dell’ordine e della puntualità, cosa che la rimandò a strillare e a scalciare sotto i forti colpi della cinghia di Silviana poco più di un’ora dopo. A parte abbracciare il dolore, qualcos’altro la aiutò a superare quella sessione. Il ricordo dell’espressione pensierosa di Mattin Stepaneos mentre Cariandre lo conduceva lungo il corridoio e come per due volte l’avesse guardata da sopra la spalla. Aveva piantato un altro seme. Una volta piantati abbastanza, forse quello che sarebbe germogliato avrebbe provocato delle fratture in quelle crepe nella piattaforma sotto Elaida. Abbastanza semi l’avrebbero rovesciata.

All’inizio del suo settimo giorno di prigionia, stava portando di nuovo dell’acqua su nella Torre, agli alloggi dell’Ajah Bianca, quando si fermò all’improvviso sui suoi passi sentendo come se avesse ricevuto un forte pugno nello stomaco. Due donne in scialli frangiati di grigio stavano scendendo lungo il corridoio a spirale verso di lei, seguite da un paio di Custodi. Una era Melavaire Someinellin, una tozza cairhienese in un elegante abito di lana grigia con del bianco che le punteggiava i capelli scuri. L’altra, con occhi azzurri e capelli color miele scuro, era Beonin!

«Allora sei stata tu a tradirmi!» esclamò Egwene con rabbia. Le venne in mente un pensiero. Come aveva fatto Beonin a tradirla dopo averle giurato fedeltà? «Devi essere dell’Ajah Nera!»

Melavaire si mise dritta il più possibile, che non era molto dato che era di qualche pollice più bassa di Egwene, e piantò i pugni sugli ampi fianchi mentre apriva la bocca per riversare su di lei un fiotto d’ira, Egwene aveva ricevuto una lezione da lei, e per quanto di solito fosse una donna gentile, quando si arrabbiava diventava temibile.

Beonin appoggiò una mano sul braccio grassottello dell’altra Sorella. «Lascia che parli con lei da sola, per favore, Melavaire.» «Confido che le parlerai severamente» disse Melavaire con voce decisa. «Anche solo pensare di rivolgere un’accusa del genere... ! Solo menzionare certe cose... ! » Scuotendo la testa dal disgusto, si ritirò un poco su per il corridoio seguita dal suo Custode, tarchiato e perfino più ampio di lei, un uomo simile a un orso anche se si muoveva con la solita grazia da Custode.

Beonin fece un gesto e attese finché il suo Custode, un uomo snello con una lunga cicatrice in volto, non si unì a loro. Lei si aggiustò lo scialle diverse volte. «Non ho tradito nulla, io» disse con calma.

«Non mi sarei votata a te tranne che le Adunanti, quelle mi avrebbero fatto fustigare se avessero appreso i segreti che conoscevi. Forse più di una volta, perfino. Una ragione sufficiente per giurare, no? Non ho mai finto di apprezzarti, tuttavia ho mantenuto quel giuramento finché non sei stata catturata. Ma tu non sei più Amyrlin, sì? Non come prigioniera, non quando non c’è speranza che tu venga liberata, quando hai rifiutato il salvataggio. E sei di nuovo una novizia, perciò il giuramento, quello ha due ragioni per non essere più valido. Le chiacchiere sulla ribellione, queste non sono state che discorsi insensati. La ribellione è finita. La Torre Bianca, presto essa sarà di nuovo integra, e a me non dispiacerà fare in modo che sia così.»

Sollevando l’asta dalle sue spalle, Egwene posò i secchi d’acqua e incrociò le braccia sotto i seni. Aveva cercato di mantenere un atteggiamento calmo da quando era stata catturata — be’, tranne quando veniva punita — ma quell’incontro avrebbe messo alla prova una pietra. « Hai spiegazioni a profusione» disse in tono asciutto. «Stai cercando di convincere te stessa? Non funzionerà, Beonin. Non funzionerà. Se la ribellione è davvero finita, dov’è il flusso di Sorelle che vengono a inginocchiarsi davanti a Elaida e accettare la loro penitenza? Per la Luce, cos’altro hai tradito? Tutto quanto?» pareva probabile. Lei aveva visitato lo studio di Elaida diverse volte nel Tel’aran’rhiod, ma la scatola della corrispondenza di quella donna era sempre stata vuota. Ora sapeva perché.

«Hai tradito i furetti. Sono tutte giù nelle celle del sotterraneo?»

Gli occhi di Beonin guizzarono su per il corridoio. Melavaire stava parlando col suo Custode, con la testa china vicino alla sua. Tarchiato o no, era più alto di lei. Tervail di Beonin la stava osservando con un’espressione preoccupata. La distanza era troppo grande perché qualcuno dei tre avesse udito, ma Beonin andò più vicino e abbassò la voce. «Elaida, lei le ha messe sotto sorveglianza, anche se penso che le Ajah, loro tengano quello che vedono per sé. Poche Sorelle vogliono dire a Elaida più di quello che devono. Era necessario, capisci. Non sarei certo potuta tornare alla Torre e mantenere il segreto su di loro. Prima o poi sarebbero state scoperte.»

«Allora dovrai avvisarle.» Egwene non riuscì a trattenere lo sdegno dalla propria voce. Quella donna stava tagliando i capelli con un rasoio! Aveva colto la minima scusa per decidere che il suo giuramento non era più valido e poi aveva tradito le stesse donne che lei aveva aiutato a scegliere. Sangue e maledette ceneri!

Beonin rimase in silenzio per un lungo istante, armeggiando con il proprio scialle, ma infine, con sua sorpresa, disse: «Ho già avvisato Meidani e Jennet.» Erano le due Grigie tra i furetti. «Ho fatto quello che potevo per loro. Le altre, loro devono affondare o stare a galla da sole. Delle Sorelle sono state assalite semplicemente per essersi avvicinate troppo agli alloggi di un’altra Ajah. Non tornerò nelle mie stanze con addosso soltanto lo scialle e i segni delle frustate solo per provare...»

«Considerala una penitenza» la interruppe Egwene. Per la Luce! Sorelle assalite? Le cose erano ancora peggio di quanto pensava. Dovette ricordare a sé stessa che un terreno ben concimato avrebbe aiutato i suoi semi a crescere.

Beonin lanciò un’altra occhiata su per il corridoio e Tervail fece un passo nella sua direzione prima che lei scuotesse il capo. Il suo volto era calmo malgrado il colore che le chiazzava le guance, ma dentro doveva essere in subbuglio. «Sai che potrei mandarti dalla Maestra delle novizie, sì?» disse con voce tesa. «Ho sentito che passi metà di ogni giornata a strillare da lei. Credo che non ti piacerebbero altre visite, sì?»

Egwene le sorrise. Nemmeno due ore prima era riuscita a sorridere nel momento in cui Silviana aveva smesso di vibrare la cinghia. Quello fu molto più difficile. «E chi può dire su cosa potrei strillare... Su dei giuramenti, forse?» Il colore defluì dalle gote dell’altra donna, lasciando il suo volto pallidamente esangue. No, non voleva che quello venisse allo scoperto. «Puoi aver convinto te stessa che io non sono più l’Amyrlin, Beonin, ma è tempo di cominciare a convincerti di nuovo che lo sono ancora. Avvertirai le altre, qualunque sia il costo per te. Dì loro di starmi lontane a meno che non dia ordine di fare altrimenti. Hanno già abbastanza attenzione su di loro. Ma d’ora in poi, tu mi verrai a cercare ogni giorno in caso io abbia istruzioni per loro. Ne ho alcune ora.» Rapidamente elencò gli argomenti che voleva tirassero fuori durante le conversazioni: il fatto che Shemerin era stata privata della stola, la complicità di Elaida nei disastri alla Torre Nera e ai Pozzi di Dumai, tutti i semi che aveva piantato. Ora non sarebbero stati seminati uno a uno, ma diffusi a manciate.

«Non posso parlare per altre Ajah, io,» disse Beonin quando lei ebbe finito «ma nella Grigia, le Sorelle discorrono spesso di molte di queste cose. Gli occhi e orecchie, loro sono occupati di recente. Segreti che Elaida sperava di mantenere, quelli stanno venendo allo scoperto. Sono certa che dev’essere lo stesso per le altre. Forse non è necessario che io...»

«Avvertile e riferisci le mie istruzioni, Beonin.» Egwene sollevò di nuovo l’asta sulle spalle, spostandola nella posizione più confortevole che riusciva a trovare. Due o tre delle Bianche avrebbero usato una spazzola o una pantofola su di lei e l’avrebbero mandata da Silviana se avessero pensato che era lenta. Abbracciare il dolore, accoglierlo perfino, non significava ricercarlo senza necessità. «Ricorda. È una penitenza che io ti ho impartito.»

«Farò come dici» ribatte Beonin con evidente riluttanza. Tutt’a un tratto i suoi occhi si indurirono, ma non per Egwene. «Sarebbe piacevole vedere Elaida deposta» disse con voce sgradevole prima di precipitarsi via e riunirsi a Melavaire.

Quell’incontro sconcertante, rivelatosi una vittoria inattesa, lasciò a Egwene un’ottima sensazione per il resto della giornata, e non ebbe importanza che Ferane pensò davvero che era lenta. La Sorella Bianca era grassoccia, ma aveva un braccio forte quanto quello di Silviana.

Quella notte lei si trascinò giù nelle celle aperte dopo cena malgrado non volesse altro che il proprio letto. A parte le lezioni e le urla sotto la cinghia di Silviana — l’ultima volta appena prima di cena — buona parte del resto della giornata era stata dedicata al trasportare acqua. Aveva schiena e spalle doloranti. Le facevano male braccia e gambe. Ondeggiava sui piedi per la spossatezza. Stranamente non aveva avuto nessuno di quei tremendi mal di testa da quando era stata presa prigioniera, né nessuno di quei sogni cupi che la lasciavano turbata anche se non riusciva mai a ricordarseli, ma pensò che quella notte le sarebbe arrivata una bella emicrania. Quello avrebbe reso difficile distinguere i veri sogni, e ne aveva avuti alcuni interessanti di recente, su Rand, Mat, Perrin e perfino Gawyn, anche se molti dei sogni su di lui lo erano già.

Tre Sorelle Bianche che conosceva di sfuggita erano a guardia di Leane: Nagora, una donna snella con capelli chiari portati arrotolati sulla nuca che sedeva molto dritta per compensare la sua mancanza di statura; Norine, amabile con quei grandi occhi limpidi, ma spesso distratta come qualunque Marrone; e Miyasi, alta e paffuta con capelli grigio ferro, una donna severa che non tollerava le sciocchezze e le vedeva dappertutto. Nagora, circondata dalla luce di saidar, teneva lo schermo su Leane, ma stavano discutendo su qualche argomentazione di logica che Egwene non riuscì a distinguere dal poco che udì. Non fu nemmeno in grado di capire se le posizioni sull’argomento erano due o tre. Nessuna alzava la voce o agitava i pugni e i loro volti rimanevano lisce maschere da Aes Sedai, ma la freddezza delle loro voci non lasciava dubbi che, se non fossero state delle Sorelle, si sarebbero messe a urlare se non ad azzuffarsi, Fra come se lei non esistesse, per quanta attenzione prestarono al suo ingresso.

Osservando le tre con la coda dell’occhio, si mosse più vicino che poteva ai tralicci di ferro e li afferrò con entrambe le mani per sorreggersi. Luce, com’era stanca! «Ho visto Beonin oggi» disse piano. «E qui nella Torre. Ha affermato che il suo giuramento verso di me non aveva più valore dal momento che non ero più Amyrlin Seat.»

Leane rimase senza fiato e si avvicinò tanto quasi da sfiorare le sbarre di ferro. «Lei ci ha tradito?»

«L’inerente impossibilità di strutture dissimulate è un fatto» disse Nagora con fermezza. La sua voce era come un martello gelido. «Un fatto.»

«Lei lo nega, e io le credo» sussurrò Egwene. «Ma ha ammesso di aver tradito i furetti. Per il momento Elaida le sta facendo solo sorvegliare, ma ho detto a Beonin di avvisarle e lei ha risposto che l’avrebbe fatto. Ha detto di aver già avvertito Meidani e Jennet, ma perché tradirle e poi dirglielo? E ha affermato che le piacerebbe vedere Elaida deposta. Perché fuggire da Elaida se vuole ancora che venga deposta? Praticamente ha ammesso che nessun’altra ha abbandonato la nostra causa. Mi manca qualcosa, e sono troppo stanca per capire cosa.» Uno sbadiglio che riuscì a malapena a coprire con una mano fece spalancare la sua mascella.

«Le strutture dissimulate sono sottintese da quattro dei cinque assiomi della razionalità del sesto ordine» ribatte Miyasi con altrettanta fermezza. «Fortemente sottintese.»

«La cosiddetta razionalità del sesto ordine è stata scartata come un’aberrazione da chiunque sia dotato di intelletto» si intromise Norine, un po’ bruscamente. «Ma le strutture dissimulale sono fondamentali per qualunque possibilità di capire cosa sta accadendo proprio qui nella Torre ogni giorno. La realtà stessa sta mutando, cambiando giorno per giorno.»

Leane lanciò un’occhiata alle Bianche. «Alcune hanno sempre pensato che Elaida avesse delle spie fra noi. Se Beonin era una di quelle, il suo giuramento a te avrebbe retto finché non si fosse convinta che non eri più l’Amyrlin. Ma la sua accoglienza qui non è stata ciò che si aspettava: deve aver cambiato la sua lealtà. Beonin è sempre stata ambiziosa. Se non riceve il dovuto che ritiene le spetti...» Allargò le mani. «Beonin si è sempre aspettala quello che le era dovuto e forse un po’ di più.»

«La logica è sempre applicabile al mondo reale,» disse Miyasi per congedare la questione «ma solo una novizia penserebbe che il mondo reale può essere applicato alla logica. Gli ideali divano essere i primi principi. Non il mondo comune.» Nagora chiuse la bocca con uno schiocco e un’occhiata cupa, come se pensasse che le parole le fossero state strappate di bocca.

Arrossendo debolmente, Norine si alzò e si allontanò rapida dalle panche verso Egwene. Le altre due la seguirono con gli occhi e lei parve percepire i loro sguardi, spostando il suo scialle a disagio prima da una parte, poi dall’altra. «Bambina, sembri esausta. Và a letto, ora.»

Egwene non voleva altro che il suo letto, ma aveva una domanda di cui le serviva la risposta prima. Solo doveva essere cauta. «Leane, le Sorelle che ti fanno visita pongono sempre le stesse domande?»

«Ti ho detto di andare a letto» disse Norine bruscamente. Batte le mani come se quello avrebbe in qualche modo fatto obbedire Egwene.

«Sì» rispose Leane. «Capisco cosa intendi. Forse può esserci una certa dose di fiducia.»

«Una piccola dose» disse Egwene.

Norine piantò i pugni sui fianchi, c’era poca freddezza nel suo volto o nella voce, e il suo atteggiamento era chiaro. «Dal momento che ti rifiuti di andare a letto, puoi andare dalla Maestra delle novizie e dirle che hai disobbedito a una Sorella.»

«Ma certo» si affrettò a dire Egwene, voltandosi per andarsene. Aveva la sua risposta — Beonin non aveva rivelato come Viaggiare, e questo voleva dire che probabilmente non aveva rivelato nient’altro: forse poteva esserci un po’ di fiducia — e inoltre Nagora e Miyasi stavano avanzando verso di lei. L’ultima cosa che voleva era essere trascinata a forza nello studio di Silviana, qualcosa che perlomeno Miyasi era capace di fare. Aveva braccia più forti perfino di Forane.

La mattina del suo nono giorno alla Torre, prima dell’alba, Doesine stessa venne nella stanzetta di Egwene per darle la sua dose mattutina di Guarigione. Fuori, la pioggia stava cadendo con un sordo ruggito. Le due Rosse che l’avevano sorvegliata durante il sonno le diedero la sua radice biforcuta, accigliandosi verso Doesine, e se ne andarono. La Sorella Gialla sbuffò dal disprezzo quando la porta si chiuse dietro di loro. Usò il vecchio metodo di Guarigione che fece annaspare Egwene come immersa in uno stagno gelato e la rese famelica per la colazione. E libera dal dolore al sedere. Quello le diede una sensazione davvero peculiare: col tempo ci si poteva abituare a tutto, e un sedere pieno di lividi già le sembrava normale. Ma l’uso del vecchio metodo, quello utilizzato per ogni Guarigione dalla sua cattura, riaffermò che Beonin aveva mantenuto alcuni segreti, anche se come ci fosse riuscita era ancora un mistero. Beonin stessa si era limitata a dire che molte Sorelle pensavano che le storie su nuovi flussi non fossero che dicerie.

«Non hai dannatamente intenzione di arrenderti, vero, bambina?» chiese Doesine mentre Egwene si stava infilando la veste dalla testa. Il linguaggio della donna era davvero in contrasto con il suo aspetto elegante, con un abito azzurro ricamato d’oro e zaffiri alle orecchie e tra i capelli.

«L’Amyrlin Seat dovrebbe arrendersi?» chiese Egwene quando la sua testa sbucò dal vestito. Piegò le braccia dietro di sé per allacciare i bottoni di corno tinti di bianco. Doesine sbuffò di nuovo, anche se non di disprezzo, penso Egwene. «Una linea coraggiosa, bambina. Tuttavia scommetto che Silviana riuscirà dannatamente a farti sedere dritta e camminare come si deve entro non molto tempo.» Ma se ne andò senza rimproverare Egwene per essersi denominata Amyrlin Seat.

Egwene aveva ancora un altro appuntamento con la Maestra delle novizie prima di colazione — finora non aveva saltato neanche un giorno — e con uno sforzo determinato di disfare il lavoro di Doesine in una sola volta, le sue lacrime cessarono non appena la cinghia di Silviana smise di calare. Quando si sollevò dall’estremità dello scrittoio, dov’era attaccata un’imbottitura di cuoio per piegarsi e la cui superficie era lisa da chissà quante donne, e quando la sua gonna e la sottana ricaddero contro la sua pelle in fiamme, non provò alcun impulso di sussultare. Accettò quel calore doloroso, lo accolse, si riscaldò con esso proprio come si sarebbe riscaldata le mani di fronte a un caminetto in un freddo mattino d’inverno, pareva esserci una forte somiglianza fra il suo e un caminetto ardente in quel momento. Eppure guardandosi allo specchio vide un volto imperturbato. Con le gote rosse, ma calmo.

«Come può Shemerin essere stata degradata ad Ammessa?» chiese asciugandosi le lacrime col suo fazzoletto. «Ho indagato e non esiste alcuna disposizione al riguardo nella legge della Torre.»

«Quante volte sei stata mandata da me per via di queste ‘indagini’?» chiese Silviana, appendendo la cinghia dall’estremità divisa nello stretto armadietto accanto alla spatola di cuoio e al frustino flessibile. «Pensavo che avessi lasciato perdere da un bel pezzo.»

«Sono curiosa. Come, dal momento che non esiste alcuna disposizione?»

«Nessuna disposizione, bambina,» disse Silviana con gentilezza, come spiegando davvero a una bambina «ma nemmeno nessuna proibizione. Una scappatoia che... Be’, non approfondiremo la questione.» Scuotendo il capo si mise a sedere dietro lo scrittoio e vi appoggiò sopra le mani. «Il problema è che Shemerin l’ha accettato. Altre Sorelle le hanno detto di ignorare l’editto, ma una volta resasi conto che le suppliche non avrebbero fatto cambiare idea all’Amyrlin, si è trasferita negli alloggi delle Ammesse.»

Lo stomaco di Egwene brontolò fragorosamente, desideroso di colazione, ma lei non aveva finito. Stava davvero avendo una conversazione con Silviana. Una conversazione, per quanto l’argomento fosse peculiare. «Ma perché fuggire? Di certo le sue amiche non hanno smesso di darle consigli assennati.»

«Alcune le hanno dato consigli assennati» disse Silviana in tono asciutto. «Altre...» Mosse le mani come i piatti di una bilancia, sollevando prima l’una poi l’altra. «Altre hanno cercato di costringerla a vedere la ragione. L’hanno mandata da me spesso quasi quanto te. Ho trattalo le sue visite come penitenze private, ma a lei mancava la tua...» Si interruppe all’improvviso, appoggiandosi all’indietro contro la sua sedia e studiando Egwene sopra dita unite a guglia. «Insomma. Mi hai davvero fatto chiacchierare. Non è proibito, certo, ma poco opportuno in queste circostanze. Và a fare colazione» disse, raccogliendo la penna e aprendo il tappo d’argento della sua boccetta d’inchiostro. « li segnerò di nuovo per mezzogiorno, dato che so che non hai intenzione di rivolgermi la riverenza.» Un minimo accenno di rassegnazione permeò la sua voce.

Quando Egwene entrò nel refettorio delle novizie, la prima che la vide si alzò in piedi, e all’improvviso ci fu un fragoroso raschiare di panche sulle piastrelle variopinte mentre anche le altre si alzavano. Rimasero lì in piedi in silenzio presso le loro panche mentre Egwene procedeva per la corsia centrale verso la cucina. Tutta un tratto Ashelin, una ragazza paffuta e graziosa dell’Altara, schizzò in cucina. Prima che Egwene raggiungesse la porta, Ashelin fu di ritorno con tra le mani un vassoio su cui c’era la solita grossa tazza di te fumante e il solito piatto di pane, olive e formaggio. Egwene fece per prendere il vassoio, ma la ragazza dalla carnagione olivastra si precipitò al tavolo più vicino e lo posò di fronte a una panca vuota, offrendole l’accenno di una riverenza mentre si faceva da parte. Per sua fortuna, nessuna delle Sorelle che scortavano Egwene quella mattina aveva scelto quel momento per far capolino nella sala da pranzo. Una fortuna per tutte quelle novizie in piedi.

Sulla panca di fronte al vassoio di Egwene era appoggiato un cuscino. Una cosa sbrindellata che aveva più rappezzi di colori diversi che stoffa originale, ma comunque un cuscino. Egwene lo raccolse e lo appoggiò all’estremità del tavolo prima di sedersi. Accogliere il dolore fu facile. Si beò nel calore del suo stesso fuoco. Un mormorio sommesso attraversò la stanza, un sospiro collettivo. Solo quando si mise un’oliva in bocca le novizie si sedettero.

Per poco non la sputò fuori — era quasi guasta —, ma era affamata dopo la sua Guarigione, perciò sputò soltanto il nocciolo nella propria mano e lo depositò sul piatto, lavando via il saporaccio con un sorso di té. Nel te c’era del miele! Le novizie ricevevano miele solo in occasioni speciali. Cercò di non sorridere mentre ripuliva il piatto, e fu davvero pulito, dato che raccolse le briciole di pane e i pezzetti di formaggio con un dito umido. Non sorridere fu difficile, però. Prima Doesine — un’Adunante! — poi la rassegnazione di Silviana, ora questo. Le due Sorelle erano molto più importanti delle novizie o del miele, ma tutto indicava la stessa cosa. Stava vincendo la sua guerra.

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