In memoria di Charles St. George Sinkler Adams
6 luglio 1976 — 13 aprile 2005
La dolcezza della vittoria e l’amarezza della sconfitta sono analoghe a una lama dei sogni.
Il sole, nella sua ascesa di mezza mattina, allungava le ombre di Galad e dei suoi tre compagni in armatura davanti a loro, mentre conducevano le loro cavalcature al trotto lungo la strada che attraversava la foresta, fitta di querce ed ericacee, pini e alberi della gomma, buona parte dei quali mostravano il rosso della rinascita primaverile. Galad tentò di mantenere la mente sgombra, sveglia, ma piccole questioni continuavano a intromettersi. Il giorno era silenzioso, tranne per lo scalpitio degli zoccoli dei loro cavalli. Nessun uccello cantava sui rami, nessuno scoiattolo squittiva. Troppo silenzioso per quel periodo dell’anno, come se la foresta stesse trattenendo il respiro. Una volta questa era stata un’importante via commerciale, molto prima che nascessero Amadicia e Tarabon, e frammenti di antiche pietre da pavimentazione talvolta punteggiavano la superficie in terra battuta di argilla giallastra. Un unico carretto da contadino molto più avanti seguiva un lento bue, unico segno di vita umana a parte loro stessi. Il commercio si era spostato parecchio a nord, in quella regione fattorie e villaggi scarseggiavano e le favoleggiate miniere di Aelgar rimanevano perdute nelle intricate catene montuose che si innalzavano solo poche miglia a sud. Nubi scure si ammassavano in quella direzione, minacciando pioggia entro il pomeriggio se avessero continuato la loro lenta avanzata. Un falco dalle ali rosse perlustrava avanti e indietro lungo il limitare degli alberi.
Il maniero che i Seanchan avevano concesso a Eamon Valda comparve alla vista e lui tirò le redini, desiderando avere la cinghia di un elmo da stringere come scusa. Invece dovette accontentarsi di aggiustare la fibbia della sua cintura portaspada, fingendo di essere seduto male. Non c’era stato motivo di indossare l’armatura. Se la mattinata fosse andata come sperato, avrebbe dovuto togliersi in ogni caso pettorale e cotta di maglia; e se fosse andata male, l’armatura avrebbe offerto poca protezione in più rispetto alla sua giubba bianca.
Già villetta di campagna del re di Amadicia, l’edificio era enorme, con il tetto azzurro, costellato di balconi dipinti di rosso; una struttura di legno con guglie dello stesso materiale agli angoli, in cima a delle fondamenta di pietra come una bassa collina dai fianchi ripidi. Gli edifici esterni, stalle e granai, le casette degli operai e le officine degli artigiani, erano tutti ravvicinati nel terreno della radura che circondava la residenza principale, ma erano quasi altrettanto fulgidi nelle loro tinte rosse e blu. Una manciata di uomini e donne si muoveva lì attorno, ancora piccole sagome da quella distanza, e i bambini giocavano sotto lo sguardo degli adulti. Un’immagine di normalità dove nulla era normale. I suoi compagni sedevano in sella nei loro elmi e pettorali bruniti, osservandolo senza espressione. I loro destrieri scalpitavano impazienti, senza che la breve cavalcata dall’accampamento avesse esaurito il loro vigore mattutino.
«E comprensibile che tu abbia dei ripensamenti, Damodred» disse Trom dopo un poco. «E un’accusa dura, amara quanto sfrontata, ma...»
«Nessun ripensamento per me» lo interruppe Galad. Le sue intenzioni erano state risolute fin dal giorno precedente. Era grato, però. Trom gli aveva fornito l’occasione di cui aveva bisogno. Erano semplicemente apparsi quando lui si era avviato, accostandosi senza dire una parola. Allora non era parso il momento adatto. «Ma voi tre? State correndo un rischio a venire qui con me. Un rischio che non dovete assumervi. Comunque vada la giornata, voi ne rimarrete segnati. Questa è una faccenda personale, e vi do il permesso di occuparvi delle vostre.» Parole troppo risolute, ma quella mattina non riusciva a trovarne altre o a sciogliere la gola.
L’uomo tarchiato scosse il capo. «La legge è legge. E sarebbe ora che facessi uso del mio nuovo grado.» I tre galloni a forma di stella da capitano campeggiavano sotto il sole fiammeggiante sulla cappa del suo mantello bianco. C’erano stati non pochi morti a Jeramel, inclusi non meno di tre dei lord capitani. Allora avevano combattuto i Seanchan, non erano alleati con loro.
«Ho commesso azioni fosche al servizio della Luce,» disse in tono cupo Byar con il volto scarno, i suoi occhi infossati che scintillavano come per un insulto personale «fosche come una notte senza luna, e probabilmente ne commetterò altre, ma ve ne sono alcune troppo fosche per essere consentite.» Pareva come sul punto di sputare.
«È giusto» borbottò il giovane Bornhald, passandosi una mano guantata sulla bocca. Galad pensava sempre a lui come a un ragazzo, anche se fra loro c’erano pochi anni di differenza. Gli occhi di Dain erano iniettati di sangue; si era dato di nuovo al liquore la notte precedente. «Se hai fatto qualcosa di sbagliato, seppure al servizio della Luce, allora devi fare qualcosa di giusto per riequilibrarlo.» Byar bofonchiò con amarezza. Probabilmente non era quello che aveva voluto dire.
«Molto bene,» riprese Galad «ma non v’è nessuna mancanza per chiunque torni sui suoi passi in questo caso. Le mie faccende qui sono soltanto mie.»
Tuttavia, quando spronò di nuovo il suo castrone baio al piccolo galoppo, fu lieto nel vedere gli altri fare lo stesso e cavalcare al suo fianco, con i mantelli bianchi che sventolavano alle loro spalle. Avrebbe proceduto da solo, naturalmente, eppure la loro presenza avrebbe potuto impedire che lui venisse arrestato e impiccato su due piedi. Non che si aspettasse di sopravvivere in ogni caso. Era necessario fare quello che andava fatto, a qualunque costo.
Gli zoccoli dei cavalli scalpitarono con fragore sulla rampa di pietra che saliva fino al maniero, così ogni uomo che si trovava nell’ampio cortile centrale si voltò a guardare mentre arrivavano: cinquanta dei Figli in maglia e piastre scintillanti ed elmi conici, perlopiù a cavallo, con stallieri amadiciani vestiti di scuro che, rannicchiati, tenevano gli animali per gli altri. I balconi interni erano vuoti tranne per alcuni servitori che parevano osservare fingendo di ramazzare. Sei Inquisitori, grossi uomini con il pastorale scarlatto verticale dietro il sole raggiato sui loro mantelli, erano assiepati attorno a Rhadam Asunawa, come guardie del corpo, distanti dagli altri. La Mano della Luce se ne stava sempre in disparte dal resto dei Figli, una scelta che loro approvavano. Asunawa, con i suoi capelli grigi e il volto mesto che faceva sembrare Byar ben in carne, era l’unico Figlio a non indossare l’armatura, e il suo mantello niveo recava solo il brillante pastorale rosso, un altro modo di distinguersi. Ma a parte notare chi era presente, Galad aveva occhi per un solo uomo nel cortile. Asunawa poteva essere stato coinvolto in qualche modo — questo rimaneva incerto — ma solo il lord capitano comandante poteva chiamare a rapporto il Sommo Inquisitore.
Eamon Valda non era un uomo imponente, ma il suo volto cupo e duro gli dava l’aria di chi si aspettava che gli fosse dovuta obbedienza. Come minimo. In piedi a gambe divaricate e testa alta, ogni briciolo di lui irradiava comando; indossava il tabarro bianco e oro del lord capitano comandante sopra le piastre dorate su petto e schiena, un indumento di seta confezionato più riccamente di qualunque altro Pedron Niall avesse mai portato. Il suo manto bianco, con un grande sole fiammeggiante da entrambi i lati in filo d’oro, era anch’esso di seta, così come la sua giubba bianca ricamata d’oro. L’elmo sottobraccio era dorato e inciso col sole fiammeggiante sulla fronte, e su un grosso anello d’oro alla mano sinistra, indossato sopra il guanto d’arme d’acciaio, risaltava un grosso zaffiro intagliato col sole raggiato. Un ulteriore segno di apprezzamento da parte dei Seanchan.
Valda si accigliò un poco quando Galad e i suoi compagni smontarono e gli rivolsero il saluto col braccio contro il petto. Stallieri ossequiosi giunsero a prendere loro le redini.
«Perché mai non sei in viaggio per Nassad, Trom?» Le parole di Valda erano tinte di disapprovazione. «Gli altri lord capitani saranno ormai a metà strada.» Lui stesso arrivava sempre tardi agli incontri con i Seanchan, forse per affermare che ai Figli rimaneva qualche brandello di indipendenza — trovarlo già pronto a partire era una sorpresa: questo incontro doveva essere importante, ma si assicurava ogni volta che gli ufficiali di alto rango arrivassero puntuali perfino quando ciò significava partire prima dell’alba. Apparentemente era meglio non tirare troppo la corda con i loro nuovi dominatori. La sfiducia verso i Figli era sempre forte nei Seanchan.
Trom non mostrava nulla dell’incertezza che ci si poteva aspettare da un uomo che deteneva il suo rango attuale a malapena da un mese. «Una questione urgente, mio lord capitano comandante» disse in tono calmo, rivolgendogli un inchino preciso, né più alto né più basso di quello che esigeva il protocollo. «Un Figlio sotto il mio comando accusa un altro dei Figli di aver abusato di una donna sua parente e reclama il Giudizio della Luce, che secondo la legge tu devi concedere o negare.»
«Una strana richiesta, figlio mio» disse Asunawa, inclinando la testa con aria interrogativa sopra mani serrate, prima che Valda potesse parlare. Perfino la voce del Sommo Inquisitole era addolorata: suonava afflitto per l’ignoranza di Trom. I suoi occhi parevano scuri tizzoni ardenti in un braciere. «Di solito era l’accusato a chiedere di affidare il giudizio alle spade, e abitualmente quando sapeva che le prove avrebbero dimostrato la sua colpevolezza, ritengo. In ogni caso, il Giudizio della Luce non viene invocato da quasi quattrocento anni. Forniscimi il nome dell’accusato e mi occuperò io della faccenda in modo discreto.» Il suo tono divenne gelido come una caverna invernale priva di sole, anche se i suoi occhi ardevano ancora. «Siamo fra estranei, e non possiamo permettere che sappiano che uno dei Figli è capace di una cosa del genere.»
«La richiesta era diretta a me, Asunawa» sbottò Valda. La sua occhiataccia poteva essere scambiata per odio palese. Forse si trattava solo di disprezzo per l’intromissione dell’altro uomo. Scostando un lato del mantello sopra la spalla per mostrare la sua spada con la guardia ad anello, appoggiò la mano sulla lunga elsa e si mise dritto. Sempre propenso a gesti plateali, Valda alzò la voce in modo che perfino le persone all’interno probabilmente lo udissero, e declamò piuttosto che limitarsi a parlare.
«Ritengo che molte delle nostre antiche usanze dovrebbero essere ripristinate, e quella legge è ancora valida. Sarà sempre valida, come promulgata in tempi antichi. La Luce concede giustizia poiché la Luce è giustizia. Informa il tuo uomo che può lanciare la sua sfida, Trom, e fronteggiare colui che accusa all’arma bianca. Se costui prova a rifiutare, io dichiaro che ha ammesso la sua colpa e ordino che sia impiccato sul posto, e che i suoi beni e il suo rango siano confiscati in favore dell’accusante, come prevede la legge. Così ho detto.» Quelle parole furono accompagnate da un’altra occhiataccia rivolta al Sommo Inquisitore. Forse c’era davvero dell’odio in quello sguardo. Trom si inchinò formalmente ancora una volta. «Lo hai informato tu stesso, mio lord capitano comandante. Damodred?»
Galad sentì freddo. Non il freddo della paura, ma quello dettato da una sensazione di vuoto. Quando Dain, ubriaco, si era lasciato sfuggire le voci confuse che erano giunte alle sue orecchie, quando Byar aveva confermato con riluttanza che erano più che semplici voci, la rabbia si era impadronita di Galad, un fuoco che l’aveva consumato fino alle ossa portandolo quasi alla pazzia. Pira stato certo che gli sarebbe esplosa la testa se il cuore non gli fosse scoppiato prima. Adesso era ghiaccio, svuotato di qualunque emozione. Anch’egli si inchinò in modo formale. Molto di quanto aveva da dire era previsto dalla legge, eppure scelse il resto con cura, per risparmiare più vergogna possibile a una memoria per lui cara.
«Eamon Valda, Figlio della Luce, io ti convoco al Giudizio della Luce per indebita aggressione alla persona di Morgase Trakand, regina dell’Andor, e per il suo assassinio.» Nessuno era stato in grado di confermare che la donna che lui considerava sua madre fosse morta, eppure doveva essere così. Una dozzina di uomini era certa che fosse scomparsa dalla Fortezza della Luce prima che cadesse nelle mani dei Seanchan, e altrettanti testimoniavano che non era stata libera di andarsene di propria volontà.
Valda non mostrò alcuno sconcerto per quell’accusa. Era possibile che il suo sorriso fosse inteso a mostrare rammarico per la follia di Galad nell’affermare una cosa del genere, tuttavia mischiato a esso c’era disprezzo. Aprì la bocca, ma Asunawa si intromise ancora una volta.
«Questo è ridicolo» disse in tono più di tristezza che di rabbia. «Prendete quel pazzo e scopriremo di quale complotto degli Amici delle Tenebre volto a screditare i Figli della Luce fa parte.» Fece un cenno e due dei massicci Inquisitori avanzarono di un passo verso Galad, uno con un sogghigno crudele, l’altro privo di espressione, come una persona che faceva semplicemente il proprio lavoro. Solo un passo, però. Vi fu un sommesso raschiare per tutto il cortile mentre i Figli allentavano le spade nei loro foderi. Almeno una dozzina di uomini le sguainarono del tutto, lasciando pendere le lame al loro fianco. Gli stallieri amadiciani si rannicchiarono su sé stessi, cercando di diventare invisibili. Probabilmente sarebbero fuggiti, se solo avessero osato. Asunawa si guardò attorno, con le sopracciglia che si alzavano sulla fronte dall’incredulità e pugni serrati che stringevano il mantello. Stranamente perfino Valda parve sbigottito per un istante. Di certo non si era aspettato che i Figli avrebbero permesso un arresto dopo la sua stessa dichiarazione. Anche in caso contrario, si riprese in fretta.
«Vedi, Asunawa,» disse in tono quasi allegro «i Figli seguono i miei ordini e la legge, e non i capricci di un Inquisitore.» Protese l’elmo da un lato perché qualcuno lo prendesse, «Io nego la tua ridicola accusa, giovane Galad, e ti costringo a rimangiarti la tua sporca menzogna. Poiché di una menzogna si tratta, o al massimo una folle accettazione di qualche malevola diceria diffusa dagli Amici delle Tenebre o altri che vogliono il male dei Figli. A ogni modo, tu mi hai diffamato nella maniera più ignobile, perciò accetto la tua sfida al Giudizio della Luce, in cui io ti ucciderò.» Questo rientrava a stento nel rituale, ma aveva negato l’accusa e accettato la sfida: sarebbe bastato. Accorgendosi che reggeva ancora l’elmo nella mano protesa, Valda si accigliò verso uno dei Figli che non era a cavallo, un esile Saldeano di nome Kashgar, finché l’uomo non si fece avanti e glielo prese. Kashgar era soltanto un sottotenente, quasi giovanile malgrado un grosso naso aquilino e folti baffi come corna rovesciate, eppure si mosse con palese riluttanza. La voce di Valda fu più cupa e aspra mentre proseguiva, slacciandosi la cintura portaspada e porgendogli anche quella.
«Abbine cura, Kashgar. È una spada col simbolo dell’airone.» Togliendo la spilla dal suo mantello di seta, lo lasciò cadere sul selciato, seguito dal tabarro, e le mani andarono alle fibbie dell’armatura. Pareva che fosse restio a vedere se altri sarebbero stati riluttanti ad aiutarlo. Il suo volto era abbastanza calmo, tranne occhi adirati che promettevano castigo ad altri, oltre a Galad. «A quanto ne so, tua sorella vuole diventare Aes Sedai, Damodred. Forse capisco esattamente qual è il motivo di tutto questo. C’è stato un tempo in cui avrei rimpianto la tua morte, ma non oggi. Potrei mandare la tua testa alla Torre Bianca in modo che le streghe possano vedere il frutto delle loro trame.»
Con la preoccupazione che gli corrugava il volto, Dain prese mantello e cintura portaspada di Galad, poi restò a spostare il peso da un piede all’altro, come se non fosse certo di fare la cosa giusta. Be’, gli era stata concessa la sua opportunità e adesso era troppo tardi per cambiare idea. Byar mise una mano guantata sulla spalla di Galad e si sporse vicino a lui.
«Gli piace colpire alle braccia e alle gambe» disse a bassa voce, lanciando occhiatacce a Valda. Dal modo in cui lo guardava torvo, c’era qualche questione in sospeso tra loro. Naturalmente quel cipiglio differiva poco dalla sua espressione abituale. «Gli piace far sanguinare un avversario finché non riesce a fare più un passo o sollevare la spada prima di ucciderlo. Inoltre è più veloce di una vipera, ma ti colpirà spesso al fianco sinistro e si aspetterà lo stesso da te.»
Galad annuì. Molti destrorsi trovavano più semplice colpire a quel modo, ma pareva una debolezza strana in un mastro spadaccino. Gareth Bryne e Henre Haslin lo avevano fatto allenare facendogli scambiare le mani sull’elsa in modo che non ricadesse in quell’errore. Era strano anche che Valda volesse prolungare un combattimento. A lui era stato insegnato a terminare tali questioni nel modo più pulito e rapido possibile.
«I miei ringraziamenti» disse, e l’uomo dalle guance scavate fece una smorfia arcigna. Byar era tutt’altro che un tipo socievole, e a lui stesso pareva che non piacesse nessuno tranne il giovane Bornhald. Dei tre, la sua presenza era la sorpresa maggiore, ma era lì, e questo contava a suo favore. In piedi in mezzo al cortile, nella sua giacca bianca dai ricami dorati e con i pugni sui fianchi, Valda ruotò in uno stretto cerchio. «Indietreggiate tutti contro i muri» ordinò a gran voce. Ferri di cavallo risuonarono sul selciato mentre i Figli e gli stallieri obbedivano. Asunawa e i suoi Inquisitori afferrarono le redini dei loro animali; il Sommo Inquisitore aveva un’espressione di fredda furia.
«Tenete sgombro il centro. Il giovane Damodred e io ci incontreremo qui...»
«Perdonami, mio lord capitano comandante,» disse Trom con un lieve inchino «ma dato che sei una parte in causa nel Giudizio, non puoi essere Arbitro. A eccezione del Sommo Inquisitore, che secondo la legge non può schierarsi, sono io a detenere il grado più alto dopo di te, dunque col tuo permesso...» Valda gli scoccò un’occhiataccia, poi si andò a mettere accanto a Kashgar con le braccia conserte. Si mise a tamburellare con il piede in modo plateale, impaziente che la faccenda procedesse.
Galad sospirò. Se il combattimento gli fosse stato avverso, come sembrava quasi certo, il suo amico avrebbe avuto il più potente uomo dei Figli schierato contro di lui. Era probabile che per loro sarebbe stato comunque così, ma adesso ancora di più. «Tienili d’occhio» disse a Bornhald, facendo un cenno col capo verso gli Inquisitori assiepati in sella ai loro cavalli vicino al cancello. I sottoposti di Asunawa lo attorniavano ancora come guardie del corpo, ogni uomo stringeva con una mano l’elsa della propria spada.
«Perché? Nemmeno Asunawa può interferire adesso. Sarebbe contro la legge.»
Fu molto difficile non sospirare di nuovo. Il giovane Dain era un Figlio da molto più tempo di lui e suo padre aveva servito l’ordine tutta la vita, ma l’uomo pareva sapere sui Figli meno di quanto Galad aveva imparato. Per gli Inquisitori, la legge era ciò che loro dichiaravano tale. «Tienili d’occhio e basta.»
Trom si mise al centro del cortile con la spada sguainata sopra la testa e la lama parallela al suolo. A differenza di Valda, pronunciò le parole esattamente com’erano scritte. «Per la Luce, siamo radunati per assistere al Giudizio della Luce, un diritto sacro per ogni Figlio della Luce. La Luce risplende sulla verità e qui la Luce illuminerà la giustizia. Che non parli nessun uomo tranne chi ne ha diritto legale, e che chiunque cerchi di intromettersi venga abbattuto sommariamente. Qui verrà trovata giustizia per la Luce da un uomo che alla Luce vota la sua vita, per la forza del suo braccio e la volontà della Luce. I combattenti si incontreranno armati dove mi trovo ora» proseguì, abbassando la spada al suo fianco «e parleranno tra loro in confidenza. Che la Luce li aiuti a trovare parole per porre fine a questa faccenda senza spargimento di sangue, poiché se così non sarà, uno dei Figli dovrà morire quest’oggi, il suo nome cancellato dai nostri ranghi e la scomunica macchierà la sua memoria. Per la Luce, così sarà.»
Mentre Trom si allontanava verso il lato del cortile, Valda si spostò al centro con la posizione del gatto che attraversa il cortilè, una falcala lenta e arrogante. Sapeva che nessuna parola avrebbe impedito lo spargimento di sangue. Per lui il combattimento era già cominciato. Galad si limitò a dirigersi verso di lui. Era alto quasi una testa più di Valda, ma l’altro uomo aveva un atteggiamento arrogante e sembrava sicuro di vincere.
Stavolta nel suo sorriso c’era solo disprezzo. «Niente da dire, ragazzo? Non mi meraviglia, dato che un mastro spadaccino tra un minuto ti taglierà la testa. Prima di ucciderti, però, voglio mettere in chiaro una cosa con te. Quella sgualdrina era viva e vegeta l’ultima volta che l’ho vista, e se adesso è morta me ne rammaricherò.» Quel sorriso si fece più intenso, sia di divertimento che di sdegno, «È stata la miglior cavalcata che abbia mai fatto, e spero di montarla ancora, un giorno.»
Una furia incandescente ribollì dentro Galad, ma con uno sforzo riuscì a voltare le spalle a Valda e ad allontanarsi, già dando in pasto quel furore a una fiamma immaginaria come i suoi due maestri gli avevano insegnato. Un uomo che combatteva in preda alla rabbia, moriva in preda alla rabbia. Quando fu di nuovo dal giovane Bornhald, aveva raggiunto quella che Gareth ed Henre chiamavano l’unicità. Fluttuando nel Vuoto, estrasse la sua spada dal fodero che Bornhald gli offrì, e la lama lievemente ricurva divenne una parte di lui.
«Cos’ha detto?» gli domandò Dain. «Per un istante, laggiù hai avuto un’espressione omicida.» Byar afferrò il braccio di Dain. «Non distrarlo» borbottò.
Galad non era distratto. Ogni cigolio del cuoio delle selle era chiaro e distinto, così come il clangore di ferri di cavallo sulle pietre del selciato. Poteva sentire mosche ronzare a dieci piedi di distanza come se fossero accanto al suo orecchio. Pensava quasi di riuscire a vedere i movimenti delle loro ali. Era tutt’uno con le mosche, con il cortile, con i due uomini. Erano tutti parte di lui e Galad non poteva lasciarsi distrarre da sé stesso.
Valda attese finché lui non si voltò prima di estrarre la propria arma dall’altro lato del cortile: un movimento guizzante, la spada con un bagliore indistinto ruotava nella sua mano sinistra, balzando nella destra in un altro giro sfocato prima di arrestarsi, dritta e salda come la roccia davanti a lui, in entrambe le mani. Iniziò ad avanzare, ancora una volta con il gatto che attraversa il cortilè. Sollevando la propria spada, Galad gli si diresse incontro, assumendo d’istinto un’andatura specifica, forse influenzata dal suo stato mentale. ‘Vuoto’, era chiamata, e solo un occhio allenato avrebbe saputo che non era una semplice camminata. Solo un occhio allenato si sarebbe accorto che si trovava in equilibrio perfetto in ogni istante. Valda non si era guadagnalo quella spada col marchio dell’airone per favoritismo. Cinque mastri spadaccini si erano seduti a giudicare le sue capacità e avevano espresso un voto unanime per conferirgli il titolo. Il voto doveva essere sempre unanime. L’unico altro modo era uccidere il portatore di una lama col marchio dell’airone in un combattimento leale, uno contro uno. Valda era stato più giovane di Galad adesso. Non aveva importanza. Lui non era focalizzato sulla morte di Valda. Non era focalizzato su nulla. Ma si proponeva la morte di Valda se, per ottenerla, avesse dovuto ‘inguainare la spada’, accogliendo volontariamente quella lama col marchio dell’airone nella propria carne. Galad accettava che si potesse arrivare a quello.
Valda non perse tempo in manovre. Nell’istante in cui fu entro la portata, ‘cogliere la mela che pende bassa’ guizzò verso il collo di Galad come un fulmine, proprio come se l’uomo fosse davvero intenzionato ad avere la sua testa al primo minuto. C’erano diverse possibili risposte, tutte rese istintive da un duro addestramento, ma gli avvertimenti di Byar galleggiarono negli oscuri recessi della sua mente, assieme al fatto che Valda in persona lo aveva avvisato di quella stessa mossa. Avvisato due volte. Con un pensiero cosciente, scelse un’altra tattica, facendo un passo di lato e uno in avanti proprio mentre ‘cogliere la mela che pende bassa’ diventava ‘la carezza del leopardo’. Valda sgranò gli occhi dalla sorpresa quando il suo colpo mancò la coscia sinistra di Galad di pochi pollici, e strabuzzò ancora di più quando il ‘taglio della seta’ gli aprì uno squarcio lungo l’avambraccio destro, ma lui si lanciò all’istante nella ‘colomba prende il volo’, così rapido che Galad dovette balzare all’indietro prima che la sua spada lo mordesse a fondo, deviando a stento l’attacco con ‘il martin pescatore vola attorno allo stagno’.
Danzarono avanti e indietro cambiando posizioni, scivolando da una parte all’altra del cortile lastricato. ‘La lucertola fra i rovi’ si scontrò con ‘il fulmine a tre denti’. ‘La foglia nella brezza’ annullò ‘l’anguilla fra le ninfee’, e ‘due lepri che balzano’ incontrò ‘il colibrì bacia la rosa’. Avanti e indietro, con la stessa armonia di una dimostrazione delle posizioni. Galad provò attacco dopo attacco, ma Valda era rapido come una vipera. ‘Il gallo cedrone dei boschi che danza’ gli costò un taglio superficiale alla spalla sinistra e ‘il falco rosso cattura una colomba’ un altro al braccio destro, lievemente più profondo. ‘Il fiume di luce’ avrebbe potuto staccargli di netto il braccio se non avesse incontrato quel colpo di taglio con una ‘pioggia tra il forte vento’ disperatamente veloce. Avanti e indietro, le lame guizzavano di continuo, riempiendo l’aria del cozzo di acciaio contro acciaio.
Non riusciva a dire da quanto stessero combattendo. Il tempo non esisteva; solo il presente. Pareva che lui e Valda si muovessero come uomini sott’acqua, i cui spostamenti venivano rallentati dalla resistenza del mare. Del sudore apparve sul viso di Valda, ma lui sorrise sicuro di sé, apparentemente imperturbato dallo squarcio sul suo avambraccio, l’unica ferita che aveva subito fino a quel momento. Anche Galad poteva percepire il sudore colare sulla propria faccia, pizzicandogli gli occhi. E il sangue che gli scorreva giù per il braccio. Quelle ferite prima o poi l’avrebbero rallentato, e forse lo stavano già facendo, ma ne aveva subite altre due alla coscia sinistra, ed entrambe erano serie. A causa loro aveva il piede umido dentro lo stivale e non poteva evitare di zoppicare un po’, cosa che sarebbe andata peggiorando col tempo. Se Valda doveva morire, doveva accadere in fretta.
Di proposito trasse un profondo respiro, poi un secondo dalla bocca, poi un altro ancora. Che Valda pensasse pure che era a corto di fiato. La sua lama guizzò all’infuori in ‘infilare l’ago’, mirata alla spalla sinistra di Valda e non tanto rapida quanto sarebbe potuta essere. L’altro uomo rispose facilmente con ‘la rondine si leva in volo’, scivolando immediatamente nel ‘balzo del leone’. Questo gli inflisse una terza scalfittura alla coscia; Galad non si azzardò a essere più rapido in difesa che in attacco.
Di nuovo lanciò ‘infilare l’ago’ contro la spalla di Valda, e poi ancora e ancora, nel frattempo continuando a inghiottire aria attraverso la bocca. Solo la fortuna gli impedì di subire ulteriori ferite in quegli scambi. O forse la Luce risplendeva davvero su di lui in quel combattimento.
Il sorriso di Valda si allargò: l’uomo lo credeva allo stremo delle forze, esausto e ossessionato. Mentre Galad iniziava ‘infilare l’ago’ troppo lentamente per la quinta volta, la spada del suo avversario cominciò ‘la rondine prende il volo’ in maniera troppo frettolosa, facendo appello a tutta la velocità che gli rimaneva, Galad modificò il suo colpo, e ‘mietere l’orzo’ fendette Valda appena sotto la cassa toracica.
Per un istante parve che l’uomo non si rendesse conto di essere stato colpito. Fece un passo, iniziando quello che sarebbe potuto essere ‘le pietre che cadono dalla scogliera’. Poi strabuzzò gli occhi e barcollò; la spada cadde dalla sua stretta, sferragliando sul selciato mentre lui crollava in ginocchio. Le sue mani si diressero all’enorme squarcio lungo l’addome come per cercare di mantenere dentro le sue interiora. Lui aprì la bocca e gli occhi vitrei fissarono il volto di Galad. Qualunque cosa avesse voluto dire, il sangue gli sgorgò giù fino al mento. Ruzzolò faccia a terra e rimase immobile.
Con un gesto istintivo, Galad diede alla sua lama una rapida torsione per scrollare via il sangue che ne macchiava la punta, poi si chinò lentamente a pulir via le ultime gocce sulla giubba bianca di Valda. Il dolore che aveva ignorato ora avvampò. La spalla e il braccio sinistro gli bruciavano; gli sembrava di avere la coscia in fiamme. Raddrizzarsi gli costò uno sforzo. Forse era più vicino allo sfinimento di quanto avesse pensato. Per quanto tempo avevano combattuto? Aveva creduto che avrebbe provato soddisfazione per aver vendicato sua madre, ma dentro di lui sentiva solo il vuoto. La morte di Valda non era sufficiente. Nulla, tranne che Morgase Trakand fosse di nuovo viva, poteva essere sufficiente.
All’improvviso percepì rumori ripetuti e alzò gli occhi per vedere i Figli, che gli davano una pacca sulla spalla in approvazione, tutti quanti. Tranne Asunawa e gli Inquisitori, che non si vedevano da nessuna parte.
Byar si precipitò portando un piccolo sacco di cuoio e con cautela ispezionò i tagli sotto la manica di Galad. «Avranno bisogno di punti,» borbottò «ma possono aspettare.» Inginocchiandosi accanto a Galad, prese dei rotoli di bende dal sacco e iniziò ad avvolgerli attorno alle ferite sulla sua coscia.
«Anche questi avranno bisogno di punti, ma in questo modo non morirai dissanguato prima delle cure.» Altri cominciarono a radunarsi al torno, offrendo le loro congratulazioni: per primi gli uomini a piedi, poi quelli ancora a cavallo. Nessuno rivolse un’occhiata al cadavere tranne Kashgar, il quale ripulì la spada di Valda sulla sua giubba già macchiata di sangue prima di rinfoderarla.
«Dov’è andato Asunawa?» chiese Galad.
«Si è allontanato non appena hai colpito Valda l’ultima volta» rispose Dain a disagio. «Sarà diretto all’accampamento per prendere altri Inquisitori.»
«È andato da quell’altra parte, verso il confine» si inserì qualcuno. Nassad si trovava appena oltre il confine.
«I lord capitani» disse Galad, e Trom annuì.
«Nessun Figlio lascerebbe che tu venissi arrestato dagli Inquisitori per quanto è accaduto qui, Damodred. A meno che il suo capitano non glielo ordinasse. Alcuni lo farebbero, ritengo.» Iniziò un borbottio irato, con uomini che negavano che si sarebbero prestati a una cosa del genere, ma Trom li zittì, in un certo qual modo, con le mani alzate. «Sapete che è vero» disse a gran voce.
«Qualunque altro comportamento sarebbe insubordinazione.» A quelle parole il silenzio divenne assoluto. Non c’era mai stata insubordinazione fra i Figli. Forse nulla vi era arrivato tanto vicino quanto la loro precedente dimostrazione. «Scriverò il tuo congedo dai Figli, Galad. Qualcuno potrebbe comunque ordinare il tuo arresto, ma dovranno trovarti e tu avrai un buon vantaggio. Ad Asunawa ci vorrà mezza giornata per raggiungere gli altri lord capitani, e chiunque dovesse schierarsi con lui non potrà arrivare qui prima che sia calata la notte.»
Galad scosse il capo adiralo. Trom aveva ragione, ma era tutto sbagliato. Troppo era sbagliato.
«Scriverai il congedo per questi altri uomini? Sai che Asunawa troverà un modo per accusare anche loro. Scriverai congedi per i Figli che non vogliono aiutare i Seanchan a conquistare le nostre terre in nome di un uomo morto da più di mille anni?» Diversi Tarabonesi si scambiarono occhiate e annuirono, e così fecero altri uomini, non tutti Amadiciani. «E gli uomini che hanno difeso la Fortezza della Luce? Un congedo toglierà loro le catene o farà sì che i Seanchan smettano di farli sgobbare come animali?» Altri mugugni arrabbiati: quei prigionieri erano una nota dolente per tutti i Figli.
Con le braccia conserte, Trom lo squadrò come se lo vedesse per la prima volta. «Cosa vorresti fare, allora?»
«Trovare qualcuno che si stia opponendo ai Seanchan, chiunque, e schierarci con lui. Assicurarci che i Figli della Luce cavalchino nell’Ultima Battaglia invece di aiutare i Seanchan a dare la caccia agli Aiel e a rubare le nostre nazioni.»
«Chiunque?» disse un Cairhienese di nome Doirellin con la sua voce acuta. Nessuno prendeva mai in giro Doirellin per quel suo timbro. Seppure di bassa statura, era largo quasi quanto era alto e su di lui c’era a malapena qualche grammo di grasso: poteva mettere delle noci fra le dita e rompere il guscio serrando i pugni. «Questo potrebbe voler dire Aes Sedai.»
«Se avete intenzione di essere a Tarmon Gai’don, allora dovrete combattere a fianco delle Aes Sedai» affermò Galad con calma. Il giovane Bornhald fece una smorfia di marcato disgusto, e non fu il solo. Byar si raddrizzò parzialmente prima di chinarsi di nuovo al proprio compito. Ma nessuno diede voce al dissenso. Doirellin annuì lentamente, come se non avesse mai riflettuto prima sulla questione.
«Non sono d’accordo sull’alleanza con le streghe piuttosto che con qualunque altro uomo» disse infine Byar, senza sollevare la testa dal proprio lavoro. Il sangue filtrava dalle bende anche mentre le avvolgeva. «Ma i Precetti dicono che, per combattere il corvo, puoi stringere alleanza col serpente finché la battaglia non è terminata.» Fra gli uomini, diverse teste annuirono. Il corvo significava l’Ombra, ma tutti sapevano che era anche il sigillo imperiale dei Seanchan.
«Combatterò al fianco delle streghe» disse un dinoccolato Tarabonese «o perfino accanto a questi Asha’man di cui continuiamo a sentir parlare, se si oppongono ai Seanchan. O se parteciperanno all’Ultima Battaglia. E mi batterò con chiunque mi dica che sono in errore.» Lanciò un’occhiata torva, come per dire che era pronto a farlo anche lì, in quello stesso momento.
«Sembra che le cose si svolgeranno come desideri tu, mio lord capitano comandante» disse Trom, rivolgendogli un inchino più profondo di quello che aveva riservato a Valda. «Fino a un certo punto, almeno. Chi può dire cosa ci porterà la prossima ora, men che meno domani?»
Galad rise, sorprendendo anche sé stesso. Dal giorno precedente era certo che non avrebbe riso mai più. «Questo è un pessimo scherzo, Trom.»
«È così che recita la legge. E proprio Valda ha fatto la sua dichiarazione. Inoltre, tu hai avuto il coraggio di dire ciò che molti pensavano tenendo a freno la lingua, incluso me. Il tuo piano per i Figli è il migliore di qualunque altro io abbia sentito fin dalla morte di Pedron Mail.»
«È comunque un pessimo scherzo.» Qualunque cosa recitasse la legge, quella parte era stata ignorata fin dal termine della Guerra dei Cento Anni.
«Vedremo cos’avranno da dire i Figli sulla faccenda,» replicò Trom con un ampio sogghigno «quando chiederai loro di seguirci a Tarmon Gai’don per combattere a fianco delle streghe.»
Gli uomini ricominciarono a darsi pacche sulle spalle, più forti di quelle che si erano scambiati per la sua vittoria. Sulle prime furono solo in pochi, poi altri si unirono a loro, finché ogni uomo incluso Trom stava manifestando la propria approvazione. Ogni uomo tranne Kashgar, in effetti. Con un profondo inchino, il Saldeano protese in entrambe le mani la lama col marchio dell’airone nel suo fodero.
«Questa è tua ora, mio lord capitano comandante.»
Galad sospirò. Sperava che quella sciocchezza terminasse prima che raggiungessero l’accampamento. Tornare lì era già abbastanza folle senza aggiungervi una pretesa del genere. Molto probabilmente l’avrebbero preso e gettato in catene, se non addirittura malmenato a morte, anche senza una tale affermazione. Ma doveva andare. Era la cosa giusta da fare.
La luce diurna continuava a intensificarsi in quel freddo mattino di primavera, anche se il sole doveva ancora mostrare qualche raggio sopra l’orizzonte, e Rodel Ituralde sollevò il suo cannocchiale cerchiato d’oro per osservare il villaggio sotto la collina dove sedeva in sella al suo castrone roano, in profondità nel cuore di Tarabon. Odiava attendere abbastanza luce per vedere. Attento che nessun luccichio si riflettesse dalla lente, tenne l’estremità del lungo tubo sul pollice e vi fece ombra con una mano a coppa. A quell’ora le sentinelle erano menti guardinghe, sollevate che l’oscurità grazie alla quale un nemico poteva avvicinarsi di soppiatto stesse svanendo; tuttavia, da quando aveva attraversato la Piana di Almoth, aveva sentito racconti di scorrerie di Aiel a Tarabon. Se lui fosse stato una sentinella con Aiel nei paraggi, si sarebbe fatto crescere occhi supplementari. Singolare che il paese non fosse in subbuglio come un formicaio calpestato per quegli Aiel. Singolare e forse sinistro. In giro c’erano uomini armati in abbondanza, Seanchan e Tarabonesi votati a loro, e orde di Seanchan impegnate a costruire fattorie e perfino villaggi, ma arrivare così lontano era stato quasi troppo facile. Oggi quella facilità terminava.
Dietro di lui, fra gli alberi, i cavalli scalpitavano impazienti. I cento Domanesi con lui erano silenziosi, tranne per l’occasionale scricchiolio del cuoio di una sella quando un uomo cambiava posizione, ma lui poteva percepire la loro tensione. Desiderò averne il doppio. Il quintuplo. All’inizio era sembrato un gesto di buona fede cavalcare di persona con una forza composta perlopiù da Tarabonesi, Adesso non era più certo che si trattasse della decisione giusta. In ogni caso, era troppo tardi per le recriminazioni.
A metà strada tra Elmora e il confine amadiciano, Serana sorgeva in una piatta valle erbosa fra colline dense di foreste, con almeno un miglio di distanza fino agli alberi in ogni direzione tranne la sua, e un laghetto circondato di canne, alimentato da due ampi torrenti che si trovavano tra lui e il villaggio. Non era un luogo che potesse essere colto di sorpresa alla luce del giorno. Prima dell’arrivo dei Seanchan era stato di dimensioni piuttosto vaste, un punto di passaggio per i convogli mercantili diretti a est, con oltre una dozzina di locande e quasi altrettante strade. La gente del villaggio stava già uscendo per i propri compiti quotidiani, con le donne che tenevano in equilibrio sulla testa dei canestri mentre procedevano lungo le strade e altre che avviavano i fuochi sotto le pentole per il bucato dietro le loro case, e uomini diretti ai loro luoghi di lavoro, che a volte si soffermavano a scambiare qualche parola. Una mattina normale, con bambini che già correvano e giocavano, facendo rotolare cerchi e gettando sacchetti di fagioli secchi tra la folla. Si levava il clangore di un fabbro, affievolito dalla distanza. Il fumo dei fuochi per la colazione stava svanendo dai camini.
A quanto poteva vedere, nessuno a Serana rivolgeva una seconda occhiata alle tre coppie di sentinelle con strisce brillanti dipinte sui pettorali, che guidavano i loro cavalli avanti e indietro forse fino a quasi un quarto di miglio fuori. Il lago, notevolmente più ampio del villaggio, faceva da efficace scudo al quarto lato. Pareva che le sentinelle fossero una consuetudine accettata, così come l’accampamento seanchan che aveva ingrossato Serana fino al doppio delle sue precedenti dimensioni.
Ituralde scosse lievemente il capo. Lui non avrebbe piazzato il campo a fianco al villaggio in quel modo. I tetti di Serana erano tutti di tegole, rosse, verdi o blu, ma gli edifici stessi erano di legno; un incendio nella cittadina si sarebbe potuto propagare troppo facilmente nell’accampamento, dove tende-magazzino di tela delle dimensioni di grosse case superavano di gran lunga le piccole tende in cui dormivano gli uomini, e grandi pile di barili, botti e casse coprivano uno spazio doppio rispetto a tutte le tende messe assieme. Tenere lontani paesani dalla mano lesta sarebbe stato del tutto impossibile. Ogni cittadina aveva qualche canaglia che si impadroniva di tutto quello per cui pensava potesse farla franca, e perfino uomini un po’ più onesti potevano essere tentati da quella vicinanza. Quella posizione significava una distanza minore per portare acqua dal lago e anche per raggiungere la birra e il vino quando i soldati non erano in servizio, ma lasciava intendere anche un comandante che manteneva una disciplina superficiale.
Disciplina superficiale o meno, nell’accampamento c’era anche attività. Gli orari dei soldati facevano sembrare riposanti quelli dei contadini. Cui uomini stavano controllando gli animali presso le lunghe linee dei cavalli, gli stendardieri ispezionavano i soldati disposti in ranghi, centinaia di lavoratori caricavano o scaricavano carri, gli stallieri mettevano i linimenti alle pariglie. Ogni giorno convogli di carri giungevano a questo accampamento lungo la strada da est e da ovest mentre altri si allontanavano. Ituralde ammirava l’efficienza dei Seanchan nel l’assicurarsi che i loro uomini avessero quello di cui avevano bisogno, dove e quando gli occorreva. I Fautori del Drago qui a Tarabon, perlopiù uomini dai volti amareggiati che credevano che il loro sogno fosse stato spento dai Seanchan, erano stati disposti a dirgli quanto sapevano, se non a cavalcare con lui. Quell’accampamento conteneva di tutto, dagli stivali alle spade, dalle frecce ai ferri di cavallo, alle fiasche d’acqua, abbastanza per equipaggiare migliaia di uomini dalla testa ai piedi. Ne avrebbero sentito la mancanza.
Abbassò il cannocchiale per scacciar via dalla faccia una mosca verde ronzante. Quasi all’istante venne rimpiazzata da altre due. Tarabon brulicava di mosche. Qui giungevano sempre così presto?, pensava. In patria avrebbero appena iniziato a prolificare per quando lui avesse raggiunto di nuovo l’Arad Doman. Se ci fosse arrivato. No; niente cattivi pensieri. Quando ci fosse arrivato. Altrimenti Tamsin sarebbe stata contrariata, e non era saggio contrariarla troppo.
Buona parte degli uomini laggiù erano operai pagati, non militari, e solo circa un centinaio degli ultimi sembravano Seanchan. Tuttavia una compagnia di trecento Tarabonesi in armature a strisce dipinte era arrivata a cavallo a mezzodì il giorno prima, più che raddoppiando il loro numero e costringendolo a cambiare i suoi piani. Un altro drappello di Tarabonesi, altrettanto numeroso, era entrato nell’accampamento al tramonto, appena in tempo per mangiare e preparare i giacigli. Nel campo c’era anche una di quelle donne al guinzaglio, una damane, Ituralde desiderava poter attendere finché non se ne fosse andata — di certo la stavano portando da qualche parte: di che utilità sarebbe stata una damane in un campo rifornimenti? — ma quello era il giorno prescelto e non poteva permettersi di dare ai Tarabonesi un motivo per affermare che stava esitando. Alcuni avrebbero colto al balzo qualunque ragione per andarsene per la propria strada. Sapeva che non l’avrebbero seguito ancora per molto, eppure aveva bisogno di trattenerne più che poteva per qualche altro giorno.
Spostando il suo sguardo verso ovest, non si preoccupò di usare il cannocchiale.
«Ora» sussurrò, e come al suo comando, duecento uomini con anelli di maglia che coprivano le loro facce galopparono fuori dagli alberi. E si fermarono all’istante, impennandosi e manovrando per disporsi in formazione, brandendo lance dalla punta d’acciaio mentre il loro comandante galoppava avanti e indietro di fronte a loro facendo gesti energici nell’evidente sforzo di stabilire qualche sembianza di ordine.
A quella distanza, Ituralde non avrebbe potuto distinguere le facce nemmeno col cannocchiale, ma poteva immaginare la furia sulle fattezze di Tornay Lanasiet nell’attuare quella finzione. Il tozzo Fautore del Drago fremeva per uno scontro ravvicinato con i Seanchan. Qualunque Seanchan. Era stato difficile dissuaderlo dal colpire il giorno in cui avevano varcato il confine, il giorno precedente era stato visibilmente felice di poter finalmente grattar via dal suo pettorale le odiate strisce che indicavano fedeltà ai Seanchan. Non aveva importanza: fino a quel momento stava obbedendo ai suoi ordini alla lettera.
Mentre le sentinelle più vicine a Lanasiet voltavano le loro cavalcature per accelerare verso il villaggio e l’accampamento seanchan, Ituralde rivolse lì la sua attenzione e sollevò ancora una volta il suo cannocchiale. Le sentinelle avrebbero scoperto che il loro avvertimento era superfluo. Il movimento era cessato. Alcuni uomini stavano indicando i cavalieri dall’altro lato del villaggio, mentre il resto sembrava rimanere immobile a fissarli, sia soldati che operai. L’ultima cosa che si aspettavano erano dei predoni. Scorrerie aiel o meno, i Seanchan consideravano Tarabon loro proprietà e la ritenevano al sicuro. Una rapida occhiata al villaggio mostrò gente per le strade, immobile con lo sguardo fisso verso gli strani cavalieri. Nemmeno loro si erano aspettali dei predoni. Ituralde pensava che i Seanchan avessero ragione, un’opinione che non avrebbe condiviso con nessun Tarabonese nel prossimo futuro.
Con uomini ben addestrati, lo sbigottimento poteva però durare solo fino a un certo punto. Nell’accampamento i soldati iniziarono a precipitarsi verso i loro cavalli, molti dei quali ancora senza sella, anche se gli stallieri avevano cominciato a darsi da fare con gran foga. Ottanta e passa fanti e arcieri seanchan si disposero in formazione e partirono di corsa verso Serana. Alla dimostrazione che incombeva davvero una minaccia, la gente iniziò a prendere in fretta i bimbi più piccoli e a guidare gli altri al sicuro dentro le case. In pochi istanti le strade rimasero vuote, tranne per gli arcieri che si affrettavano nelle loro armature laccate ed elmi singolari.
Ituralde voltò il cannocchiale verso Lanasiet e vide che l’uomo stava facendo procedere al galoppo la sua fila di cavalieri. «Aspetta» ringhiò. «Aspetta.»
Di nuovo parve che il Tarabonese avesse udito il suo ordine, sollevando una mano per arrestare i suoi uomini. Almeno erano ancora a mezzo miglio dal villaggio. Quella sciocca testa calda avrebbe dovuto rimanere a quasi un miglio di distanza, al limitare degli alberi e ancora in apparente disordine tanto da poter essere spazzati via facilmente, ma mezzo miglio sarebbe dovuto bastare. Ituralde represse l’istinto di giocherellare col rubino al suo orecchio sinistro. La battaglia era appena cominciata, e in battaglia bisognava far credere a coloro che ti seguivano di essere completamente gelido, del tutto impassibile. Non intenzionato a lasciar sconfiggere un presunto alleato. Sembrava che l’emozione filtrasse dal comandante ai suoi uomini, e gli uomini arrabbiati si comportavano in modo stupido, facendosi uccidere e perdendo le battaglie.
Toccando il neo artificiale a mezzaluna sulla sua guancia — un uomo doveva avere il suo aspetto migliore in un giorno come quello — trasse respiri lenti e misurati finché non fu certo di essere imperturbabile all’interno tanto quanto manifestava all’esterno, poi tornò a rivolgere la sua attenzione all’accampamento. Parecchi dei Tarabonesi adesso erano in sella, ma attendevano una ventina di Seanchan guidati da un tizio alto con un’unica piuma esile sul suo curioso elmo affinché galoppassero verso il villaggio prima di mettersi sulla loro scia, con gli ultimi arrivati che indugiavano in retroguardia.
Ituralde studiò la figura che guidava la colonna, osservandola attraverso i varchi fra le case. Un’unica piuma indicava un tenente o un sottotenente. Il che poteva significare uno sbarbatello al suo primo comando oppure un veterano brizzolato che poteva ottenere la testa di chiunque al minimo errore. Stranamente la damane, contraddistinta dallo scintillante guinzaglio argenteo che la legava alla donna su un altro cavallo, faceva galoppare il suo destriero alla stessa velocità di chiunque altro. Tutto quello che lui aveva sentito diceva che le damane erano prigioniere, eppure quella pareva impaziente quanto l’altra donna, la sul’dam. Forse...
All’improvviso il fiato gli si mozzò in gola e tutti i pensieri della damane lo abbandonarono. C’erano ancora delle persone per strada, sette o otto uomini e donne, che camminavano in gruppo proprio davanti alla colonna in corsa, di cui non sembravano udire lo scalpitio dietro di loro. Per i Seanchan non c’era tempo di fermarsi nemmeno se avessero voluto, e avevano un buon motivo per non tentare con un nemico davanti a loro, ma sembrò che la mano di quell’individuo alto non tirasse mai le redini mentre lui e gli altri travolgevano quella gente. Un veterano, dunque. Mormorando una preghiera per i morti, Ituralde abbassò il cannocchiale. Il seguito fu meglio vederlo senza.
Duecento passi oltre il villaggio, l’ufficiale iniziò a disporre la sua formazione dove gli arcieri si erano già fermati e stavano aspettando con le frecce incoccate. Agitando la mano per dare indicazioni ai Tarabonesi alle sue spalle, si voltò per scrutare Lanasiet attraverso un cannocchiale. La luce del sole riverberò sulla superficie del tubo. Adesso il sole stava sorgendo. I Tarabonesi iniziarono a dividersi in maniera efficiente, con le punte delle lance scintillanti e tutte inclinate allo stesso angolo; uomini disciplinati che si disponevano in file ordinale da entrambi i lati degli arcieri. L’ufficiale si sporse per conversare con la sul’dam. Se avesse lasciato libere di agire lei e la damane, questo sarebbe potuto risultare comunque in un disastro. Ovviamente sarebbe potuto esserlo anche se non l’avesse fatto. Gli ultimi dei Tarabonesi, quelli che erano arrivati tardi, cominciarono a disporsi in una fila a cinquanta passi dietro gli altri, conficcando le loro lance con la punta in basso nel terreno e tirando fuori dalle loro custodie gli archi da sella assicurati dietro di loro. Lanasiet stava facendo avanzare i suoi uomini al galoppo, maledizione a lui.
Voltando la testa per un momento, Ituralde parlò abbastanza forte perché gli uomini dietro di lui lo udissero. «State pronti.» Il cuoio delle selle cigolò mentre gli uomini raccoglievano le loro redini. Poi mormorò un’altra preghiera per i morti e sussurrò: «Ora.»
Come un sol uomo, i trecento Tarabonesi nella lunga fila, i suoi Tarabonesi, sollevarono gli archi e scoccarono. Non ebbe bisogno del cannocchiale per vedere la sul’dam, la damane e l’ufficiale tutt’a un tratto trafitti dalle frecce. Vennero proprio sbalzati dalle loro selle da quasi una dozzina di esse che colpirono contemporaneamente. Dare quell’ordine era stato una sofferenza, ma le donne erano gli individui più pericolosi su quel campo. Il resto di quella raffica abbatte buona parte degli arcieri e sgombrò un po’ di selle, e mentre ancora gli uomini crollavano al suolo venne lanciata una seconda salva, atterrando gli arcieri rimasti e svuotando altre selle.
Colti di sorpresa, i Tarabonesi leali ai Seanchan provarono a combattere. Fra quelli ancora in sella, alcuni voltarono i loro destrieri e abbassarono le lance per caricare gli assalitori. Altri, forse in preda all’irrazionalità che poteva impossessarsi degli uomini in battaglia, lasciarono cadere le loro lance e tentarono di liberare gli archi da sella dalla custodia. Ma una terza selva li investì, frecce dalla punta a cuspide che a quella distanza si conficcarono attraverso la corazza; a quel punto i sopravvissuti parvero rendersi conto di essere tali. Molti dei loro compagni giacevano inerti sul terreno o si sforzavano di mettersi in piedi pur trapassati da due o tre dardi. Quelli ancora a cavallo erano in netta minoranza rispetto agli avversari. Alcuni uomini fecero voltare i loro animali e, in un lampo, fuggirono verso sud inseguiti da un’ultima scarica di frecce che ne abbatté altri.
«Fermi» mormorò Ituralde. «Fermi così.»
Una manciata degli arcieri a cavallo scoccò di nuovo, ma il resto si astenne saggiamente. Avrebbero potuto ucciderne qualche altro prima che il nemico tosse oltre la loro portata, ma quel gruppo era sconfitto e presto loro avrebbero cominciato a contare ogni freccia. Cosa più importante, nessuno dei suoi uomini si era lanciato all’inseguimento.
Lo stesso non si poteva dire per Lanasiet. Con i mantelli che svolazzavano, lui e i suoi duecento uomini si precipitarono dietro a quelli che scappavano. Ituralde si immaginò di poterli sentire strillare; cacciatori sulla pista di una preda in fuga.
«Suppongo che sia l’ultima volta che vedremo Lanasiet, mio signore» disse Jaalam, accostando il suo grigio accanto a Ituralde, che si strinse un poco nelle spalle.
«Forse, mio giovane amico. Potrebbe riacquistare il senno. In ogni caso, non ho mai pensato che i Tarabonesi sarebbero tornati nell’Arad Doman con noi. E tu?»
«No, mio signore,» replicò l’uomo più alto «ma pensavo che il suo onore avrebbe retto per questo primo combattimento.»
Ituralde sollevò il cannocchiale per guardare Lanasiet, che ancora galoppava forte. L’uomo era andato, ed era improbabile che riacquistasse un senno che non possedeva. Un terzo della sua forza era scomparsa, proprio come se quella damane li avesse uccisi. Vi aveva fatto conto per qualche altro giorno. Avrebbe dovuto modificare di nuovo i suoi piani, forse cambiare il prossimo bersaglio. Scacciando Lanasiet dai suoi pensieri, spostò il cannocchiale per dare un’occhiata al punto in cui quella gente era stata travolta ed emise un borbottio di sorpresa. Non c’erano cadaveri calpestati. Amici e vicini dovevano essere usciti per portarli via, anche se, con una battaglia alle soglie del villaggio, questo pareva altrettanto improbabile quanto che quelle stesse persone si fossero alzate e allontanale dopo il passaggio dei cavalli.
«È il momento di andare a bruciare tutte quelle belle scorte seanchan» disse infilando il cannocchiale nella custodia di cuoio legata alla sua sella. Indossò il suo elmo e spronò Saldo giù per la collina, seguito da Jaalam e dagli altri incolonnati due a due. Solchi di carri e sponde infossate indicavano un guado nel torrente orientale. «Jaalam, dì ad alcuni uomini di avvisare la gente del villaggio di cominciare a spostare quello che vogliono conservare. Avvertiteli di iniziare con le case più vicine all’accampamento.» Dove il fuoco poteva propagarsi da un lato, poteva farlo anche dall’altro, e probabilmente sarebbe accaduto.
In realtà lui aveva già appiccato l’incendio più importante.
Aveva soffiato sulle prime braci, perlomeno. Se la Luce risplendeva su di lui, se nessuno si era fatto prendere dall’impazienza o aveva ceduto allo sconforto per la stretta che i Seanchan avevano su Tarabon, se nessuno era incappato nei contrattempi che potevano rovinare il piano meglio congegnato, oltre ventimila uomini avevano inflitto colpi come quello o l’avrebbero fatto prima della fine della giornata. E l’indomani l’avrebbero ripetuto di nuovo. Ora quello che doveva fare era tornare indietro saccheggiando per più di quattrocento miglia di Tarabon, liberandosi di Fautori del Drago tarabonesi e radunando i suoi stessi uomini, poi riattraversare la Piana di Almoth. Se la Luce lo avesse illuminato, quell’incendio avrebbe strinato i Seanchan tanto da indurli a inseguirlo in preda alla furia. Una furia enorme, sperava. In quel modo sarebbero caduti a capofitto nella trappola che lui aveva predisposto prima ancora di sapere che si trovava lì. Se non l’avessero seguito, allora perlomeno avrebbe liberato la sua terra dai Tarabonesi e avrebbe vincolato i Fautori del Drago domanesi a combattere per il re invece che contro di lui. E se avessero fiutato la trappola... Scendendo lungo il pendio, Ituralde sorrise. Se avessero fiutato la trappola, lui aveva già predisposto un altro piano, e dopo quello un altro ancora. Guardava sempre avanti e pianificava sempre per ogni eventualità che riusciva a immaginare, eccezion fatta per il Drago Rinato in persona che fosse comparso all’improvviso davanti a lui. I suoi piani attuali per il momento sarebbero stati sufficienti, pensò.
La Somma Signora Suroth Sabelle Meldarath giaceva sveglia a letto con lo sguardo fisso verso il soffitto. Il cielo era senza luna e le trifore che davano su un giardino del palazzo erano buie, ma i suoi occhi si erano adattati in modo da poter vedere almeno il contorno dell’intonaco adornato e dipinto. Non mancava più di un’ora o due all’alba, eppure lei non aveva dormito. Era rimasta sveglia la maggior parte delle notti da quando Tuon era scomparsa, dormendo solo quando la spossatezza le faceva chiudere gli occhi per quanto lei si sforzasse di tenerli aperti. Il sonno portava incubi che lei desiderava poter dimenticare. Ebou Dar non era mai davvero fredda, ma la notte aveva in sé una lieve frescura che la aiutava a restare sveglia, stesa soltanto sotto un sottile lenzuolo di seta. La domanda che guastava i suoi sogni era semplice e diretta. Tuon era viva o morta?
La fuga delle damane degli Atha’an Miere e l’assassinio della regina Tylin la facevano propendere in favore della sua morte. Tre eventi di quella portata accaduti per caso la stessa notte erano troppi per far pensare a una coincidenza, e i primi due erano tanto terribili di per sé da far pensare al peggio per Tuon. Qualcuno stava cercando di diffondere la paura fra i Rhyagelle, Coloro che Tornano a Casa, forse per sabotare l’intero Ritorno. Quale modo migliore di ottenerlo se non assassinare Tuon? Peggio ancora, doveva essere uno dei loro. Dal momento che lei era sbarcata sotto il velo, nessuno del luogo sapeva chi era Tuon. Tylin era stata sicuramente uccisa con l’Unico Potere, da una sul’dam e dalla sua damane. Suroth aveva sussultato all’idea che la colpa fosse delle Aes Sedai, tuttavia prima o poi qualcuno che contava avrebbe domandato in che modo una di quelle donne era potuta entrare all’interno di un palazzo pieno di damane in una città piena di damane e non essere individuata. Almeno una sul’dam era stata necessaria per rimuovere il collare alle damane del Popolo del Mare. E due delle sue stesse sul’dam erano scomparse quasi allo stesso tempo.
In ogni caso, la loro assenza era stata notata due giorni dopo, e nessuno le aveva più viste dalla notte in cui Tuon era sparita. Lei non credeva che fossero coinvolte, anche se erano state nei canili. Innanzitutto non riusciva a immaginare che Renna o Seta potessero togliere il collare a una damane. Di certo avevano motivo per sgattaiolare via e cercare un impiego molto lontano, presso qualcuno che ignorasse il loro sporco segreto, qualcuno come questa Egeanin Tamarath che aveva rubato un paio di damane. Un fatto strano per una persona da poco innalzata al Sangue. Strano ma irrilevante; lei non riusciva a vedere alcun modo per legarlo al resto. Era probabile che la donna avesse scoperto che le tensioni e le complicazioni della nobiltà erano troppo per una semplice navigante. Be’, prima o poi sarebbe stata trovata e arrestata.
Il fatto importante, quello potenzialmente letale, era che Renna e Seta erano sparite e nessuno poteva dire esattamente dove fossero andate. Se la persona sbagliata avesse notato la loro partenza così ravvicinata rispetto al momento critico e ne avesse tratto la deduzione sbagliata... Premette la parte inferiore dei palmi contro gli occhi ed emise un lieve sospiro, quasi un gemito.
Perfino se fosse sfuggita al sospetto di aver assassinato Tuon, se la donna era morta, lei stessa sarebbe stata obbligata a scusarsi davanti all’imperatrice, che potesse vivere per sempre. Per la morte dell’erede designata al Trono di Cristallo, le sue scuse sarebbero state protratte, in modo tanto doloroso quanto umiliante; sarebbe potuto terminare con la sua esecuzione o, peggio ancora, mandandola sul ceppo come proprietà. Non che si potesse arrivare davvero a tanto, anche se spesso nei suoi incubi era così. La sua mano scivolò sotto i cuscini per toccare il pugnale sguainato lì sotto. La lama era poco più lunga della sua mano, tuttavia più che affilata per tagliarsi le vene, preferibilmente dentro un bagno caldo. Se fosse giunto il momento delle scuse, lei non sarebbe vissuta per raggiungere Seandar. Il disonore forse sarebbe stato un po’ ridotto se abbastanza persone avessero ritenuto quell’atto in sé come delle scuse. Lei avrebbe lasciato una lettera per spiegarlo. Quella avrebbe potuto aiutare.
Tuttavia c’era una possibilità. Tuon poteva essere ancora viva, e Suroth vi si aggrappava. Ucciderla e far sparire il cadavere poteva essere una mossa misteriosa ordinata fin da Seanchan da una delle sue sorelle ancora in vita che bramava il trono, però Tuon aveva inscenato la propria scomparsa più di una volta. A sostegno di quella tesi, la der’sul’dam di Tuon aveva portato tutte le sue sul’dam e damane in campagna per esercitarsi nove giorni prima, e da allora non erano state viste. Per gli esercizi delle damane non occorrevano nove giorni. E proprio quel giorno — no; quello precedente, ormai, da qualche ora — Suroth aveva appreso che anche il capitano della scorta di Tuon aveva lasciato la città nove giorni prima con un notevole contingente dei suoi uomini e non era tornato. Era troppo per essere una coincidenza: era quasi una prova. Quasi sufficiente a sperare, perlomeno. Ciascuna delle sparizioni precedenti, però, aveva fatto parte della campagna di Tuon per ottenere l’approvazione dell’imperatrice, che potesse vivere per sempre, ed essere nominata sua erede. Ogni volta qualche rivale tra le sue sorelle era stata costretta o incoraggiata ad atti che l’avevano indebolita quando Tuon era ricomparsa. Che bisogno aveva di stratagemmi del genere qui, ora?, pensava. Lambiccandosi il cervello più che poteva, Suroth non riusciva a trovare un degno bersaglio fuori da Seanchan. Aveva considerato la possibilità di essere lei stessa l’obiettivo, ma solo brevemente e soltanto perché non riusciva a pensare a nessun altro. Tuon avrebbe potuto privarla della sua posizione nel Ritorno con tre parole. Tutto quello che doveva fare era rimuovere il velo; qui la Figlia delle Nove Lune, al comando del Ritorno, parlava con la voce dell’impero. Il semplice sospetto che Suroth fosse Atha’an Shadar, ciò che da questa parte dell’Oceano Aryth chiamavano un ‘Amico delle Tenebre’, sarebbe potuto essere sufficiente per Tuon per consegnarla ai Cercatori affinché la interrogassero. No, Tuon stava mirando a qualcos’altro. Se era ancora viva. Ma doveva esserlo. Suroth non voleva morire. Sfiorò la lama.
Chi o cos’altro non aveva importanza, se non per fornirle un indizio su dove poteva essere Tuon: quello era davvero importante. Immensamente importante. Malgrado l’annuncio di una spedizione prolungata di ispezione, fra il Sangue circolava già la voce che lei fosse morta. Più rimaneva dispersa, più quelle voci sarebbero cresciute, e con esse la pressione su Suroth perché tornasse a Seandar e presentasse le sue scuse. .Poteva resistere solo fino a un certo punto prima di essere giudicata sei’mosiev a un grado tale che solo i suoi stessi servitori e proprietà le avrebbero obbedito. I suoi occhi sarebbero stati schiacciati nel fango. Il basso Sangue così come l’Alto si sarebbero rifiutati di parlare con lei... forse perfino i comuni cittadini. Molto presto si sarebbe ritrovata su una nave, a prescindere dalla sua volontà.
Senza dubbio Tuon sarebbe stata contrariata di essere trovata, tuttavia pareva improbabile che la sua disapprovazione si sarebbe estesa fino a disonorare Suroth e a costringerla a tagliarsi i polsi; perciò Tuon doveva essere trovata. Ogni Cercatore nell’Altara era sulle sue tracce... quelli che Suroth conosceva, perlomeno. I Cercatori della stessa Tuon non erano fra quelli noti, eppure dovevano essere impegnati nelle sue ricerche sforzandosi il doppio rispetto agli altri. A meno che lei non li avesse messi a parte dei suoi piani. Ma in diciassette giorni tutto ciò che era stato scoperto era quella ridicola storia di Tuon che estorceva gioielli agli orafi, e questo era noto a ogni soldato semplice. Forse. La porta ad arco che dava sull’anticamera iniziò ad aprirsi lentamente e Suroth chiuse l’occhio destro per proteggere la propria visuale notturna dalla luce della stanza esterna. Non appena il varco fu abbastanza ampio, una donna nelle vesti diafane di una da’covale scivolò nella sua camera da letto e chiuse delicatamente la porta dietro di sé, facendo piombare la stanza in un’oscurità nera come la pece. Finché Suroth non aprì di nuovo l’occhio e distinse una sagoma che strisciava verso il suo letto. E un’altra ombra, enorme, che torreggiò all’improvviso in un angolo della stanza quando Almandaragal si alzò in piedi senza il minimo rumore. Il lopar poteva attraversare la stanza e spezzare il collo di quella sciocca in un istante, ma Suroth tenne la mano stretta sull’elsa del suo pugnale. Era saggio avere una seconda linea di difesa perfino quando la prima sembrava inespugnabile. A un passo dal letto la da’covale si fermò. Il suo respiro affannoso rompeva il silenzio.
«Ti stai facendo coraggio, Liandrin?» chiese Suroth in tono severo. Quei capelli color miele, raccolti in treccine, erano stati sufficienti a rivelare la sua identità.
Con uno squittio, la da’covale cadde in ginocchio e si chinò per premere il volto contro il tappeto. Quello lo aveva imparato, perlomeno. «Sai che non ti farei del male, Somma Signora» mentì. «Sai che non lo farei.» La sua voce era frettolosa, carica di affannoso panico. Imparare quando parlare e quando tacere pareva andare oltre le sue capacità proprio come imparare a parlare col dovuto rispetto. «Siamo entrambi vincolati a servire il Signore Supremo, Somma Signora. Non ho dimostrato di essere utile? Ho eliminato Alwhin per te, sì? Hai detto di volerla morta, Somma Signora, e io l’ho eliminata.»
Suroth fece una smorfia e si mise a sedere al buio, lasciando scivolare il lenzuolo fino in grembo. Era così facile dimenticare che i da’covale erano lì, perfino questa da’covale, e poi ti lasciavi sfuggire cose che non avresti dovuto. Alwhin non era stata pericolosa, semplicemente una seccatura, maldestra nella sua posizione come Voce di Suroth. Aveva ottenuto quanto voleva nel raggiungerla e le probabilità che la rischiasse per qualcosa come un insignificante tradimento erano state scarse. Certo, se si fosse rotta il collo cadendo da una rampa di scale, Suroth avrebbe provato un certo sollievo come liberarsi da un’irritazione, ma il veleno che aveva lasciato la donna con gli occhi strabuzzati e il volto bluastro era un’altra faccenda. Perfino con la ricerca di Tuon in corso, questo aveva fatto rivolgere gli occhi dei Cercatori sulla residenza di Suroth. Lei era stata costretta a insistere su questo, per l’assassinio della sua Voce. Accettava che ci fossero Ascoltatori in casa sua; ogni palazzo aveva la sua parte di Ascoltatori. I Cercatori non si limitavano ad ascoltare, però, e avrebbero potuto scoprire quello che doveva rimanere nascosto.
Mascherare la sua rabbia richiese uno sforzo sorprendente e il suo tono fu più freddo di quanto voleva. «Spero che tu non mi abbia svegliato semplicemente per supplicare ancora, Liandrin.»
«No, no!» La sciocca sollevò la testa e la guardò proprio dritto negli occhi! «È arrivato un ufficiale da parte del generale Caigan, Somma Signora. Attende di condurti dal generale.»
La testa di Suroth pulsò per l’irritazione. Quella donna ritardava la consegna di un messaggio da Caigan e la guardava negli occhi? Al buio, certo, eppure lei fu assalita dall’impulso di strangolare Liandrin con le sue nude mani. Una seconda morte subito dopo la prima avrebbe intensificato l’interesse dei Cercatori nella sua casa, se ne fossero venuti a conoscenza, ma Elbar poteva sbarazzarsi facilmente del cadavere: era abile in compiti del genere.
Ma gradiva talmente possedere l’ex Aes Sedai che un tempo era stata così altezzosa con lei. Renderla una perfetta da’covale sotto ogni aspetto sarebbe stato un enorme piacere. Era tempo di mettere il collare alla donna, però. Fra i suoi servitori stavano già circolando voci irritanti su una marath’damane senza collare. Per le sul’dam sarebbe stata una sorpresa passeggera scoprire che Liandrin era schermata in qualche modo così da non poter incanalare, tuttavia questo avrebbe aiutato a rispondere alla domanda del perché non le fosse stato messo il collare prima. Elbar avrebbe dovuto trovare una qualche Atha’an Shadar fra le sul’dam, però. Quello non era mai un compito semplice: relativamente poche sul’dam si votavano al Signore Supremo — stranamente — e lei non si fidava più di nessuna sul’dam, ma forse si poteva contare sulle Atha’an Shadar più che sulle altre.
«Accendi due lampade, poi portami una vestaglia e delle pantofole» ordinò, spostando le gambe oltre il bordo del letto.
Liandrin si affrettò verso il tavolo sul quale si trovava la ciotola in ceramica munita di coperchio sul suo treppiede dorato e si lasciò sfuggire un sibilo quando la toccò con una mano incauta, ma fu rapida a utilizzare le pinze per tirar fuori un tizzone rovente. Vi soffiò sopra fino a farlo risplendere, poi accese due delle lampade argentate, regolando gli stoppini in modo che le fiammelle fossero costanti e non facessero fumo. La sua lingua poteva lasciar intendere che si sentiva pari a Suroth piuttosto che sua proprietà, ma la cinghia le aveva insegnato a obbedire ai comandi con solerzia. Voltandosi con una delle lampade in mano, sobbalzò ed emise un grido strozzato alla vista di Almandaragal che torreggiava nell’angolo, con i suoi occhi scuri e cerchiali da rilievi fissi su di lei. Come se non l’avesse mai visto prima! Tuttavia era uno spettacolo spaventoso, alto dieci piedi e pesante quasi duemila libbre, con la sua pelle glabra come cuoio marrone-rossastro, che fletteva le sue zampe anteriori a sei dita, così da estendere e ritrarre i suoi artigli, estenderli e ritrarli.
«Riposo» disse Suroth al lopar; un comando familiare, ma quello spalancò la bocca, mostrando denti aguzzi prima di accomodarsi di nuovo per terra e appoggiare la sua enorme testa tonda sulle zampe come un cane. Non richiuse gli occhi, però. I lopar erano piuttosto intelligenti, ed era chiaro che non si fidava di Liandrin più di quanto lo facesse Suroth.
Nonostante occhiate impaurite ad Almandaragal, la da’covale fu abbastanza lesta da andare a prendere pantofole di velluto blu e vestaglia di seta bianca con un intricato ricamo verde, rosso e blu dall’alto guardaroba intagliato, e la tenne tesa verso Suroth in modo che lei potesse infilare le braccia nelle maniche; ma Suroth dovette legare da sé la lunga fascia e poi protendere un piede prima che Liandrin si ricordasse di inginocchiarsi e calzarle le pantofole. Per i suoi occhi, quanto era incompetente quella donna!
Nella luce fioca, Suroth si guardò nello specchio dorato a figura intera addossato alla parete. I suoi occhi erano infossati e adombrati di stanchezza, la coda della sua cresta le pendeva lungo la schiena in una treccia floscia per aver dormito, e senza dubbio il suo scalpo aveva bisogno di un rasoio. Molto bene, il messaggero di Galgan avrebbe pensato che lei era addolorata per Tuon, e questo per certi versi era vero. Prima di ricevere il messaggio del generale, però, aveva ancora una piccola faccenda di cui occuparsi.
«Corri da Rosala e supplicala di picchiarti per bene, Liandrin» disse.
La stretta boccuccia della da’covale si spalancò e lei sgranò gli occhi dallo sconcerto. «Ma perché?» si lagnò. «Non ho fatto nulla, io.»
Suroth tenne impegnate le mani annodando la fascia più stretta per trattenersi dal colpire la donna. Avrebbe dovuto tenere gli occhi bassi per un mese se si fosse saputo che aveva colpito una da’covale di persona. Di certo non doveva delle spiegazioni alla proprietà, ma una volta che Liandrin fosse stata del tutto addestrala, le sarebbero mancate le opportunità di schiacciare la faccia della donna per rammentarle quanto era caduta in basso.
«Perché hai tardato a dirmi del messaggero del generale. Perché continui a chiamare te stessa ‘io’ invece di ‘Liandrin.’ Perché incroci il mio sguardo.» Non riuscì a fare a meno di sibilare quell’ultima frase, poi abbassò gli occhi sul pavimento, come se quello potesse mitigare la sua trasgressione.
«Perché hai messo in discussione i miei ordini invece di obbedire, lì, da ultimo — ultimo, ma per te più importante — perché io desidero che tu venga percossa. Ora corri e riferisci a Rosala tutte queste ragioni, in modo che possa picchiarti a dovere.»
«Liandrin sente e obbedisce, Somma Signora» piagnucolò la da’covale, facendo finalmente qualcosa di giusto, e si precipitò verso la porta così in fretta che perse una delle sue pantofole bianche. Troppo terrorizzata per voltarsi a raccoglierla o forse perfino per accorgersene — e buon per lei che lo fosse — aprì la porta raspando e fuggì. Mandare la proprietà a ricevere una punizione non avrebbe dovuto recare un senso di soddisfazione, ma lo fece. Oh, se lo fece.
Suroth si concesse un momento per controllare il proprio respiro. Apparire addolorata era una cosa, sembrare agitata era del tutto diverso. Era colma di irritazione verso Liandrin: sconvolgenti ricordi dei suoi incubi, timori per il destino di Tuon e ancor di più per il proprio, ma non seguì la da’covale finché il volto nello specchio non mostrò una calma totale.
L’anticamera della sua stanza da letto era decorata secondo la sgargiante moda di Ebou Dar, un soffitto azzurro con nubi dipinte, pareti dorate e piastrelle verdi e gialle. Perfino rimpiazzare il mobilio con i suoi alti paraventi, tutti tranne due dipinti dagli artisti più raffinati con uccelli o fiori, era servito a poco per attenuare quella vistosità. Mugugnò piano alla vista della porta esterna, apparentemente lasciata aperta da Liandrin nella sua fuga, ma lei scacciò dalla mente la da’covale per quel momento e si concentrò sull’uomo che se ne stava lì a esaminare il paravento sul quale era rappresentato un kori, un grosso gatto a macchie dal Sen T’jore. Snello e brizzolato, in un’armatura a strisce blu e gialle, si voltò in modo armonioso al lieve rumore dei suoi passi e si mise in ginocchio, anche se era un comune cittadino. L’elmo sotto il suo braccio recava tre esili piume azzurre, perciò il messaggio doveva essere importante. Era ovvio che doveva essere importante, per disturbarla a quell’ora. Gli avrebbe concesso una dispensa. Per quella volta.
«Generale di stendardo Mikhel Najirah, Somma Signora. Il capitano generale Galgan ti porge i suoi omaggi, e ha ricevuto comunicazioni da Tarabon.»
Suroth sollevò le ciglia senza volere. Tarabon?, si disse. Tarabon era sicura quanto Seandar. Le sue dita si contrassero in modo istintivo, ma lei non aveva ancora trovato un rimpiazzo per Alwhin. Doveva parlare con quell’uomo di persona. L’irritazione per questo fatto le indurì la voce e lei non fece alcuno sforzo per ammorbidirla. Si era inginocchiato invece di prostrarsi! «Che comunicazioni? Se sono stata svegliata per notizie degli Aiel, non sarò compiaciuta, generale di stendardo.»
Il suo tono non riuscì a intimidire l’uomo. Lui arrivò perfino a sollevare gli occhi fin quasi a incontrare i suoi. «Non Aiel, Somma Signora» disse con calma. «Il capitano generale Galgan desidera dirtelo di persona, in modo che tu possa udire ogni dettaglio in modo corretto.»
A Suroth si mozzò il fiato per un istante. Che Najirah fosse solo riluttante a riferirle i contenuti delle comunicazioni o che gli fosse stato ordinato di non farlo, questo non lasciava presagire nulla di buono. «Fai strada» gli ordinò, poi uscì dalla stanza senza aspettarlo, ignorando come meglio poteva la coppia di Sorveglianti della Morte immobili come statue nel corridoio da entrambi i lati della porta. L’onore di essere sorvegliata da quegli uomini in armatura rossa e verde le faceva accapponare la pelle. Fin dalla scomparsa di Tuon, lei cercava di non vederli affatto.
Il corridoio, fiancheggiato da lampade su sostegni dorati le cui fiamme tremolavano per refoli passeggeri che agitavano arazzi di navi, era vuoto tranne per pochi servitori di palazzo in livrea che si affrettavano per compili mattutini, i quali ritenevano sufficienti profondi inchini e riverenze. E la guardavano sempre in modo diretto! Forse doveva scambiare qualche parola con Beslan? No, si disse. Il nuovo re dell’Altara era suo pari adesso, per la legge quantomeno, e Suroth dubitava che lui avrebbe fatto in modo che i suoi servitori si comportassero in modo appropriato. Tenne lo sguardo fisso davanti a sé mentre camminava. In quel modo non era costretta a vedere gli insulti dei servitori.
Najirah la raggiunse rapidamente, con gli stivali che risuonavano sulle piastrelle di un azzurro troppo vivido, e procedette al suo fianco. In realtà a lei non serviva alcuna guida. Sapeva dove Galgan doveva trovarsi.
La stanza era stata adibita inizialmente al ballo, un quadrato di trenta passi di lato, col soffitto dipinto con pesci e uccelli fantastici che saltellavano in maniera spesso confusa tra nuvole e onde. Restava solo il soffitto a ricordare la funzione iniziale di quella stanza. Adesso lampade da specchi su sostegni e scaffali pieni di rapporti custoditi in cartelle di cuoio fiancheggiavano le pareti rosso chiaro. Funzionari in giacca marrone si affrettavano negli spazi tra i lunghi tavoli ricoperti di mappe che ricoprivano la pista da ballo a piastrelle verdi. Una giovane ufficiale, un sottotenente senza nessuna piuma sul suo elmo rosso e giallo, superò di corsa Suroth senza nemmeno accennare a prostrarsi. I funzionari si limitavano a togliersi dalla sua strada. Galgan dava troppa corda ai suoi. Affermava che quelle che lui definiva eccessive cerimonie ‘nel momento sbagliato’ ostacolavano l’efficienza; lei la chiamava sfacciataggine.
Lunal Galgan, un uomo alto con una veste rossa riccamente ornata con uccelli dal piumaggio sgargiante, i capelli della sua cresta di un bianco candido e poi intrecciati in uno stretto ma disordinato codino che gli pendeva sulla spalla, se ne stava a un tavolo vicino al centro della stanza, con un gruppetto di altri ufficiali di alto rango, alcuni dei quali indossavano le corazze, altri le vestaglie ed erano scompigliati quasi quanto lei. Pareva che Suroth non fosse la prima a cui lui aveva mandato un messaggero. Si sforzò di tenere lontana la rabbia dal suo volto. Galgan era arrivato con Tuon e con il Ritorno, e così Suroth sapeva poco di lui tranne che possedeva un’ottima reputazione come soldato e generale e che i suoi antenati erano stati fra i primi a garantire il loro sostegno a Luthair Paendrag. Be’, la reputazione e la verità a volte combaciavano. Lei lo disprezzava del tutto per quello che era.
Galgan si voltò quando lei si avvicinò e le appoggiò formalmente le mani sulle spalle, baciandola su entrambe le guance, cosicché lei fu costretta a restituire quel saluto cercando al contempo di non arricciare il naso per il forte odore muschiato. Il volto di Galgan era liscio quanto le sue rughe gli consentivano, ma a lei parve di notare un accenno di preoccupazione nei suoi occhi azzurri. Parecchi uomini e donne dietro di lui, perlopiù basso Sangue e comuni cittadini, mostravano un evidente cipiglio.
La vasta mappa di Tarabon stesa sul tavolo di fronte a lei e tenuta agli angoli da quattro lampade era un sufficiente motivo di preoccupazione. Era coperta di indicatori, punte rosse per forze seanchan in movimento e stelle rosse per forze stanziate in un posto, ciascuna che sorreggeva una bandierina di carta su cui erano segnati i loro numeri e la composizione. Sparpagliati per la mappa, per l’intera mappa, c’erano dischi neri che contrassegnavano gli scontri, e ancora più dischi bianchi per le forze nemiche, molti dei quali senza bandierine. Come potevano esserci dei nemici a Tarabon? Era sicura quanto...
«Cos’è successo?» domandò lei.
«Sono cominciati ad arrivare dei raken con rapporti dal tenente generale Turan circa tre ore fa» esordì Galgan in tono colloquiale. Appositamente per non presentare un rapporto di persona. Esaminava la mappa mentre parlava, non guardando mai nella sua direzione. «Non sono completi — ogni nuovo rapporto va a contribuire alla lista, e mi aspetto che questo non cambierà per un po’ —, ma quello che ho visto procede in questo modo. Dall’alba di ieri, sette campi di rifornimento principali sono stati sopraffatti e bruciati, assieme a più di due dozzine di accampamenti più piccoli. Venti convogli di provviste sono stati attaccati, i loro carri e i loro contenuti incendiati. Diciassette piccoli avamposti sono stati spazzati via, undici pattuglie non si sono presentate a rapporto e ci sono state altre quindici schermaglie. Anche alcuni attacchi contro i nostri coloni. Solo una manciata di vittime, perlopiù uomini che cercavano di difendere i loro averi, ma un bel po’ di carri e magazzini sono stati incendiati assieme ad alcune case in via di costruzione, e lo stesso messaggio è stato recapitato dappertutto. Via da Tarabon. Tutto ciò è stato compiuto da bande di duecento a forse cinquecento uomini. Le stime parlano di un minimo di diecimila, forse il doppio, quasi tutti Tarabonesi. Ah, sì» terminò in tono disinvolto «e molti di loro indossano armature dipinte a strisce.»
Suroth voleva digrignare i denti. Galgan comandava i soldati del Ritorno, tuttavia lei comandava gli Hailene, i Precursori, e come tale era lei a possedere il grado più alto, nonostante la cresta e le dita laccate di rosso di Galgan.
Suroth sospettava che l’unica ragione per cui lui non aveva affermato che i Precursori erano stati ricompresi nel Ritorno al suo stesso arrivo fosse che soppiantare lei significava assumersi la responsabilità per la sicurezza di Tuon. E per quelle scuse, se fossero diventate necessarie.
‘Disprezzo’ era un termine troppo lieve. Lei odiava Galgan.
«Un’insubordinazione?» chiese Suroth, orgogliosa della freddezza nella propria voce. Ma all’interno aveva iniziato ad avvampare.
Il codino bianco di Galgan ondeggiò un poco mentre lui scuoteva la testa. «No. Tutti i rapporti informano che i nostri Tarabonesi hanno combattuto bene e abbiamo conseguito alcuni successi e preso qualche prigioniero. Nessuno di loro compare sulle liste dei Tarabonesi leali. Diversi sono Fautori del Drago che si riteneva si trovassero su nell’Arad Doman. E il nome Rodel Ituralde è stato menzionato svariate volte come l’ideatore di tutto quanto e loro condottiero. Un Domanese. A quanto pare è uno dei migliori generali da questo lato dell’oceano, e se ha pianificato e messo in pratica tutto questo» fece passare una mano sopra la mappa «allora ci credo!» Quello sciocco suonava adorante! «Non un’insubordinazione. Una scorreria su vasta scala. Ma non si allontanerà con tanti uomini quanti quelli che ha portato con sé.»
Fautori del Drago. Erano come un pugno serrato sulla gola di Suroth. «Ci sono Asha’man?»
«Quei tipi in grado di incanalare?» Galgan fece una smorfia e si segnò per scacciare il male, apparentemente senza nemmeno accorgersene. «Non c’è stata nessuna segnalazione su di loro,» disse in tono asciutto «e se fossero stati presenti ce ne sarebbero state.»
Aveva bisogno di sbollire una rabbia incandescente contro Galgan, ma urlare contro un altro dell’Alto Sangue l’avrebbe costretta ad abbassare gli occhi, e, peggio ancora, non ne avrebbe guadagnato nulla. Suroth era orgogliosa di quello che aveva compiuto a Tarabon, ma ora quel paese pareva quasi ripiombato nel caos in cui l’aveva trovato quando vi era sbarcata. E la colpa era di un uomo solo. «Questo Ituralde.» Il suo tono era glaciale. «Voglio la sua testa!»
«Non temere» mormorò Galgan, ripiegando le mani dietro la schiena e chinandosi a esaminare alcune delle bandierine. «Non passerà molto tempo prima che Turan lo ricacci nell’Arad Doman con la coda tra le gambe, e, con un po’ di fortuna, sarà in una delle bande che non ci sfuggiranno.»
«Fortuna?» sbottò lei. «Non confido nella fortuna.» La sua rabbia era evidente ora, e non prese nemmeno in considerazione di reprimerla di nuovo. I suoi occhi scrutarono la mappa come se potesse trovare Ituralde a quel modo. «Se Turan sta dando la caccia a cento bande, come lasci intendere, gli serviranno molti più esploratori per catturarle, e io voglio che siano catturate. Fino all’ultima. In particolare Ituralde. Generale Yulan, voglio quattro raken su cinque... no, nove raken su dieci trasferiti da Altara e Amadicia a Tarabon. Se Turan non riesce a trovarli tutti così, allora può vedere se la sua testa mi soddisfa.»
Yulan, un uomo basso e scuro avvolto in una vestaglia azzurra, ricamata con aquile dalla cresta nera, doveva essersi vestito con troppa fretta per applicare l’adesivo che di norma gli teneva la parrucca al suo posto, e continuava a toccare quella cosa per accertarsi che fosse dritta. Era il capitano dell’aria dei Precursori, ma il capitano dell’aria del Ritorno era soltanto un generale di stendardo, dal momento che un ufficiale più anziano era morto durante il viaggio. Yulan non avrebbe avuto problemi con lui.
«Una mossa saggia, Somma Signora,» disse, accigliandosi verso la mappa «ma posso suggerire di lasciare al loro posto i raken in Amadicia e quelli assegnati al generale di stendardo Khirgan? I raken sono il modo migliore che abbiamo per individuare gli Aiel, e in due giorni non abbiamo ancora trovato quei Manti Bianchi. Questo darà comunque al generale Turan...»
«Gli Aiel rappresentano un problema sempre minore ogni giorno che passa» disse lei con fermezza «e qualche disertore non è nulla.» Lui assentì, mentre con una mano teneva ferma la parrucca, era solo del basso Sangue, dopotutto.
«Fatico a definire settemila uomini ‘qualche disertore’» borbottò in tono asciutto Caigan.
«Sarà come io ordino!» sbottò lei. Dannazione a quei cosiddetti Figli della Luce! Lei non aveva ancora deciso se rendere da’covale Asunawa e le poche migliaia che rimanevano. Erano rimasti, sì, ma quanto tempo sarebbe passato prima che anche loro tradissero? E poi quell’Asunawa sembrava odiare le damane. Quell’uomo era uno squilibrato!
Galgan scrollò le spalle, del tutto imperturbato. Un’unghia laccata di rosso tracciò alcune linee sulla mappa come se stesse pianificando movimenti di truppe. «Io non sollevo obiezioni, sempre che tu non voglia anche i to’raken. Il piano deve andare avanti. L’Altara sta cadendo nelle nostre mani senza quasi alcun combattimento, io non sono ancora pronto a procedere con Illian e abbiamo bisogno di affrettarci a pacificare di nuovo Tarabon. La gente si rivolterà contro di noi se non riusciamo a garantire loro la sicurezza.»
Suroth cominciò a pentirsi di aver lasciato trasparire la propria rabbia. Lui non sollevava obiezioni? Lui non era pronto a procedere con Illian? Stava praticamente dicendo che non doveva seguire i suoi ordini, solo non apertamente, in modo da non doversi assumere le responsabilità legate alla sua autorità.
«Mi aspetto che questo messaggio venga inviato a Turan, generale Galgan.» La sua voce era ferma, mantenuta tale solo dalla forza di volontà. «Ha il compito di mandarmi la testa di Rodel Ituralde, anche se dovesse braccare quell’uomo per tutto l’Arad Doman e fino alla Macchia. E se non dovesse portarmi la testa di Ituralde, io prenderò la sua.»
La bocca di Galgan si irrigidì brevemente e lui abbassò uno sguardo corrucciato verso la mappa. «A volte Turan ha bisogno di avere un fuoco sotto di sé» borbottò «e l’Arad Doman è sempre stato la sua successiva destinazione. Molto bene. Il tuo messaggio verrà inviato, Suroth.»
Non riusciva più a rimanere nella stessa stanza con lui: Suroth se ne andò senza una parola. Se avesse parlato, avrebbe urlato. Si diresse a grandi passi verso le sue stanze senza curarsi di mascherare il proprio furore. I Sorveglianti della Morte parvero non notarlo, ovviamente: erano come intagliati nella pietra. Il che le permise di sbattere dietro di sé la porta dell’anticamera con uno schianto. Forse questo l’avevano notato!
Procedendo verso il suo letto, scalciò via le pantofole e lasciò cadere vestaglia e fascia sul pavimento. Doveva trovare Tuon. Era necessario. Se solo fosse riuscita a intuire il bersaglio di Tuon, a intuire dove si trovava. Se solo...
Tutt’a un tratto le pareti della sua camera da letto, il soffitto, perfino il pavimento iniziarono a rifulgere di una luce argentea. Quelle superfici sembravano essere diventate luce. Con la bocca spalancata dallo sconcerto, si voltò lentamente, fissando la scatola di luce che la circondava, e si ritrovò a guardare una donna fatta di fiamme turbinanti, abbigliata di fiamme turbinanti. Almandaragal era in piedi, in attesa dell’ordine della sua padrona di attaccare.
«Io sono Semirhage» disse la donna di fuoco con voce simile al rintocco di un gong funebre.
«Sulla pancia, Almandaragal!» Quel comando, insegnato da bambina perché la divertiva far prostrare il lopar davanti a sé, terminò con un grugnito poiché lei stessa vi obbedì nell’impartirlo. Con la bocca premuta contro il tappeto a motivi rossi e verdi, disse: «Vivo per servire e obbedire, Suprema Padrona.» Nella sua mente non c’era dubbio che quella donna fosse chi diceva di essere. Chi avrebbe osalo rivendicare falsamente quel nome? O chi poteva apparire come fuoco vivente?
«Ritengo che ti piacerebbe anche governare.» Quel rintocco di gong suonava piuttosto divertito, ma poi si indurì. «Guardami! Detesto il modo in cui voi Seanchan evitate di incrociare gli sguardi. Mi fa credere che stiate nascondendo qualcosa. Tu non vorrai certo provare a nascondermi qualcosa, Suroth.»
«Certo che no, Suprema Padrona» disse Suroth, sollevandosi per sedere sui talloni. «Mai, Suprema Padrona.» Alzò lo sguardo fino alla bocca dell’altra donna, ma non riuscì a costringersi a salire di più. Di certo doveva bastare.
«Meglio» mormorò Semirhage. «Ora. Ti piacerebbe governare su queste terre? Una manciata di morti — Caigan e pochi altri — e potresti riuscire a nominare te stessa imperatrice, col mio aiuto. Non ha molta importanza, ma le circostanze forniscono una tale opportunità, e tu saresti di sicuro più disponibile di quanto lo è stata finora l’imperatrice attuale.»
Lo stomaco di Suroth si contrasse. Temeva di vomitare. «Suprema Padrona,» disse in tono smorto «il castigo per questo consiste nell’essere portati di fronte alla vera imperatrice, che possa vivere per sempre, ed essere privati di tutta la pelle, mantenuti in vita per l’intero processo con estrema cura. Dopodiché...»
«Originale, per quanto primitivo» la interruppe Semirhage con voce beffarda. «Ma senza alcuna importanza. L’imperatrice Radhanan è morta. Notevole quanto sangue ci sia in un corpo umano. Abbastanza da coprire l’intero Trono di Cristallo. Accetta l’offerta, Suroth. Non te la proporrò di nuovo. Renderai certe faccende un po’ più comode, ma non abbastanza perché io mi esponga una seconda volta.»
Suroth dovette costringersi a respirare. «Allora Tuon è l’imperatrice, che possa vivere...» Tuon avrebbe assunto un nuovo nome, da pronunciare di rado al di fuori della famiglia imperiale. L’imperatrice era l’imperatrice, che potesse vivere per sempre. Avvolgendo le braccia attorno a sé, Suroth iniziò a singhiozzare, scossa oltre ogni sua capacità di fermarsi. Almandaragal sollevò la testa e uggiolò verso di lei in tono interrogativo.
Semirhage rise, come una musica di cupi rintocchi. «Sei afflitta per Radhanan, Suroth, oppure è il tuo disprezzo per il fatto che Tuon sia diventata imperatrice a essere così profondo?»
Con esitazione, a sprazzi di tre o quattro parole rotte da un pianto incontrollabile, Suroth spiegò. Come erede designata, Tuon era diventata imperatrice nel momento stesso in cui sua madre era morta. Sennonché, se sua madre era stata assassinata, doveva essere opera di una delle sue sorelle, il che voleva dire che Tuon stessa era sicuramente morta. E nulla di tutto ciò faceva la minima differenza. I protocolli dovevano essere rispettati. Lei sarebbe dovuta tornare a Seandar e scusarsi per la morte di Tuon, per la morte dell’imperatrice a quel punto, con la stessa donna che l’aveva disposta. La quale, naturalmente, non sarebbe salita al trono finché la morte di Tuon non fosse stata annunciata. Suroth non riusciva a indurre sé stessa ad ammettere che si sarebbe uccisa prima; era troppo umiliante da pronunciare. Le parole morirono mentre singhiozzi gementi la squassavano. Non voleva morire. Le era stato promesso che sarebbe vissuta per sempre!
La risata di Semirhage fu così sconcertante da far cessare le lacrime di Suroth. La sua testa di fuoco venne gettata all’indietro, emettendo grandi scrosci di ilarità. Alla fine riacquistò il controllo, asciugandosi fiammelle di lacrime con dita infuocate. «Vedo che non mi sono spiegata. Radhanan è morta, così come le sue figlie, i suoi figli e metà della corte imperiale. Non esiste nessuna famiglia imperiale tranne Tuon. Non esiste nessun impero. Seandar è nelle mani di rivoltosi e saccheggiatori, così come una dozzina di altre città. Almeno cinquanta nobili si stanno contendendo il trono, con eserciti sul campo. La guerra imperversa dai monti Aldael a Salaking. Ragion per cui sarai perfettamente al sicuro sbarazzandoti di Tuon e proclamando te stessa imperatrice. Ho perfino fatto in modo che presto giunga una nave per recare notizia del disastro.» Rise di nuovo e pronunciò qualcosa di strano. «Che il Signore del Caos governi.»
Suroth senza volere fissò l’altra donna a bocca aperta. L’impero... distrutto? Semirhage aveva ucciso? L’assassinio non era insolito fra il Sangue, Alto o basso, né all’interno della famiglia imperiale, eppure che qualcun altro colpisse al cuore la famiglia imperiale in quel modo era ripugnante, inconcepibile. Perfino uno dei Da’coneion, dei Prescelti. Ma diventare lei stessa imperatrice, proprio lì... Provò una sensazione di vertigini e un impulso isterico di ridere. Poteva chiudere il cerchio, conquistando quelle terre e poi rimandando gli eserciti a rimpossessarsi di Seanchan. Con uno sforzo riuscì a riprendere il controllo di sé stessa.
«Suprema Padrona, se Tuon è davvero viva, allora... allora ucciderla sarà difficile.» Dovette sforzarsi per pronunciare quelle parole. Uccidere l’imperatrice... anche solo pensarlo era difficile. Diventare imperatrice. Si sentiva come se la testa potesse fluttuarle via dal resto del corpo. Avrà con sé le sue sul’dam e damane, e alcuni dei suoi Sorveglianti della Morte.» Difficile? Ucciderla sarebbe stato impossibile in quelle circostanze. A meno che Semirhage non potesse essere indotta a farlo di persona. Sei damane potevano essere pericolose perfino per lei. Inoltre fra i comuni cittadini c’era un detto: ‘I potenti ordinano agli inferiori di scavare nel fango e tengono le proprie mani pulite.’ Lo aveva sentito per caso e aveva fatto punire l’uomo che l’aveva pronunciato, ma era vero.
«Rifletti, Suroth!» I gong risuonarono forti, imperiosi. «Il capitano Musenge e gli altri sarebbero partiti la notte stessa in cui Tuon e la cameriera se ne sono andate, se avessero avuto un qualche sentore delle sue intenzioni. La stanno cercando. Devi concentrare tutti i tuoi sforzi per trovarla per prima, ma anche se questo fallisse, i Sorveglianti della Morte saranno una protezione inferiore di quello che sembrano. Ogni soldato nel tuo esercito ha udito che almeno alcuni dei Sorveglianti sono coinvolti con un’imbrogliona. Pare che l’opinione comune sia che l’imbrogliona e chiunque sia collegato a lei dovrebbe essere squartato e i pezzi sepolti sotto un cumulo di letame. In silenzio.» Labbra di fuoco si arricciarono in un sorrisetto beffardo. «Per evitare all’impero la vergogna.»
Poteva essere fattibile. Un contingente di Sorveglianti della Morte sarebbe stato facile da localizzare. A Suroth sarebbe servito scoprire con esattezza quanti Musenge aveva portato con sé, e mandare Elbar con cinquanta per ciascuno di loro. No, cento, per tenere conto delle damane. E poi...
«Suprema Padrona, comprendi che sono riluttante a proclamare qualunque cosa finché non sarò certa della morte di Tuon?»
«Ma certo» disse Semirhage. I gong erano divertiti ancora una volta. «Ma ricorda: se Tuon riesce a tornare sana e salva, per me avrà poca importanza, perciò non indugiare.»
«Non lo farò, Suprema Padrona. Intendo diventare imperatrice, e per farlo devo uccidere l’imperatrice.» Questa volta dirlo non fu affatto difficile.
Secondo la valutazione di Pevara, le stanze di Tsutama Rath erano arredate oltre il livello di stravaganza, e quest’opinione non era influenzata dalle sue origini di figlia di macellaio. Il salotto la metteva semplicemente a disagio. Sotto una cornice dorala e intagliala con rondini in volo, alle pareti pendevano due grandi arazzi di seta, uno che raffigurava rose sanguigne di un rosso intenso, l’altro un cespuglio di kaf ma ricoperto di boccioli scarlatti più grandi delle sue due mani messe assieme. I tavoli e le sedie erano pezzi delicati, se si riusciva a ignorare doratura e intagli che sarebbero bastati per qualunque trono. Anche le lampade erano pesantemente dorate, così come la mensola del caminetto di marmo striato di rosso, decorata con cavalli al galoppo. Su diversi tavoli campeggiavano porcellane rosse del Popolo del Mare, fra le più rare, quattro vasi e sei coppe, una piccola fortuna di per sé, assieme a un gran numero di intagli in giada o avorio, nessuno dei quali piccolo, e una figura di donna danzante, alta una mano, che pareva intagliata da un rubino. Un’ostentazione gratuita di lusso, e lei sapeva per certo che oltre al dorato orologio a cilindri sulla mensola, ce n’era un altro nella stanza da letto di Tsutama e perfino uno nel suo spogliatoio. Tre orologi! Questo andava oltre la stravaganza, anche senza considerare la doratura e i rubini.
Tuttavia, quella stanza si addiceva alla donna seduta di fronte a lei e Javindhra. ‘Stravagante’ era il termine esatto per il suo aspetto. Tsutama era una donna dalla bellezza straordinaria, con i capelli raccolti in una reticella dorata, parecchie gocce di fuoco al collo e alle orecchie e vestita sempre di seta cremisi che faceva risaltare il suo seno prosperoso, quel giorno con un ricamo dorato a volute che non faceva che evidenziarlo. Non conoscendola, si sarebbe potuto pensare che volesse attrarre gli uomini. Tsutama aveva reso ben noto il suo disprezzo per gli uomini molto prima di essere mandata in esilio; avrebbe concesso pietà a un cane rabbioso piuttosto che a un uomo.
Allora era stata dura come un martello, eppure molte l’avevano ritenuta una canna spezzata quando era tornata alla Torre. Per un certo periodo, almeno. Poi tutte quelle che trascorrevano del tempo con lei si rendevano conto che quegli occhi che continuavano a muoversi non erano affatto nervosi. L’esilio l’aveva cambiala, ma non l’aveva resa più malleabile. Quegli occhi appartenevano a un gatto selvatico, sempre in cerca di un nemico o di una preda. Il resto del volto di Tsutama non era sereno, quanto piuttosto rigido, una maschera indecifrabile. Sempre che non venisse fatta palesemente arrabbiare, perlomeno. Perfino in tal caso, però, la sua voce rimaneva fredda come ghiaccio. Una combinazione inquietante.
«Stamani ho udito preoccupanti voci sulla battaglia ai Pozzi di Dumai» disse lei all’improvviso.
«Dannatamente preoccupanti.» Ora aveva l’abitudine ai lunghi silenzi, niente chiacchiere, ma affermazioni improvvise e inaspettate. L’esilio aveva anche imbarbarito il suo linguaggio. La fattoria isolata nella quale era stata confinata doveva essere stata... colorita. «Incluso che tre delle Sorelle morte erano della nostra Ajah. Per il latte acido di mia madre!» Tutto pronunciato nei toni più uniformi. Ma i suoi occhi le trapassavano con sguardo accusatorio.
Pevara lo accettò senza battere ciglio. Qualunque occhiata diretta da parte di Tsutama pareva accusatoria e, a disagio o no, Pevara sapeva che non era il caso di permettere all’Altissima di vederlo. Quella donna piombava sulle debolezze come un falco. «Non riesco a capire perché Katerine disobbedirebbe ai tuoi ordini di tenere quanto sa per sé, e tu non puoi credere che per Fama sia possibile gettare discredito su Elaida.» Non pubblicamente, perlomeno; Tarna serbava le sue opinioni su Elaida con la stessa attenzione di un gatto che sorvegliava la tana di un topo. «Ma le Sorelle ricevono rapporti dai loro occhi e orecchie. Non possiamo impedire che apprendano quanto è accaduto. Sono sorpresa che ci sia voluto tanto.»
«E così» aggiunse Javindhra lisciandosi le gonne. La donna angolosa non indossava gioielli tranne l’anello del Gran Serpente, e il suo abito era disadorno, di un rosso tanto intenso da sembrare quasi nero. «Presto o tardi tutti i fatti verranno a galla se lavoriamo fino a farle sanguinare le dita.» La sua bocca era così serrata che pareva stesse mordendo qualcosa, tuttavia aveva l’aria quasi soddisfatta. Strano, questo. Lei era uno dei cagnolini di Elaida.
Lo sguardo di Tsutama si concentrò su di lei e, dopo un momento, un rossore sbocciò sulle guance di Javindhra. Forse come scusa per interrompere il prolungato incontro di sguardi, prese un lungo sorso del suo té. Da una lazza d’oro battuto lavorata con leopardi e cervi, naturalmente, considerato com’era ora Tsutama. L’Altissima continuò a tenere lo sguardo fisso, in silenzio, ma Pevara non avrebbe più saputo dire se su Javindhra o su un punto alle sue spalle.
Quando Katerine aveva portato la notizia che Galina era fra i morti ai Pozzi di Dumai, Tsutama era stata innalzata come suo rimpiazzo quasi per acclamazione. Aveva goduto di un’ottima reputazione come Adunante, perlomeno prima del suo coinvolgimento negli eventi disgustosi che avevano portato alla sua rovina, e molte fra le Rosse ritenevano che i tempi richiedessero l’Altissima più inflessibile che riuscissero a trovare. La morte di Galina aveva sollevato un grosso peso dalle spalle di Pevara — l’Altissima un Amico delle Tenebre; oh, quello sì che era stato un tormento! — eppure non era certa di Tsutama. C’era qualcosa di... sregolato in lei ora. Qualcosa di imprevedibile. Era del tutto sana di mente? D’altro canto si poteva fare la stessa domanda per l’intera Torre Bianca. Quante delle Sorelle erano del tutto sane di mente in quel momento?
Come percependo i suoi pensieri, Tsutama spostò quello sguardo incrollabile su di lei. Non fece arrossire o sobbalzare Pevara, come accadeva invece a molte a parte Javindhra, ma si ritrovò ad auspicare che Duhara fosse lì, solo per dare all’Altissima un’altra Adunante da fissare, per suddividere le sue occhiale. Desiderava sapere dov’era andata quella donna e perché, con un esercito ribelle accampato fuori da Tar Valon. Oltre una settimana prima, Duhara si era semplicemente imbarcata su una nave senza dire nulla a nessuno, a quanto ne sapeva Pevara, e nessuno pareva sapere se si fosse diretta a nord o a sud. E ora Pevara sospettava di chiunque e quasi di tutto.
«Ci hai convocato qui per via di qualcosa in quella lettera, Altissima?» disse infine. Incontrò quello sguardo inquietante privo di espressione; tuttavia stava cominciando a desiderare una lunga sorsata dalla propria tazza, e avrebbe voluto che contenesse vino anziché té. Di proposito appoggiò la lazza sullo stretto bracciolo della sua sedia. Lo sguardo dell’altra donna la fece sentire come se dei ragni le stessero zampettando sulla pelle.
Dopo un lunghissimo momento, gli occhi di Tsutama si abbassarono verso la lettera ripiegata che teneva in grembo. Con la mano impediva che si richiudesse in un piccolo cilindro. Era scritta su quella carta molto sottile usata per i messaggi inviati tramite piccione, e le piccole lettere vergate con l’inchiostro chiaramente visibili attraverso la pagina sembravano coprirla in modo fitto.
«Questa proviene da Sashalle Anderly» disse, suscitando un sussulto di compassione da Pevara e un borbottio che poteva voler dire qualunque cosa da parte di Javindhra. Povera Sashalle. Tsutama continuò senza alcun segno di solidarietà, però. «Quella maledetta donna crede che Galina se la sia cavata, poiché il messaggio è indirizzato a lei. Molto di quello che scrive non fa che confermare quello che già sappiamo da altre fonti, inclusa Toveine. Ma, senza nominarle, dice dannatamente a chiare lettere che lei è ‘a capo di buona parte delle Sorelle nella città di Cairhien.’»
«Come può Sashalle essere a capo di qualunque Sorella?» Javindhra scosse la testa, con un’espressione che negava quella possibilità. «È forse impazzita?»
Pevara rimase in silenzio. Tsutama forniva risposte quando voleva, di rado quando venivano chieste. La precedente lettera di Toveine, anch’essa indirizzata a Galina, non aveva menzionato affatto Sashalle o le altre due, ma naturalmente lei avrebbe reputato l’intero argomento più che disgustoso. Perfino pensarci era come mangiare prugne marce. Buona parte delle sue parole avevano lo scopo di attribuire la colpa degli eventi a Elaida, seppure indirettamente.
Gli occhi di Tsutama guizzarono verso Javindhra come affondi di pugnale, ma proseguì senza esitazioni. «Sashalle riferisce della dannata visita di Toveine a Cairhien con le altre Sorelle e i maledetti Asha’man, anche se chiaramente non sa del dannato vincolo. Trova tutto quanto molto strano, Sorelle che si mescolano agli Asha’man in termini ‘tesi, tuttavia spesso amichevoli.’ Sangue e maledette ceneri! il così che la mette, che io sia folgorata.» Il tono di Tsutama, adatto per discutere il prezzo del merletto, in forte contrasto con l’intensità dei suoi occhi e il suo linguaggio, non dava indicazione di quello che provasse sull’argomento. «Sashalle dice che quando se ne sono andati, hanno portato i dannati Custodi appartenenti a Sorelle che lei ritiene siano con il ragazzo, perciò pare maledettamente certa che lo stessero cercando ed è probabile che ormai l’abbiano trovato. Non ha idea del perché. Ma conferma quanto affermato da Toveine riguardo a Logain. A quanto pare quel maledetto uomo non è più domato.»
«Impossibile» borbottò Javindhra nella sua tazza di té, ma piano. Tsutama odiava che le sue affermazioni venissero contestate. Pevara tenne le proprie opinioni per sé e sorseggiò dalla tazza. Fino a quel momento nella lettera non sembrava esserci nulla degno di essere discusso tranne il fatto che Sashalle potesse essere ‘a capo’ di qualcosa, e lei avrebbe preferito pensare ad altro piuttosto che alle sorti di Sashalle. Il te sapeva di mirtilli. Come aveva fatto Tsutama a procurarsi dei mirtilli già in primavera? Forse erano essiccati.
«Vi leggerò il resto» disse Tsutama, spiegando la pagina e scorrendola quasi fino in fondo prima di cominciare. A quanto pareva, Sashalle era entrata molto nei dettagli. Cos’era che Tsutama non stava condividendo? Così tanti sospetti.
Ho lasciato passare molto tempo senza comunicare poiché non riuscivo a trovare il modo per dire quanto devo, ma ora capisco che raccontare semplicemente i latti è l’unico modo. Assieme ad alcune Sorelle, a cui lascerò la decisione se svelare o meno quello che sto per rivelare io, ho contratto un giuramento di fedeltà verso il Drago Rinato che durerà finché non sarà stata combattuta l’Ultima Battaglia.
Javindhra emise un sonoro rantolo strabuzzando gli occhi, ma Pevara si limitò a sussurrare:
«Ta’veren.» Doveva trattarsi di quello. Secondo lei ta’veren era la spiegazione per buona parte delle voci inquietanti provenienti da Cairhien.
Tsutama continuò a leggere sovrastandole.
Quello che faccio, lo faccio per il bene dell’Ajah Rossa e per il bene della Torre. Se non dovessi essere d’accordo, mi sottometterò alla tua punizione. Dopo Tarmon Gai’don. Come puoi aver udito, Irgain Fatamed, Ronaille Vevanios e io fummo tutte quietale quando il Drago Rinato scappo ai Pozzi di Dumai. Siamo state Guarite, però, da un uomo di nome Damer Flinn, uno degli Asha’man; tutte completamente risanate. Per quanto sembri improbabile, giuro per la Luce e la mia speranza di salvezza e rinascita che ciò è vero. Non vedo l’ora di tornare prima o poi alla Torre, dove pronuncerò di nuovo i Tre Giuramenti per riaffermare la mia dedizione alla mia Ajah e alla Torre. Ripiegando di nuovo la lettera, scosse un poco il capo. «C’è altro, ma si tratta solo di ulteriori dannate suppliche che quello che sta facendo è per la sua Ajah e per la Torre.» Un bagliore nei suoi occhi lasciava intendere che Sashalle avrebbe potuto pentirsi di sopravvivere all’Ultima Battaglia.
«Se Sashalle è stata davvero Guarita...» esordì Pevara, ma non riuscì a proseguire. Si umettò le labbra col té, poi sollevò la tazza e ne mandò giù un’altra sorsata. Sembrava una possibilità meravigliosa in cui sperare, come un fiocco di neve che poteva sciogliersi al solo tocco.
«Questo è impossibile» borbottò Javindhra, anche se non con molta forza. Ciononostante, diresse quel commento verso Pevara per timore che l’Altissima pensasse che fosse indirizzato a lei. Un profondo cipiglio rese il suo volto più severo. «Nessuno può Guarire l’essere domati. Nessuno può Guarire l’essere quietate. E più facile che le pecore volino! Sashalle deve esserselo immaginato.»
«Toveine potrebbe essere in errore,» disse Tsutama con voce molto forte «ma se lo fosse, non capisco perché questi dannati Asha’man lascerebbero che Logain sia uno di loro e addirittura li comandasse, ma faccio fatica a ritenere che Sashalle possa essere maledettamente in errore su sé stessa. E non scrive come se fosse in preda a delle dannate allucinazioni. A volte ciò che è dannatamente impossibile è dannatamente impossibile fino a quando la prima donna non lo fa. Dunque. L’essere quietate è stato Guarito. Da un uomo. Quegli stramaledetti Seanchan stanno incatenando qualunque donna scoprono in grado di incanalare, a quanto pare incluso un buon numero di Sorelle. Dodici giorni fa... Be’, sapete cos’è successo dannatamente bene quanto me. Il mondo è diventato un posto pericoloso come mai prima d’ora dalle Guerre Trolloc, forse dalla Frattura stessa. Perciò ho deciso che procederemo col tuo piano per questi maledetti Asha’man, Pevara. Sgradevole e rischioso, eppure, che io sia folgorata, non c’è nessun’altra dannata scelta. Tu e Javindhra lo predisporrete assieme.»
Pevara trasalì. Non per i Seanchan. Erano umani, qualunque strano ter’angreal possedessero, e prima o poi sarebbero stati sconfitti. Fu la menzione di quello che i Reietti avevano fatto dodici giorni prima a causarle una smorfia, però, nonostante i suoi sforzi per mantenere un volto inespressivo. Non poteva essere stato nessun altro a maneggiare così tanto Potere in un posto solo. Per quanto poteva, evitava di pensare a quell’avvenimento o a cosa avessero potuto cercare di ottenere. O peggio, quello che potevano aver ottenuto. Un secondo sussulto fu provocato dalla proposta di vincolare gli Asha’man definita come sua. Ma quello era stato inevitabile dal momento in cui aveva presentato il suggerimento di Tarna a Tsutama, trattenendo il fiato contro l’esplosione che era certa ne sarebbe seguita. Aveva perfino usato l’argomentazione di aumentare le dimensioni dei circoli collegati includendo degli uomini per contrastare quella mostruosa dimostrazione del Potere. Con sua sorpresa non c’era stata alcuna esplosione e la reazione, di qualunque genere, era stata contenuta. Tsutama si era limitata a dire che ci avrebbe pensato e aveva insistito perché le fossero recapitate dalla Biblioteca le carte relative a uomini e circoli. Il terzo sussulto, il più forte, fu per dover lavorare con Javindhra e per il semplice fatto che le fosse stato affidato quel compito. Aveva già parecchio di cui occuparsi al momento e inoltre lavorare con Javindhra era sempre esasperante. Quella donna obiettava contro tutte le proposte provenienti da chiunque non fosse lei stessa. Quasi tutte.
Javindhra si era opposta con veemenza all’idea di vincolare alcuni Asha’man, inorridita di fronte al pensiero che delle Sorelle Rosse vincolassero qualcuno, e in particolare uomini in grado di incanalare; eppure, adesso che l’Altissima lo aveva ordinato, si voleva costretta. Tuttavia trovò un modo per obiettare. «Elaida non lo permetterà mai» borbottò.
Gli occhi scintillanti di Tsutama incontrarono il suo sguardo e lo sostennero. La donna ossuta deglutì udibilmente.
«Elaida non ne verrà a conoscenza finché non sarà troppo tardi, Javindhra. Tengo nascosti i suoi segreti — il fallimento contro la Torre Nera, i Pozzi di Dumai — meglio che posso poiché è stata elevata dalla Rossa, ma lei è l’Amyrlin Seat, di tutte le Ajah e di nessuna. Questo significa che non è più una Rossa, e queste sono faccende dell’Ajah, non sue.» Un tono pericoloso si fece strada nella sua voce. E non aveva imprecato nemmeno una volta. Questo significava che era sull’orlo di una sfuriata. «Sei in disaccordo con me su questo? Intendi informare Elaida malgrado il mio espresso desiderio?»
«No, Altissima» si affrettò a rispondere Javindhra, poi chinò la testa sulla tazza. Stranamente pareva che stesse celando un sorriso.
Pevara si accontentò di scuotere il capo. Se doveva essere fatto, e lei era certa di sì, allora era chiaro che Elaida doveva rimanerne all’oscuro. Cos’aveva da sorridere Javindhra? Troppi sospetti.
«Sono davvero lieta che entrambe siate d’accordo con me» disse Tsutama, appoggiandosi contro lo schienale della sua sedia. «Ora lasciatemi sola.»
Si soffermarono solo per posare le loro lazze e rivolgerle una riverenza. Nell’Ajah Rossa, quando l’Altissima parlava, tutte obbedivano, incluse le Adunanti. L’unica eccezione, secondo la legge dell’Ajah, era la votazione nel Consiglio, anche se alcune donne che avevano detenuto quel titolo avevano fatto in modo di assicurare che ogni questione che stava loro a cuore andasse come desideravano. Pevara era certa che Tsutama intendeva essere una di quelle. Quel confronto sarebbe stato decisamente spiacevole. Lei sperava solo di poter dare il meglio di sé.
Nel corridoio esterno Javindhra borbottò qualcosa su della corrispondenza e si precipitò lungo le piastrelle bianche contrassegnate dalla rossa Fiamma di Tar Valon prima che Pevara potesse proferire parola. Non che avesse avuto intenzione di dire qualcosa, eppure, poco ma sicuro, quella donna l’avrebbe trascinata dentro fino al collo in quella faccenda e poi l’avrebbe lasciata da gestire tutta a lei. Per la Luce, quella era proprio l’ultima cosa di cui aveva bisogno, soprattutto in quel momento.
Soffermandosi nelle sue stanze solo per il tempo necessario per prendere lo scialle dalla lunga frangia e per controllare che ora fosse — un quarto a mezzogiorno; era quasi delusa che il suo unico orologio coincidesse con quello di Tsutama; spesso gli orologi non lo facevano — lasciò gli alloggi delle Rosse e si affrettò più in profondità nella Torre, fino alle aree comuni sotto le zone abitative. Gli ampi corridoi erano ben illuminati con lampade su sostegni provviste di specchi, ma erano quasi privi di persone, il che li faceva sembrare cavernosi e metteva in risalto le pareti bianche ornate da fregi. L’occasionale increspatura di un vivace arazzo causata da uno spiffero dava una sensazione sinistra, come se la seta o la lana avessero preso vita. Le poche persone che vide erano servitoli e servitrici con la Fiamma di Tar Valori sul petto, che si affrettavano in giro per le loro faccende e si soffermavano a malapena il tempo sufficiente per rivolgerle delle frettolose riverenze. Mantenevano gli occhi bassi. Con le Ajah separate in quelli che parevano accampamenti di guerra, fetida tensione e antagonismo avevano riempito la Torre, e quell’umore aveva influenzato i servitori. Li aveva impauriti, perlomeno.
Non poteva esserne certa, ma pensava che nella Torre rimanessero meno di duecento Sorelle, perlopiù sistemate negli alloggi delle rispettive Ajah tranne in casi di necessità; perciò non si aspettava davvero di incrociare un’altra Sorella. Quando Adelorna Bastine scivolò su per una corta rampa di scale dall’intersezione di un corridoio quasi dritto di fronte a lei, Pevara fu talmente sorpresa da avere un sussulto. Adelorna, che faceva sembrare la sua magrezza imponente nonostante fosse tutt’altro che alta, proseguì senza accorgersi in alcun modo di Pevara. Anche la donna saldeana indossava il proprio scialle — ora nessuna Sorella si faceva vedere fuori dagli alloggi della propria Ajah senza — ed era seguita dai suoi tre Custodi. Bassi e alti, robusti e snelli, avevano con sé le spade, e i loro occhi non smettevano mai di muoversi circospetti. Custodi armati di spada che guardavano palesemente le spalle della loro Aes Sedai, nella Torre. Era fin troppo comune, tuttavia Pevara avrebbe potuto piangere per quello. Solo che c’erano troppe ragioni per piangere per soffermarsi su una in particolare; invece lei si accingeva a risolvere quello che poteva.
Tsutama poteva ordinare alle Rosse di vincolare degli Asha’man, poteva comandare loro di non correre da Elaida, ma pareva meglio cominciare con delle Sorelle che potevano essere disposte a prendere in considerazione quell’idea senza che venisse loro imposto, in particolare con le voci che si andavano diffondendo su tre Sorelle Rosse morte per mano degli Asha’man. Tarna Feir si era già resa disponibile, perciò era il caso di fare una chiacchierata in privato con lei. Poteva darsi che conoscesse altre che la pensavano allo stesso modo. La difficoltà maggiore consisteva nell’avvicinare gli Asha’man con quell’idea. Era molto improbabile che acconsentissero soltanto perché loro stessi avevano già vincolato cinquantuno Sorelle. Luce del mondo, cinquantuno! Toccare quell’argomento avrebbe richiesto una Sorella con doti diplomatiche ed eloquenza. E sangue freddo. Stava ancora meditando sui nomi quando vide la donna che era andata a incontrare, già nel luogo designato, apparentemente intenta a studiare un alto arazzo.
Minuta e snella, regale nel suo abito di seta argento pallido con merletto leggermente più scuro sul collo e ai polsi, Yukiri pareva totalmente assorbita dall’arazzo e piuttosto a suo agio. Pevara riusciva a ricordare di averla vista lievemente turbata in un’unica occasione, e sottoporre Talene a un interrogatorio era stato esasperante per tutte quelle che erano state presenti. Yukiri era sola, naturalmente, anche se di recente l’avevano sentita dire che stava pensando a prendere un nuovo Custode. Senza dubbio questo era dovuto in parti uguali ai tempi correnti e alla loro situazione attuale. Anche a Pevara stessa sarebbero tornati utili uno o due Custodi.
«C’è qualche verità in questo, o è solo la fantasia del tessitore?» domandò, unendosi alla donna più piccola. L’arazzo mostrava un’antica battaglia contro i Trolloc, o questo era l’intento. Molte di quelle opere venivano realizzate parecchio tempo dopo i fatti esposti, perciò i tessitori di solito procedevano per sentito dire. Quello era tanto vecchio da aver bisogno della protezione di un sigillo per impedire che cadesse a pezzi.
«Sugli arazzi ne so quanto un maiale sa di forgiatura, Pevara.» Nonostante tutta la sua eleganza, Yukiri di rado lasciava passare molto tempo senza rivelare le sue origini campagnole. La frangia grigio argento del suo scialle dondolò quando lei se lo strinse attorno. «Sei in ritardo, perciò siamo brevi. Mi sento come una gallina sotto lo sguardo di una volpe. Marris ha ceduto stamattina, e io stessa le ho fatto pronunciare il giuramento di obbedienza, ma come per le precedenti anche la sua ‘altra’ si trova fuori dalla Torre. Con le ribelli, penso.» Tacque quando un paio di servitoci si avvicinarono lungo il corridoio portando un grande canestro di vimini per il bucato con dentro lenzuola accuratamente piegate che sporgevano da sopra.
Pevara sospirò. Era sembrato così incoraggiante all’inizio. Anche spaventoso e quasi soverchiante, eppure era parso che avessero cominciato bene, Talene aveva saputo solo il nome di un’altra Sorella Nera che si trovava effettivamente nella Torre al momento, ma una volta che Atuan era stata rapita — Pevara avrebbe preferito considerarlo un arresto, eppure non poteva farlo dal momento che pareva che stessero violando metà delle Leggi della Torre e pure un bel po’ di usanze fortemente radicate — una volta che Atuan si era trovata senza rischi in mano loro, presto era stata indotta a rivelare i nomi del suo ‘cuore’: Karale Sanghit, una Grigia domanese, e Marris Thornhill, una Marrone andorana. Solo Karale tra loro aveva un Custode, ma anche quello si era rivelato un Amico delle tenebre. Per fortuna, poco dopo aver appreso che la sua Aes Sedai lo aveva tradito, era riuscito ad assumere del veleno nella stanza sotterranea dov’era stato relegato mentre Karale veniva interrogata. Strano pensare a questo come una fortuna, ma il Bastone dei Giuramenti funzionava soltanto su chi era in grado di incanalare, e loro erano troppo poche per sorvegliare e occuparsi di prigionieri.
Era stato un inizio cosi splendido, seppure pieno, e ora si trovavano in uno stallo in attesa che una delle altre tornasse alla Torre a cercare discrepanze fra quello che le Sorelle affermavano di aver fatto e ciò che poteva essere dimostrato come effettivamente fatto, qualcosa reso più difficile dall’inclinazione di ogni Sorella di essere indiretta in quasi tutto. Naturalmente Talene e le altre tre avrebbero riferito tutto quello che sapevano e di cui sarebbero venute a conoscenza — lo garantiva il giuramento di obbedienza — ma qualunque messaggio molto più importante di ‘Prendi questo e mettilo in quel posto’ sarebbe stato in un codice noto soltanto alla donna che lo aveva mandato e quella a cui era indirizzato. Alcuni erano protetti da un flusso che faceva svanire l’inchiostro se a rompere il sigillo era la mano sbagliata; questo poteva essere fatto con così poco Potere da passare inosservato a meno di non cercarlo appositamente, e pareva non esserci modo di aggirare quella protezione. Se non erano in un momento di stasi, allora la loro serie di successi si era ridotta a una mera spicciolata. E c’era sempre il rischio che le prede si accorgessero di loro e diventassero i cacciatori. Cacciatori invisibili a tutti gli effetti, proprio come ora sembravano prede invisibili. Tuttavia avevano quattro nomi più quattro Sorelle in mano loro che avrebbero ammesso di essere Amici delle Tenebre, anche se probabilmente Marris sarebbe stata rapida quanto le altre tre ad affermare di aver respinto l’Ombra, essersi pentita dei suoi peccati e aver abbracciato di nuovo la Luce. Sufficiente per convincere chiunque. Apparentemente l’Ajah Nera era al corrente di tutto quello che passava dallo studio di Elaida, eppure poteva valere il rischio. Pevara si rifiutava di credere all’affermazione di Talene secondo cui Elaida era un Amico delle Tenebre. Dopotutto era stata lei a dare inizio alla caccia. L’Amyrlin Seat poteva riscuotere l’intera Torre. Forse la rivelazione che l’Ajah Nera esisteva davvero avrebbe potuto ottenere quello che la comparsa delle ribelli con un esercito non era riuscita a fare: costringere le Ajah a smettere di soffiarsi contro come strani gatti e legarle di nuovo assieme. Le ferite della Torre avevano bisogno di rimedi disperati.
Le servitrici si allontanarono per non sentire e Pevara fu sul punto di menzionare l’idea quando Yukiri parlò di nuovo.
«La scorsa notte Talene ha ricevuto l’ordine di apparire questa notte davanti al loro Consiglio Supremo.» La sua bocca si arricciò per il disgusto a quelle parole. «Pare che accada solo quando si viene encomiati oppure si riceve un compito molto, molto importante. O se si dev’essere interrogati.» Le sue labbra quasi si contorsero. Quello che avevano appreso sui mezzi dell’Ajah Nera per interrogare qualcuno era tanto nauseante quanto incredibile. Costringere una donna in un circolo contro la sua volontà? Guidare un circolo per infliggere dolore? Pevara sentì il proprio stomaco contorcersi. «Talene non pensa che verrà encomiata o che le sarà affidato un compito,» proseguì Yukiri «perciò ha supplicato di nasconderla. Saerin l’ha messa in una stanza nel sotterraneo inferiore. Talene può sbagliarsi, ma io sono d’accordo con Saerin. Rischiare sarebbe come lasciar libero un cane in un’aia e sperare per il meglio.»
Pevara alzò lo sguardo all’arazzo che si estendeva fin sopra le loro teste. Uomini in armatura vibravano spade e asce, conficcavano lance e alabarde in enormi umanoidi con musi di cinghiali e lupi, con corna di capre e arieti. Il tessitore aveva visto dei Trolloc. O delle rappresentazioni accurate. C’erano anche uomini che combattevano al fianco dei Trolloc. Amici delle Tenebre. A volte per combattere l’Ombra era necessario versare sangue. E rimedi disperati.
«Lasciamo andare Talene a questo incontro» disse. «Andremo tutte. Non se lo aspetteranno. Potremo ucciderle o catturarle e decapitare la Nera con un colpo solo. Il Consiglio Supremo deve conoscere il nome di tutte quante. Possiamo distruggere l’intera Ajah Nera.»
Sollevando un bordo della frangia dello scialle di Pevara con una mano esile, Yukiri si accigliò in modo plateale verso di esso. «Sì, rosso. Pensavo che potesse essere diventato verde mentre non stavo guardando. Ci saranno tredici di loro, lo sai. Anche se alcune di questo ‘Consiglio’ non si trovano nella Torre, il resto porterà delle Sorelle per raggiungere quel numero.»
«Lo so» replicò Pevara con impazienza. Talene era stata una fonte di informazioni, perlopiù inutili e in buona parte spaventose, quasi più di quanto loro potessero accettare.
«Porteremo tutte. Possiamo ordinare a Zerah e alle altre di combattere al nostro fianco, e perfino a Talene e alle sue compagne. Faranno come viene detto loro.» All’inizio si era sentita a disagio per quel giuramento di obbedienza, ma col tempo ci si poteva abituare a qualunque cosa.
«Dunque, diciannove di noi contro tredici di loro» meditò Yukiri fin troppo paziente. Perfino il modo in cui si aggiustò lo scialle irradiava pazienza. «Più chiunque loro avranno di guardia per essere certe che il loro incontro non venga disturbato. I ladri sono sempre i più cauti con i propri borsellini.» Quella frase aveva il sentore irritante di un vecchio adagio. «Meglio considerare i numeri pari nella migliore delle ipotesi, e probabilmente a loro favore. Quante di noi moriranno in cambio di uccidere o catturare quante di loro? E cosa più importante, quante di loro fuggiranno? Ricorda, si incontrano incappucciate. Basta che una scappi e noi non sapremo chi è, mentre lei saprà di noi, e molto presto anche l’intera Ajah Nera ne sarà a conoscenza. Più che tagliare la testa a un pollo, a me sembra come combattere con un leopardo a mani nude al buio.»
Pevara aprì la bocca, poi la richiuse senza parlare. Yukiri aveva ragione. Lei avrebbe dovuto fare la conta dei numeri e raggiungere la stessa conclusione da sola. Ma voleva colpire qualcuno, qualcosa, e non c’era da stupirsene. La Sorella a capo della sua Ajah poteva essere pazza: le aveva affidalo il compito di fare in modo che le Rosse, che per antica usanza non vincolavano nessuno, vincolassero non solo uomini qualunque, ma degli Asha’man; e la caccia agli Amici delle Tenebre all’interno della Torre aveva raggiunto un muro di pietra. Colpire? Voleva strappare a morsi dei buchi tra i mattoni.
Pensava che il loro incontro fosse giunto a una conclusione — era venuta solo per sapere come procedevano le cose con Marris, e quelle si erano rivelate amare novità — ma Yukiri le toccò il braccio. «Cammina con me per un po’. Siamo rimaste qui troppo a lungo e voglio chiederti una cosa.» Oggigiorno, Adunanti di Ajah diverse, che se ne stavano ferme assieme troppo a lungo, facevano spuntare dicerie come funghi dopo la pioggia. Per qualche ragione, parlare camminando sembrava che ne facesse nascere molte di meno. Non aveva senso, ma era così.
Yukiri se la prese comoda per rivolgere la sua domanda. Le piastrelle del pavimento passarono da verdi e blu a gialle e marroni mentre camminavano lungo uno dei corridoi principali che scendevano gentilmente a spirale giù per la Torre, cinque piani desolati, prima che lei parlasse. «La Rossa ha ricevuto notizie da qualcuna che è andata con Toveine?»
Pevara per poco non inciampò sulle sue stesse scarpette. Se lo sarebbe dovuto aspettare, però. Toveine non sarebbe stata l’unica a scrivere da Cairhien. «Da Toveine stessa» rispose, e le disse quasi tutto quello che c’era scritto nella sua lettera. Date le circostanze, non c’era altro che potesse fare. Ma non rivelò le accuse contro Elaida né da quanto tempo la lettera era arrivata. La prima era ancora una faccenda privata della sua Ajah, sperava, mentre l’altra poteva obbligarla a spiegazioni scomode.
«Noi abbiamo avuto notizie da Akoure Vayet.» Yukiri camminò per alcuni passi in silenzio, poi borbottò: «Sangue e maledette ceneri!»
Le sopracciglia di Pevara si sollevarono dallo sconcerto. Yukiri era spesso rustica, ma mai volgare a quel modo. Notò che nemmeno l’altra donna aveva detto quand’era arrivata la lettera di Akoure. La Grigia aveva ricevuto altre lettere da Cairhien, da Sorelle che si erano votale al Drago Rinato? Non poteva chiederlo. Si fidavano ciecamente l’una dell’altra in quella caccia, tuttavia le faccende di una Ajah erano le faccende di una Ajah. «Cosa intendi fare con quest’informazione?»
«Manterremo il riserbo per il bene della Torre. Solo le Adunanti e i capi delle nostre Ajah lo sanno. Evanellein punta a destituire Elaida per questo, ma ciò non può essere consentito ora. Con la Torre da sanare e i Seanchan e gli Asha’man di cui occuparci, forse non lo sarà mai.» Non sembrava contenta per quello.
Pevara represse la propria irritazione. Elaida poteva non piacerle, tuttavia non era necessario che l’Amyrlin Seat fosse gradita. Parecchie donne molto spiacevoli avevano indossato la stola e avevano agito bene per la Torre. Ma mandare cinquantuno Sorelle alla prigione poteva essere definito agire bene? E i Pozzi di Dumai, con quattro Sorelle morte e più di venti consegnate a un diverso tipo di prigionia, a un ta’veren? Non aveva importanza. Elaida era Rossa — era stata Rossa — ed era passato fin troppo tempo da quando una Rossa aveva conseguito la stola e il bastone. Tutte le azioni avventate e le decisioni sconsiderate parevano cose del passato da quando erano apparse le ribelli, e salvare la Torre dall’Ajah Nera avrebbe redento i suoi fallimenti.
Non fu così che mise la faccenda, naturalmente. «È stata lei a dare inizio alla caccia, Yukiri; merita di concluderla. Per la Luce, tutto quello che abbiamo scoperto finora è stato per puro caso, e adesso siamo a un punto morto. Ci serve l’autorità dell’Amyrlin Seat a spalleggiarci se vogliamo poter andare avanti.»
«Non lo so» disse l’altra donna, titubante. «Tutt’e quattro loro dicono che la Nera conosce ogni cosa che avviene nello studio di Elaida.» Si morse il labbro e fece spallucce. «Forse se possiamo incontrarla da sola, lontano dal suo studio...»
«Eccovi qua. Vi ho cercato dappertutto...»
Pevara si voltò con calma alla voce improvvisa dietro di loro, ma Yukiri ebbe un sussulto e borbottò qualcosa di caustico quasi sottovoce. Se continuava così, sarebbe diventata sboccata quanto Doesine. O Tsutama.
Seaine si affrettò verso di loro con la frangia del suo scialle che dondolava e le sue folte sopracciglia nere si sollevarono dalla sorpresa per l’occhiataccia di Yukiri. Tipico di una Bianca, logica in tutto e per tutto e spesso cieca nei confronti del mondo attorno a sé. La metà del tempo, Seaine pareva del tutto ignara che fossero in pericolo.
«Tu ci stavi cercando?» quasi ringhiò Yukiri, piantando i pugni sui propri fianchi. Malgrado la sua taglia minuta, dava una buona impressione di imponenza e ferocia. Senza dubbio parte di ciò era dovuto all’essere stata colta di sorpresa, ma credeva ancora che Seaine dovesse essere sorvegliata attentamente per la sua stessa protezione, qualunque cosa avesse deciso Saerin, e invece eccola lì, ad andare in giro tutta sola.
«Voi Saerin, chiunque» rispose Seaine con calma. Le sue precedenti paure che l’Ajah Nera potesse essere al corrente del compito che Elaida le aveva assegnato erano quasi svanite. I suoi occhi azzurri avevano in sé del calore, tuttavia in tutti gli altri aspetti era tornata a essere una tipica Bianca, una donna dalla serenità glaciale. «Ho notizie urgenti» disse come se fosse proprio il contrario. «La meno urgente è questa: stamattina ho visto una lettera da Ayako Norsoni arrivata diversi giorni fa. Da Cairhien. Lei, Toveine e tutte le altre sono state catturate dagli Asha’man e...» Inclinando la testa da un lato, le squadrò una alla volta. «Non siete minimamente sorprese. Ma certo. Anche voi avete visto delle lettere. Be’, ora non si può fare nulla al riguardo, comunque.» Pevara si scambiò delle occhiate con Yukiri, poi disse: «Questa è la meno urgente, Seaine?»
La compostezza dell’Adunante Bianca lasciò il posto alla preoccupazione, indurendole la bocca e facendo comparire delle rughe agli angoli degli occhi. Le sue mani si serrarono in pugni stretti sullo scialle. «Per noi lo è. Torno appena adesso da un incontro con Elaida. Mi ha convocato per sapere come stavo procedendo.» Seaine trasse un profondo respiro. «Nello scoprire prove che Alviarin stava intrattenendo un’infida corrispondenza col Drago Rinato. Sul serio, all’inizio è stata così circospetta, così indiretta, che non c’è da stupirsi che io abbia mal interpretato quello che voleva.»
«Penso che la volpe stia camminando sulla mia tomba» mormorò Yukiri.
Pevara annuì. L’idea di avvicinare Elaida era scomparsa come rugiada estiva. La loro unica assicurazione che Elaida stessa non fosse dell’Ajah Nera proveniva dal fatto che era stata lei a istigarle alla caccia, ma dal momento che non aveva fatto nulla del genere... Almeno l’Ajah Nera non sapeva di loro. Almeno avevano ancora quello. Ma per quanto tempo ancora?
«Anche sulla mia» disse piano.
Alviarin procedeva lungo i corridoi della Torre inferiore con una manifesta aria di serenità a cui si aggrappava con forza. La notte pareva avvinghiarsi alle pareti nonostante le lampade a specchio, con tracce di ombre che danzavano dove non avrebbe dovuto essercene nessuna. Immaginazione, di certo, eppure danzavano ai bordi della sua visuale. I corridoi erano quasi del tutto vuoti, anche se il secondo turno della cena era appena terminato. Parecchie Sorelle preferivano farsi portare il cibo nelle loro stanze, in quei giorni, ma le più coraggiose e audaci si avventuravano fino alle sale da pranzo di tanto in tanto, e poche consumavano ancora molti dei loro pasti laggiù. Non avrebbe rischiato che le Dorelle la vedessero con aria sconvolta o frettolosa; si rifiutava di lasciar credere loro che si aggirava lì attorno in modo furtivo. In realtà, non le piaceva affatto che chiunque la guardasse. In apparenza calma, ribolliva all’interno.
Tutta un tratto si rese conto che stava tastando il punto sulla sua fronte dove Shaidar Haran l’aveva toccata. Dove il Signore Supremo in persona l’aveva marchiata come sua. A quel pensiero l’isteria gorgogliò quasi fino in superficie, ma mantenne un’espressione serena per pura forza di volontà e radunò lentamente le sue bianche gonne di seta. Quello le avrebbe tenuto le mani occupate. Il Signore Supremo l’aveva marchiata. Meglio non pensarci. Ma come evitarlo? Il Signore Supremo... All’esterno mostrava una compostezza totale, ma dentro di sé era un groviglio turbinante di mortificazione e odio, e molto vicina a un terrore farneticante. La calma esteriore era quello che contava, però. E c’era un germoglio di speranza. Anche quello contava. Una strana cosa considerare come una speranza, eppure si sarebbe aggrappata a qualunque cosa avesse potuto mantenerla in vita.
Fermandosi di fronte a un arazzo che mostrava una donna con in testa una corona che si inchinava davanti a qualche Amyrlin di molto tempo prima, fece finta di esaminarlo, lanciando nel contempo rapide occhiate a destra e a sinistra. A parte lei, il corridoio rimaneva privo di vitti, simile a una tomba abbandonata. La sua mano scattò dietro il bordo dell’arazzo e in un attimo si ritrovò di nuovo a camminare, tenendo stretto un messaggio ripiegato. Un miracolo che l’avesse raggiunta così in fretta. La carta sembrava bruciarle il palmo ma non poteva leggerlo lì. Con passo misurato, salì con riluttanza fino agli alloggi dell’Ajah Bianca. Calma e imperturbata da qualunque cosa, all’esterno. Il Signore Supremo l’aveva marchiata. Altre Sorelle l’avrebbero vista.
La Bianca era la più piccola delle Ajah, e poco più di venti delle sue Sorelle si trovavano nella Torre al momento, eppure pareva che tutte quante loro fossero nel corridoio principale. Il tragitto lungo le nude piastrelle bianche parve un passaggio lungo le alabarde.
Seaine e Ferane erano dirette fuori nonostante l’ora, con gli scialli drappeggiati lungo le braccia, e Seaine le rivolse un sorrisetto di commiserazione, cosa che le fece desiderare di uccidere l’Adunante, che ficcava sempre quel suo naso adunco dove non doveva. Ferane non mostrò alcuna compassione. La guardò torvo con furia più evidente di quanto qualunque Sorella avrebbe permesso a sé stessa di mostrare. Tutto quello che Alviarin poteva fare era ignorare quella donna dalla pelle ramata senza darlo a vedere. Bassa e tozza, con il suo volto tondo solitamente mite e una macchia d’inchiostro sul suo naso, Ferane non era affatto l’immagine di una Domanese, ma di una Domanese la Prima Ragionatrice possedeva il temperamento focoso. Era piuttosto capace di infliggere una punizione per ogni minimo errore, in particolare per una Sorella che aveva ‘disonorato’ sia sé stessa che la Bianca.
L’Ajah sentiva in modo pungente la vergogna per il fatto che lei fosse stata privata della stola della Custode degli Annali. Parecchie provavano rabbia anche per la perdita di influenza. C’erano fin troppe occhiatacce, alcune da parte di Sorelle che erano tanto inferiori a lei da dover obbedire all’istante, se lei avesse dato un ordine. Altre le voltavano di proposito la schiena.
Si fece strada attraverso quei cipigli e gesti di disprezzo a passo costante, senza affrettarsi, eppure sentì le sue guance iniziare ad accalorarsi. Cercò di immergersi nella natura tranquillizzante degli alloggi della Bianca. Alle disadorne pareti bianche, fiancheggiate da alti specchi argentati, pendevano solo alcuni semplici arazzi, con rappresentazioni di montagne coi picchi innevati, foreste ombrose, macchie di bambù col sole che li attraversava di taglio. Fin da quando aveva conseguito lo scialle, aveva usato quelle immagini per aiutarsi a trovare la serenità in momenti di tensione. Il Signore Supremo l’aveva marchiata. Serrò i pugni sulle gonne per tenere le mani ai suoi fianchi. Il messaggio pareva bruciare nella sua mano. Un passo costante, misurato.
Due delle Sorelle che superò la ignorarono semplicemente perché non la videro. Astrelle e Tesan stavano discutendo di come il cibo andava a male. O meglio stavano litigando con i volti sereni, ma con occhi infiammati e i toni sul punto di inasprirsi. Erano aritmetiche, per giunta, come se la logica potesse essere ridotta in cifre, e pareva che fossero in disaccordo su come quei numeri venivano usati.
«Calcolando col Criterio di Deviazione di Radun, il tasso è undici volte quello che dovrebbe essere» disse Astrelle in toni tesi. «Inoltre, questo deve indicare l’intervento dell’Ombra...»
Tesan la interruppe, le sue trecce adornate di perline che tintinnavano mentre scuoteva la testa.
«L’Ombra, sì, ma il Criterio di Radun è superato. Devi usare la Prima Regola di Covan delle Mediane e calcolare separatamente la carne che sta marcendo e quella che è marcita. Le risposte corrette, come dico io, sono tredici e nove. E non l’ho ancora applicato alla farina o ai fagioli e alle lenticchie, ma anche intuitivamente appare ovvio...»
Astrelle si gonfiò, e dal momento che era una donna grassoccia e con un seno formidabile, poteva gonfiarsi in modo impressionante. «La Prima Regola di Covan?» interloquì, praticamente sputacchiando. «Non è ancora stata opportunamente dimostrala. Metodi corretti e dimostrati sono sempre preferibili a quelli trascurati...»
Alviarin quasi sorrise nel procedere. Allora qualcuno aveva finalmente notato che il Signore Supremo aveva posato la sua mano sulla Torre. Ma saperlo non le avrebbe aiutate a cambiare le cose. Forse aveva sorriso, ma se era così, mutò espressione quando qualcuno parlò.
«Anche tu faresti delle smorfie, Ramesa, se venissi presa a cinghiale ogni mattina prima di colazione» disse Norme a voce fin troppo alta e chiaramente con l’intenzione che Alviarin udisse. Ramesa, una donna alta e snella con campanellini d’argento cuciti lungo le maniche dell’abito ricamato di bianco, parve sorpresa che si fosse rivolta a lei, e probabilmente lo era. Norine aveva poche amiche, forse nessuna. Proseguì, scoccando un’occhiata verso Alviarin per vedere se avesse notato. «È irrazionale chiamare una penitenza privata e fingere che non sia successo nulla quando è stata l’Amyrlin Seat a imporla. D’altra parte la sua razionalità è sempre stata sopravvalutata, a mio parere.»
Per fortuna Alviarin doveva percorrere ancora solo un breve tratto fino alle sue stanze. Con cautela chiuse la porta esterna e mise il chiavistello. Non che qualcuno l’avrebbe disturbata, ma lei era sopravvissuta correndo dei rischi solo quando necessario. Le lampade erano accese e un fuocherello ardeva nel caminetto di marmo bianco per scacciare il freddo di una serata di inizio primavera. Almeno i servitori sbrigavano ancora i loro compiti. Ma anche loro sapevano.
Silenziose lacrime di umiliazione cominciarono a scenderle lungo le guance. Voleva uccidere Silviana, tuttavia ciò avrebbe comportato soltanto che una nuova Maestra delle novizie avrebbe usato la cinghia su di lei finché Elaida non si fosse mossa per pietà. Tranne che Elaida non si sarebbe mai mossa per pietà. Uccidere lei sarebbe stato più appropriato, tuttavia tali uccisioni dovevano essere attentamente razionate. Troppe morti inattese avrebbero suscitato domande, forse domande pericolose.
Eppure aveva fatto quello che poteva contro Elaida. Le notizie di Katerine su quella battaglia si stavano diffondendo per l’Ajah Nera e anche oltre. Aveva sentito di nascosto delle Sorelle non appartenenti all’Ajah Nera parlare dei Pozzi di Dumai con dettaglio, e se i dettagli erano aumentati a ogni racconto, tanto meglio. Presto le notizie dalla forre Nera si sarebbero diffuse anche tra la Torre Bianca, probabilmente espandendosi allo stesso modo. Un peccato che nessuna delle due sarebbe stata sufficiente a far sì che Elaida cadesse in disgrazia e venisse deposta, con quelle maledette ribelli praticamente sui ponti, ciononostante i Pozzi di Dumai e il disastro nell’Andor che pendevano sulla sua testa le avrebbero impedito di disfare ciò che Alviarin aveva fatto.
Le era stato ordinato di spezzare la Torre Bianca dall’interno. Seminare discordia e caos in ogni angolo della Torre. Una parte di lei aveva provato dolore per quell’ordine, e una parte lo provava ancora, eppure la sua maggiore lealtà era rivolta al Signore Supremo. Elaida stessa aveva provocato la prima rottura nella Torre, ma lei aveva mandato in frantumi metà di essa oltre al punto di risanamento.
All’improvviso si rese conto che si stava toccando di nuovo la fronte e abbassò di colpo la mano. Non c’era nessun marchio lì, nulla da tastare o vedere. Ogni volta che dava un’occhiata a uno specchio, controllava involontariamente. E tuttavia a volte pensava che la gente stesse guardando la sua fronte, vedendo qualcosa che sfuggiva ai suoi stessi occhi. Questo era impossibile, irrazionale, eppure quel pensiero si insinuava in lei per quanto spesso lo cacciasse via. Asciugandosi le lacrime dal viso con la mano che reggeva il messaggio dall’arazzo, tirò fuori gli altri due che aveva recuperato dal sacchetto alla sua cintura e andò al suo scrittoio addossato alla parete.
Era un tavolo semplice e disadorno come tutto il suo mobilio, parte del quale lei sospettava potesse essere di mediocre fattura. Una questione insignificante; fin quando i mobili assolvevano alla loro funzione, nient’altro aveva importanza. Lasciando cadere i tre messaggi sul tavolo accanto a una piccola e malandata ciotola di rame, tirò fuori una chiave dal suo borsello, la usò per aprire uno scrigno bordalo di ottone posato sul pavimento accanto al tavolo, e rovistò fra i libricini rilegati in pelle all’interno finché non trovò i tre che le servivano, ciascuno protetto in modo che l’inchiostro sulle pagine scomparisse se toccato da una mano diversa dalla sua. C’erano troppi codici cifrati in uso perché lei li ricordasse a memoria. Perdere quei libri sarebbe stata una tribolazione, rimpiazzarli sarebbe stato arduo, perciò aveva ripiegato sullo scrigno robusto e la serratura. Un’ottima serratura. Le buone serrature non erano cosa da poco.
Rapidamente strappò via le sottili strisce di carta che avvolgevano il messaggio recuperato da dietro l’arazzo, le tenne sopra la fiamma di una lampada e le lasciò cadere nella ciotola affinché bruciassero. Erano solo indicazioni su dove il messaggio doveva essere lasciato, ciascuna rivolta a ogni donna della catena, con le strisce supplementari che erano semplicemente un modo per mascherare per quanti anelli doveva passare il messaggio prima di raggiungere il suo destinatario. Le precauzioni non erano mai troppe. Perfino le Sorelle del suo stesso cuore credevano che il suo rango non fosse superiore al loro. Solo tre nel Consiglio Supremo sapevano chi era, e lei lo avrebbe evitato se fosse stato possibile. Le precauzioni non erano mai abbastanza, specialmente ora.
Una volta che ebbe decifrato il messaggio, piegandosi a scrivere su un altro foglio, si rese conto che si trattava perlopiù di ciò che si aspettava dalla precedente notte, quando Talene non si era presentata. La donna aveva lasciato gli alloggi delle Verdi la mattina presto, portando con sé bisacce rigonfie e un piccolo scrigno. Non avendo nessun servitore per trasportarle, se n’era occupata da sola. Nessuno sembrava sapere dove fosse andata. La domanda era: si era lasciata prendere dal panico nel ricevere la convocazione davanti al Consiglio Supremo oppure c’era qualcos’altro? Qualcos’altro, decise Alviarin. Talene aveva guardato Yukiri e Doesine come per cercare... consiglio, forse. Era certa di non esserselo immaginato. Era possibile? Un minuscolo germoglio di speranza. Doveva esserci altro. Lei aveva bisogno di una minaccia per la Nera, oppure il Signore Supremo avrebbe ritirato la sua protezione.
Con rabbia ritrasse la mano dalla propria fronte.
Non aveva mai preso in considerazione di usare il piccolo ter’angreal che teneva nascosto per chiamare Mesaana. Tanto per cominciare, cosa molto importante, quella donna aveva di sicuro intenzione di ucciderla, molto probabilmente nonostante la protezione del Signore Supremo. All’istante, se quella protezione fosse venula meno. Lei aveva visto il volto di Mesaana, aveva conosciuto la sua umiliazione. Nessuna donna avrebbe lasciato correre una cosa del genere, in particolare non una dei Prescelti. Ogni notte lei sognava di uccidere Mesaana, spesso fantasticava su come riuscirci, tuttavia quello doveva attendere finché non avesse trovato quella donna a sua insaputa. Nel frattempo le servivano altre prove. Era possibile che né Mesaana, né Shaidar Haran avrebbero considerato Talene come una conferma di qualcosa. Le Sorelle si erano fatte prendere dal panico ed erano fuggite in passato, seppur raramente, e supporre che Mesaana e il Signore Supremo non sapessero una cosa del genere sarebbe stato rischioso.
Fece lambire dalla fiamma prima il messaggio cifrato, poi la copia decrittata, e tenne ciascuno per un angolo finché non furono bruciati quasi fino alle sue dita prima di lasciarli cadere in cima alle ceneri nella ciotola. Con una liscia pietra nera che teneva come fermacarte, mischiò le ceneri. Dubitava che qualcuno potesse ricostituire parole dalle ceneri, ma in tal caso...
Ancora in piedi, decifrò gli altri due messaggi e apprese che Yukiri e Doesine dormivano entrambe in stanze schermate contro le intrusioni. Quello non era insolito — pochissime Sorelle nella Torre dormivano senza flussi di protezione, di questi tempi — ma significava che rapire una delle due sarebbe stato difficile. Quello era sempre più facile quando veniva eseguito nel profondo della notte da Sorelle della stessa Ajah della donna. Poteva sempre venire fuori che quelle occhiate fossero un caso o le avesse immaginate. Era necessario che riflettesse su quell’eventualità.
Con un sospiro, radunò altri libricini dello scrigno e si accomodò delicatamente sul cuscino di piume d’oca sulla sedia allo scrittoio. Non con tanta delicatezza da impedire un sussulto quando il suo peso si sistemò, però. Represse un gemito. Sulle prime aveva pensato che l’umiliazione della cinghia di Silviana fosse molto peggio del dolore, ma il dolore non svaniva più del tutto. Il suo sedere era chiazzato di lividi. E l’indomani la Maestra delle novizie ne avrebbe aggiunti altri. E il giorno dopo ancora, e il giorno dopo ancora... Una tetra visione di giorni interminabili a urlare sotto la cinghia di Silviana, a sforzarsi di incontrare gli occhi di Sorelle che sapevano tutto sulle sue visite allo studio di Silviana.
Cercando di scacciar via quei pensieri, intinse una buona penna dalla punta in acciaio e cominciò a scrivere ordini cifrati su sottili foglietti di carta. Talene doveva essere trovata e riportata indietro, naturalmente. Per essere punita e giustiziata se si fosse fatta semplicemente prendere dal panico, e in caso contrario, se aveva trovato un qualche modo per tradire i suoi giuramenti... Alviarin si aggrappò a quella speranza mentre ordinava una sorveglianza attenta su Yukiri e Doesine. Bisognava trovare un modo per catturarle. E se fossero state prese per caso e per via di qualcosa che si era immaginata, si sarebbe comunque potuto inventare qualcosa da quello che avrebbero detto. Lei avrebbe guidato le correnti nel circolo. Qualcosa doveva essere fatto.
Scrisse con furia, ignara che la sua mano libera si era sollevata alla sua fronte, in cerca del marchio. La luce del pomeriggio splendeva in raggi obliqui filtrati dagli alti alberi sulla sporgenza sopra il vasto accampamento degli Shaido, chiazzando l’aria, e uccelli canterini cinguettavano sui rami sopra la sua testa. Tanagre scarlatte e ghiandaie blu saettarono in cielo come sprazzi di colore, e Galina sorrise. Quella mattina era caduta una pesante pioggia e nell’aria c’era ancora un tocco di frescura sotto bianche nubi sparse, che fluttuavano lente. Probabilmente la sua giumenta grigia, col collo arcuato e il passo brioso, era stata proprietà di una nobildonna o perlomeno di qualche ricco mercante. Nessun altro tranne una Sorella si sarebbe potuto permettere un animale tanto raffinato. Le piacevano quelle cavalcale sul destriero che aveva chiamato Rapida, poiché un giorno l’avrebbe portata rapida fino alla libertà; proprio come le piacevano quei momenti di solitudine in cui poteva riflettere su ciò che avrebbe fatto una volta riottenuta la sua libertà. Aveva dei piani per ripagare coloro che l’avevano delusa, a cominciare da Elaida. Pensare a quei piani e alla loro ultima messa in atto era molto piacevole.
Perlomeno si godeva le sue cavalcate finché riusciva a dimenticare che quel privilegio era un segno del modo completo in cui Therava la possedeva tanto quanto la pesante veste di seta bianca che indossava e la sua cintura e il collare tempestati di gocce di fuoco. Il suo sorriso lasciò il posto a una smorfia. Ornamenti per un animaletto a cui era consentito divertirsi quando non gli veniva richiesto di divertire il suo padrone. E non poteva togliersi quei contrassegni ingioiellati, nemmeno lì fuori. Qualcuno avrebbe potuto vedere. Cavalcava lì per allontanarsi dagli Aiel, tuttavia poteva imbattersi in loro anche nella foresta. Therava sarebbe potuta essere informata. Per quanto difficile ammetterlo, temeva quella Sapiente dagli occhi rapaci fin nelle ossa. Therava riempiva i suoi sogni, e non erano mai piacevoli. Spesso si svegliava piangente e madida di sudore. Destarsi da quegli incubi era sempre un sollievo, che riuscisse o meno a dormire ancora un po’ per il resto della nottata.
Non c’era mai nessun ordine di non scappare per queste cavalcate, un ordine a cui lei avrebbe dovuto obbedire, e quella mancanza causava la sua dose di amarezza. Therava sapeva che Galina sarebbe tornata, per quanto maltrattata, nella speranza che un giorno la Sapiente potesse rimuovere quel maledetto giuramento di obbedienza. Sarebbe stata in grado di incanalare di nuovo, quando e come lei voleva. Sevanna a volte la faceva incanalare per eseguire compiti umili, ma ciò accadeva così di rado che lei bramava anche solo quell’occasione di abbracciare saidar. Therava rifiutava di lasciarle semplicemente toccare il Potere a meno che lei non implorasse e si umiliasse, ma poi le negava il permesso di intessere un filamento. E lei si era umiliata, si era degradata completamente solo perché le venisse concesso quel briciolo. Si accorse che stava digrignando i denti e si costrinse a smettere.
Forse il Bastone dei Giuramenti nella Torre poteva liberarla da quel giuramento quanto la verga quasi identica che possedeva Therava, tuttavia non poteva esserne certa. I due oggetti non erano identici. Era solo una differenza nel disegno, ma se quello avesse indicato che un giuramento pronunciato su uno era specifico per quel bastone? Non osava andarsene senza la verga di Therava. La Sapiente la lasciava spesso allo scoperto nella sua tenda, ma ‘tu non la raccoglierai mai’ aveva detto.
Oh, Galina poteva toccare quella verga bianca spessa come un polso, accarezzare la sua superficie liscia, eppure, per quanto si sforzasse, non poteva fare in modo che la sua mano si chiudesse su di essa. Non a meno che qualcuno gliela porgesse. Almeno sperava che quello non contasse come raccoglierla. Doveva essere così. Solo il pensiero che potesse non essere così la riempiva di desolazione. La brama nei suoi occhi quando fissava la verga suscitava i rari sorrisi di Therava.
‘La mia piccola Lina vuole forse essere libera dal suo giuramento?’ diceva in tono beffardo. ‘Se è così Lina dev’essere un animaletto davvero bravo, poiché l’unico modo in cui prenderò in considerazione di liberarti sarà convincermi che rimarrai il mio animaletto anche allora.’
Una vita come giocattolo di Therava e bersaglio della sua collera? Un surrogato da picchiare ogni volta che Therava era adirata contro Sevanna? ‘Desolazione’ non era un termine abbastanza forte per descrivere i propri sentimenti al riguardo. ‘Orrore’ era più appropriato. Temeva che sarebbe impazzita, se fosse accaduto. E allo stesso modo temeva che non ci potesse essere una fuga nella pazzia.
Con l’umore del tutto amareggiato, si schermò gli occhi per controllare a che altezza fosse il sole. Therava si era limitata a dire che avrebbe gradito che tornasse prima del buio, e rimanevano due ore buone di luce, ma sospirò dal rimpianto e fece voltare immediatamente Rapida giù per il pendio, attraverso gli alberi diretta al campo. La Sapiente godeva nel trovare modi per costringere all’obbedienza senza comandi diretti. Mille modi per farla strisciare. Per sicurezza, anche la minima raccomandazione della donna doveva essere presa come un ordine. Arrivare in ritardo di pochi minuti causava punizioni che facevano rannicchiare Galina dalla paura al solo ricordo. Rannicchiare e spronare la giumenta ad andare a un passo più veloce attraverso gli alberi. Therava non accettava scuse.
All’improvviso un Aiel sbucò di fronte a lei da dietro un albero spesso, un uomo molto alto con indosso un cadin’sor e le lance conficcale nell’imbracatura che reggeva la custodia del suo arco sulla schiena e il velo che gli pendeva sul petto. Senza parlare, afferrò le sue briglie.
Per un istante lei lo fissò a bocca aperta, poi si mise dritta con aria indignata. «Sciocco!» sbottò.
«Ormai devi riconoscermi. Lascia andare il mio cavallo oppure Therava e Sevanna faranno i turni per toglierti la pelle!»
Questi Aiel di solito lasciavano trasparire poco dalle loro facce, eppure a lei parve che i suoi occhi verdi si fossero sgranati un poco. E poi urlò quando lui afferrò il davanti della veste e la strattonò giù di sella.
«Fa’ silenzio, gai’shain» disse, ma come se non gli importasse nulla se lei avrebbe obbedito o no.
Un tempo avrebbe dovuto, ma una volta che si erano accorti che lei obbediva agli ordini di chiunque, c’erano stati fin troppi che avevano goduto nel mandarla in giro a svolgere compiti sciocchi che la tenevano occupata quando Therava e Sevanna la volevano. Ora doveva obbedire solo a certe Sapienti e a Sevanna, perciò scalciò, si dibatté e urlò nella vana speranza di attirare qualcuno che sapesse che lei apparteneva a Therava. Se solo le fosse stato permesso di portare un coltello. Perfino quello sarebbe stato un aiuto. Come poteva non riconoscerla quell’uomo o perlomeno sapere cosa significavano la sua cintura e il collare ingioiellati? L’accampamento era immenso, pieno di persone quanto molte grandi città, eppure sembrava che tutti sapessero riconoscere l’abitante delle terre bagnate che era l’animaletto di Therava. Quella donna avrebbe sicuramente fatto scuoiare quel tipo, e Galina intendeva godersi ogni minuto ad assistere.
Fin troppo presto apparve evidente che un coltello non sarebbe stato di alcuna utilità. Malgrado si dibattesse, il bruto non fece fatica a imporsi, tirandole il cappuccio sopra la testa impedendole di vedere e poi ficcandone più che poteva nella sua bocca prima di legarlo lì. Poi la mise a testa in giù e le legò stretti polsi e caviglie. Con la stessa facilità che avrebbe avuto con una bambina! Lei si dimenava, ma era fatica sprecata.
«Voleva dei gai’shain che non fossero Aiel, Gaul... ma una gai’shain con seta e gioielli, e fuori a cavalcare?» disse un uomo, e Galina si irrigidì. Non era un Aiel. Quello era un accento del Murandy! «E questa non è certo una delle vostre usanze, vero?»
«Shaido.» La parola venne proferita come un’imprecazione.
«Be’, abbiamo ancora bisogno di trovarne qualche altro, in modo che lui possa apprendere qualcosa di utile. Forse più di qualche altro. Ci sono decine di migliaia di persone in bianco laggiù, e lei potrebbe essere ovunque in mezzo a loro.»
«Penso che forse questa possa dire a Perrin Aybara quello che gli serve sapere, Fager Neald.»
Se Galina prima si era irrigidita, ora era rimasta immobile. Nel suo stomaco parve formarsi del gelo, così come nel suo cuore. Perrin Aybara aveva mandato quegli uomini? Se lui avesse attaccato gli Shaido per cercare di liberare sua moglie, sarebbe stato ucciso, distruggendo l’influenza che lei aveva su Faile. A quella donna non sarebbe importato quello che poteva rivelare su di lei, se suo marito fosse morto, e le altre non avevano segreti che temevano venissero allo scoperto. Con orrore, Galina vide dissolversi le speranze di ottenere la verga. Doveva fermarlo. Ma come?
«E perché mai pensi questo, Gaul?»
«Lei è Aes Sedai. E un’amica di Sevanna, pare.»
«Ma davvero?» disse il Murandiano in tono pensieroso. «Lo è proprio?»
Stranamente nessuno dei due uomini sembrava minimamente a disagio per aver messo le mani su una Aes Sedai. E l’Aiel a quanto pare lo aveva fatto con la piena consapevolezza di chi lei fosse. Anche se quello era uno Shaido rinnegato, doveva ignorare il fatto che lei non poteva incanalare senza permesso. Solo Sevanna e una manciata di Sapienti lo sapevano. Quella situazione stava diventando più confusa ogni momento che passava.
All’improvviso venne sollevata in aria e appoggiata sulla pancia. Sulla sua stessa sella, si rese conto, e il momento dopo stava rimbalzando sul duro cuoio, con uno degli uomini che usava una mano per impedirle di cadere mentre la giumenta cominciava a trottare.
«Andiamo dove puoi farci usare uno dei tuoi buchi, Fager Neald.»
«Appena dall’altro lato del pendio, Gaul. Insomma, sono stato qui così spesso che potrei creare un passaggio praticamente ovunque. Voi Aiel andate sempre di corsa?»
Un passaggio?, pensò. Cosa stava blaterando quell’uomo? Accantonando quelle sciocchezze, Galina valutò le sue opzioni e non ne trovò nessuna valida. Legata come un agnello per il mercato, imbavagliata in modo che non l’avrebbero potuta sentire a dieci passi di distanza anche se avesse strillato a pieni polmoni, le sue possibilità di scappare erano inesistenti a meno che qualcuna delle sentinelle shaido non intercettasse coloro che l’avevano catturata. Ma lei lo voleva proprio? A meno di raggiungere Aybara, non aveva modo per impedirgli di rovinare tutto. D’altro canto, a quanti giorni di distanza si trovava il suo accampamento? Non poteva essere molto vicino, altrimenti gli Shaido lo avrebbero già trovato. Galina sapeva che gli esploratori effettuavano ricognizioni fino a dieci miglia dal campo. Qualunque fosse il numero di giorni necessari per raggiungerlo, ce ne sarebbero voluti altrettanti per tornare. Non sarebbe arrivata in ritardo di qualche minuto, ma di giorni interi.
Therava non l’avrebbe uccisa per questo. Le avrebbe solo fatto desiderare di essere morta. Galina poteva spiegare. Raccontare di essere stata catturata da alcuni briganti. No, solo un paio: era già abbastanza difficile credere che due uomini fossero giunti così vicino all’accampamento, tanto meno una banda di briganti. Incapace di incanalare, le era occorso tempo per fuggire. Poteva rendere quel racconto convincente. Poteva persuadere Therava. Se avesse detto... Era inutile. La prima volta che Therava l’aveva punita per essere arrivata tardi, era stato perché il suo straccale si era rotto e lei era dovuta tornare a piedi guidando il suo cavallo. La donna non aveva accettato quella scusa, cosi come non avrebbe creduto alla storia del rapimento. Galina voleva piangere. In effetti si rese conto che stava piangendo, lacrime disperate che era incapace di fermare.
Il cavallo si arrestò e, prima che lei potesse pensare, si dibatté in modo incontrollato, cercando di gettarsi giù dalla sella, gridando con quanta forza il suo bavaglio le permetteva. Di certo stavano cercando di evitare le sentinelle. Therava avrebbe sicuramente capito se le sentinelle fossero tornate con lei e quelli che l’avevano catturata, perfino se fosse stata in ritardo. Di sicuro poteva trovare un modo per gestire Fai le perfino se suo marito fosse morto.
Una mano dura la colpì rudemente. «Fa’ silenzio» disse l’Aiel, poi ripartirono al trotto.
Le lacrime ricominciarono e il cappuccio di seta che le copriva la faccia si inumidì. Therava l’avrebbe fatta gemere. Ma perfino mentre piangeva, iniziò a pensare a quello che avrebbe detto ad Aybara. Perlomeno poteva mettere al sicuro le sue possibilità di ottenere la verga. Therava l’avrebbe... No. No! Era necessario che si concentrasse su quello che lei poteva fare. Immagini della Sapiente dagli occhi crudeli che teneva in mano un frustino, una cinghia o delle corde per legarla si sollevarono nella sua mente, ma ogni volta lei le ricacciava giù mentre ripeteva tutte le domande che Aybara avrebbe potuto porle e le risposte che lei gli avrebbe fornito. Su quello che lei avrebbe detto per indurlo a lasciare nelle sue mani la sicurezza della moglie.
In nessuna delle sue congetture si era aspettata di essere messa a terra e diritta non più di un’ora dopo essere stata catturata.
«Dissella il suo cavallo, Noren, e picchettalo con gli altri» disse il Murandiano.
«Subito, mastro Neald» rispose qualcuno con accento cairhienese.
I legacci attorno alle sue caviglie caddero via, la lama di un coltello le scivolò tra i polsi, tagliando anche quelle corde, e poi qualunque cosa stesse tenendo fermo il suo bavaglio venne slegata. Galina sputò fuori seta impregnata della sua stessa saliva e strattonò il cappuccio all’indietro.
Un uomo basso, in una giubba scura, stava conducendo via Rapida attraverso un disordinalo insieme di grandi tende brune rattoppate e piccole capanne rozze che sembravano fatte di rami di alberi, inclusi alcuni di pino con aghi bruni. Quanto ci voleva perché i pini diventassero bruni? Giorni, certamente, forse settimane. I sessanta o settanta uomini che si occupavano dei fuochi da campo o sedevano su sgabelli di legno avevano l’aria di contadini nelle loro rozze giubbe, ma alcuni stavano affilando spade, lance, alabarde, e altre armi ad asta erano raggruppate in dozzine di posti. Attraverso i varchi tra le tende e le capanne, lei poteva vedere altri uomini che si muovevano in giro da entrambi i lati, un buon numero di loro con elmi e corazze, a cavallo e con in pugno lunghe lance con vessilli. Soldati che uscivano di pattuglia. Quanti altri ce n’erano oltre la sua vista? Non aveva importanza. Quello che c’era di fronte ai suoi occhi era impossibile! Gli Shaido mandavano in ricognizione le sentinelle dal loro campo più lontano di così. Lei ne era certa!
«Se la faccia non fosse sufficiente,» mormorò Neald «quello sguardo freddo e calcolatore mi convincerebbe. Come se stesse esaminando dei vermi sotto una roccia che ha capovolto.» Quel tizio allampanato in una giubba nera si toccò con le nocche i baffi incerati con aria divertita, attento a non rovinare le punte. Portava una spada, ma di certo non aveva l’aspetto di un soldato o di un armigero. «Bene, allora andiamo, Aes Sedai» disse, afferrandola per il braccio. «Lord Perrin vorrà farti qualche domanda.» Galina si liberò con uno strattone, ma lui la prese con calma in una stretta più salda. «Adesso basta.»
Il grosso Aiel, Gaul, la prese per l’altro braccio, e la sua scelta fu tra andare con loro o essere trascinata. Camminò a testa alta, fingendo che loro non fossero che una scorta, ma chiunque avesse visto come la tenevano per le braccia avrebbe capito che non era così. Con lo sguardo dritto davanti a sé, era comunque consapevole dei contadinotti armati — perlopiù erano giovani — che la fissavano. Non a bocca aperta dallo stupore, solo osservandola, esaminandola. Come potevano essere così arroganti con una Aes Sedai? Alcune delle Sapienti che erano ignare del giuramento che la vincolava avevano cominciato a esprimere dubbi che lei fosse Aes Sedai, poiché obbediva tanto prontamente ed era così servile verso Therava, ma questi due sapevano cos’era. E non gliene importava. Galina supponeva che anche quei contadini lo sapessero, eppure nessuno mostrava la minima sorpresa per come la stavano trattando. Le faceva pizzicare la nuca.
Mentre si avvicinavano a una grossa tenda a strisce rosse e bianche con i lembi legati all’indietro, lei udì delle voci dall’interno.
«...detto che era pronto a venire immediatamente» stava dicendo un uomo.
«Non posso permettermi di nutrire nemmeno una bocca in più se non so per quanto tempo» replicò un secondo.
«Sangue e ceneri! Quanto ci vuole per organizzare un incontro con questa gente?»
Gaul dovette abbassarsi per entrare nella tenda, ma Galina fece il suo ingresso come se si trattasse delle sue stanze nella Torre. Poteva essere una prigioniera, ma era Aes Sedai, e quel semplice fatto era uno strumento potente. E un’arma. Con chi stava cercando di organizzare un incontro? Non Sevanna, di certo. Che si trattasse di chiunque, ma non di Sevanna.
In netto contrasto con il raffazzonato campo al di fuori, nella tenda c’era un bel tappeto a fiori come pavimento, e da aste del soffitto pendevano due arazzi di seta ricamati con fiori e uccelli secondo la moda di Cairhien. Lei si concentrò su un uomo alto e dalle spalle larghe in maniche di camicia che le dava le spalle, appoggiando i pugni contro un tavolo dalle gambe esili decorato con linee di doratura e coperto di mappe e fogli di carta. Galina aveva solo scorto Aybara da lontano a Cairhien, tuttavia era certa che quello fosse lo zotico che veniva dallo stesso villaggio natale di Rand al’Thor, malgrado la camicia di seta e gli stivali ben lucidati. Perfino i risvolti erano lustri. Se non altro, tutti nella tenda parevano guardare lui.
Quando lei fece il suo ingresso, una donna alta in un abito di seta verde dall’alto collo con tocchi di merletto alla gola e ai polsi, e con capelli neri che le cadevano ondulati sulle spalle, appoggiò una mano sul braccio di Aybara con familiarità. Galina la riconobbe. «Pare cauta, Perrin» disse Berelain.
«Sembra temere una trappola, a mio parere, lord Perrin» si inserì un uomo temprato e dai capelli grigi in un pettorale ornato, indossato sopra una giubba scarlatta. Un Ghealdano, pensò Galina. Almeno lui e Berelain spiegavano la presenza dei soldati, anche se non come potessero trovarsi dov’era impossibile che fossero.
Galina era davvero lieta di non aver incontrato la donna a Cairhien. Quello avrebbe reso l’attuale situazione più che semplicemente imbarazzante. Desiderò che le sue mani fossero libere in modo da poter asciugare i residui di lacrime dalla faccia, ma i due uomini le tenevano saldamente le braccia. Non c’era nulla che potesse fare al riguardo. Lei era Aes Sedai. Quello era tutto ciò che contava. Era tutto ciò a cui avrebbe permesso di contare. Aprì la bocca per prendere il controllo della situazione...
Aybara all’improvviso la guardò da sopra la spalla, come se avesse percepito la sua presenza in qualche modo, e i suoi occhi dorati le gelarono la lingua. Lei non aveva creduto ai racconti secondo cui quell’uomo aveva gli occhi di un lupo, ma era così. Gli occhi spietati di un lupo in un volto duro come la roccia. Faceva sembrare quasi tenero il Ghealdano. E il volto dietro quella barba tagliata corta era anche triste. Per sua moglie, senza dubbio. Galina poteva sfruttare questo fatto.
«Una Aes Sedai che indossa il bianco da gai’shain» disse in tono inespressivo, voltandosi verso di lei. Era un omone, anche se non era grosso quanto l’Aiel, e torreggiava stando semplicemente lì, con quegli occhi dorati che coglievano tutto quanto. «E una prigioniera, pare. Non voleva venire?»
«Si dibatteva come una trota sulla sponda del fiume mentre Gaul la stava legando, mio signore» rispose Neald. «Per quanto riguardava me, non avevo nulla da fare se non starmene a guardare.»
Una cosa strana da dire, e in tono tanto significativo. Cosa poteva aver...? Tutt’a un tratto Galina divenne consapevole di un altro uomo con una giubba nera, un tizio tarchiato e segnato dalle intemperie con una spilla argentea a forma di spada assicurata al suo alto colletto. E si ricordò qual era stata l’ultima volta che aveva visto uomini in giubba nera. Li aveva visti balzare fuori da buchi nell’aria appena prima che tutto divenisse un completo disastro ai Pozzi di Dumai. Neald e i suoi buchi, i suoi passaggi. Questi uomini erano in grado di incanalare.
Ci volle tutto quello a cui lei poteva fare appello per non cercare di liberarsi con uno strattone dalla stretta del Murandiano, per non allontanarsi. Solo essere così vicina a quell’uomo le faceva contorcere lo stomaco. Essere toccata da lui... Voleva gemere, e questo la sorprese. Di certo era più tenace di così! Si concentrò per mantenere una parvenza di calma mentre cercava di far salivare nuovamente la sua bocca d’improvviso secca «Sostiene di essere amica di Sevanna» aggiunse Gaul.
«Un’amica di Sevanna» disse Aybara, accigliandosi. «Ma con indosso una veste da gai’shain. Una veste di seta, gioielli, eppure... Non volevi venire, ma non hai incanalato per cercare di impedire a Gaul e Neald di portarti. E sei terrorizzata.» Scosse il capo. Come faceva a sapere che aveva paura?
«Sono sorpreso di vedere una Aes Sedai con gli Shaido dopo i Pozzi di Dumai. Oppure non ne sai nulla? Lasciatela andare, lasciatela andare. Dubito che si metterà a scappare, dal momento che vi ha permesso di portarla così lontano.»
«I Pozzi di Dumai non hanno importanza» disse lei con freddezza quando le mani degli uomini si allontanarono. I due rimasero ai suoi lati come delle guardie, però, e lei fu orgogliosa della fermezza della propria voce. Un uomo in grado di incanalare. Due di loro, e lei era sola. Sola e incapace di incanalare un solo filo. Si mise dritta con la testa eretta. Era una Aes Sedai, e loro dovevano vederla come tale fino in fondo. Com’era possibile che Aybara sapesse che era spaventata? Nemmeno un briciolo di paura permeava le sue parole. La sua faccia poteva essere intagliata nella pietra, per quanto lasciava trasparire. «La Torre Bianca ha scopi che nessuno tranne le Aes Sedai può conoscere o comprendere. Io sono in giro per questioni della Torre Bianca e voi state interferendo. Una scelta imprudente per chiunque.» Il Ghealdano annui con aria mesta, come se avesse appreso quella lezione di persona; Aybara si limitò a guardarla, inespressivo.
«Udire il tuo nome è stato l’unico motivo per cui non ho fatto qualcosa di drastico a questi due» continuò lei. Se il Murandiano o l’Aiel avessero menzionato quanto tempo c’era voluto, lei era pronta ad affermare di essere rimasta stordita sulle prime, ma rimasero in silenzio e lei parlò in fretta e con energia. «Tua moglie Faile è sotto la mia protezione, così come la regina Alliandre, e quando le mie faccende con Sevanna saranno concluse, le porterò al sicuro con me e le aiuterò a raggiungere qualunque luogo vogliano raggiungere. Nel frattempo, comunque, la tua presenza mette a rischio i miei compiti, i compili della Torre Bianca, cosa che non posso permettere. Mette anche in pericolo te, tua moglie e Alliandre. Ci sono decine di migliaia di Aiel in quell’accampamento. Molte decine di migliaia. Se calano su di voi, e i loro esploratori vi troveranno presto se ancora non l’hanno fatto, vi spazzeranno via tutti quanti dalla faccia della terra. Potrebbero anche fare del male a tua moglie e ad Alliandre, per questo. Potrei non essere in grado di fermare Sevanna. È una donna severa, e molte delle sue Sapienti sono in grado di incanalare, quasi quattrocento di loro, tutte disposte a usare il Potere per compiere violenza, mentre io sono una sola Aes Sedai e vincolata dai miei giuramenti. Se desideri proteggere tua moglie e la regina, volta le spalle al loro campo e cavalca via più veloce che puoi. Porrebbero non attaccarvi se è evidente che vi state ritirando. Questa è l’unica speranza di cui dispone tua moglie.» Ecco. Se solo alcuni dei semi che aveva piantato avessero messo radici, era probabile che sarebbero stati sufficienti a farlo ritirare.
«Se Alliandre è in pericolo, lord Perrin...» esordì il Ghealdano, ma Aybara lo interruppe con una mano sollevata. Bastò quello. La mascella del soldato si serrò fino al punto in cui lei pensò di poterla sentir scricchiolare, tuttavia rimase in silenzio.
«Tu hai visto Faile?» disse il giovane con una punta di eccitazione nella voce. «Sta bene? Non le è stato fatto del male?» Lo sciocco pareva non aver udito nemmeno una parola di quello che lei aveva detto tranne quando aveva menzionato sua moglie.
«Sta bene ed è sotto la mia protezione, lord Perrin.» Se quel campagnolo arricchito voleva farsi chiamare lord, lei l’avrebbe tollerato per il momento. «Sia lei che Alliandre.» Il soldato guardò torvo Aybara, ma non colse l’opportunità di parlare. «Devi ascoltarmi, gli Shaido ti uccideranno...»
«Vieni qui e guarda questo» la interruppe Aybara, voltandosi verso il tavolo e tirando a sé una grossa pagina.
«Devi perdonare la sua mancanza di buone maniere, Aes Sedai» bisbigliò Berelain, porgendole una tazza d’argento lavorato colma di vino scuro. «E sottoposto a una tensione notevole, come puoi capire date le circostanze. Non mi sono presentata. Sono Berelain, la Prima di Mayene.»
«Lo so. Puoi chiamarmi Alyse.» L’altra donna sorrise come se sapesse che era un nome falso, tuttavia accettandolo. La Prima di Mayene era una persona decisamente sofisticata. Un peccato che lei dovesse trattare col ragazzo, invece; le persone sofisticate che pensavano di poter danzare con le Aes Sedai si trovavano facilmente a essere guidate. I campagnoli, per via della loro ignoranza, potevano rivelarsi cocciuti. Ma ormai quel tipo doveva sapere qualcosa sulle Aes Sedai. Forse, se lei l’avesse ignorato, gli avrebbe dato modo di riflettere su chi e cosa lei fosse.
Il vino lasciava un sapore di fiori sulla lingua. «Questo è ottimo» disse con sincera gratitudine. Non assaggiava vino decente da settimane. Therava non le avrebbe permesso un piacere che la Sapiente negava a sé stessa. Se quella donna fosse venuta a sapere che ne aveva trovato diversi barili a Malden, non avrebbe potuto avere nemmeno vino mediocre. E di certo sarebbe stata anche picchiata.
«Ci sono altre Sorelle nell’accampamento, Alyse Sedai. Masuri Sokawa e Seonid Traighan, e la mia stessa consigliera, Annoura Larisen. Gradiresti parlare con loro dopo aver terminato con Perrin?» Con simulata disinvoltura, Galina alzò il cappuccio finché il suo volto non fu in ombra e prese un altro sorso di vino per darsi tempo di pensare. La presenza di Annoura era comprensibile, data quella di Berelain, ma cosa stavano facendo le altre due lì? Erano state fra quelle che erano fuggite dalla Torre dopo che Siuan era stata deposta ed Elaida innalzata. Vero, nessuna di loro avrebbe saputo del suo coinvolgimento nel rapimento del ragazzo al’Thor per Elaida, tuttavia...
«Penso di no» mormorò. «Loro hanno le loro incombenze e io le mie.» Avrebbe dato chissà cosa per sapere quali erano, ma non al costo di essere riconosciuta. Qualunque amica del Drago Rinato poteva avere... informazioni... su una Rossa. «Aiutami a convincere Aybara, Berelain. Le tue Guardie Alate non possono competere con quello che gli Shaido manderanno contro di voi. Tutti i Ghealdani che hai con te non faranno la differenza. Un esercito non farà la differenza. Gli Shaido sono troppi, e hanno centinaia di Sapienti pronte a usare l’Unico Potere come un’arma. Le ho viste farlo. Anche tu potresti morire, e perfino se venissi catturata, non posso prometterti di riuscire a indurre Sevanna a liberarti quando me ne andrò.»
Berelain rise come se migliaia di Shaido e centinaia di Sapienti in grado di incanalare non contassero nulla. «Oh, non temere che ci trovino. Il loro accampamento si trova a tre giorni buoni a cavallo da qui, forse quattro. Il terreno si fa impervio non lontano da dove ci troviamo.»
Tre giorni, forse quattro. Galina fu percorsa da un tremito. Avrebbe dovuto rimettere assieme gli indizi molto prima. Tre o quattro giorni a cavallo coperti in meno di un’ora. Attraverso un buco nell’aria creato con la metà maschile del Potere. Era stata abbastanza vicina perché saidin la toccasse. Mantenne la voce ferma, però. «Anche in questo caso, devi aiutarmi a convincerlo a non attaccare. Sarebbe un disastro, per lui, per sua moglie, per tutti quelli coinvolti. Oltre a questo, ciò che sto facendo è importante per la Torre. Tu sei sempre stata una forte sostenitrice della Torre.» Adulazione per la governante di un’unica città e qualche ettaro di terra, ma l’adulazione ungeva le persone irrilevanti così come i potenti.
«Perrin è cocciuto, Alyse Sedai. Dubito che gli farai cambiare idea. Non è facile farlo una volta che si fissa su qualcosa.» Per qualche ragione, la giovane donna esibì un sorriso tanto misterioso da rivaleggiare con quello di una Sorella.
«Berelain, potresti chiacchierare più tardi?» disse Aybara con impazienza, e non era un consiglio. Tamburello sul foglio di carta con un grosso dito. «Alyse, vuoi dare un’occhiata a questo?» Nemmeno quello era un consiglio. Chi sì credeva di essere quell’uomo, per dare ordini a una Aes Sedai?
Tuttavia, avvicinarsi al tavolo la fece allontanare un poco da Neald. La portò più vicina a quell’altro, che la stava squadrando assorto, ma era dall’altra parte del tavolo. Una flebile barriera, tuttavia lei poteva ignorarlo guardando il foglio di carta sotto il dito di Aybara. Impedire alle sue sopracciglia di sollevarsi fu difficile. Lì era delineata la cittadina dì Malden, completa dell’acquedotto che portava l’acqua da un lago a cinque miglia di distanza, e anche un contorno approssimativo dell’accampamento shaido che circondava la città. La vera sorpresa erano dei segni che parevano indicare l’arrivo di sette fin da quando gli Shaido avevano raggiunto Malden, e i numeri di quelle significavano che i suoi uomini osservavano il campo da diverso tempo. Un’altra mappa, sommariamente abbozzata, pareva mostrare la città stessa in un certo dettaglio.
«Vedo che hai appreso quant’è vasto il loro accampamento» disse lei. «Devi sapere che non ci sono speranze di salvarla. Perfino se avessi cento di quegli uomini non sarebbe abbastanza.» Parlare di loro non era facile e lei non riuscì a trattenere del tutto il disprezzo dalla propria voce. «Quelle Sapienti contrattaccheranno. A centinaia. Sarebbe un massacro, con migliaia di morti, e forse tua moglie fra essi. Te l’ho detto, lei e Alliandre sono sotto la mia protezione. Quando le mie faccende saranno terminate, le porterò io al sicuro. Mi hai sentito dirlo, perciò per i Tre Giuramenti sai che è vero. Non commettere l’errore di pensare che il tuo legame con Rand al’Thor ti proteggerà se interferisce in quello che sta facendo la Torre Bianca. Sì, so chi sei. Pensavi che tua moglie non me l’avrebbe detto? Lei si fida di me, e se vuoi tenerla al sicuro, devi farlo anche tu.»
L’idiota la guardò come se le sue parole gli fossero volate sopra la testa senza toccargli le orecchie. Quegli occhi erano davvero sconcertanti. «Dove dorme? Lei e tutte quelle che sono state catturate con lei. Mostramelo.»
«Non posso» rispose lei in tono pacato. «I gai’shain di rado dormono nello stesso posto due notti di fila.» Con quella menzogna, per lei scomparve l’ultima possibilità di lasciare in vita Faile e le altre. Oh, non aveva mai avuto intenzione di aumentare il rischio della propria fuga aiutandole, ma quello poteva essere sempre spiegato successivamente per un cambio delle circostanze. Non poteva rischiare che un giorno potessero davvero scappare e scoprire la sua diretta menzogna, però.
«Io la libererò» borbottò lui, quasi troppo piano perché lei udisse. «A ogni costo.»
I suoi pensieri si fecero frenetici. Non sembrava esserci modo per distoglierlo, ma forse poteva ritardarlo. Dovevi fare almeno quello. «Ritarderesti almeno il tuo attacco? Potrei essere in grado di concludere le mie faccende entro pochi giorni, forse una settimana.» Una scadenza avrebbe intensificato gli sforzi di Faile. Prima sarebbe stato pericoloso: una minaccia non messa in pratica perdeva tutta la sua forza e le probabilità che la donna non riuscisse a ottenere la verga in tempo erano troppo elevate. Ora quel rischio diventava necessario. «Se posso farlo e porto fuori tua moglie e le altre, non ci sarà motivo perché tu muoia senza scopo. Una settimana.»
Con la frustrazione dipinta sul volto, Aybara sbatté il pugno tanto forte sulla tavola da farla rimbalzare. «Puoi avere qualche giorno,» ringhiò «forse perfino una settimana o più, se...» Si rimangiò quello che era stato sul punto di dire. Quegli strani occhi si fissarono sul suo volto. «Ma non posso promettere quanti giorni» proseguì lui. «Se potessi fare a modo mio, attaccherei ora. Non lascerei Faile prigioniera un giorno più del dovuto standomene ad aspettare che i piani delle Aes Sedai per gli Shaido diano frutti. Dici che è sotto la tua protezione, ma quanta protezione puoi davvero fornirle, indossando quella veste? Ci sono segni di ubriachezza nel campo. Perfino alcune delle loro sentinelle bevono. Anche le Sapienti si abbandonano al vino?»
Quell’improvviso cambio d’argomento le fece sbattere le palpebre. «Le Sapienti bevono solo acqua, perciò non devi pensare di poterle trovare tutte in preda allo stordimento» gli disse in tono asciutto. E in modo piuttosto veritiero. La divertiva sempre quando la verità serviva ai suoi scopi. Non che l’esempio delle Sapienti stesse dando molti frutti. L’ubriachezza era diffusa tra gli Shaido. A ogni scorreria riportavano tutto il vino che riuscivano a trovare. Dozzine e dozzine di piccoli alambicchi producevano nauseabondi distillati di grano, e ogni volta che le Sapienti ne distruggevano uno, ne apparivano due al suo posto. Rivelarglielo non avrebbe fatto che incoraggiarlo, però. «Per quanto riguarda gli altri, sono stata con degli eserciti prima di questo e ho visto più gente sbronza che tra gli Shaido. Se cento su decine di migliaia sono ubriachi, che vantaggio puoi trame? Davvero, faresti bene a promettermi una settimana. Due sarebbero ancora meglio.»
Gli occhi di lui guizzarono sulla mappa e la sua mano destra tornò a chiudersi in un pugno, ma non c’era rabbia nella sua voce. «Gli Shaido si recano molto spesso all’interno delle mura cittadine?»
Lei posò la sua coppa di vino sul tavolo e si erse più dritta. Incrociare lo sguardo di quegli occhi gialli richiedeva uno sforzo, eppure ci riuscì senza tentennamenti. «Penso che sia ora che mostri appropriato rispetto. Sono una Aes Sedai, non una servitrice.»
«Gli Shaido si recano molto spesso all’interno delle mura cittadine?» ripete esattamente nello stesso tono piatto. Galina voleva digrignare i denti.
«No» sbottò lei. «Hanno saccheggiato tutto quello che valeva la pena rubare e anche cose di nessun valore.» Si pentì di quelle parole non appena furono volate via dalla sua lingua. Erano sembrate sicure, finché non si ricordò di uomini che potevano balzare attraverso buchi nell’aria. «Ciò non vuoi dire che non vi si recano mai. La maggior parte dei giorni, alcuni vi entrano. Potrebbero essercene venti o trenta alla volta, di più in certe occasioni, in gruppi di due o tre.» Lui aveva l’intelligenza per capire cosa significava questo? Meglio assicurarsi che capisse. «Non potresti aver ragione di tutti quanti. Inevitabilmente, qualcuno scapperebbe ad avvertire l’accampamento.»
Aybara si limitò ad annuire. «Quando vedi Faile, dille che nel giorno in cui vedrà nebbia sui rilievi e sentirà i lupi ululare di giorno, lei e le altre dovranno andare alla fortezza di lady Cairen nell’estremità nord della città e nascondersi lì. Dille che l’amo. Dille che sto venendo per lei.»
Lupi?, pensò. Quell’uomo era pazzo? Come poteva assicurarsi che i lupi...? Tutt’a un tratto, con quegli occhi da lupo su di lei, Galina non fu sicura di volerlo sapere.
«Glielo dirò» mentì. Forse lui aveva solo intenzione di usare gli uomini con le giubbe nere per portare via sua moglie. Ma perché aspettare, in tal caso? Quegli occhi gialli celavano segreti che lei desiderava conoscere. Chi stava cercando di incontrare Aybara? Chiaramente non Sevanna. Avrebbe ringraziato la Luce per quello se non avesse abbandonato quell’idiozia molto tempo prima. Chi era pronto ad andare immediatamente? Era stato menzionato un uomo, ma quello poteva voler dire un re con un esercito. O al’Thor stesso? Galina pregò di non rivederlo di nuovo.
La sua promessa parve liberare qualcosa nel giovane uomo. Lui espirò lentamente e una tensione che lei non aveva notato abbandonò il suo volto. «Il problema col rompicapo di un fabbro» disse piano, picchiettando il contorno di Malden «è sempre mettere il pezzo chiave al posto giusto. Bene, questo è fatto. O lo sarà presto.»
«Rimarrai per cena?» chiese Berelain. «È quasi ora.»
La luce si andava affievolendo nella soglia aperta. Una magra servitrice in abito di lana scura, con i capelli bianchi raccolti in una crocchia sulla nuca, entrò e iniziò ad accendere le lampade.
«Mi prometti almeno una settimana?» domandò Galina, ma Aybara scosse il capo. «In tal caso, ogni ora è importante.» Non aveva mai avuto intenzione di restare un momento più a lungo del necessario, ma dovette costringersi a pronunciare le parole successive. «Ordinerai a uno dei tuoi... uomini... di riportarmi il più vicino possibile all’accampamento?»
«Pensaci tu, Neald» comandò Aybara. «E almeno cerca di essere educato.» Lui lo diceva!
Galina trasse un profondo respiro e gettò indietro il cappuccio. «Voglio che tu mi colpisca, qui.» Si toccò la guancia. «Tanto forte da lasciarmi un livido.»
Finalmente aveva detto qualcosa che aveva sorpreso quell’uomo. Quegli occhi gialli si sgranarono e lui infilò i pollici dietro la cintura come per tener ferme le mani. «Non lo farò» disse, con un tono come se lei fosse pazza.
«Lo esigo» disse Galina con fermezza. Avrebbe avuto bisogno di ogni frammento di verosimiglianza che poteva ottenere con Therava. «Fallo!»
La bocca del Ghealdano si spalancò e la servitrice rimase a fissarla, col cero acceso che aveva in mano che pendeva pericolosamente vicino alle sue gonne.
«Non credo che lo farà» disse Berelain, scivolando avanti con le gonne raccolte in mano. «I suoi modi sono molto rustici. Se mi permetti?»
Galina annuì con impazienza. Non poteva farci nulla, anche se probabilmente la donna non avrebbe lasciato un segno molto convin... La sua vista si oscurò e, quando poté vedere di nuovo, stava ondeggiando leggermente. Poteva sentire il sapore metallico del sangue. Si portò una mano alla guancia e trasalì.
«Troppo forte?» domandò Berelain in tono preoccupato.
«No» borbottò Galina, sforzandosi di mantenere il suo viso impassibile. Se fosse stata in grado di incanalare, avrebbe strappato la testa a quella donna. Ovviamente, se avesse potuto incanalare, nulla di quello sarebbe stato necessario. «Ora l’altra guancia. E mandate qualcuno a prendere la mia giumenta.»
Cavalcò nella foresta con il Murandiano, fino a un posto in cui diversi grossi alberi giacevano crollati al suolo e stranamente tagliati, certa che per lei sarebbe stato difficile usare quel buco nell’aria, ma quando l’uomo creò una fenditura verticale azzurro-argentea che si allargò fino a una vista di un terreno che si inerpicava ripido, lei non pensò affatto al corrotto saidin che spronava Rapida attraverso l’apertura. Nessun pensiero tranne Therava. Per poco non urlò quando si rese conto di trovarsi dal lato opposto del rilievo dall’accampamento. Corse frenetica contro il sole che tramontava. E perse.
Purtroppo aveva avuto ragione. Therava non accettò scuse. Fu particolarmente turbata per i lividi. Lei stessa non aveva mai deturpato il volto di Galina. Quello che segui eguagliò facilmente i suoi incubi. E durò più a lungo. A tratti, urlando con quanto fiato aveva, quasi si dimenticò del suo disperato bisogno di ottenere la verga. Ma si aggrappò a quello. Ottenere la verga, uccidere Fai le e le sue amiche, e poi sarebbe stata finalmente libera.
Egwene riprese lentamente conoscenza e, per intontita che fosse, ebbe a malapena la presenza di spirito di tenere gli occhi chiusi. Fingere di essere ancora incosciente fu fin troppo facile. La sua testa era accasciata sulla spalla di una donna e lei non avrebbe potuto sollevarla nemmeno se avesse provato. La spalla di una Aes Sedai: poteva percepire la capacità della donna. Si sentiva la testa imbottita di lana, i pensieri lenti e incostanti e gli arti del tutto intorpiditi. Il suo mantello e il suo abito di lana per cavalcare erano asciutti, malgrado fosse stata a mollo nel fiume. Be’, questo si poteva ottenere facilmente col Potere. Era improbabile che avessero incanalato l’acqua dagli indumenti per la sua comodità, però. Era seduta, incuneata tra due Sorelle, una aveva un profumo floreale, e tutte due usavano una mano per mantenerla più o meno dritta. Dal modo in cui dondolava e dallo scalpitio di un gruppo di cavalli al trotto sul selciato, si trovavano in una carrozza. Con cautela aprì leggermente gli occhi.
Le tendine laterali della carrozza erano scostate, anche se il lezzo di immondizia marcia le fece pensare che sarebbe stato meglio chiuderle. Immondizia che marciva! Com’era possibile che Tar Valon fosse arrivata a questo? Tale incuria della città era una ragione sufficiente perché Elaida venisse rimossa. I finestrini lasciavano filtrare abbastanza luce lunare per distinguere a malapena tre Aes Sedai sedute di fronte a lei, sul retro della carrozza. Perfino se non avesse saputo che potevano incanalare, i loro scialli frangiati l’avrebbero reso certo. A Tar Valon, indossare uno scialle con la frangia poteva risultare qualcosa di molto spiacevole se la donna non era una Aes Sedai. Stranamente, la Sorella sulla sinistra pareva rannicchiata contro il lato della carrozza, distante dalle altre due, e se quelle non erano esattamente strette assieme, almeno si stavano sedendo molto vicine, come per evitare il contatto con la terza Aes Sedai. Molto strano.
All’improvviso si rese conto di non essere schermata. Per quanto potesse essere disorientata, questo non aveva alcun senso. Potevano percepire la sua forza, proprio come poteva fare lei con loro, e per quanto nessuna fosse debole, Egwene pensava che avrebbe potuto sopraffarle tutte e cinque se fosse stata abbastanza rapida. La Vera fonte era un vasto sole appena oltre l’orlo della sua visuale, che la chiamava. La prima domanda era: Osava provarci già? Nello stato in cui era la sua testa, con i pensieri come se guadassero tra un fango alto fino al ginocchio, non era certo che fosse davvero in grado di abbracciare saidar e, una volta che avesse provato, loro l’avrebbero saputo, che lei ci fosse riuscita o meno.
Meglio tentare di riprendersi un po’, prima. La seconda domanda era: Quanto osava aspettare? Non l’avrebbero lasciata non schermata per sempre. A titolo di prova, cercò di muovere le dita dei piedi dentro le sue robuste scarpe di cuoio e fu lieta quando si agitarono obbedienti. Pareva che le sue gambe e braccia stessero lentamente riprendendo vita. Pensava di poter essere in grado di sollevare la testa ora, seppure in modo instabile. Qualunque cosa le avessero dato, l’effetto stava svanendo. Per quanto tempo?
Gli eventi le furono tolti di mano dalla Sorella dai capelli scuri in mezzo al sedile posteriore, che si sporse in avanti e la schiaffeggiò così forte da farla crollare in grembo alla donna contro cui era appoggiata. La mano le andò d’istinto alla guancia dolorante. E tanti saluti alla finta di essere incosciente.
«Non ce n’era bisogno, Katerine» disse una voce roca sopra di lei mentre chi aveva parlato la sollevava di nuovo in piedi. Scoprì che poteva tenere su la testa, appena appena. Katerine. Quella doveva essere Katerine Alruddin, una Rossa. Per qualche ragione le pareva importante identificare le sue carceriere, anche se non sapeva nulla di Katerine a parte il suo nome e la sua Ajah. La Sorella su cui era caduta aveva capelli biondi, ma il suo volto ombreggiato dalla luna apparteneva a un’estranea. «Credo che tu le abbia dato troppa radice biforcuta» proseguì la donna.
Un brivido attraversò Egwene. Allora era questo che le avevano fatto ingerire. Passò in rassegna la sua mente in cerca di tutto quello che Nynaeve le aveva detto su quel nauseante infuso, ma i suoi pensieri erano ancora lenti. Anche se pareva che stessero migliorando. Fra certa che Nynaeve aveva detto che ci voleva un po’ di tempo perché gli effetti scomparissero del tutto.
«Le ho dato la dose esatta, Felaana» replicò in tono secco la Sorella che l’aveva schiaffeggiata «e, come puoi vedere, la sta lasciando precisamente come dovrebbe. La voglio in grado di camminare per quando avremo raggiunto la Torre. Di sicuro non ho intenzione di aiutare di nuovo a trasportarla» concluse, con un’occhiataccia per la Sorella seduta alla sinistra di Egwene, la quale rispose scrollando la testa con sdegno. Quella era Pritalle Nerbaijan, una Gialla che aveva fatto del suo meglio per evitare di insegnare alle novizie o alle Ammesse e non aveva fatto mistero del suo disprezzo per quel compito quando vi era stata costretta.
«Farla portare al mio Harril sarebbe stato davvero sconveniente» disse in tono freddo. Glaciale, in effetti. «Anch’io sarò lieta se potrà camminare, ma in caso contrario, che sia. A ogni modo, non vedo l’ora di consegnarla alle altre. Se tu non vuoi trasportarla di nuovo, Katerine, io non voglio stare a sorvegliala per metà della notte nelle celle.» Stavolta fu Katerine a scuotere il capo sdegnata. Le celle. Ma certo: era diretta a una di quelle stanzette buie al primo livello dei sotterranei della Torre. Elaida l’avrebbe accusata di essersi indebitamente proclamata Amyrlin Seat. La punizione per quello era la morte. Stranamente, questo non la impauriva affatto. Forse era l’effetto dell’erba. Chi fra Romanda e Lelaine si sarebbe fatta da parte, acconsentendo che l’altra venisse proclamata Amyrlin dopo la sua morte? Oppure avrebbero continuato a opporsi l’una all’altra fino a che l’intera ribellione non avrebbe vacillato e si sarebbe dissolta, con le Sorelle che sarebbero tornale strisciando da Elaida? Un triste pensiero. Estremamente triste. Ma se poteva provare tristezza, la radice biforcuta non stava sedando le sue emozioni, allora perché non si sentiva impaurita? Sfiorò il suo anello del Gran Serpente. O almeno ci provò perché scoprì che era scomparso. Una rabbia incandescente le avvampò dentro. Potevano ucciderla, ma non avrebbero negato che fosse Aes Sedai.
«Chi mi ha tradito?» domandò, lieta che il suo tono fosse freddo e pacato. «Dirmelo non può nuocervi, dal momento che sono vostra prigioniera.» Le Sorelle la fissarono come sorprese elio potesse parlare.
Katerine si sporse in avanti con noncuranza, sollevando la mano. Gli occhi della Rossa si serrarono quando Felaana dai capelli chiari si mosse rapida per intercettare lo schiaffo prima che potesse raggiungere Egwene.
«Senza dubbio sarà giustiziata,» disse con fermezza la donna dalla voce roca «ma è un’iniziata della Torre, e nessuna di noi ha il diritto di picchiarla.»
«Levami quella mano di dosso, Marrone» ringhiò Katerine, e, cosa sconcertante, la luce di saidar la avviluppò.
In un instante il bagliore circondò ogni donna nella carrozza tranne Egwene. Si squadrarono a vicenda come strani gatti sul punto di soffiare, sul punto di attaccare con gli artigli. No, non tutte: Katerine e la Sorella più alta seduta contro il suo fianco non si guardarono mai. Ma ebbero occhiatacce in abbondanza per il resto. Per la Luce, cosa stava succedendo? Quella reciproca ostilità era così densa nell’aria che lei avrebbe potuto tagliarla come pane.
Dopo un momento, Felaana tolse la presa dal polso di Katerine e si appoggiò contro lo schienale, tuttavia nessuna lasciò andare la Fonte. All’improvviso Egwene sospettò che nessuna fosse disposta a essere la prima a farlo. Tutti i loro volti erano sereni nella pallida luce lunare, ma le mani della Marrone erano intrecciate nello scialle e la Sorella che si teneva a distanza da Katerine non la smetteva di lisciarsi le gonne.
«Era ora per questo, penso» disse Katerine, intessendo uno schermo. «Non vorremmo che tu tentassi qualcosa di... futile.» Il suo sorriso era malevolo. Egwene si limitò a sospirare mentre il flusso si posava su di lei; dubitava comunque di poter essere già in grado di abbracciare di nuovo saidar, e contro cinque già piene del Potere quel successo sarebbe potuto durare al massimo qualche istante. La sua reazione mite parve deludere la Rossa. «Questa potrebbe essere la tua ultima notte nel mondo» proseguì lei. «Non mi sorprenderebbe affatto se Elaida ti facesse quietare e giustiziare domani.»
«O perfino stanotte» aggiunse la sua compagna dinoccolata annuendo. «Penso che Elaida non veda davvero l’ora di farla finita con te.» A differenza di Katerine, lei si stava limitando a enunciare un fatto, ma sicuramente era un’altra Rossa. E stava osservando le altre Sorelle come se sospettasse che una di loro potesse tentare qualcosa. Questo sì che era molto strano!
Egwene mantenne la propria compostezza, negando loro la reazione che desideravano. Quella che voleva Katerine, perlomeno. Era determinala a mantenere la propria dignità fino al ceppo del boia. Che fosse riuscita o meno ad agire bene come Amyrlin, sarebbe morta in un modo appropriato per una Amyrlin Seat.
La donna rannicchiata distante dalle due Rosse parlò, e la sua voce, forte di un accento arafelliano, consentì a Egwene di dare un nome a quel volto duro e stretto, a malapena visibile alla luce della luna. Berisha Terakuni, una Grigia nota per la sua rigorosissima e spesso severissima interpretazione della legge. Sempre alla lettera, naturalmente, ma senza mai alcun senso di pietà.
«Non stanotte o domani, Barasine, a meno che Elaida non sia disposta a convocare le Adunanti nel mezzo della notte e loro siano disponibili a rispondere alla chiamata. Questo richiede un’Alta Corte, qualcosa che non duri minuti o nemmeno ore, e il Consiglio, non c’è da stupirsi, sembra meno desideroso di compiacere Elaida di quanto lei vorrebbe. La ragazza sarà giudicata, ma il Consiglio si riunirà per discutere la faccenda quando lo sceglieranno le Adunanti, ritengo.»
«Il Consiglio verrà alla convocazione di Elaida altrimenti lei impartirà loro delle punizioni tali che desidereranno averlo fatto» la schernì Katerine. «Dal modo in cui Jala e Merym si sono allontanate in fretta quando hanno visto chi avevamo preso, ormai lei lo sa, e scommetto che per questo Elaida trascinerà le Adunanti giù dai letti con le proprie mani, se necessario.» La sua voce si fece arrogante e tagliente al tempo stesso. «Forse ti nominerà come Avvocata del Perdono. Ti piacerebbe?»
Berisha si raddrizzò con aria indignata, spostando lo scialle sulle sue braccia. In alcuni casi, l’Avvocata del Perdono riceveva la stessa punizione della persona che difendeva. Forse per quell’accusa era necessaria; malgrado i migliori sforzi di Siuan per completare la sua istruzione, Egwene non lo sapeva.
«Quello che voglio sapere» disse la Grigia dopo un momento, ignorando ostentatamente le donne sul sedile assieme a lei «è cos’hai fatto alla catena del porto. Come può essere annullato?»
«Non può essere annullato» rispose Egwene. «Di certo saprai che adesso è cuendillar. Perfino il Potere non lo romperà: non farà altro che rafforzarlo. Suppongo che potete venderlo, se riuscite a strappar via abbastanza muro del porto da rimuoverlo. Sempre che qualcuno possa permettersi un pezzo di cuendillar così grosso. O che lo voglia.»
Nessuna cercò di impedire a Katerine di schiaffeggiarla, e molto forte, perfino. «Trattieni quella lingua!» sbottò la Rossa.
Quello pareva un buon consiglio a meno che lei non volesse essere schiaffeggiata parecchio. Già poteva sentire il sapore di sangue in bocca. Perciò Egwene trattenne la lingua e calò il silenzio sulla carrozza in corsa; tutte le altre che brillavano di saidar e si guardavano con sospetto a vicenda. Era incredibile! Perché mai Elaida aveva scelto delle donne che chiaramente si detestavano per il compito di quella notte? Una dimostrazione del suo potere, solo perché ne era in grado? Non aveva importanza. Se Elaida le avesse permesso di superare viva quella notte, almeno avrebbe potuto far sapere a Siuan cosa le era successo — e probabilmente anche a Leane. Poteva far sapere a Siuan che erano state tradite. E pregare che Siuan riuscisse a trovare chi era stato. Forse la ribellione non si sarebbe sfaldata. Recitò una breve preghiera per quello. Era molto più importante del resto.
Quando il cocchiere arrestò i cavalli, lei si era ripresa abbastanza da seguire Katerine e Pritalle dalla carrozza senza aiuto, anche se si sentiva ancora un po’ intontita. Poteva stare in piedi, ma dubitava di avere la forza per correre lontano, non sarebbe riuscita a procedere se non di pochi passi. Così se ne stette calma accanto alla carrozza laccata di scuro e attese con la stessa pazienza dei quattro cavalli imbrigliati. Dopotutto anche lei era imbrigliata, per così dire. La Torre Bianca incombeva sopra di lei, un grosso fusto pallido che si ergeva nella notte. Solo poche finestre erano illuminate, ma alcune erano proprio vicino alla sommità, forse quelle delle stanze occupate da Elaida. Era molto strano. Lei era una prigioniera ed era improbabile che sarebbe vissuta ancora per molto, eppure si sentiva come se fosse tornala a casa. La Torre parve rinvigorirla.
Due servitori abbigliati con la livrea della Torre, la Fiamma di Tar Valon sul loro petto, erano smontati dal retro della carrozza per distendere la scaletta e restarono lì a offrire una mano guantata di bianco a ogni donna che scendeva, ma solo Berisha se ne avvalse, e solo perché questo le consenti di raggiungere il selciato rapidamente tenendo d’occhio al contempo le altre Sorelle, sospettò Egwene. Barasine rivolse a quei tizi delle occhiate tali che uno deglutì udibilmente e l’altro impallidì. Felaana, occupata nel cercare di sorvegliare le altre, si limitò a scacciare gli uomini con un gesto stizzito. Tutte e cinque trattenevano ancora saidar, perfino lì.
Si trovavano all’entrata principale sul retro, con scale di marmo dotate di un parapetto di pietra che scendevano dal secondo piano sotto quattro massicce lanterne di bronzo che proiettavano un’ampia pozza di luce tremolante e, con sorpresa di Egwene, un’unica novizia se ne stava da sola ai piedi delle scale, tenendo stretto il suo mantello bianco per ripararsi da un lieve spiffero. Era stata quasi convinta che Elaida sarebbe venuta loro incontro di persona, per gongolare per la sua cattura assieme a un seguito di sicofanti. Il fatto che la novizia fosse Nicola Treehill fu una seconda sorpresa. L’ultimo posto in cui avrebbe immaginato di trovare quella fuggitiva era dentro la stessa Torre Bianca.
Dal modo in cui Nicola strabuzzò gli occhi quando Egwene uscì dalla carrozza, la novizia era più sbigottita di lei, ma si profuse in una riverenza precisa seppure affrettata verso le Sorelle.
«L’Amyrlin dice che lei... lei dev’essere consegnata alla Maestra delle novizie, Katerine Sedai. Dice che Silviana Sedai ha le sue istruzioni.»
«Dunque pare che stanotte verrai fustigala, perlomeno» mormorò Katerine con un sorriso. Egwene si domandò se la donna la odiasse personalmente per quello che lei rappresentava, oppure odiasse semplicemente chiunque. Fustigata. Non aveva mai visto farlo, ma aveva sentito una descrizione. Sembrava estremamente doloroso. Incontrò lo sguardo di Katerine con aria calma e, dopo un momento, quel sorriso svanì. La donna parve sul punto di colpirla di nuovo. Gli Aiel avevano un modo per trattare il dolore. Lo abbracciavano, vi si abbandonavano totalmente senza lottare o perfino tentare di trattenere le urla. Forse quello avrebbe aiutato. Le Sapienti dicevano che in quel modo il dolore poteva essere scacciato senza che mantenesse la sua presa.
«Se Elaida intende trascinare la faccenda senza necessità, stanotte non avrò più parte in tutto questo» annunciò Felaana, accigliandosi verso tutte le donne in vista, inclusa Nicola. «Se la ragazza verrà quietata e giustiziata, ciò dovrebbe essere sufficiente.» Raccogliendo le sue gonne, la Sorella dai capelli biondi schizzò oltre Nicola su per le scale. Correndo per davvero! Il bagliore di saidar la circondava ancora quando svanì all’interno.
«Sono d’accordo» disse Pritalle in tono freddo. «Harril, penso che verrò con te mentre metti nella stalla Bloodlance.» Un uomo scuro e tarchiato che era uscito dal buio conducendo un alto baio le rivolse un inchino. Il volto impassibile, indossava il mantello cangiante che faceva sembrare che buona parte di lui fosse invisibile quando stava immobile e si increspava di colori quando si muoveva. Seguì in silenzio Pritalle nella notte, ma guardandosi alle spalle, sorvegliando la retroguardia della Sorella. La luce rimase anche attorno a lei. C’era qualcosa che a Egwene sfuggiva.
Tutt’a un tratto Nicola allargò le gonne in un’altra riverenza, stavolta più profonda, e le parole le uscirono di getto. «Sono spiacente di essere fuggita, Madre. Pensavo che mi avrebbero fatto andare più veloce qui. Areina e io pensavamo...»
«Non chiamarla così!» sbraitò Katerine, e una sferzata di Aria colpì la novizia sul didietro tanto forte da farla strillare e sobbalzare. «Se stai accudendo l’Amyrlin Seat stanotte, bambina, torna da lei e riferiscile che ho detto che i suoi ordini verranno eseguili. Corri, su!»
Con un’ultima, frenetica occhiata a Egwene, Nicola raccolse mantello e gonne e si avviò di scatto su per le scale, quasi inciampando. Povera Nicola. Le sue speranze di certo erano state deluse, e se la Torre avesse scoperto la sua età... Doveva aver mentito al riguardo per essere ammessa; mentire era una delle sue svariale cattive abitudini. Egwene scacciò la ragazza dalla sua mente. Nicola non era più una sua preoccupazione.
«Non c’era bisogno di spaventare la bambina a quel modo» disse sorprendentemente Berisha. «Le novizie devono essere guidate, non intimidite.» Un’opinione davvero diversa dalla sua visione della legge. Katerine e Barasine girarono assieme attorno alla Grigia, fissandola assorte. Solo due gatti, ora, ma invece di un altro gatto vedevano un topo.
«Intendi venire da sola con noi da Silviana?» chiese Katerine con un sorriso decisamente sgradevole, storcendo le labbra.
«Non hai paura, Grigia?» disse Barasine con una punta di scherno nella voce. Per qualche ragione mosse un poco il braccio così da far dondolare la lunga frangia del suo scialle. «Solo tu e due di noi?»
I due servitori erano immobili come statue, come uomini che desideravano con tutto il cuore essere altrove e speravano di restare inosservati se fossero rimasti abbastanza immobili.
Berisha non era più alta di Egwene, ma si mise diritta e si avvolse nello scialle. «Le minacce sono specificamente proibite dalla legge della...»
«Barasine ti ha minacciato?» la interruppe piano Katerine. Piano, ma con acciaio affilato avvolto attorno alla sua voce. «Ha chiesto solo se hai paura. Dovresti averne?»
Berisha si umettò le labbra imbarazzata. Il suo volto era esangue e strabuzzò gli occhi sempre più, come se vedesse cose che non desiderava vedere. «Io... io penso che farò una passeggiata per i terreni» disse infine con voce strozzata, e si allontanò senza mai distogliere gli occhi dalle due Rosse. Katerine proruppe in una risatina soddisfatta.
Quella era totale follia! Perfino Sorelle che si odiavano fino in fondo non si comportavano a quel modo. Nessuna donna che cedesse alla paura con tanta facilità come Berisha sarebbe mai nemmeno potuta diventare Aes Sedai. C’era qualcosa di sbagliato nella Torre. Di molto sbagliato.
«Portala» disse Katerine, iniziando a salire le scale.
Lasciando infine saidar, Barasine afferrò saldamente il braccio di Egwene e seguì l’altra Sorella. Non c’era alternativa se non raccogliere le sue gonne divise e andarle dietro senza opporsi. Eppure il suo umore era stranamente allegro.
Entrare nella Torre le diede davvero la sensazione di essere tornata a casa. Le pareti bianche, con i loro fregi e gli arazzi, le piastrelle dai colori vividi, tutto sembrava familiare come la cucina di sua madre. Ancora di più, in un certo senso: era passato molto più tempo da quando aveva visto la cucina di sua madre che quei corridoi. Assorbì dentro di sé la forza di casa a ogni respiro. Ma c’era anche una sensazione di stranezza. Le lampade erano tutte accese e l’ora non poteva essere così tarda, eppure non vedeva nessuno. C’erano sempre delle Sorelle in giro per i corridoi, perfino nel profondo della notte. Se lo ricordava con chiarezza, rammentando di aver visto alcune Sorelle che si affrettavano per delle faccende nelle ore tarde e disperando che lei sarebbe mai stata così aggraziata, così regale. Le Aes Sedai avevano i loro orari e ad alcune Marroni non piaceva proprio star sveglie durante il giorno. La notte causava meno distrazioni ai loro studi, meno interruzioni alle loro letture. Ma non c’era nessuno. Né Katerine né Barasine fecero alcun commento mentre camminavano per corridoi privi di vita, a parte loro tre. Apparentemente quel vuoto silenzioso era qualcosa di abituale, a quel punto.
Mentre raggiungevano delle pallide scale di pietra situate in un’alcova, comparve finalmente un’altra Sorella che saliva da sotto. Una donna grassoccia con un abito per cavalcare sferzato di rosso e una bocca che pareva pronta a sorridere, indossava il suo scialle, bordato da una lunga frangia di seta rossa e drappeggiato lungo le braccia. Katerine e le altre avevano ben motivo di indossare i loro scialli per contraddistinguersi chiaramente al porto — nessuno a Tar Valon avrebbe importunato una donna con indosso uno scialle frangiato, e molti si tenevano alla larga se potevano, in particolare gli uomini — ma perché lì?
Le folte sopracciglia nere della nuova arrivata si inarcarono sopra luminosi occhi azzurri alla vista di Egwene; poi piantò i pugni sui larghi fianchi, lasciando che il suo scialle le scivolasse fino ai gomiti. Egwene non pensava di aver mai visto quella donna, ma apparentemente non era vero il contrario. «Toh, questa è la ragazza al’Vere. Hanno mandato lei al Porto Nord? Elaida vi ricompenserà bene per il vostro lavoro di stanotte; sì che lo farà. Ma guardatela. Guardatela come sta dritta. Si potrebbe pensare che voi due foste una guardia d’onore per scortarla. Avrei pensato che sarebbe stata lamentosa e avrebbe implorato pietà.»
«Credo che l’erba le stia ottundendo i sensi» borbottò Katerine con un’occhiataccia in tralice a Egwene. «Pare che non si renda conto della situazione.» Barasine, che ancora reggeva il braccio di Egwene, le diede un vigoroso scrollone, ma dopo aver barcollato un poco lei riacquistò l’equilibrio e mantenne il volto calmo, ignorando le occhiate torve della donna più alta.
«È in stato di shock» disse la corpulenta Rossa. Non sembrava esattamente solidale, ma paragonata a Katerine lo era quasi. «L’ho visto in precedenza.»
«Come sono andate le cose al Porto Sud?» chiese Barasine.
«Non così bene come per voi, pare. Con tutti gli altri che grugnivano fra loro come porcellini incastrati sotto una recinzione per il fatto che ci fossero solo due di noi, temevo che avremmo fatto fuggire chiunque stessimo cercando di prendere. È stato un bene che fossimo in due per parlarci tra noi. Per com’è andata, tutto quello che abbiamo catturato è stata una selvatica, e non prima che trasformasse metà della catena del porto in cuendillar. Abbiamo quasi finito per uccidere i cavalli della carrozza galoppando come, be’, come se avessimo catturato il tuo trofeo. Zanica insisteva. Ha perfino messo il suo Custode al posto del cocchiere.»
«Una selvatica» ripeté Katerine con disprezzo.
«Solo metà, Melare?» Il sollievo traspariva chiaramente nella voce di Barasine. «Allora il Porto Sud non è bloccato.»
Le sopracciglia di Melare si inarcarono di nuovo mentre le implicazioni attecchivano. «Vedremo quant’è sgombro domattina,» disse lentamente «quando abbasseranno la metà che è ancora ferro. Il resto se ne sta rigido come... be’, come una barra di cuendillar. Io stessa dubito che possa passare qualcosa oltre ai vascelli più piccoli.» Scosse il capo con un’espressione perplessa. «C’era qualcosa di strano, però. Più che strano. Sulle prime non riuscivamo a trovare la selvatica. Non riuscivamo a percepirla incanalare. Non c’era nessun bagliore attorno a lei e non potevamo vedere i suoi flussi. La catena aveva appena iniziato a diventare bianca. Se il Custode di Arebis non avesse notato la barca, avrebbe potuto terminare e fuggire.»
«Astuta Leane» mormorò Egwene. Per un istante strizzò gli occhi. Leane aveva preparato tutto in anticipo, prima di arrivare in vista del molo, tutta invertita e con la sua abilità camuffata. Se lei stessa fosse stata altrettanto astuta, probabilmente sarebbe riuscita a fuggire senza problemi. Ma d’altra parte in retrospettiva si vedevano sempre le cose con maggior chiarezza.
«E questo il nome che ha dato» disse Melare accigliandosi. Le sopracciglia della donna, come bruchi scuri, erano molto espressive. «Leane Sharif. Dell’Ajah Verde. Due bugie molto stupide. Desala la sta fustigando da capo a piedi laggiù, ma lei non cede. Sono dovuta venire su per una boccata d’aria. Non mi sono mai piaciute le frustate, nemmeno per una come quella. Tu conosci questo suo trucco, bambina? Come nascondere i tuoi flussi?»
Oh, Luce! Pensavano che Leane fosse una selvatica che fingeva di essere Aes Sedai. «Sta dicendo la verità. L’essere quietata le è costato l’aspetto senza età e l’ha fatta sembrare più giovane. E stata Guarita da Nynaeve al’Meara e, dal momento che non apparteneva più all’Azzurra, ha scelto una nuova Ajah. Fatele delle domande di cui solo Leane Sharif potrebbe sapere le risposte...» Le sue parole vennero interrotte quando una palla di Aria le riempì la bocca, costringendola a spalancare le mascelle finché non scricchiolarono.
«Non dobbiamo ascoltare queste sciocchezze» borbottò Katerine.
Melare fissò Egwene negli occhi, però. «Sembrano sciocchezze, questo è certo,» disse dopo un momento «ma suppongo che non nuocerebbe porre qualche domanda oltre a ‘Qual è il tuo nome?’ Alla peggio interromperà il tedio delle risposte della donna. Vogliamo portarla giù nelle celle, Katerine? Non oso lasciare Desala da sola con quell’altra troppo a lungo. Lei detesta le selvatiche e odia assolutamente le donne che affermano di essere Aes Sedai.»
«Non andrà ancora alle celle» replicò Katerine. «Elaida vuole che venga portata da Silviana.»
«Bene, basta solo che io impari quel trucco da questa bambina o dall’altra.» Risollevando il suo scialle sopra le spalle, Melare trasse un profondo respiro e si diresse nuovamente giù per le scale, una donna che aveva davanti a sé un duro lavoro che avrebbe preferito evitare. Diede a Egwene una speranza per Leane, però. Leane era ‘l’altra’ ora, non più ‘la selvatica.’
Katerine si avviò lungo il corridoio a passo rapido e in silenzio, ma Barasine spinse Egwene davanti a sé dopo l’altra Rossa, borbottando quasi sottovoce quanto fosse ridicolo che una Sorella potesse imparare qualcosa da una selvatica o da una Ammessa promossa indebitamente che raccontava stravaganti fandonie. Mantenere qualche brandello di dignità era a dir poco difficile essendo spintonata lungo un corridoio da una donna dalle gambe lunghe e con la bocca spalancata il più possibile e la bava che le colava lungo il mento, ma Egwene ci riuscì al meglio delle sue possibilità, in realtà ci pensava a malapena. Melare le aveva dato troppi spunti su cui riflettere. Melare aggiunta alle Sorelle nella carrozza. Era improbabile che significasse quello che sembrava, ma se fosse stato così...
Presto le piastrelle bianche e azzurre diventarono rosse e verdi, e loro si avvicinarono a una porta di legno senza alcun contrassegno, tra due arazzi di alberi in fiore e uccelli dal grosso becco così variopinti che pareva improbabile che fossero veri. Senza alcun contrassegno, ma splendente per com’era stata lucidata e nota a ogni iniziala della Torre. Katerine bussò alla porta con quella che poteva quasi essere una manifestazione di diffidenza e, quando una voce all’interno rispose ‘Avanti’, trasse un profondo respiro prima di aprire l’uscio. Aveva forse brutti ricordi di quando era entrata lì come una novizia o un’Ammessa, oppure era la donna che le attendeva a renderla esitante?
Lo studio della Maestra delle novizie era esattamente come Egwene se lo ricordava, una stanzetta con pannelli scuri e un mobilio semplice e solido. Uno stretto tavolo presso la soglia era lievemente intagliato con un motivo singolare e pezzetti di doratura erano attaccali alla cornice intarsiata dello specchio su una parete, ma nient’altro era decorato in alcun modo. Le lampade su sostegni e sullo scrittorio erano di semplice ottone, anche se di sei diversi motivi. La donna che deteneva quell’incarico di solito cambiava quando veniva innalzata una nuova Amyrlin, eppure Egwene era pronta a scommettere che una donna che fosse giunta in quella stanza come una novizia duecento anni prima avrebbe riconosciuto quasi ogni bacchetta e forse tutto quanto.
L’attuale Maestra delle novizie — della Torre, almeno — era in piedi quando entrarono, una donna corpulenta alta quasi quanto Barasine, con una crocchia scura dietro la testa e un mento squadrato e risoluto. Silviana Brehon aveva l’aria di una persona che non tollerava le sciocchezze. Era una Rossa, e le sue gonne color carbone avevano discrete striature rosse, ma il suo scialle era drappeggiato sullo schienale della sedia dietro lo scrittoio. I suoi grandi occhi erano inquietanti, però. Parvero comprendere tutto di Egwene con uno sguardo, come se la donna non solo conoscesse ogni pensiero nella sua testa, ma anche quello che avrebbe pensato il giorno seguente.
«Lasciatela con me e aspettate fuori» disse Silviana con voce bassa e decisa.
«Lasciarla?» chiese Katerine incredula.
«Quali parole non hai capito, Katerine? C’è bisogno che mi ripeta?»
A quanto parve non ci fu. Katerine arrossì, ma non disse altro, il bagliore di saidar circondò Silviana mentre assumeva senza problemi il controllo dello schermo, senza dare a Egwene alcuna opportunità per poter abbracciare lei stessa il Potere. Era certa di esserne in grado ora. Ma Silviana era tutt’altro che debole; non aveva alcuna speranza di poter spezzare lo schermo della donna. Il bavaglio di Aria scomparve allo stesso tempo e lei si accontentò di tirar fuori un fazzoletto dal borsello legato alla sua cintura e asciugarsi con calma il mento. Il borsello era stato rovistato — lei teneva sempre il fazzoletto in cima, non sotto tutto il resto — ma per controllare se era stato preso qualcosa oltre al suo anello avrebbe dovuto attendere. In ogni caso non c’era stato molto che potesse essere utile a una prigioniera. Un pettine, un pacchetto di aghi, delle forbicine e altre cianfrusaglie. La stola dell’Amyrlin. Non riusciva a pensare quale genere di dignità avrebbe potuto mantenere mentre veniva fustigala, ma quello era il futuro; doveva affrontare il presente.
Silviana la esaminò con le braccia conserte sotto i seni fino a quando la porta non si chiuse dietro le altre due Rosse. «Almeno non sei isterica» disse allora. «Questo renderà le cose più facili; ma perché non lo sei?»
«Gioverebbe a qualcosa?» replicò Egwene, rimettendo il fazzoletto nel suo borsello. «Non vedo come.»
Silviana si diresse allo scrittoio e restò lì a leggere un foglio di carta, alzando lo sguardo di tanto in tanto. La sua espressione era una maschera perfetta di serenità da Aes Sedai, indecifrabile. Egwene attese paziente con le mani intrecciate. Perfino al contrario poteva riconoscere la caratteristica calligrafia di Elaida su quella pagina, anche se non riusciva a leggere il contenuto. Quella donna non pensasse che lei si sarebbe spazientita per l’attesa. La pazienza era una delle poche armi che le rimanevano, allo stato attuale.
«Pare che l’Amyrlin abbia rimuginato su cosa farti già da tempo» disse infine Silviana. Non fece trasparire la probabile delusione di fronte alla calma di Egwene. «Ha preparato un piano molto dettagliato. Non vuole che la Torre ti perda. Né lo voglio io. Elaida ha stabilito che sei stata usata come utile idiota da altre e non dovresti essere ritenuta responsabile. Perciò non sarai accusata per esserti proclamata Amyrlin. Ha stralcialo il tuo nome dal registro delle Ammesse e l’ha inserito di nuovo nel libro delle novizie. Francamente io sono d’accordo con questa decisione. Qualunque sia la tua abilità nel Potere, hai perso quasi ogni altra cosa che avresti dovuto imparare come novizia. Non devi temere di dover superare di nuovo la prova, però. Non costringerei nessuna a passare una seconda volta attraverso quello.»
«Io sono Aes Sedai in virtù di essere stata elevata ad Amyrlin Seat» replicò Egwene con calma. Non c’era incongruenza nel combattere per un titolo quando proclamarlo poteva comunque portarla alla sua morte. La remissività sarebbe stata un colpo duro per la ribellione quanto la sua esecuzione. Forse di più. Di nuovo una novizia? Era risibile! «Posso citare i passaggi pertinenti nella legge, se desideri.»
Silviana inarcò un sopracciglio e si sedette, aprendo un grosso libro rilegato in pelle il libro delle punizioni. Intingendo la penna nella semplice boccetta d’inchiostro di vetro, vi scrisse un’annotazione. «Ti sei appena guadagnata la tua prima visita da me. Ti darò la notte per rifletterci invece che metterti sul mio ginocchio ora. Speriamo che la contemplazione abbia effetti più salubri.»
«Pensi di potermi far negare chi sono sculacciandomi?» Per Egwene fu difficile trattenere l’incredulità dalla propria voce. Non fu sicura di esserci riuscita.
«Ci sono sculacciate e sculacciate» replicò l’altra donna. Ripulendo il pennino su un pezzo di carta, rimise la penna nel suo contenitore di vetro e squadrò Egwene. «Tu sei abituata a Sheriam Bayanar come Maestra delle novizie.» Silviana scosse la testa sprezzante. «Ho esaminato il suo libro delle punizioni. Lasciava correre troppo con le ragazze ed era fin troppo indulgente con le sue preferite. Come risultato, era costretta a impartire provvedimenti disciplinari più spesso di quanto avrebbe dovuto. Io registro un terzo delle punizioni rispetto a Sheriam, poiché mi accerto che tutte quelle che punisco se ne vadano da qui desiderando sopra ogni cosa di non essere mai più rimandate da me.»
«Qualunque cosa tu faccia, non mi indurrai mai a negare chi sono» disse Egwene risoluta. «Come puoi solo pensare di far funzionare tutto questo? Verrò scortata alle lezioni, schermata tulio il tempo?»
Silviana si spinse all’indietro contro il suo scialle, appoggiando le mani sul bordo del tavolo.
«Intendi resistere più a lungo che puoi, non è vero?»
«Farò quello che devo.»
«E io farò quello che devo. Durante il giorno non sarai schermata affatto. Ma ogni ora ti sarà data una lieve dose di radice biforcuta.» la bocca di Silviana si contorse a quella parola. Prese in mano il foglio che conteneva le note di Elaida come per leggere, poi lo lasciò ricadere sullo scrittoio, sfregandosi le punte delle dita come se vi fosse rimasto attaccato qualcosa di repellente. «Non mi piace quella roba. Sembra mirata direttamente alle Aes Sedai. Chi non è in grado di incanalare può berne cinque volte quanto ne serve a una Sorella per svenire e avere a malapena i capogiri. Un infuso disgustoso. Tuttavia utile, pare, forse può essere usato su quegli Asha’man. La dose non ti darà capogiri, ma non sarai in grado di incanalare a sufficienza da causare problemi. Sarai anche sorvegliata con attenzione, in modo da impedirti di cercare di fuggire a piedi. Di notte verrai schermata, dal momento che darti sufficiente radice biforcuta per farti dormire tutta la nottata ti lascerebbe crampi allo stomaco da piegarti in due il giorno dopo.
«Tu sei una novizia, Egwene, e sarai una novizia. Molte Sorelle ti considerano ancora una fuggitiva, qualunque siano gli ordini impartiti da Siuan Sanche, e altre senza dubbio riterranno che Elaida sbagli nel non farti decapitare. Ti sorveglieranno in cerca della minima infrazione, di ogni fallo. Puoi schernire delle sculacciate ora, prima di averle ricevute, ma quando verrai mandata da me per cinque, sei, sette dosi ogni giorno? Vedremo quanto tempo ti ci vorrà per cambiare idea.»
Egwene sorprese sé stessa nel rispondere con una risatina, e le sopracciglia di Silviana schizzarono all’insù. La sua mano si contrasse come per prendere la penna.
«Ho detto qualcosa di divertente, bambina?»
«Niente affatto» rispose Egwene sinceramente. Le era venuto in mente che poteva gestire il dolore abbracciandolo alla maniera degli Aiel. Sperò che funzionasse, lì risiedeva ogni speranza di dignità. Mentre veniva punita, perlomeno. Per il resto poteva fare solo ciò di. cui era capace.
Silviana diede un’occhiata alla penna, ma poi si alzò senza toccarla. «Allora ho finito con te. Per stanotte. Ti vedrò prima di colazioni;, comunque. Vieni con me.»
Si avviò verso la porta, sicura che Egwene l’avrebbe seguita, e lei lo fece. A toccare l’altra donna fisicamente non avrebbe portato a nulla se non un’ulteriore annotazione nel libro. Radice biforcuta. Be’, avrebbe trovalo un qualche modo per superare quel problema. Altrimenti... Rifiutava di pensarci.
Katerine e Barasine furono non poco sconcertate nell’udire i progetti di Elaida per Egwene e non furono affatto liete di sapere che l’avrebbero sorvegliata e schermata durante il sonno, anche se Silviana disse loro che avrebbe dato disposizioni affinché altre Sorelle dessero loro il cambio dopo un’ora o due.
«Perché tutte due noi?» volle sapere Katerine, il che le fruttò un’occhiata beffarda da Barasine. Se fosse stata mandata solo una, di certo non sarebbe stata Katerine, che fra loro aveva il rango più alto.
«In primo luogo perché lo dico io.» Silviana attese finché le altre due Rosse non annuirono. Lo fecero con evidente riluttanza, ma non tanto da farla aspettare a lungo. Non si era messa il suo scialle uscendo nel corridoio e, stranamente, sembrava lei quella fuori posto. «E in secondo luogo perché questa bambina è scaltra, ritengo. Voglio che sia sorvegliata attentamente, sveglia o addormentata. Chi di voi ha il suo anello?»
Dopo un momento Barasine tirò fuori il cerchietto d’oro dal borsello alla sua cintura, borbottando:
«Pensavo solo di tenerlo come ricordo. Delle ribelli schiacciate sotto il tacco. Ora sono finite di certo.» Un ricordo? Era un furto bello e buono!
Egwene allungò una mano verso l’anello, ma Silviana fu più lesta a ghermirlo e lo fece finire nel proprio borsello. «Lo terrò io finché non avrai il diritto di indossarlo di nuovo, bambina. Ora portatela agli alloggi delle novizie e sistematela lì. A quest’ora dovrebbe essere stata approntata una stanza.»
Katerine riprese il controllo dello schermo e Barasine fece per afferrare di nuovo il braccio di Egwene, ma lei allungò una mano verso Silviana. «Aspetta. C’è qualcosa che devo dirti.» Questo la tormentava da tempo. Sarebbe stato fin troppo facile rivelare molto di più di quanto voleva. Ma doveva farlo. «Io sono una Sognatrice. Ho imparato a distinguere i veri sogni e a interpretarne alcuni. Ho sognato una lampada di vetro che ardeva con una fiamma bianca. Due corvi sono volati fuori dalla nebbia, l’hanno colpita, e hanno proseguito. La lampada ha tremolato, lasciando cadere gocce di olio infuocato. Alcune di esse sono bruciale a mezz’aria, altre sono atterrale sparpagliandosi attorno e la lampada dondolando era sul punto di cadere. Significa che i Seanchan attaccheranno la Torre Bianca e causeranno molti danni.»
Barasine arricciò il naso. Katerine emise uno sbuffo di derisione.
«Una Sognatrice?» disse Silviana in tono inespressivo. «C’è qualcuno che può avvalorare questa tua affermazione? E anche in tal caso, come possiamo essere certi che il tuo sogno indichi i Seanchan? Secondo me i corvi potrebbero indicare l’Ombra.»
«Io sono una Sognatrice, e quando una Sognatrice lo sa, lo sa. Non è l’Ombra. Sono i Seanchan. E per quanto riguarda chi sa quello che posso fare...» Egwene scrollò le spalle. «L’unica che potete avere a disposizione è Leane Sharif, che è tenuta prigioniera nelle celle qui sorto.» Non vedeva alcun modo per tirare in ballo le Sapienti in quella faccenda, non senza rivelare davvero troppo.
«Quella donna è una selvatica, non...» iniziò Katerine con rabbia, ma serrò la bocca quando Silviana sollevò una mano perentoria.
La Maestra delle novizie studiò Egwene con attenzione, il suo volto ancora un’indecifrabile maschera di calma. «Tu credi davvero di essere ciò che affermi» disse infine. «Spero che il tuo talento di Sognatrice non causi tanti problemi quanto la Predizione della giovane Nicola. Sempre che tu sia davvero una Sognatrice. Bene, riferirò il tuo avvertimento. Non riesco a capire come i Seanchan potrebbero colpirci qui a Tar Valon, ma la prudenza non è mai troppa. E interrogherò questa donna detenuta nei sotterranei. Attentamente, e se non dovesse corroborare la tua storia, allora la tua visita da me domattina ti risulterà ancora più memorabile.» Fece un cenno con la mano a Katerine. «Portatela via prima che mi fornisca altre informazioni che mi impediscano di dormire stanotte.»
Stavolta Katerine borbottò quanto Barasine. Ma attesero entrambe fino a essere oltre la portata d’udito di Silviana. Quella donna sarebbe stata un avversario formidabile. Egwene sperava che abbracciare il dolore funzionasse come affermavano le Sapienti. Altrimenti... Altrimenti non era il caso di pensarci.
Una servitrice snella e dai capelli grigi diede loro indicazioni per la stanza che aveva appena finito di preparare, sul terzo ballatoio degli alloggi delle novizie, e si affrettò ad allontanarsi dopo brevi riverenze alle due Rosse. Non lanciò nemmeno un’occhiata a Egwene. Cos’era un’altra novizia per lei? Questo fece contrarre la mascella di Egwene. Avrebbe dovuto fare in modo che la gente non la vedesse come una novizia qualsiasi.
«Guarda la sua faccia» disse Barasine. «Credo che finalmente stia arrivando a capire.»
«Io sono chi sono» replicò Egwene con calma. Barasine la spinse verso le scale che salivano attraverso la colonna cava di ballatoi provvisti di ringhiera, illuminati da una luna appena calante. L’unico suono era il lieve spirare della brezza. Pareva tutto così pacifico. Non si vedeva nessuna luce attorno alle porte. A quell’ora le novizie erano addormentate, tranne quelle che avevano compiti o faccende da sbrigare fino a tardi. Era pacifico per loro. Ma non per Egwene.
La minuscola stanza priva di finestre sarebbe quasi potuta essere quella che lei aveva occupato la prima volta che era giunta alla Torre, con il letto angusto costruito contro la parete e un fuocherello nel caminetto di mattoni. La lampada sul piccolo tavolo era accesa, ma illuminava poco più della sua superficie e l’olio doveva essere andato a male, poiché emetteva un quasi impercettibile odore sgradevole. Un lavabo completava il mobilio, eccezion fatta per uno sgabello a tre gambe sul quale Katerine non esitò ad accomodarsi, aggiustandosi le gonne come se si trattasse di un trono. Rendendosi conto che per lei non c’era posto per sedersi, Barasine incrociò le braccia sotto i seni e guardò accigliata Egwene.
Nella stanza erano presenti tre donne, ma Egwene fece finta che le altre due non esistessero mentre si preparava per andare a letto, appendendo mantello, cintura e abito sui tre pioli disposti lungo una delle pareti intonacate di bianco. Quando ebbe appoggiato le sue calze arrotolate in cima alle scarpe, trovo Barasine a gambe incrociate sul pavimento, immersa in un libricino rilegato in cuoio che doveva aver portato nel borsello. Katerine tenne gli occhi su Egwene come se si aspettasse che fuggisse dalla porta.
Infilandosi sotto la leggera coperta di seta nella sua camicia da notte, Egwene appoggiò la testa sul piccolo cuscino — non di piume d’oca, questo era certo! — e compì i suoi esercizi, rilassando il suo corpo una parte alla volta, cosa che l’avrebbe fatta addormentare. Lo aveva fatto così spesso che le parve di aver appena cominciato quando si assopì...
...e stava fluttuando priva di forma nell’oscurità tra il mondo della veglia e il Tel’aran’rhiod, l’angusto spazio fra il sogno e la realtà, un vasto vuoto pieno di una miriade di luccicanti puntini luminosi che erano i sogni di tutta la gente che stava sognando nel mondo. Galleggiavano attorno a lei, in quel posto senza un alto o un basso, fin dove l’occhio poteva vedere, smorzandosi quando un sogno terminava, accendendosi quando uno iniziava. Poteva riconoscerne alcuni solo vedendoli, dare un nome al sognatore, ma non vide quello che cercava.
Era con Siuan che aveva bisogno di parlare, colei che probabilmente a quell’ora sapeva che doveva esserle successo qualcosa, che poteva riuscire a non dormire finché non fosse crollata dalla spossatezza. Si mise ad attendere. Lì non c’era alcun senso del tempo: non si sarebbe annoiata ad aspettare. Ma doveva stabilire cosa dire. Era cambiato così tanto da quando si era risvegliata. Aveva appreso così tanto. Allora era stata sicura che sarebbe morta presto, certa che le Sorelle all’interno della Torre fossero un esercito compatto alle spalle di Elaida. Ora... Elaida la credeva imprigionata e al sicuro. Quelle chiacchiere sul renderla di nuovo una novizia non avevano importanza: perfino se Elaida ci credeva, Egwene al’Vere no. Non si considerava nemmeno una prigioniera. Stava portando la battaglia nel cuore della Torre stessa. Se lì avesse avuto le labbra, avrebbe sorriso.