Malgrado tutti fossero rimasti svegli fino a tardi quella notte, il mattino successivo lo spettacolo partì molto presto. Intontito e con gli occhi arrossati, Mat arrancò fuori dalla tenda mentre il cielo era ancora scuro e trovò uomini e donne con delle lanterne che si affannavano per prepararsi e in alcuni casi stavano proprio correndo, quasi tutti gridando a qualcun altro di muoversi più in fretta. Molti avevano il passo caracollante di chi non aveva dormito. Tutti parevano avere la sensazione che era meglio allontanarsi il più possibile da quel villaggio che era svanito di fronte ai loro occhi. Il grande carro sgargiante di Luca imboccò la strada prima che il sole si fosse sollevato sopra l’orizzonte, e nuovamente fissò un buon passo. Due convogli di mercanti composti da una ventina di carri ciascuno li sorpassarono diretti a sud, così come una lenta carovana dì Calderai, ma nulla andava nell’altra direzione. Più lontano era, meglio era.
Mat cavalcò con Tuon, e Selucia non fece alcun tentativo di frapporre il suo bruno grigiastro, tuttavia non ci fu alcuna conversazione per quanto lui tentasse di iniziarne una. Tranne per un’occasionale occhiata indecifrabile quando lui faceva una battuta o raccontava una storiella, Tuon cavalcò guardando dritto di fronte a sé, col cappuccio del suo mantello azzurro che le nascondeva la taccia. Perfino fare il giocoliere non riuscì ad attirare la sua attenzione. C’era qualcosa di meditabondo nel suo silenzio, e questo lo preoccupava. Quando una donna non ti parlava, di solito c’erano problemi in vista. Quando era meditabonda, potevi scordarti il ‘di solito’. Mat dubitava che il suo cruccio derivasse dal villaggio dei morti. Era troppo dura per quello. No, c’erano guai in vista. Poco più di un’ora dopo la partenza, comparve alla vista una fattoria su un terreno ondulato, con dozzine di capre dal muso nero che brucavano erba in un ampio pascolo e un grande boschetto di olivi. Alcuni ragazzi che stavano togliendo le erbacce fra i filari degli alberi dalle foglie scure lasciarono cadere le loro zappe e si precipitarono verso i muretti di pietra per osservare lo spettacolo passare, gridando di eccitazione nel l’apprendere chi erano, da dove venivano e dove stavano andando. Uomini e donne uscirono dall’ampia fattoria e da due grandi granai col tetto di paglia, schermandosi gli occhi per guardare. Mat fu sollevato nel vederli. I morti non prestavano attenzione ai vivi.
Mentre lo spettacolo procedeva, fattorie e boschetti di olivi divennero più fitti sul territorio fino a correre fianco a fianco, spingendo la foresta indietro di un miglio o più da entrambi i lati della strada, e poco prima di mezzogiorno raggiunsero una cittadina prosperosa un po’ più grande di Jurador. La lunga carovana di carri dalla copertura di tela di un mercante stava entrando dai cancelli principali, dove mezza dozzina di uomini in lucidi elmi conici e giubbe di cuoio in cui erano cuciti dischi d’acciaio montavano la guardia con delle alabarde. Altri uomini che imbracciavano delle balestre sorvegliavano l’ingresso in cima alle due torri del cancello. Ma se il signore di Maderin, un certo Nalhin Sarmain Vendare, si aspettava dei guai, le guardie ne erano l’unico segno. Fattorie e boschetti di olivi arrivavano fino alle mura di pietra di Maderin, una pratica sbagliata che sarebbe costata cara nel caso in cui la città avesse avuto necessità di essere difesa. Luca dovette mercanteggiare con un contadino per il diritto di allestire lo spettacolo in un pascolo inutilizzato e tornò indietro borbottando che aveva appena comprato a quel farabutto un nuovo gregge di capre o forse due. Ma presto cominciarono a erigere la parete di tela, con Luca che spronava ognuno a lavorare in fretta. Dovevano esibirsi quel giorno e ripartire l’indomani mattina presto. Molto presto. Nessuno si lamentò o disse una parola di troppo. Più lontano era, meglio era.
«E non raccontate a nessuno quello che avete visto» li ammonì Luca più di una volta. «Non abbiamo visto nulla di fuori dall’ordinario. Non vorremo certo spaventare i clienti.» La gente lo guardò come se fosse pazzo. Nessuno voleva ripensare a quel villaggio che si era dissolto o all’ambulante, tanto meno parlarne.
Mat era seduto nella sua tenda in maniche di camicia, aspettando che Thom e Juilin tornassero dal loro viaggetto in città per apprendere se c’era una presenza seanchan. Stava lanciando oziosamente un gruppo di dadi sul suo tavolino. Dopo un primo tiro composto perlopiù da numeri alti, cinque pallini unici lo fissarono dieci volte di fila; parecchi uomini pensavano che gli occhi del Tenebroso fossero un lancio sfortunato.
Selucia scostò il lembo di ingresso ed entrò a grandi passi. Nonostante le sue semplici gonne marroni divise e la blusa bianca, riusciva a sembrare una regina che entrava in una stalla. Una stalla sudicia, a giudicare dall’espressione sul suo volto, anche se Lopin e Nerim avrebbero potuto soddisfare perfino la madre di Mat, quando si trattava di pulizia.
«Lei vuole te» disse in tono perentorio, toccandosi la sua sciarpa a fiori per assicurarsi che i suoi corti capelli neri fossero ancora coperti. «Andiamo.»
«Cosa vuole da me, dunque?» chiese lui appoggiando i gomiti sul tavolo. Si stiracchiò perfino le gambe prima di incrociarle. Una volta che lasciavi capire a una donna che saresti balzato in piedi ogni volta che ti chiamava, non riuscivi più a risalire la china.
«Te lo dirà lei. Stai perdendo tempo, Giocattolo. Lei non ne sarà contenta.»
«Se tesoro si aspetta che io corra da lei quando piega un dito, farà meglio a imparare a rimanerne delusa.»
Facendo una smorfia — se la sua padrona tollerava quel nomignolo, Selucia lo considerava un affronto personale — lei incrociò le braccia sotto quell’imponente seno. Era trasparente come vetro buono che intendeva aspettare finché Mat non fosse andato con lei, e lui aveva in mente di renderla una lunga attesa. Lanciò i dadi. Gli occhi del Tenebroso. Aspettarsi che saltasse quando Tuon diceva salta. Ah! Un altro lancio rotolò per il tavolo, con un dado che per poco non cadde dal bordo. Gli occhi del Tenebroso. Tuttavia Mat non aveva nient’altro da fare al momento.
Pure così se la prese comoda a indossare la propria giacca, buona seta color bronzo. Per quando ebbe raccolto il cappello, poté udire il piede di Selucia tamburellare con impazienza. «Be’, cosa stai aspettando?» chiese Mat. Lei gli sibilò contro. Tenne aperto il lembo della tenda, ma soffiò proprio come un gatto. Setalle e Tuon erano sedute su uno dei letti a parlare quando lui entrò nel carro viola, ma si interruppero nell’istante in cui lui varcò la soglia, rivolgendogli occhiate brevi ma di valutazione. Il che gli confermò che l’argomento delle loro chiacchiere era stato Mat Cauthon. Questo gli fece rizzare i peli del collo. Chiaramente, qualunque cosa volesse Tuon, era qualcosa che pensavano lui avrebbe disapprovato. E altrettanto chiaramente lei intendeva ottenerla comunque. Il tavolo era appeso al soffitto e Selucia gli passò accanto per prendere posto dietro Tuon mentre la piccola donna si sedeva sullo sgabello, il suo volto severo e quegli occhi grandi e stupendi incrollabili. Tutti i prigionieri siano impiccati immediatamente.
«Desidero visitare la sala comune di una locanda» annunciò. «O di una taverna. Non ho mai visto l’interno di nessuna delle due. Tu mi porterai in una di esse in questa cittadina, Giocattolo.»
Mat riuscì a respirare di nuovo, «lì semplice. Ci andremo non appena Thom o Juilin mi faranno sapere che è sicuro.»
«Dev’essere un posto malfamato. Quella che viene definita una bettola.»
La bocca di Mat si spalancò. Malfamato?, pensò. Le bettole erano quanto di più malfamato c’era, sporche e fiocamente illuminate, dove la birra e il vino erano a buon mercato e tuttavia non valevano la metà di quanto li pagavi, il cibo era peggio e qualunque donna che ti si sedeva in grembo cercava di svuotarti le tasche, borseggiarti o aveva due uomini di sopra che attendevano di darti una botta in testa non appena entravi nella sua stanza. A qualunque ora del giorno o della notte si trovavano dadi che rotolavano in una dozzina di giochi, a volte per puntate eclatanti, considerato l’ambiente. Non oro — solo un idiota mostrava dell’oro in una bettola —, ma dell’argento attraversava spesso i tavoli. Pochi dei giocatori si erano procurati il loro denaro con mezzi che fossero solo per metà onesti, e quei pochi avevano lo sguardo perfido come gli spaccateste e gli accoltellatori che predavano gli ubriachi di notte. Le bettole avevano sempre due o tre buttafuori con randelli pronti per interrompere le zuffe, e molti giorni lavoravano sodo per guadagnarsi la paga. Di solito impedivano agli avventori di uccidersi a vicenda, ma quando non ci riuscivano il cadavere veniva trascinato fuori sul retro e lasciato in un vicolo da qualche parte in un cumulo di spazzatura. E mentre lo stavano trascinando, il bere e il gioco d’azzardo non rallentavano mai. Quella era una bettola. Come aveva mai fatto a sentire di un posto simile?
«Sei stata tu a metterle in testa quest’idea sciocca?» domandò a Setalle.
«insomma, per la Luce, cos’è che te lo fa pensare?» replicò lei, sgranando gli occhi nel modo in cui facevano le donne quando fingevano di essere innocenti. O quando volevano che tu pensassi che stavano fingendo, giusto per confonderti. Non riusciva a capire perché se ne preoccupassero. Le donne lo confondevano tutto il tempo senza neanche provarci.
« È fuori questione, tesoro. Se entro in una bettola con una donna come le, verrò coinvolto in sei risse a coltello entro un’ora, sempre che riesca a sopravvivere tanto a lungo.»
Tuon gli rivolse un sorriso compiaciuto. Solo un guizzo, ma decisamente compiaciuto. «Lo pensi davvero?»
«Lo so per certo.» Il che causò un altro breve sorriso di piacere. Piacere! Quella dannata donna voleva vederlo in uno scontro a coltello!
«Comunque sia, Giocattolo, hai promesso.»
Stavano discutendo se lui avesse o meno fatto una promessa — lui stava sostenendo con calma che dire che qualcosa era semplice non era una promessa; Tuon non faceva che insistere ostinatamente che lui aveva promesso, mentre Setalle prese il suo tombolo da ricamo e Selucia lo osservò con l’aria divertita di qualcuno che guarda un uomo cercare di difendere l’indifendibile; e lui non stava gridando, qualunque cosa dicesse Tuon — quando qualcuno bussò alla porta.
Tuon indugiò. «Vedi, Giocattolo» disse dopo un momento «È così che si fa. Bussi e poi aspetti.» Fece un semplice cenno alla sua cameriera.
«Potete essere ammessi in sua presenza» chiamò Selucia, sollevandosi con aria regale. Probabilmente si aspettava che chiunque entrasse si prostrasse anche!
Era Thom, indossava una giacca blu scuro e il mantello grigio scuro che lo avrebbero fatto passare inosservato in qualunque sala comune o taverna; né povero né benestante. Un uomo che poteva permettersi di pagare la propria birra mentre ascoltava le chiacchiere oppure offrire una coppa di vino a un altro uomo per ascoltare le sue notizie e le voci più recenti. Non si prostrò, ma fece un elegante inchino nonostante la sua gamba destra malandata. «Mia signora» mormorò a Tuon prima di rivolgere la sua attenzione a Mat. «Harnan ha detto di averti visto dirigerti da queste parti. Confido di non stare interrompendo nulla. Ho sentito delle... voci.»
Mat si accigliò Lui non aveva urlato. «Non stai interrompendo nulla. Cos’hai scoperto?»
«Che potrebbero esserci dei Seanchan in città ogni tanto. Niente soldati, ma pare che stiano costruendo due villaggi di fattorie poche miglia a nord della strada e altri tre qualche miglio a sud. La gente dei villaggi viene in città a comprare delle cose di tanto in tanto.»
Mat riuscì a non sorridere mentre parlava sopra la spalla. Riuscì perfino a mettere un minimo di rammarico nella sua voce. «Temo che non ci saranno gite a Maderin per te, Tesoro. Troppo pericoloso.»
Tuon incrociò le braccia, mettendo in evidenza il seno. In lei c’erano più curve di quanto aveva pensato un tempo. Non come Selucia, di certo, ma belle curve. «Contadini, Giocattolo» disse con voce strascicata, scacciando la questione. «Nessun contadino ha mai visto la mia faccia. Mi hai promesso una taverna o una sala comune, e non la farai franca con questa scusa patetica.»
«Una sala comune non dovrebbe presentare difficoltà» disse Thom. «Questi contadini vengono qui per un paio di forbici o una pentola nuova, non per bere. Si fanno la birra da soli, a quanto pare, e non gli piace molto quella locale.»
«Grazie, Thom» disse Mat digrignando i denti. «Lei vuole vedere una bettola.»
L’uomo canuto diede un affannoso colpo di tosse e si toccò energicamente i baffi con le nocche.
«Una bettola» borbottò.
«Una bettola. Tu conosci una bettola in questa città dove possa portarla senza causare una sommossa?» L’aveva intesa come una domanda sarcastica, ma Thom lo sorprese annuendo.
«Potrei conoscere un posto del genere» disse l’uomo lentamente. «L’Anello Bianco, intendevo andarci comunque, per vedere che notizie riuscivo a raccogliere.»
Mat sbatté le palpebre. Per quanto Thom potesse passare inosservato altrove, sarebbe stato guardato storto in una bettola con indosso quella giacca. Più che storto. L’abbigliamento abituale era lana grezza e sporca, e lino macchiato. Ma forse Thom intendeva che L’Anello Bianco non era affatto una bettola. Tuon poteva non riconoscere la differenza se il posto era solo un po’ più rozzo del solito. «Dovrei portare Harnan e gli altri?» chiese per saggiare il terreno.
«Oh, penso che tu e io saremo una protezione sufficiente per la signora» disse Thom con quella che poteva essere stata l’ombra di un sorriso, e Mat si rilassò.
Ammonì comunque le due donne — il fatto che Selucia potesse restare indietro non era nemmeno in discussione, ovviamente; Anan rifiutò l’invito di Tuon ad accompagnarle, dicendo che le bettole che aveva visto le bastavano — di tenere ben alzati i cappucci. Tuon poteva credere che nessun contadino avesse mai visto il suo volto, ma se un gatto poteva guardare un re, come diceva il vecchio adagio, allora un contadino prima o poi avrebbe potuto guardare Tuon, e non si sarebbe stupito se uno o due di essi fossero capitati a Maderin. Essere ta’veren di solito pareva distorcere il Disegno per il peggio, nella sua esperienza.
«Giocattolo» disse Tuon gentilmente mentre Selucia le appoggiava il mantello blu sulle spalle esili.
«Ho incontrato molti contadini nelle mie visite in campagna, ma tenevano decorosamente gli occhi bassi perfino se permettevo loro di mettersi in piedi. Credimi, non mi hanno mai vista in faccia.»
Mat andò a prendere il proprio mantello. Qualche nube bianca quasi oscurava il sole, ancora poco distante dallo zenit, ed era una giornata frizzante per essere primavera, con una forte brezza per di più.
Abitanti della cittadina affollavano la strada principale dello spettacolo, uomini in grezzi abiti di lana o sobrie giacche di tessuto più raffinato con soltanto un tocco di ricamo sui polsini; donne, molte con indosso cuffie di merletto, in foschi abiti con colletto sotto lunghi grembiuli bianchi o scuri vestiti dall’alto collo con ricamo che si avvolgeva a spirale attorno al petto; bambini che correvano ovunque, scappando dai loro genitori che li inseguivano; tutti quanti mormoravano di meraviglia nel guardare i leopardi di Miyora o gli orsi di Latelle, i giocolieri o Balat e Abar che mangiavano fuoco, i magri fratelli che si muovevano all’unisono. Non soffermandosi nemmeno per un’occhiata alle acrobate, Mat si fece strada tra la folla con Tuon sottobraccio, cosa di cui si assicurò mettendo la mano di lei sul suo polso sinistro. Lei esitò per un momento, poi annuì lievemente, una regina che dava l’assenso a un popolano. Thom aveva offerto il braccio a Selucia, ma lei rimase alle spalle della sua padrona. Almeno non tentò di intrufolarsi in mezzo.
Luca, in giacca e mantello scarlatti, era sotto il grande striscione all’ingresso a guardare le monete che tintinnavano nella caraffa di vetro e lo facevano di nuovo quando venivano lasciate cadere nello scrigno. Aveva un sorriso sulla faccia. La fila in attesa di entrare si allungava per quasi cento passi lungo la parete di tela e altre persone si stavano riversando dalla cittadina verso lo spettacolo.
«Potrei fare un bel po’ di soldi qui in due o tre giorni» disse a Mat. «Dopotutto questo posto è reale e siamo abbastanza lontani...» Il suo sorriso si spense come una candela smorzata. «Tu pensi che siamo abbastanza lontani, vero?»
Mat sospirò. L’oro sconfiggeva la paura ogni volta in Valan Luca.
Non riusciva a tenere chiuso il suo mantello con Tuon sottobraccio, così sventolava dietro di lui nell’ostinata brezza, tuttavia era meglio così. Le guardie ai cancelli, scomposte e in una fila disordinata, li scrutarono con aria incuriosita e uno di loro abbozzò un inchino. Seta e merletto facevano quell’effetto, con armigeri di campagna, perlomeno, e quello era ciò che erano quegli uomini, per quanto avessero lucidato i loro elmi e le loro cotte di maglia. Molti di loro si appoggiavano alle alabarde come i contadini facevano sulle pale. Ma Thom si fermò e anche Mat fu costretto a farlo, pochi passi dentro la città. Dopotutto lui non aveva idea di dove si trovasse L’Anello Bianco.
«Una guardia massiccia, capitano» disse Thom con una punta di preoccupazione nella voce. «Ci sono briganti nella zona?»
«Niente fuorilegge qui attorno» disse in tono scontroso una guardia brizzolata. Una cicatrice bianca e obliqua lungo il suo volto squadrato si combinava con uno strabismo per dargli un aspetto da canaglia. Non era uno di quelli che si appoggiavano all’alabarda e teneva la sua come se sapesse usarla. «I Seanchan hanno ripulito quei pochi che non avevamo preso. Ora procedi, vecchio. Stai bloccando la strada.» Non c’erano carri o carretti in vista e le poche persone che lasciavano la città avevano spazio in abbondanza. Il cancello ad arco era ampio abbastanza per due carri affiancati, anche se forse sarebbero stati stretti.
«I Seanchan hanno dello che non mettevamo abbastanza guardie» si inserì allegramente un tizio robusto all’incirca dell’età di Mat «e lord Nathin ascolta con attenzione quando i Seanchan parlano.»
L’uomo brizzolato gli diede un ceffone con una mano guantata dietro l’elmo tanto forte da farlo barcollare. «Bada a quello che dici con gente di fuori, Keilar,» brontolò l’uomo più anziano «altrimenti tornerai dietro un aratro prima di poter sbattere le palpebre. Mio signore,» aggiunse rivolto a Mat alzando la voce «farai bene a richiamare il tuo servitore prima che si metta nei guai.»
«Le mie scuse, capitano» disse Thom umilmente, abbassando la testa bianca, l’immagine fatta e finita di un servitore rimproverato. «Non intendevo offendere. Le mie scuse.»
«Avrebbe colpito anche te se io non fossi stato lì» gli disse Mat quando lo raggiunse. Thom stava zoppicando visibilmente. Doveva essere molto stanco per mostrarlo così tanto. «Lo ha quasi fatto comunque. E cos’hai imparato che valesse la pena rischiare questo?»
«Non lo avrei chiesto senza di te, con quella giacca» ridacchiò Thom mentre procedevano verso il centro della città. «La prima lezione è: quali domande porre. La seconda, altrettanto importante, è: quanto e come chiedere. Ho appreso che non ci sono briganti, cosa che è sempre bene sapere, anche se ho sentito di pochissime bande tanto grandi da attaccare qualcosa di così grosso quanto uno spettacolo. Ho appreso che Nathin è sotto l’influenza dei Seanchan. O sta obbedendo a un ordine con quelle guardie in più, oppure prende i loro suggerimenti come comandi. E, cosa più importante, ho appreso che gli armigeri di Nathin non disprezzano i Seanchan.»
Mat sollevò un sopracciglio verso di lui.
«Non sputano quando dicono il loro nome, Mat. Non fanno smorfie o mugugnano. Non combatteranno i Seanchan, a meno che Nathin glielo ordini, e lui non lo farà.» Thom sbuffò forte.
«E molto strano. Ho trovato la stessa cosa dappertutto da Ebou Dar a qui. Questi forestieri vengono, prendono il controllo, impongono le loro leggi, carpiscono le donne in grado di incanalare, e se i nobili li disprezzano, pochissimi tra la gente comune sembrano farlo. A meno che non abbiano messo il collare alla moglie o a una loro parente, perlomeno. Molto strano, e non depone bene rispetto al fatto che possano essere cacciati via. D’altra parte, l’Altara è l’Altara. Scommetto che stanno trovando un’accoglienza più fredda nell’Amadicia e a Tarabon.» Scosse il capo. «Speriamo proprio che sia così, altrimenti...» Non disse altro, ma era facile da immaginare.
Mat lanciò un’occhiata a Tuon. Cosa provava a sentire Thom parlare così del suo popolo? Non disse nulla, ma si limitò a camminare al suo fianco scrutando tutto quanto con curiosità dal riparo del suo cappuccio.
Edifici con i tetti di tegole alti tre o quattro piani, perlopiù di mattoni, fiancheggiavano l’ampia strada principale lastricata di Maderin, negozi e locande con insegne che oscillavano nella rigida brezza ammassati accanto a stalle e case di gente ricca con grosse lampade sopra le soglie ad arco e strutture più umili che ospitavano la gente povera, a giudicare dal bucato che pendeva quasi da ogni finestra. Carretti trainati da cavalli e carriole a mano cariche di balle o casse o barili procedevano lenti attraverso una folla moderatamente fitta: uomini e donne con passo vivace, pieni di quella decantata laboriosità del sud, e bambini che correvano in giro giocando ad acchiapparella. Tuon esaminò tutto quanto con uguale interesse. Un tizio che spingeva una mola su ruote gridando che affilava forbici e coltelli tanto da poter tagliare i desideri catturò la sua attenzione così come una donna snella e dal volto duro in pantaloni di cuoio con due spade legate alla schiena. Senza dubbio la guardia di un mercante o forse una Cacciatrice del Corno, ma comunque una rarità. Una prosperosa Domanese in un abito rosso attillato, quasi trasparente, con un paio di massicce guardie del corpo in giubbetti d’armatura a scaglie suscitò altrettanto interesse quanto un allampanato tipo con un occhio solo in un abito di seta lisa che reclamizzava a gran voce spilli, aghi e nastri. Mat non aveva notato lo stesso tipo di curiosità da parte sua a Jurador, ma allora era stata concentrata nel ricercare della seta. Adesso pareva che stesse cercando di memorizzare tutto ciò che vedeva.
Thom presto li condusse verso un dedalo di strade contorte, molte delle quali meritavano quel nome solo perché erano pavimentale con blocchi di pietra scabra delle dimensioni di due pugni di un uomo. Edifici grandi quanto quelli sulla via principale, alcuni che ospitavano negozi al pianterreno, incombevano sopra di loro, quasi ostruendo il cielo. Molte di quelle stradine erano troppo strette per i carretti — in alcune Mat non doveva nemmeno allargare le braccia per toccare i muri da ciascun lato — e più di una volta dovette spingere Tuon contro la facciata di un palazzo per lasciar passare una carriola piena zeppa lungo il selciato sconnesso, con l’uomo che la spingeva che gridava le sue scuse per l’inconveniente senza rallentare. Anche i facchini arrancavano attraversando quel quartiere ammassato, uomini che camminavano piegati quasi paralleli al terreno, ciascuno con una balla o una cassa sulla schiena tenuta dritta da una fascia di cuoio imbottito assicurata ai fianchi. La sola vista faceva dolere la schiena di Mat. Gli ricordavano quanto odiava lavorare.
Era sul punto di chiedere a Thom quanto dovessero ancora camminare — Maderin non era una città così grande — quando raggiunsero L’Anello Bianco, in una di quelle viuzze tortuose in cui le sue braccia potevano più che racchiudere l’ampiezza del lastricato; un edificio di mattoni a tre piani di fronte alla bottega di un coltellinaio. L’insegna dipinta che pendeva sopra la porta rossa della locanda, un cerchio di merletto increspato, gli fece tornare la tensione. Potevano chiamarlo anello, ma quella era una giarrettiera da donna, a quanto ne sapeva lui. Poteva non essere una bettola, ma locande del genere di solito erano già abbastanza turbolente di loro. Allentò i coltelli nelle maniche della sua giacca e anche quelli che portava in cima agli stivali, tastò le lame sotto la giacca e scrollò le spalle giusto per avvertire quello che gli pendeva dietro il collo. Anche se, se si fosse arrivati a tanto... Tuon annuì in approvazione. Quella dannata donna stava morendo dalla voglia di vederlo in uno scontro a coltello! Selucia ebbe il buonsenso di accigliarsi.
«Ah, sì» disse Thom. «Una saggia precauzione.» E controllò i propri pugnali facendo crescere la tensione di Mat. Thom portava quasi tanti coltelli quanto lui, su per le maniche e sotto la giacca. Selucia agitò le mani verso Tuon e all’improvviso si ritrovarono immersi in una discussione silenziosa, con le dita che guizzavano. Ovviamente non poteva trattarsi di quello — Tuon possedeva Selucia dannatamente allo stesso modo in cui si possiede un cane, e non si discuteva col proprio cane —, ma sembrava proprio un diverbio, entrambe le donne con un piglio ostinato della mascella. Infine Selucia ripiegò le mani e chinò la testa in modo remissivo. Una sottomissione riluttante.
«Andrà bene» le disse Tuon in tono allegro. «Vedrai. Andrà bene.»
Mat desiderò poter esserne certo. Traendo un profondo respiro seguì Thom.
La spaziosa sala comune a pannelli di legno dell’Anello Bianco ospitava più di due dozzine di uomini e donne, quasi metà dei quali ovviamente forestieri, ai tavoli quadrati sotto un soffitto dalle spesse travi. Tutti ben vestiti con abiti di lana finemente intrecciata e pochi fronzoli; molti stavano parlando piano a coppie sorseggiando il loro vino, i mantelli drappeggiati sulle sedie dal basso schienale, anche se a un tavolo tre uomini e una donna con lunghe trecce con perline stavano lanciando dadi rosso vivido da una coppa di vino. Odori piacevoli provenivano dalla cucina, incluso quello di carne arrosto. Capra, molto probabilmente. Accanto all’ampio caminetto di pietra, dove un misero fuoco ardeva e un orologio a cassa di ottone lucidato era posato sulla mensola, una giovane donna dallo sguardo insolente che poteva rivaleggiare con Selucia — e con la blusa slacciata quasi fino alla vita per dimostrarlo — dondolava i fianchi e cantava, accompagnata da un dulcimer a corde percosse e da un flauto, una canzone su una donna che si destreggiava fra tutti i suoi amanti. Cantava con una voce appropriatamente lasciva. Non pareva che nessuno degli avventori la stesse ascoltando.
Fuori a passeggio un mattino ameno vidi il bel Jac che inforcava fieno. Occhi stupendi e capelli di più, gli diedi un bacio e non ci pensai su. Tra abbracci e sospiri il sole salì e quanti sospiri io non saprei dir.
Abbassando il suo cappuccio, Tuon si fermò all’interno appena oltre la soglia e si guardò attorno per la stanza con aria accigliata. «Sei certo che questa sia una bettola, mastro Merrilin?» domandò. A voce bassa, grazie alla Luce. In alcuni posti una domanda del genere poteva farti buttare fuori e in modo rude, giacca di seta o no. In altri, i prezzi si limitavano a raddoppiare.
«Te l’assicuro, a quest’ora non troverai nessun posto di Maderin dove siano radunati più ladri e farabutti» mormorò Thom accarezzandosi i baffi.
Un’ora per Jac con il sole splendente, un’ora per Willi con mio padre assente. Nel fieno con Moril che non ha timor, a mezzodì Keilin: oh, quale ardor! Lord Brelan la sera se non è brillo, mastro Andril il mattin: oh, com’è arzillo! Che mai una donzella potrebbe fare, con poche ore e tanto amor da dare?
Tuon pareva dubbiosa, ma con Selucia attaccata alle sue spalle si andò a mettere di fronte alla cantante, che vacillò un momento sotto l’intenso esame della piccola donna prima di riprendere la melodia. Cantò sopra la testa di Tuon, chiaramente tentando di ignorarla. Pareva che a ogni verso la donna nella canzone aggiungesse un nuovo amante alla sua lista. Il suonatore di dulcimer sorrise a Selucia e ottenne in cambio uno sguardo gelido. Altri gettarono uno sguardo alle due donne, quella così piccola e con i neri capelli cortissimi e l’altra che rivaleggiava con la cantante e aveva la testa avvolta in una sciarpa, ma nulla più che occhiate. Gli avventori erano assorti nelle proprie faccende.
«Non è una bettola,» disse Mat piano «ma cos’è? Perché così tante persone se ne stanno qui nel bel mezzo della giornata?» Le sale comuni si riempivano così solo di mattina e di sera.
«La gente del luogo vende olio d’oliva, oggetti laccati o merletto» gli rispose Thom a voce altrettanto bassa «e i forestieri comprano. Sembra che sia un’usanza locale iniziare con qualche ora a bere e a conversare. E se non reggi l’alcol» aggiunse in tono asciutto «quando torni sobrio scopri di aver fatto un affare meno vantaggioso di quello che pensavi col vino.»
«Per la Luce, Thom, lei non crederà mai che questo posto sia una bettola. Io pensavo che ci stessi portando in qualche locale dove si ritrovano a bere le guardie dei mercanti o gli apprendisti. Con quello forse ci sarebbe cascata.»
«Fidati di me, Mat. Penso che scoprirai che ha vissuto una vita molto protetta per parecchi versi.» Protetta?, pensò. Quando i suoi stessi fratelli e sorelle cercavano di ucciderla? «Non vorresti scommetterci una corona, vero?»
Thorn ridacchiò. «Sono sempre lieto di prendere il tuo denaro.»
Tuon e Selucia tornarono da loro con volti inespressivi. «Mi aspettavo un abbigliamento più rozzo da parte degli avventori» disse Tuon piano «e forse una zuffa o due, ma la canzone è troppo salace per una locanda rispettabile. Anche se lei è un po’ troppo coperta per cantarla in modo appropriato, a mio parere. Per cos’è quella?» aggiunse in tono sospettoso mentre Mat porgeva a Thom una moneta.
«Oh,» rispose Thorn, facendosi scivolare la corona nella tasca della giacca «io pensavo che potessi rimanere delusa che fossero presenti solo i malfattori di maggior successo — non sono sempre così pittoreschi come quelli più poveri —, ma Mat diceva che non l’avresti mai notato.»
Tuon scoccò un’occhiata a Mat, il quale aprì la bocca indignato. E la chiuse di nuovo. Cosa c’era da dire? Era già nella pentola della salamoia. Non c’era bisogno di attizzare il fuoco.
Quando si avvicinò la locandiera, una donna rotonda con capelli sospettosamente neri sotto una cuffietta di merletto bianco e infilata in un vestito grigio ricamato di rosso e verde lungo il suo seno più che abbondante, Thorn si defilò con un inchino e mormorò: «Coi vostro permesso, mio lord, mia lady.» Mormorò, ma abbastanza forte perché comare Heilin udisse.
La locandiera aveva un sorriso severo, tuttavia lo esercitò per un lord e una lady, facendo una riverenza così profonda che gemette nel ritirarsi su, e parve solo un poco delusa che Mat volesse del vino e forse cibo, non delle stanze. Il suo vino migliore. Ciononostante, quando pagò le fece vedere che nel suo borsellino aveva oro, oltre che argento. Una giacca di seta andava bene, ma chi aveva oro e vestiva di stracci riceveva un trattamento migliore di chi aveva rame e vestiva di seta.
«Birra» ordinò Tuon. «Non ho mai assaggiato la birra. Dimmi, brava donna, è possibile che qualcuna di queste persone cominci una rissa a breve?» Mat quasi si mangiò la lingua.
Comare Heilin sbatté le palpebre e scrollò un poco la testa, come incredula di aver sentito quello che pensava di aver sentito. «Non c’è da preoccuparsi, mia signora» rispose. «Accade di tanto in tanto, se ci vanno troppo pesanti col vino, ma li sistemerò per bene se succede.»
«Non per me» le disse Tuon. «E giusto che abbiano il loro passatempo.»
Il sorriso della locandiere si fece storto e resse a malapena, ma riuscì a rivolgere un’altra riverenza e poi ad allontanarsi tenendo stretta la moneta di Mat e gridando: «Jera, vino per il lord e la lady, una caraffa di Kiranaille. E un boccale di birra.»
«Non devi fare domande del genere, Tesoro» disse Mat sottovoce mentre scortava Tuon e Selucia a un tavolo vuoto. Selucia rifiutò di sedersi, prendendo il mantello di Tuon e drappeggiandolo sopra la sedia che tenne per lei, poi mettendosi in piedi dietro di essa. «Non è cortese. E poi ti fa abbassare gli occhi.» Che fosse ringraziata la Luce per quelle chiacchierate con Egeanin, con qualunque nome volesse farsi chiamare. I Seanchan avrebbero fatto qualunque idiozia o si sarebbero rifiutati di fare qualsiasi cosa sensata per evitare che i loro occhi si abbassassero.
Tuon annuì pensierosa. «Le vostre usanze sono spesso molto singolari, Giocattolo. Dovrai istruirmi su di esse. Ne ho imparate alcune, ma devo conoscere i costumi della gente che governerò nel nome dell’imperatrice, che possa vivere per sempre.»
«Sarò lieto di insegnarti ciò che posso» disse Mat, togliendosi il mantello e lasciandolo cadere con noncuranza sul basso schienale della sua sedia. «Per te sarà bene conoscere i nostri costumi anche se finisci per governare meno di quello che ti aspetti.» Poggiò il suo cappello sul tavolo.
Tuon e Selucia rimasero a bocca aperta, con le mani che schizzavano verso il cappello. Quella di Tuon lo raggiunse per prima e si affrettò a metterlo sulla sedia accanto a sé. «Questa è davvero malasorte, Giocattolo. Non mettere mai un cappello su un tavolo.» Fece uno di quegli strani gesti per proteggersi dal male, ripiegando pollice, medio e anulare ed estendendo rigide le altre due dita. Selucia fece lo stesso.
«Me ne ricorderò» replicò Mat seccamente. Forse troppo seccamente. Tuon gli rivolse un’occhiata perentoria. Molto perentoria.
«Ho deciso che non andrai bene come coppiere, Giocattolo. Non finché non apprenderai l’umiltà, che quasi dispero di poterti insegnare. Forse ti renderò uno stalliere da corsa, invece. Sei bravo con i cavalli. Ti piacerebbe venirmi dietro alla staffa quando cavalco? Le vesti sono molto simili a quelle di un coppiere, ma farò in modo che le tue siano decorate di nastri. Nastri rosa.»
Mat riuscì a mantenere un volto impassibile, ma sentì le guance arrossire. C’era solo un modo in cui lei poteva sapere che per lui i nastri rosa avevano un significato speciale. Gliel’aveva detto Tylin. Doveva essere così. Che fosse folgorato, le donne parlavano di tutto!
L’arrivo della cameriera con le loro bevande lo salvò dal dover trovare una risposta. Jera era una giovane donna sorridente con tante curve quasi quanto la cantante, non mostrate così bene, tuttavia non così nascoste dal grembiule bianco che portava legato stretto. Anche il suo abito di lana scura era piuttosto aderente. Non che lui le avesse rivolto più di uno sguardo, naturalmente. Era con la sua futura moglie. Comunque solo un completo zuccone ammirava una donna mentre era con un’altra. Jera posò un’alta caraffa di peltro piena di vino e due coppe di peltro sul tavolo, e porse uno spesso boccale di birra a Selucia, poi sbatté le palpebre per la confusione quando Selucia passò il boccale a Tuon e prese in cambio una coppa di vino. Mat le porse un penny d’argento per placare il suo turbamento e lei gli rivolse un sorriso raggiante assieme alla sua riverenza prima di precipitarsi via a un’altra chiamata dalla locandieri. Era improbabile che ricevesse molte mance d’argento.
«Avresti potuto ricambiare il suo sorriso, Giocattolo» disse Tuon, sollevando il boccale per annusarlo e poi arricciando il naso. «È davvero graziosa. Sei stato così impassibile che probabilmente l’hai spaventata.» Ne prese un sorso e i suoi occhi si sgranarono per la sorpresa. «È davvero molto buona.»
Mat sospirò e prese una lunga sorsata di vino scuro che aveva un vago aroma di fiori. In nessuno dei suoi ricordi, propri o di quegli altri uomini, riusciva a rammentare di aver capito le donne. Oh, una o due cose qua e là, ma mai nulla di completo.
Centellinando in modo regolare la sua birra — Mat non aveva intenzione di dirle che andava bevuta a grandi sorsate, non centellinata; poteva ubriacarsi di proposito, giusto per sperimentare appieno una bettola; quel giorno niente di lei lo avrebbe sorpreso. O qualunque altro giorno — prendendo dei sorsetti tra ogni frase, quella piccola donna esasperante lo interrogò sulle usanze. Dirle come comportarsi in una bettola fu piuttosto semplice. Startene sulle tue, non fare domande, e se possibile sedere con le spalle contro una parete e vicino a una porta, in caso fosse necessario andarsene all’improvviso. Meglio non andarci affatto, ma se proprio dovevi... Tuttavia lei passò presto a domandare di corti e palazzi, e su quello ottenne meno risposte. Mat avrebbe potuto dirle di più sui costumi nelle corti di Eharon o di Shiota o di una dozzina di altre nazioni morte che di quelle ancora esistenti. Tutto quello che sapeva erano frammenti delle usanze a Caemlyn e a Fear, e qualcosa su Fai Darà, a Shienar. Oltre a quelle dì Ebou Dar, ovviamente, ma lei già le conosceva.
«Dunque hai viaggiato in lungo e in largo e sei stato in altri palazzi oltre a quello di Tarasin» disse lei infine nel bere quello che restava della birra nel suo boccale. Lui non aveva ancora finito metà del proprio vino; e pensava che Selucia non avesse preso che un paio di sorsetti dal suo. «Ma tu non sembri avere nobili natali. Pensavo non fossi nobile.»
«Infatti non lo sono» le disse con fermezza. «I nobili...» Si interruppe, schiarendosi la voce. Non poteva certo dirle che i suoi nobili erano degli sciocchi che giravano col naso tanto sollevato che non riuscivano a vedere dove stavano andando. Lei era chi e cosa era, dopotutto.
Inespressiva, Tuon lo studiò mentre spingeva il suo boccale vuoto da un lato. Ancora esaminandolo, fece guizzare le dita della sua mano sinistra sopra la spalla e Selucia batté forte le mani. Diversi altri avventori li guardarono sorpresi. «Ti sei definito un giocatore d’azzardo» disse Tuon «e mastro Merrilin ti ha chiamato l’uomo più fortunato del mondo.»
Jera giunse di corsa e Selucia le porse il boccale. «Un’altra, presto» ordinò, anche se non in modo sgarbato. Tuttavia in lei c’era un’aria regale. Jera si abbassò in un inchino affrettato e si precipitò via di nuovo come se le avessero urlato contro.
«Ho fortuna, a volte» disse Mat con cautela.
«Vediamo se ne hai oggi, Giocattolo.» Tuon guardò verso il tavolo su cui stavano sbatacchiando i dadi.
Mat non ci vedeva nulla di male. Era una certezza che avrebbe vinto più di quanto avrebbe perso, tuttavia riteneva improbabile che uno dei mercanti tirasse fuori un coltello, pur con tutta la fortuna al gioco che poteva avere. Non aveva notato nessuno che portava alla cintura quelle lunghe lame che tutti avevano più a sud. Alzandosi in piedi, offrì a Tuon il suo braccio e lei gli appoggiò lievemente la mano sul polso. Selucia lasciò il suo vino sul tavolo e rimase vicina alla sua padrona. Due degli uomini altarani, uno magro e calvo tranne per una frangia scura, l’altro dal volto rotondo sopra tre menti, si accigliarono quando lui chiese se un estraneo poteva unirsi al gioco, e un terzo, un tizio corpulento e ingrigito col labbro inferiore pendulo si fece rigido come l’asse di una palizzata. La donna tarabonese non fu così contraria.
«Ma certo, ma certo. Perché no?» disse, la sua inflessione leggermente farfugliante. Arrossì in volto e il sorriso che gli rivolse aveva in sé una certa mollezza. A quanto pareva era una di quelle a cui il vino dava alla testa. Pareva che i tipi del luogo volessero tenerla contenta poiché i cipigli scomparvero, anche se l’uomo brizzolato rimase inespressivo. Mat andò a prendere le sedie da un tavolo vicino per sé e Tuon. Selucia scelse di rimanere in piedi dietro Tuon, il che andava bene. Sei persone stavano già strette attorno a quel tavolo.
Jera arrivò per fare una riverenza e porgere un boccale pieno a Tuon con entrambe le mani e un sussurrato: «Mia signora.» Un’altra servitrice, grigia e corpulenta quasi quanto comare Heilin, sostituì la caraffa di vino sul tavolo dei giocatori. Sorridendo, l’uomo calvo riempì la coppa della Tarabonese fino all’orlo. La volevano contenta e ubriaca. Lei tracannò metà della coppa e con una risata si asciugò delicatamente le labbra con un fazzoletto orlato di merletto. Rimetterselo su nella manica richiese due tentativi. Quel giorno non ci sarebbero stati buoni affari per lei.
Mat guardò qualche mano e presto riconobbe il gioco. Si usavano quattro dadi invece di due, ma era senza dubbio una variante di Piri ‘Uguale’, un gioco che era stato popolare per mille anni prima che Artur Hawkwing iniziasse la sua ascesa. Piccole pile d’argento miste a qualche moneta d’oro erano disposte di fronte a ciascun giocatore, e Mat mise un marco d’argento nel mezzo del tavolo per comprare i dadi mentre l’uomo corpulento raccoglieva le sue vincite per l’ultimo lancio. Non si aspettava guai dai mercanti, ma erano comunque meno probabili se avessero perso argento invece di oro.
L’uomo magro pareggiò la puntata e Mat sbatacchiò i dadi cremisi nella tazza di peltro, poi li fece rotolare sul tavolo. Si arrestarono mostrando quattro cinque.
«Quello è un tiro vincente?» chiese Tuon.
«Non se lo eguaglio» dispose Mat, raccogliendo i dadi e rimettendoli nella coppa «senza prima tirare un quattordici o gli occhi del Tenebroso.» I dadi sbatacchiarono nella tazza, poi sul tavolo. Quattro cinque. La sua fortuna c’era, di certo. Fece scivolare una moneta di fronte a sé e lasciò l’altra.
All’improvviso il tizio brizzolato spinse la sedia all’indietro con uno stridio e si alzò in piedi. «Ne ho avuto abbastanza» borbottò, e cominciò a infilare le monete di fronte a sé nelle tasche della sua giacca. Gli altri due Altarani lo fissarono increduli.
«Te ne stai andando, Vane?» chiese l’uomo magro. «Adesso?»
«Ho detto che ne ho avuto abbastanza, Camrin» brontolò l’uomo dai capelli grigi e se ne uscì in strada a passi pesanti, seguito dallo sguardo torvo di Camrin sulla sua schiena.
La donna tarabonese si sporse in avanti malferma, con le sue trecce decorate di perline che schioccavano sul tavolo, per dare una pacca sul polso dell’uomo grasso. «Vuoi dire solo che comprerò i miei oggetti laccati da te, mastro Kostelle» disse in modo indistinto. «Da te e da mastro Camrin.»
Il triplo mento di Kostelle tremolò mentre ridacchiava. «Così sembra, comare Alstaing. Così sembra. Non è vero, Camrin?»
«Suppongo» replicò l’uomo calvo in tono scontroso. «Suppongo.» Tirò fuori un marco per pareggiare quello di Mat.
Ancora una volta i dadi rotolarono sul tavolo. Stavolta formarono un totale di quattordici.
«Oh» disse Tuon in tono deluso. «Hai perso.»
«Ho vinto, Tesoro. Quello è un tiro vincente se è il primo.» Lasciò la sua puntata originaria nel mezzo del tavolo. «Un’altra?» disse con un sogghigno.
La sua fortuna esisteva davvero, forte più che mai. I dadi rosso brillante rotolavano sul tavolo, rimbalzavano, qualche volta urtavano le monete della puntata e, lancio dopo lancio, si arrestavano mostrando quattordici puntolini bianchi. Mat fece quattordici in ogni modo in cui poteva essere fatto. Perfino a una moneta a puntata, l’argento di fronte a lui crebbe fino a una somma considerevole. Metà della gente nella sala comune andò a mettersi attorno al tavolo e a osservare. Lui sorrise a Tuon, la quale gli rivolse un leggero cenno del capo. Gli era mancalo tutto quello, dadi in una sala comune o in una taverna, monete sul tavolo, domandandosi per quanto la sua fortuna avrebbe retto. il una donna graziosa al suo fianco mentre giocava d’azzardo. Voleva ridere dì piacere.
Mentre stava scuotendo di nuovo i dadi nella coppa, la mercante tarabonese gli lanciò un’occhiata e, per un istante, non parve affatto ubriaca. Tutta un tratto non senti più l’impulso di ridere. Il volto di lei si riafflosciò immediatamente e i suoi occhi divennero ancora una volta un tantino fuori fuoco, ma in quell’istante erano stati delle trivelle. Reggeva il vino meglio di quanto lui avesse ipotizzato. Pareva che Camrin e Kostelle non sarebbero riusciti a rifilarle roba scadente a prezzi esagerati, o qualunque fosse stato il loro piano. Quello che lo preoccupava, però, era che la donna era sospettosa nei suoi confronti. A ripensarci, lei stessa non aveva giocato una sola moneta contro di lui. I due Altarani lo stavano guardando accigliati, ma solo nel modo in cui gli uomini che stanno perdendo aggrottano la fronte per la propria malasorte. La donna riteneva che Mat avesse trovato qualche modo per barare. Non aveva importanza che stesse usando i loro dadi, o più probabilmente quelli della locanda; un’accusa di barare poteva portare un uomo a essere bastonato a dovere perfino in una locanda di mercanti. Gli uomini di rado attendevano le prove per quel tipo di accusa.
«Un ultimo lancio» disse «e penso che la finirò qui. Comare Heilin?» La locandiere si trovava fra gli astanti. Le porse una manciata delle sue monete d’argento appena vinte. «Per celebrare la mia buona sorte, servi a tutti quello che vogliono da bere fin quando bastano quei soldi.» Questo suscitò mormoni di approvazione e qualcuno dietro di lui gli diede una pacca sulla spalla. Un uomo che beveva il tuo vino era meno propenso a credere che l’avessi comprato con denaro vinto barando. O almeno potevano esitare quanto bastava per dargli un’opportunità di portare fuori Tuon.
«Non può continuare questa serie per sempre» borbottò Camrin, passandosi una mano tra i capelli che non possedeva più. «Cosa dici tu, Kostelle? Facciamo a metà?» Allontanando con un dito una corona d’oro dalle monete impilate di fronte a lui, la fece scivolare verso il marco d’argento di Mat.
«Se dev’esserci solo un ultimo lancio, facciamoci su una vera scommessa. Dopo così tanti lanci positivi, deve arrivare un po’ di malasorte.» Kostelle esitò, sfregandosi i suoi menti pensieroso, poi annui e aggiunse anche lui una corona d’oro.
Mat sospirò. Poteva non fare la puntata, ma andarsene a quel punto del gioco poteva far scattare l’accusa di comare Alstaing. Così come vincere quel lancio. Con riluttanza tirò fuori marchi d’argento sufficienti a eguagliare la loro puntata. Ciò ne lasciò solo due di fronte a lui. Diede alla tazza un’ulteriore, forte scrollata prima di versare i dadi sul tavolo. Non si aspettava che quello cambiasse qualcosa. Stava solo dando sfogo alle sue sensazioni.
I dadi rossi ruzzolarono per il tavolo, colpirono le monete impilate e rimbalzarono indietro, rotolando prima di cadere e fermarsi. Su ciascuno c’era un unico puntino. Gli occhi del Tenebroso. Ridendo come se non si trattasse solo delle loro stesse monete vinte di nuovo, Camrin e Kostelle iniziarono a spartirsi il piatto. Gli astanti iniziarono a scivolare via, mormorando parole di commiserazione per Mat, alcuni che sollevavano la coppa per cui lui aveva pagato nella sua direzione. Comare Alstaing bevve una lunga sorsata dalla propria coppa di vino, studiandolo oltre il bordo, ubriaca come un’oca stando a tutte le apparenze. Mat dubitava che lei pensasse ancora che aveva imbrogliato, non quando se ne stava andando con solo un marco in più di quando si era seduto. A volte la malasorte poteva rivelarsi positiva.
«Dunque la tua fortuna non è infinita, Giocattolo» disse Tuon mentre lui l’accompagnava di nuovo al loro tavolo. «O forse sei fortunato solo nelle piccole cose?»
«Nessuno ha una fortuna infinita, Tesoro. Per quanto riguarda me, ritengo che quell’ultimo lancio sia stato uno dei più fortunati che abbia mai fatto.» Spiegò dei sospetti della donna tarabonese e del perché aveva comprato il vino per l’intera sala.
Al tavolo le tenne la sedia per farla accomodare, ma lei rimase in piedi a guardarlo. «Potresti fare molta strada a Seandar» gli disse infine, lanciandogli il suo boccale quasi vuoto. «Controlla questo finché non ritorno.»
Mat, in apprensione, si mise dritto. «Dove stai andando?» Aveva fiducia nel fatto che lei non sarebbe fuggita, ma non fuori dai guai se non ci fosse stato lui a tirarla fuori.
Lei assunse un’espressione sofferente. Perfino quella era stupenda. «Se lo devi sapere, sto andando al gabinetto, Giocattolo.»
«La locandiera può dirti dov’è. O una delle cameriere.»
«Grazie, Giocattolo» gli disse dolcemente. «Non ci avrei mai pensato a chiederlo.» Agitò le dita verso Selucia e le due si diressero verso il retro della sala comune facendo una delle loro chiacchierate e ridacchiando.
Sedendosi, Mat guardò accigliato la sua coppa di vino. Alle donne piaceva trovare modi per farti sentire un idiota. E lui era mezzo sposato a quella.
«Dove sono le donne?» domandò Thom, accomodandosi nella sedia accanto a Mat e posando sul tavolo una coppa di vino quasi piena. Bofonchiò quando Mat glielo spiegò, poi, appoggiando i gomiti sul tavolo per avvicinare la testa, proseguì a bassa voce. «Abbiamo guai dietro e davanti. Tanto davanti che potrebbero non infastidirci qui, ma faremo meglio ad andarcene prima che tornino.»
Mat si mise a sedere diritto. «Che genere di guai?»
«Alcune di quelle carovane di mercanti che ci hanno superato gli scorsi giorni hanno portato notizie di un delitto a Jurador più o meno quando noi siamo partiti. Forse un giorno o due più tardi: è difficile essere sicuri. Un uomo è stato trovato nel suo letto con la gola tagliata, solo che non c’era abbastanza sangue.» Non aveva bisogno di aggiungere altro.
Mat prese una lunga sorsata del suo vino. Quel maledetto gholam lo stava ancora seguendo. Come aveva scoperto che stava con lo spettacolo di Luca? Ma se era ancora a un giorno o due dietro di loro al ritmo con cui lo spettacolo si muoveva, probabilmente non l’avrebbe raggiunto presto. Tastò la testa di volpe d’argento attraverso la sua giacca. Almeno aveva un modo per combattere se quella cosa fosse apparsa. Il gholam aveva già una cicatrice che lui gli aveva inflitto. «E i problemi davanti a noi?»
«C’è un’armata seanchan al confine col Murandy. Come l’abbiano radunata senza che io ne abbia saputo nulla prima...» Con uno sbuffo fece sollevare i suoi baffi, offeso dal proprio fallimento. «Be’, non ha importanza. A tutti quelli che passano il confine fanno bere una lazza di qualche te di erbe.»
«Té?» domandò Mat incredulo. «Cosa mai può fare un po’ di te?»
«Ogni tanto questo té fa barcollare una donna e poi le sul’dam vengono e le mettono il collare. Ma questa non è la parte peggiore. Stanno cercando con insistenza una giovane donna seanchan scura e magra.»
«Be’, ma certo. Ti aspettavi che non l’avrebbero fatto? Questo risolve il mio problema maggiore, Thom. Quando saremo vicini, potremo lasciare lo spettacolo e prendere per la foresta. Tuon e Selucia possono continuare con Luca. Luca sarà l’eroe che ha restituito loro la Figlia delle Nove Lune.»
Thom scosse il capo con aria cupa. «Stanno cercando un’imbrogliona, Mat. Una persona che afferma di essere la Figlia delle Nove Lune. E questa descrizione si adatta a lei fin troppo bene. Non ne parlano apertamente, ma ci sono sempre uomini che bevono troppo, e alcuni parlano anche troppo quando lo fanno. Hanno intenzione di ucciderla quando la troveranno. Qualcosa come cancellare la vergogna che ha causato.»
«Luce!» mormorò Mat. «Come può essere, Thom? Qualunque generale comandi quell’armata deve conoscere la sua faccia, no? E anche altri ufficiali, suppongo. Devono esserci nobili in grado di riconoscerla.»
«Non le sarà di molta utilità. Perfino i soldati semplici le taglieranno la gola o le fracasseranno la testa non appena verrà trovata. Mi è stato riferito da tre diversi mercanti, Mat. Pure se si sbagliassero tutti e tre, sei disposto a correre il rischio?»
Mat non lo era, e cominciarono a orchestrare piani sorseggiando vino. Non che ne bevvero molto. Thom lo faceva di rado, nonostante tutte le sue visite a sale comuni e taverne, e Mat voleva mantenere la testa sgombra.
«Luca strepiterà se gli chiediamo abbastanza cavalli per ciascuno di noi, qualunque cifra tu gli paghi» disse Thom a un certo punto, «lì poi se prendiamo per la foresta, ci serviranno anche cavalli da soma per le provviste.»
«Allora comincerò a comprarne, Thom. Per quando dovremo andarcene, ne avrò quanti ce ne servono. Scommetto che posso trovare qualche buon animale proprio qui, Anche Vanin ha un buon occhio. Non preoccuparti. Mi assicurerò che li paghi.» Thom annuì dubbioso. Non era così certo di quanto Vanin si fosse ravveduto.
«Aludra viene con noi?» domandò l’uomo canuto poco dopo con sua sorpresa. «Vorrà portare tutta la sua attrezzatura. Questo vorrà dire altri cavalli da soma.»
«Abbiamo tempo, Thom. Il confine col Murandy è ancora lontano. Intendo dirigermi a nord verso l’Andor, o a est, se Vanin conosce una strada attraverso le montagne. Meglio est.» Qualunque strada Vanin avesse conosciuto sarebbe stata un sentiero di contrabbandieri, una via di fuga per ladri di cavalli. Ci sarebbero state meno probabilità per incontri fortuiti su percorsi del genere. I Seanchan potevano essere quasi dappertutto nell’Altara, e dirigersi verso nord lo portava più vicino a quell’esercito di quanto gli piacesse.
Tuon e Selucia comparvero dal fondo della sala comune e lui si alzò, prendendo il mantello di Tuon dalla sua sedia. Anche Thom si alzò, sollevando quello di Selucia. «Ce ne andiamo» disse Mat, tentando di mettere il mantello attorno a Tuon. Selucia glielo strappò di mano.
«Non ho ancora visto nemmeno una zuffa» protestò Tuon, a voce troppo alta. Diverse persone si voltarono a fissarla, mercanti e cameriere.
«Ti spiegherò fuori» le disse piano, «lontano da orecchie indiscrete.»
Tuon alzò lo sguardo su di lui senza alcuna espressione. Mat sapeva che lei era forte, ma era anche così piccola, come una graziosa bambolina: era così facile credere che si sarebbe rotta se maneggiata rudemente. Avrebbe fatto tutto quello che era necessario per assicurarsi che lei non corresse il pericolo di venire rotta. Tutto il necessario. Infine lei annuì e permise a Selucia di metterle il mantello blu sulle spalle. Thom cercò di fare lo stesso con la donna bionda, ma lei glielo tolse di mano e se lo mise da sola. Mat non riusciva a ricordarsi di averla mai vista lasciarsi aiutare da qualcuno col suo mantello.
Nella strada tortuosa all’esterno non c’era vita umana. Un cane marrone a cui si potevano contare le costole li scrutò cauto, poi trotterellò via svoltando l’angolo più vicino. Mat si mosse quasi altrettanto rapidamente nell’altra direzione, spiegando mentre camminavano. Se si era aspettato sconcerto o disappunto, era rimasto deluso.
«Potrebbe trattarsi di Kavashi o di Chimal» disse la piccola donna in tono pensieroso, come se avere un intero esercito seanchan là fuori, pronto a ucciderla, non fosse altro che un’oziosa distrazione. «Le mie sorelle più prossime a me come età. Aurana è troppo giovane, ritengo: ha solo otto anni. Quattordici, voi direste. Chimal è discreta nella sua ambizione, ma Ravashi ha sempre creduto di dover essere nominata lei dato che è più vecchia. Potrebbe proprio aver mandato qualcuno per diffondere voci nel caso io fossi scomparsa per un po’ di tempo. Piuttosto scaltro da parte sua. Se è stata lei.» Proprio con la stessa freddezza come se stesse parlando della possibilità che stesse per piovere.
«Ci si potrebbe occupare facilmente di questa macchinazione se la Somma Signora fosse nel palazzo di Tarasin, il luogo a cui appartiene» disse Selucia, e la freddezza scomparve da Tuon.
Il suo volto divenne gelido come quello di un boia, ma si voltò verso la sua cameriera con le dita che guizzavano tanto furiosamente che avrebbero potuto generare scintille. Il volto di Selucia impallidì e lei crollò in ginocchio, con la testa bassa e rannicchiata su sé stessa. Le sue dita gesticolarono rapidamente e Tuon lasciò ricadere le proprie mani, rimanendo a guardare la testa di Selucia ricoperta dalla sciarpa, respirando in modo affannoso. Dopo un momento si piegò, sollevò l’altra donna e la rimise in piedi. Standole molto vicino, disse qualcosa di brevissimo con quel linguaggio delle dita. Selucia replicò silenziosamente, Tuon fece di nuovo lo stesso gesto, poi si scambiarono dei sorrisi tremuli. Delle lacrime brillarono nei loro occhi. Lacrime!
«Volete dirmi cos’era tutto questo?» domandò Mat. Le due donne voltarono la testa per squadrarlo.
«Quali sono i tuoi piani, Giocattolo?» chiese infine Tuon.
«Non Ebou Dar, se è quello che stai pensando, Tesoro. Se là fuori c’è un esercito pronto a ucciderti, probabilmente lo sono tutti, e ci sono troppi soldati tra qui ed Ebou Dar. Ma non preoccuparti: troverò un modo per farti tornare indietro sana e salva.»
«Allora hai sempre...» Gli occhi di Tuon osservarono dietro di lui, sgranandosi, e Mat si guardò sopra la spalla per vedere sette o otto uomini svoltare all’ultimo angolo della strada. Ogni uomo aveva in mano una spada sguainata. Vedendolo, affrettarono il passo.
«Scappa, Tuon!» urlò, girandosi per affrontare i loro assalitori. «Thorn, portala via di qui!» Un coltello comparve in ciascuna sua mano dalle maniche e lui li scagliò in un solo lancio. La lama della mano sinistra colpì un uomo brizzolato all’occhio, quella della mano destra un tizio scarno alla gola. Caddero come se le loro ossa si fossero dissolte, ma prima che le loro spade potessero sferragliare sul selciato, lui aveva già tirato fuori un altro paio di coltelli dalla parte superiore dei suoi stivali e stava scattando verso di loro.
Il fatto di aver perso due dei loro così in fretta e che lui avanzasse invece di fuggire li colse di sorpresa. Con lui così vicino tanto rapidamente e loro che si ostacolavano a vicenda in quella stretta via, perdevano molto del vantaggio che le spade conferivano rispetto ai pugnali. Non tutto, purtroppo. Le sue lame riuscivano a deviare un spada, ma si preoccupava soltanto quando qualcuno si tirava indietro per un affondo. In breve tempo aveva collezionato tagli lungo le costole, sulla coscia sinistra, lungo la parte destra della mascella, un taglio che gli avrebbe aperto la gola se non fosse balzato via in tempo. Ma se avesse cercato di fuggire, l’avrebbero trapassato da dietro. Vivo e sanguinante era meglio che morto.
Le sue mani guizzarono più veloce che mai, mosse brevi, quasi delicate. Usarne di elaborate l’avrebbe ucciso. Un coltello scivolò dentro il cuore di un grassone e di nuovo fuori prima che le ginocchia del tizio cominciassero ad afflosciarsi. Lo conficcò nel gomito di un uomo con la corporatura di un fabbro, il quale lasciò cadere la spada ed estrasse goffamente il pugnale alla cintura con la mano sinistra. Mat lo ignorò: il tizio stava già barcollando per la perdita di sangue prima che la sua lama lasciasse il fodero. Un uomo dal volto squadrato rimase senza fiato quando Mat gli perforò un lato del collo. Si portò una mano alla ferita, ma riuscì solo a fare due tentennanti passi indietro prima di cadere. Man mano che gli uomini morivano, altri guadagnavano spazio, ma Mat si mosse ancora più rapido, danzando in modo tale che un uomo che stava crollando a terra gli fece da scudo per la spada di un altro mentre lui si avvicinava all’interno dell’arco del fendente di un terzo. Per lui il mondo consisteva solo nei suoi due coltelli e negli uomini che si assiepavano per colpirlo, e i suoi pugnali cercavano i punti in cui gli uomini sanguinavano maggiormente. Alcuni di quei suoi antichi ricordi provenivano da uomini che erano stati tutt’altro che brave persone.
E poi, miracolo dei miracoli, sanguinando copiosamente ma col sangue troppo caldo per lasciargli percepire ancora l’intero dolore, stava affrontando l’ultimo, uno che non aveva notato prima. Era una donna giovane e magra in abiti stracciati e sarebbe potuta essere graziosa se il suo volto fosse stato pulito e se non avesse mostrato i denti in una smorfia ghignante. Il pugnale che stava lanciando da una mano all’altra aveva una lama a doppio taglio due volte più lunga della sua mano.
«Non puoi sperare di riuscire da sola in quello in cui gli altri hanno fallito assieme» le disse.
«Scappa. Ti lascerò andare illesa.»
Con un urlo simile a quello di un gatto selvatico, si precipitò contro di lui menando fendenti e affondi. tutto quello che Mat riuscì a fare fu saltellare all’indietro in modo goffo, cercando di respingerla. I suoi stivali scivolarono su una chiazza di sangue e, mentre barcollava, capì di essere sul punto di morire.
Tutt’a un tratto Tuon fu lì, la sua mano sinistra che afferrava il polso della giovane donna – non il polso della mano con cui teneva il pugnale, purtroppo — torcendolo in modo tale che il braccio si irrigidì e la ragazza fu costretta a piegarsi in due. E allora non ebbe alcuna importanza quale mano reggeva il coltello, poiché la destra di Tuon guizzò in avanti, tagliente come un’accetta, e la colpì alla gola così forte che lui udì la cartilagine spezzarsi. Soffocando, la donna si afferrò la gola fracassata e si afflosciò sulle ginocchia, poi cadde con la faccia in avanti, ancora annaspando in modo roco.
«Ti avevo detto di scappare» disse Mat, non sapendo lui stesso a quale delle due donne si riferisse.
«Hai quasi lasciato che ti uccidesse, Giocattolo» ribatte Tuon in tono severo. «Perché?»
«Ho promesso a me stesso che non avrei mai ucciso un’altra donna» disse stancamente. Il suo sangue stava iniziando a raffreddarsi e, Luce, che male! «Pare che abbia rovinato questa giacca» borbottò, tastando uno degli squarci zuppi di sangue. Quel movimento gli provocò un sussulto. Quando era stato ferito al braccio sinistro?
Lo sguardo di Tuon parve penetrargli il cranio, poi lei annuì come se fosse giunta a qualche conclusione.
Thom e Selucia si trovavano poco più in giù lungo la strada, di fronte alla ragione per cui Tuon si trovava lì, con più di mezza dozzina di corpi che giacevano scomposti sul selciato. Thom aveva un coltello in ciascuna mano e stava permettendo a Selucia di esaminargli una ferita alle costole attraverso il taglio sulla sua giacca. Stranamente, a giudicare dalla chiazze scure e lucide sul suo vestito, pareva avere meno ferite di Mat. Mat si domandò se Tuon avesse preso parte allo scontro anche lì, ma non riusciva a vedere su di lei nemmeno una macchiolina di sangue. Selucia aveva uno squarcio sanguinante lungo il braccio sinistro, anche se non pareva ostacolarla.
«Sono un uomo anziano» disse Thom all’improvviso «e a volte immagino di vedere cose che non possono esistere, ma per fortuna me le dimentico sempre.»
Selucia si soffermò per guardarlo con aria fredda. Poteva essere la cameriera di una nobildonna, ma il sangue pareva non turbarla affatto. «E cosa mai staresti cercando di dimenticare?»
«Non riesco a ricordarmelo» rispose Thom. Selucia annuì e tornò a esaminare le sue ferite.
Mat scosse il capo. A volte non era poi così certo che Thom fosse ancora del tutto sano di mente. Se era per quello, anche a Selucia pareva mancare qualche rotella ogni tanto.
«Questa non può vivere per essere interrogata» biascicò Tuon, guardando accigliata la donna che soffocava e si contorceva ai suoi piedi «e anche se ci riuscisse non potrebbe parlare.» Chinandosi con una mossa fluida, raccolse il coltello della donna e glielo conficcò con forza sotto lo sterno. Quell’annaspante sforzo di respirare terminò; occhi vitrei fissarono la stretta striscia di cielo sopra le loro teste. «Una pietà che non meritava, ma non vedo lo scopo di inutili sofferenze. Ho vinto, Giocattolo.»
«Hai vinto? Di cosa stai parlando?»
«Hai usato il mio nome prima che io usassi il tuo, quindi ho vinto.»
Mat fischiò debolmente attraverso i denti. Ogni volta che pensava di sapere quanto lei fosse dura, Tuon trovava un modo per dimostrargli che non conosceva nemmeno la metà. Se qualcuno per caso avesse guardato fuori dalla finestra, quell’accoltellamento avrebbe potuto suscitare domande con il magistrato locale, forse con lord Nathin stesso. Ma non c’erano facce alle finestre che riusciva a vedere. La gente evitava di farsi coinvolgere in quel genere di cose, se poteva. A quanto ne sapeva lui, qualunque numero di facchini o uomini con delle carriole sarebbe potuto passare durante il combattimento. Di certo avrebbero voltato i tacchi il prima possibile. Che qualcuno fosse potuto andare dalle guardie di lord Nathin era un’altra questione. Tuttavia non temeva Nathin o il suo magistrato. Un paio di uomini che scortavano due donne non decidevano di attaccarne più di una dozzina armati di spade. Era probabile che questi tizi, così come quella giovane donna sfortunata, fossero ben noti alle guardie.
Zoppicando per recuperare i coltelli che aveva lanciato, si interruppe nell’atto di tirar fuori la lama dall’occhio dell’uomo brizzolato. Non aveva davvero osservato bene quella faccia, prima. Tutto era accaduto troppo in fretta per ottenere qualcosa di più di impressioni generiche. Pulendo attentamente il coltello sulla giacca dell’uomo, se lo rinfilò su per la manica nel raddrizzarsi. «I nostri piani sono cambiati, Thom. Lasceremo Maderin il prima possibile, e lasceremo anche lo spettacolo. Luca sarà così desideroso di sbarazzarsi di noi che ci lascerà tutti i cavalli che ci servono.»
«Questo dev’essere riferito a chi di dovere, Giocattolo» disse Tuon in tono severo. «Non farlo è illegale proprio come quello che hanno fatto loro.»
«Conoscevi quel tizio?» chiese Thom.
Mat annuì. «Il suo nome è Vane e non penso che nessuno in questa città crederà che un mercante rispettabile ci abbia aggrediti in strada. Luca ci darà i cavalli per liberarsi di questo.» Era molto strano. Non aveva scucito nemmeno una moneta a quell’uomo, non aveva scommesso una moneta. Allora perché? Davvero molto strano. E un motivo sufficiente per andarsene in tutta fretta.