In teoria, le nove in punto era l’ora ufficiale d’inizio della giornata alla Doowap Advertising. In pratica, questo significava che un po’ di tempo dopo le nove gli impiegati cominciavano a pensare all’eventualità di doversi mettere al lavoro.
Cathy Hobson era arrivata come al solito verso le 8:50. Ma invece delle chiacchiere standard nei corridoi o nell’atrio dove molti si fermavano a bere il caffè, quel giorno sembrava esserci un’atmosfera assai meno spensierata. Cathy attraversò il salone diviso in settori da séparé di plexiglass verso il suo piccolo ufficio e vide con stupore che, ferma sulla porta di quello accanto, Shannon Bergman stava piangendo. — Santo cielo, Shan, cos’è successo? — domandò Cathy.
La collega aveva gli occhi gonfi. Tirò su col naso. — Non hai saputo di Hans?
Lei scosse il capo.
— È morto — disse Shannon, e ricominciò a piangere.
Jonas, quello che il marito di Cathy chiamava «pseudointellettuale» stava passando di lì. Fu a lui che Cathy si rivolse. — Ma com’è possibile? Ha avuto un incidente?
Jonas si passò una mano fra i capelli lucidi di brillantina. — Dicono che è stato assassinato.
— Assassinato!
— Uh-hu. In casa sua. Non da un rapinatore, sembra.
Si avvicinò anche Toby Bayley, evidentemente pensando che quel gruppetto di colleghi fosse più interessante degli altri (lì c’era qualcuno che non aveva ancora sentito la storia).
— E proprio così — disse. — Ieri non è venuto al lavoro, no? Be’, Nancy Caulfield lo ha saputo per telefono ieri sera da sua… stavo per dire moglie, ma immagino che adesso si debba dire «vedova.» Comunque, la notizia era anche nel Sun di questa mattina. Il funerale ci sarà giovedì. Tutti quelli che vogliono partecipare avranno un paio d’ore di permesso.
— E non è stato un rapinatore? — domandò Cathy.
— No — la informò Jonas. — Sul giornale c’è scritto che la polizia esclude l’omicidio a scopo di rapina. Dalla casa non è stato rubato niente. Inoltre… — La faccia dell’uomo rivelò un’insolita eccitazione. — A quanto dice l’articolo, il corpo è stato mutilato.
— Oh, Dio — mormorò Cathy, stordita. — Mutilato come?
— Be’, la polizia ha rifiutato di rilasciare particolari sul tipo di mutilazione. Ma il motivo è evidente. — Jonas annuì fra sé, con quell’aria saputa che irritava tanto Peter. — Forse ne parleranno in seguito, ma per ora è chiaro che tengono segreti i particolari per evitare le confessioni false dei soliti mitomani.
Cathy scosse lentamente la testa.- Mutilato — mormorò ancora, come se quella parola le sembrasse incomprensibile.
Ambrotos, il simulacro immortale, sognava.
Peter stava camminando. C’era tuttavia qualcosa d’insolito nei suoi passi. Erano stranamente morbidi e silenziosi. Non come se sotto i piedi avesse dell’erba o del fango. Forse la superficie cedevole di una moquette elastica, gommosa. C’era appena un accenno di rumore quando la scarpa la toccava, e poi una leggera spinta che aggiungeva energia al suo passo.
Abbassò gli occhi. Era una superficie color celeste pallido. Si guardò attorno. Il luogo su cui stava avanzando, pavimentato da quel materiale, curvava verso il basso in tutte le direzioni. Non c’era un cielo. Soltanto il vuoto, il niente, uno spazio privo di colori dal quale ogni cosa era assente. Lui continuò a camminare lentamente su quella superficie elastica e morbida, ricurva.
All’improvviso in distanza vide Cathy che agitava le braccia verso di lui.
Indossava la sua vecchia blusa di cotone azzurro dell’Università di Toronto. Su una manica c’era scritto «9T5», l’anno in cui s’era laureata, e sull’altra «CHEM.» Peter ora poteva vedere che quella non era la Cathy attuale, ma piuttosto la Cathy dell’anno in cui l’aveva conosciuta: molto più giovane, col volto a forma di cuore privo di rughette, i lunghi capelli neri sciolti sulla schiena. Peter abbassò ancora lo sguardo. Lui indossava blue jeans color indaco… un tipo di pantaloni che non portava da vent’anni.
Cambiò direzione verso Cathy, che a sua volta gli venne incontro. Ad ogni passo i capelli e gli abiti di lei mutavano aspetto, e già dopo una dozzina di metri fu evidente che era un po’ invecchiata. Peter sentì una barba scaturire dalla sua faccia e poi dissolversi — un esperimento infelice che aveva abbandonato dopo qualche mese — e poco più avanti avvertì un senso di freddo sopra la testa mentre cominciava a perdere i capelli. Ma da lì a qualche altro passo capì che quei cambiamenti s’erano fermati, almeno in lui. I suoi capelli non si diradavano più, il suo corpo non si appesantiva, le sue gambe continuavano a muoversi con agile scioltezza.
Entrambi camminavano rapidamente uno verso l’altra, ma presto Peter si rese conto che non si avvicinavano affatto. Anzi, al contrario, si allontanavano sempre più.
Il terreno fra di loro si stava espandendo. Il morbido territorio azzurrino cresceva e s’ingigantiva. Peter cominciò a correre, e Cathy fece lo stesso. Ma questo non servì a niente. Si trovavano sulla superficie di un enorme pallone che andava gonfiandosi con energia impetuosa. Ad ogni istante la sua area esterna aumentava, e la distanza che li separava si faceva più grande.
Un universo in espansione. Un universo dove la distanza era tempo. Anche se Cathy era ormai lontana Peter poteva sempre distinguere i più minuti dettagli del suo volto, perfino le rughe intorno agli occhi e sul collo, il grigio dei capelli. Ben presto lei smise di correre, rinunciò anche a camminare. Si fermò là, sulla superficie in continua crescita. Agitava ancora un braccio verso di lui, ma Peter capì che adesso era un gesto di addio… non c’era immortalità per lei. La sfera continuò a dilatarsi, e infine Cathy sparì sotto la curva dell’orizzonte, fuori vista…
Quando Cathy arrivò a casa, quella sera, riferì l’accaduto a Peter. Alle sei guardarono insieme il CityPulse News, ma il breve servizio aggiunse molto poco a ciò che lei aveva saputo al lavoro.
Peter fu comunque sorpreso nel vedere quanto fosse piccola la casa di Hans… e non gli dispiacque constatare che, almeno in quanto a possibilità economiche, lui gli era stato notevolmente superiore.
Cathy sembrava ancora stordita, come incapace di digerire la realtà dietro quella notizia. Peter invece stupì se stesso accorgendosi di quanto… quanto soddisfacente fosse la cosa. E lo irritò sentire che Cathy si dispiaceva per la morte di Hans. Sì, d’accordo, erano colleghi e lavoravano insieme da anni. Ma nel profondo dell’animo di Peter c’era qualcosa che si sentiva offeso dal dispiacere di lei.
Anche se quel mattino aveva dovuto alzarsi prima per un’intervista televisiva alla Hobson Monitoring — certi giornalisti giapponesi interessati all’Onda dell’Anima — non finse neppure di voler andare a letto alla stessa ora di Cathy. Restò alzato, invece, guardò per una mezz’ora il programma di Jay Leno, quindi andò nel suo studio e ordinò al computer di chiamare la Mirror Image. Ricevette a schermo lo stesso menu dell’ultima volta:
[F1] Spirito (Vita Dopo La Morte)
[F2] Ambrotos (Immortalità)
[F3] Control (Non Modificato)
Anche quella sera decise di selezionare il simulacro Control.
— Salve — lo salutò. — Sono io, Peter.
— Salve — rispose il simulacro. — E mezzanotte passata. Non dovresti essere a letto?
Peter annuì. — Suppongo di sì. Il fatto è che… non so bene come spiegarlo, ma mi sento geloso, in un modo abbastanza strano.
— Geloso?
— Di Hans. È stato assassinato ieri mattina.
— È stato… oh, mio Dio!
— Parli come Cathy. Tutte quelle fottute esclamazioni di cordoglio.
— Be’, è stata una sorpresa.
— Su questo non c’è dubbio — borbottò Peter. — Tuttavia…
— Tuttavia cosa?
— Mi dà fastidio che Cathy ne sia così sconvolta. A volte… — Fece una lunga pausa, poi: — A volte mi chiedo se ho sposato la donna giusta.
La voce del simulacro suonò neutra: — Non è che tu avessi una gran scelta di donne.
— Oh, non saprei — disse Peter. — C’era Becky, no? Becky e io ci saremmo divertiti un mondo, insieme.
Dall’altoparlante uscì un suono strano, quello che uno avrebbe potuto emettere sputando dei semi d’arancia. — La gente crede che la scelta della persona da sposare sia basata su quello che uno è. In altre parole, uno riflette su se stesso e decide: io sono fatto così, e quindi scelgo una persona fatta così. Be’… non è vero.
— È verissimo, invece.
— Nossignore. Ascolta, in questi giorni io non ho avuto molto da fare, a parte leggere il materiale che arriva sulle Reti. Una cosa che mi ha colpito sono gli studi sui gemelli… suppongo d’esserne stato interessato perché sono il tuo gemello al silicone.
— All’arsenicato di gallio — disse Peter.
Di nuovo il rumore di semi sputati. — Gli studi dimostrano che i gemelli separati alla nascita restano identici in migliaia di cose: comprano la stessa marca di sigarette, mangiano gli stessi dolciumi, ascoltano la stessa musica. Se sono maschi si fanno crescere entrambi la barba, oppure entrambi no. Sul lavoro hanno carriere analoghe, e così via, somiglianza dopo somiglianza… salvo che in una cosa: le loro mogli. Un gemello può avere una sposa atletica, l’altro una delicata intellettuale. Uno può aver sposato una bionda, l’altro una bruna. Uno un’estroversa ridanciana, l’altro una donna ombrosa e scostante.
— Sul serio? — si stupì Peter.
— È un fatto accertato — disse Control. — Gli studi sui gemelli sono devastanti per l’ego. Tutte quelle somiglianze dimostrano che è l’eredità genetica, non l’educazione intellettuale, il fattore basilare della personalità. In effetti giusto oggi leggevo un ampio studio su due gemelli orfani, separati alla nascita. Entrambi erano molto disordinati. Uno aveva genitori adottivi maniaci della pulizia; l’altro era stato adottato da una famiglia con una casa trasandata e sporca come un pollaio. Lo studioso domandò ai gemelli perché fossero così disordinati, ed entrambi risposero che si trattava di una reazione ai genitori adottivi. Uno disse: «Mia madre era così meticolosa e precisa che non potevo sopportare le sue pignolerie.» L’altro disse: «Be’, mia madre non aveva il minimo senso dell’ordine, così penso di aver preso da lei.» In realtà nessuna delle due risposte corrispondeva al vero. La propensione al disordine era nei loro cromosomi. Quasi tutto ciò che siamo è nei nostri cromosomi.
Peter ruminò su quel concetto. — Ma questo non è dimostrato falso dalla scelta di spose radicalmente diverse? Una scelta divergente non significa che siamo individui formati da quel che ci accade dopo la nascita?
— A un primo sguardo può sembrare così — disse Control, — ma i fatti ci provano esattamente il contrario. Pensa a quando abbiamo deciso di sposarci con Cathy. Avevamo ventotto anni, giusto prima di prendere la specializzazione. Eravamo pronti ad affrontare la vita, volevamo farci una famiglia. Sicuro, eravamo già molto innamorati di Cathy, ma anche senza quella gran passione saremmo stati disposti a sposarci nello stesso periodo. E se lei non ci fosse stata avremmo cercato una compagna nella nostra cerchia di conoscenze. Ma pensaci un momento: avevamo un numero molto ristretto di possibilità. Prima eliminiamo tutte quelle che erano già fidanzate o impegnate… e in quel periodo Becky stava già con un altro, ad esempio. Poi togliamo tutte quelle che non erano di un’età compatibile con la nostra. Poi, per essere spiacevolmente onesti, scartiamo anche quelle che erano di un’altra razza o di una religione eccessivamente diversa. Quante ragazze sarebbero rimaste? Una, forse? Due, diciamo. Oppure tre o quattro, se avessimo cercato bene e fossimo stati molto fortunati. Ma non di più. Tu stai fantasticando su tutte quelle femmine che avremmo potuto sposare, ma se guardi com’era la situazione, quella reale, ti accorgerai che non avevamo quasi nessuna alternativa.
Peter scosse il capo. — Se la metti così, questa scelta sembra una cosa dannatamente fredda e impersonale.
— In un certo senso lo è — disse il simulacro. — Però mi ha fatto vedere con occhi diversi il matrimonio di Sarkar e Raheema, combinato dalle famiglie. Io ho sempre pensato che fosse una cosa sbagliata, ma quando ci guardi dentro non c’è poi tanta differenza. Loro due non hanno avuto molti candidati fra cui scegliere, e noi anche.
— Può darsi — disse Peter.
— È così come ti dico — insistè il simulacro. — E adesso vattene a letto. Sali al piano di sopra, entra in camera e sdraiati accanto a tua moglie. — Fece una pausa. — Vorrei averla io la tua fortuna.