Un chilometro e mezzo a ovest dell’altura cominciavano gli accampamenti, uomini, cavalli e fuochi per cucinare, bandiere agitate dal vento e tende sparse raggruppate per nazionalità, per casata, ogni accampamento un lago di fango smosso separato dagli altri da distese d’erba e cespugli.
Gli uomini a cavallo e a piedi guardavano passare le fluenti bandiere di Rand, e scrutavano gli altri accampamenti per valutarne le reazioni. Quando c’erano stati anche gli Aiel, quegli uomini si erano uniti in un unico, immenso accampamento, spinti insieme da una delle poche cose che condividevano. Loro non erano Aiel, e li temevano per quanto si sforzassero di negarlo. Il mondo sarebbe finito se Rand non aveva successo, ma lui non si faceva illusione che quegli uomini gli fossero fedeli, sapeva che erano convinti di poter costringere il mondo stesso a piegarsi alle loro preoccupazioni, al loro desiderio d’oro, di gloria o di potere. Forse una manciata gli era davvero fedele, appena una manciata, ma per lo più seguivano la sua causa perché lo temevano ancor più degli Aiel. Forse più del Tenebroso, nel quale alcuni di loro non credevano davvero, non in fondo al cuore, non credevano che potesse o volesse toccare il mondo più duramente di quanto aveva già fatto. Rand era davanti ai loro occhi, e loro credevano in questo. Lui ormai lo accettava. Aveva troppe battaglie da combattere per sprecare le forze in una che non poteva vincere. Finché lo seguivano e gli obbedivano, doveva accontentarsi.
Il più grande degli accampamenti era il suo, dove i Compagni illianesi con le giubbe verdi dai risvolti gialli stavano spalla a spalla coi Difensori della Pietra tarenesi con le giubbe a strisce nere e d’oro dalle maniche a sbuffo e con un egual numero di Cairhienesi presi da circa una quarantina di casate, vestiti con colori scuri, alcuni con il rigido con sopra la testa.
Cucinavano su fuochi diversi, dormivano in posti diversi, legavano i cavalli a picchetti diversi e si guardavano con diffidenza, ma restavano lì. La salvezza del Drago Rinato era loro responsabilità, e prendevano sul serio questo dovere. Chiunque di loro avrebbe potuto tradirlo, ma non mentre gli altri lo guardavano. Odi antichi e nuovi dissapori avrebbero sventato qualsiasi piano di tradimento prima ancora che il traditore avesse finito di architettarlo.
Un anello di acciaio faceva la guardia alla tenda di Rand, un immenso padiglione a punta fatto di seta verde e tutto decorato con api in filo d’oro.
Era appartenuto al suo predecessore, Mattin Stepaneos, e gli era arrivato insieme alla corona, per così dire. I Compagni con gli elmi conici bruniti stavano fianco a fianco con i Difensori con gli elmi bordati e cinti da una cresta e coi Cairhienesi dagli elmi a forma di campana e tutti ignoravano il vento, i lineamenti nascosti dalle visiere a sbarre, le alabarde piegate tutte alla stessa angolazione. Nessuno si mosse quando Rand fece fermare il cavallo, ma uno stormo di servitori arrivò di corsa per occuparsi di lui e degli Asha’man. Una donna ossuta con la veste verde e gialla degli stallieri del palazzo reale di Illian gli prese le briglie, mentre a tenere la staffa c’era un tizio dal naso grosso con la livrea nera e dorata della Pietra di Tear. Lo salutarono con deferenza, e si scambiarono un’unica occhiata tagliente. Boreane Carivin, una donna bassa, pallida e tarchiata con addosso un vestito scuro, gli offrì con solennità un vassoio di panni umidi che fumavano vapore. Cairhienese, teneva d’occhio gli altri due, anche se lo faceva per assicurarsi che svolgessero degnamente i loro compiti e non con l’animosità che loro stentavano a celare. Ma anche lei mostrava una certa diffidenza.
Quello che funzionava coi soldati funzionava anche con la servitù.
Togliendosi i guanti, Rand rifiutò il vassoio di Boreane con un cenno della mano. Damer Flinn si era alzato da una panca decorata di incisioni davanti alla sua tenda quando lui era sceso da cavallo. Calvo a eccezione di un’irregolare frangia di capelli bianchi, Flinn sembrava più un nonno che un Asha’man. Un nonno coriaceo come cuoio e con una gamba rigida, che aveva visto il mondo ben al di là della sua fattoria. La spada al suo fianco sembrava naturale, ed era ovvio trattandosi di un ex soldato della Guardia della regina. Rand si fidava di lui più che di tanti altri. Dopo tutto, quell’uomo gli aveva salvato la vita.
Flinn lo salutò portandosi un pugno al petto, e quando Rand ricambiò con un cenno del capo zoppicò verso di lui e aspettò che gli stallieri andassero via con i cavalli prima di parlare a bassa voce. «C’è Torval. È stato mandato qui dal M’Hael, dice. Ha deciso di aspettarti nella tenda del consiglio. Ho chiesto a Narishma di tenerlo d’occhi.» Quello era stato un ordine di Rand, anche se non era sicuro del perché l’aveva dato: nessuno di quelli che venivano dalla Torre Nera doveva restare solo. Esitando, Flinn sfiorò con le dita il drago che portava sul colletto nero. «Non è stato felice di sapere che ci hai promossi tutti.»
«Ah, davvero?» disse piano Rand, infilandosi i guanti dietro il cinturone.
E poiché Flinn sembrava ancora incerto, aggiunse: «Ve lo siete meritato, uno per uno.» Aveva pensato di mandare un Asha’man per comunicarlo a Taim — il Condottiero, il M’Hael, come lo chiamavano gli Asha’man — ma adesso il messaggio poteva portarglielo Torval. Nella tenda del consiglio?
«Fai mandare dei rinfreschi» disse a Flinn, poi fece cenno a Hopwil e Dashiva perché lo seguissero.
Flinn ripeté il saluto, ma Rand si era già avviato, con gli stivali neri che sguazzavano nel fango. Nessuna acclamazione si levò per lui nel vento furioso. Eppure Rand ricordava un tempo in cui veniva accolto da urla di giubilo. Se non era una delle memorie di Lews Therin. Posto che Lews Therin fosse mai stato reale. Un lampo di colore appena fuori dalla visuale, la sensazione di qualcuno che stesse per sfiorarlo da dietro. Con uno sforzo, Rand si concentrò sul presente.
La tenda del consiglio era un padiglione largo a strisce rosse che un tempo sorgeva sulla Piana di Maredo e che adesso era al centro dell’accampamento di Rand, con intorno trenta passi di terreno spoglio. Non c’erano mai sentinelle lì, se non quando Rand si incontrava con i nobili. Chiunque avesse provato a infilarsi in quella tenda sarebbe stato visto immediatamente da un migliaio di occhi curiosi. Intorno al padiglione c’erano tre stendardi su alti sostegni disposti a triangolo, il sole nascente di Cairhien, le tre mezzelune di Tear e le api d’oro di Illian, e sul tetto cremisi del padiglione, più in alto di tutte le altre, spiccavano la bandiera del Drago e la bandiera della Luce. Il vento le teneva tese, le faceva ondeggiare e schioccare, e le pareti della tenda tremavano sotto le raffiche. Dentro, il pavimento era fatto di variopinti tappeti con le frange, e l’unico pezzo di arredamento era un tavolo immenso, con ricche dorature e incisioni. Un disordinato mucchio di mappe quasi ne nascondeva il ripiano.
Torval sollevò il capo dalle mappe, chiaramente pronto a far assaggiare il lato tagliente della sua lingua a chiunque aveva osato interromperlo.
Prossimo alla mezza età e più alto di tutti tranne Rand e gli Aiel, era solito fissare freddamente gli altri dall’alto di un naso appuntito che praticamente vibrava di indignazione. Le spille del drago e della spada splendevano sul suo colletto alla luce delle lampade appese ai loro alti sostegni. La giubba era in lucente seta nera, di taglio abbastanza elegante da poter appartenere a un lord. La spada vera e propria che portava in vita aveva incastonature dorate e sull’elsa scintillava una gemma rossa. Un’altra splendeva scura su un anello. Non era possibile addestrare degli uomini per trasformarli in armi senza aspettarsi un minimo di arroganza, eppure a Rand Torval non piaceva. Ma d’altronde non aveva certo bisogno della voce di Lews Therin per sospettare di qualsiasi uomo con la giubba nera. Fino a che punto si fidava anche di Flinn? Eppure doveva guidarli. Gli Asha’man erano una sua creazione, una sua responsabilità.
Quando Torval vide Rand, si raddrizzò con disinvoltura e lo salutò, ma la sua espressione cambiò ben poco. Aveva un’aria di derisione anche la prima volta che Rand l’aveva visto. «Mio lord Drago» disse con l’accento di Tarabon, e sembrava stesse dando il benvenuto a un suo pari. O che fosse gentile con un suo sottoposto. L’inchino arrogante si estese anche a Hopwil e Dashiva. «Mi congratulo per la conquista dell’Illian. Una grande vittoria, eh? Avrei potuto accoglierti con del vino, ma a quanto pare questo giovane... Dedicato... non capisce gli ordini.»
In un angolo, le campanelle d’argento alla fine delle due lunghe trecce scure di Narishma fecero un debole suono quando lui strusciò i piedi. Si era scurito molto sotto il sole meridionale, ma per altri versi non era affatto cambiato. Più adulto di Rand, il volto lo faceva sembrare più piccolo di Hopwil, ma il rosso che si accese sulle sue guance era dovuto alla rabbia non all’imbarazzo. L’orgoglio che provava per la spilla con la spada che si era appena conquistato era silenzioso ma profondo. Torval gli sorrise, un lento sorriso che era sia divertito che pericoloso. Dashiva rise, un breve latrato, poi rimase zitto e immobile.
«Che ci fai qui, Torval?» chiese rudemente Rand. Lanciò lo Scettro del Drago e i guanti sopra le mappe, poi anche il cinturone e la spada nel fodero atterrarono sulle mappe. Le mappe che Torval non aveva alcun motivo di studiare. Non c’era nessun bisogno della voce di Lews Therin.
Stringendosi nelle spalle, Torval estrasse una lettera da una tasca della giubba e la consegnò a Rand. «Il M’Hael, è lui che te la manda.» La carta era bianca come neve e spessa, per sigillo c’era un drago impresso in un grande ovale di cera blu che riluceva di scaglie dorate. La si poteva quasi scambiare per una lettera del Drago Rinato in persona. Taim aveva una grande opinione di sé stesso. «Il M’Hael mi ha chiesto di dirti che le storie sulle Aes Sedai che entrano nel Murandy con un esercito, ebbene, sono vere. A quanto pare si sono ribellate contro Tar Valon,» il sogghigno di Torval si gonfiò di incredulità «ma stanno marciando verso la Torre Nera. Tra breve potrebbero diventare un pericolo, no?»
Rand sbriciolò tra le dita il pomposo sigillo. «Stanno andando a Caemlyn, non verso la Torre Nera, e non sono una minaccia. I miei ordini erano chiari. Lasciate stare le Aes Sedai a meno che non siano loro ad attaccare.»
«Ma come fai a essere sicuro che non siano una minaccia?» insisté Torval. «Forse stanno andando a Caemlyn, come dici, ma se ti sbagli lo sapremo solo quando ci avranno già attaccati.»
«Torval potrebbe aver ragione» intervenne Dashiva con voce pensosa.
«Io non mi fiderei di donne che mi hanno messo in una cassa, e quelle non hanno nemmeno prestato giuramento. Oppure sì?»
«Ho detto di lasciarle stare!» Rand batté una mano sul tavolo, forte, e Hopwil saltò per la sorpresa. Dashiva si accigliò irritato prima di assumere in tutta fretta un’espressione più serena, ma a Rand non interessavano gli stati umorali di Dashiva. Per caso — era sicuro che fosse per caso — la mano gli era finita sullo Scettro del Drago. Il braccio gli tremava per il desiderio di impugnare quella lancia e conficcarla nel cuore di Torval. Non c’era davvero nessun bisogno di Lews Therin. «Gli Asha’man sono un’arma da puntare dove decido io, non devono svolazzare in giro come galline ogni volta che Taim si spaventa per una manciata di Aes Sedai che cenano nella stessa locanda. Se devo, tornerò indietro a chiarirmi meglio.»
«Sono sicuro che non sia necessario» disse subito Torval. Almeno qualcosa aveva spazzato via quella piega beffarda dalla sua bocca. Con gli occhi tesi, allargò le mani quasi con timidezza, come a chiedere scusa. E chiaramente spaventato. «Il M’Hael, lui voleva solo che tu fossi informato.
I tuoi ordini vengono letti a gran voce ogni giorno nelle Direttive del Mattino, dopo il Credo.»
«Va bene, allora.» Rand parò con voce fredda e riuscì a non accigliarsi solo con un grande sforzo. Torval aveva paura del suo prezioso M’Hael, non del Drago Rinato. Temeva che Taim potesse aversene a male se qualcosa che Torval aveva detto avesse scatenato contro di lui l’ira di Rand.
«Perché ucciderò chiunque di voi si avvicinerà a quelle donne nel Murandy. Voi colpite dove dico io. »
Torval fece un rigido inchino, mormorando: «Come desideri, mio lord Drago.» Snudò i denti in un tentativo di sorriso, ma era teso in volto e si sforzava di evitare gli sguardi di tutti gli altri senza però darlo a vedere.
Dashiva abbaiò un’altra risata e sul volto di Hopwil si disegnò un lieve sogghigno.
Narishma non stava godendo del disagio di Torval, però, né vi faceva caso. Guardava Rand senza sbattere le palpebre, come se riuscisse a percepire correnti profonde che agli altri sfuggivano. La maggior parte delle donne e non pochi uomini lo ritenevano solo un bel ragazzo, ma quegli occhi troppo grandi a volte parevano capire più di chiunque altro.
Rand tirò via la mano dallo Scettro del Drago e lisciò la lettera. Le dita non gli tremavano quasi per niente. Torval aveva un sorriso debole e amaro, e non si era accorto di niente. Appoggiato alla parete della tenda, Narishma cambiò posizione, rilassandosi.
I rinfreschi arrivarono in quel momento, portati da una sontuosa processione guidata da Boreane, una fila di Illianesi, Cairhienesi e Tarenesi con le loro diverse livree. Per ogni tipo di vino c’era un servitore con un vassoio e una brocca d’argento, più altri due con vassoi e boccali anch’essi d’argento per le bevande calde e speziate ed eleganti calici per il vino. Un uomo dal volto rosato con la livrea verde e gialla reggeva un piatto sul quale effettuare la mescita, e una donna scura di pelle con la livrea nera e dorata era lì appunto per versare dalle varie brocche. C’erano noci e frutta candita, formaggio e olive, e ognuno di questi alimenti aveva il suo apposito servitore. Sotto il comando di Boreane, uomini e donne fluirono in una danza formale, tra inchini e riverenze, facendo spazio uno all’altro mentre porgevano le loro offerte.
Dopo aver preso del vino speziato, Rand si issò sul bordo del tavolo e poggiò accanto a sé il boccale fumante ancora pieno per occuparsi della lettera. Non c’era indirizzo, nessun tipo di preambolo. Taim odiava rivolgersi a Rand con qualsiasi tipo di titolo onorifico, anche se cercava di nasconderlo.
Ho l’onore di riferire che ventinove Asha’man, novantasette Dedicati e trecentoventidue Soldati sono attualmente arruolati nella Torre Nera. C’è stata, purtroppo, una manciata di disertori, i cui nomi sono stati segnati, ma le perdite dovute all’addestramento rimangono accettabili.
Adesso ho almeno cinquanta squadre di reclutamento sul campo, col risultato che ogni giorno vengono aggiunti ai ranghi tre o quattro uomini. Tra pochi mesi la Torre Nera eguaglierà la Bianca, come avevo previsto. Entro un anno, a Tar Valon tremeranno per il nostro numero.
Mi sono occupato io stesso di quel cespuglio di more. Un rovo piccolo, e spinoso, ma il raccolto è stato sorprendentemente buono per quelle dimensioni.
Rand fece una smorfia e cancellò dalla propria mente il... cespuglio di more. Quello che era necessario andava fatto. Il mondo intero pagava un prezzo per la sua esistenza. Alla fine lui ne sarebbe morto, ma era il mondo intero a pagare.
C’erano altre cose per le quali fare smorfie, in ogni caso. Tre o quattro nuovi uomini al giorno? Taim era ottimista. Di quel passo entro pochi mesi gli uomini in grado di incanalare sarebbero stati più delle Aes Sedai, certo, ma anche la sorella più inesperta aveva anni di addestramento alle spalle. E parte di quell’addestramento le insegnava specificamente a vedersela con un uomo in grado di incanalare. Rand preferiva non pensare a un incontro tra Asha’man e Aes Sedai in cui entrambe le parti sapessero chi avevano di fronte: sangue e rimorsi potevano essere l’unico risultato possibile, qualsiasi cosa accadesse. Gli Asha’man non erano puntati contro la Torre Bianca, tuttavia, e non importava come la pensava Taim. Era comodo lasciare che altri lo credessero, però, se poteva servire a togliere sicurezza a Tar Valon.
Un Asha’man aveva bisogno solo di imparare a uccidere. Se ce n’erano abbastanza per farlo al posto giusto e nel momento giusto, se vivevano abbastanza per farlo, allora avrebbero esaudito lo scopo per cui erano stati creati.
«Quanti sono i disertori, Torval?» chiese Rand a voce bassa. Raccolse il boccale di vino e prese un sorso, come se la risposta fosse irrilevante. Il vino avrebbe dovuto essere corroborante, ma lo zenzero, il serrel dolce e il macis avevano un sapore amaro nella sua bocca. «E le perdite dovute all’addestramento?»
Torval si stava riprendendo ed era concentrato sui rinfreschi, si strofinava le mani e inarcava le sopracciglia per la scelta dei vini, dando mostra di conoscere i migliori, manifestando gran padronanza. Dashiva aveva accettato il primo vino che gli era stato offerto, e se ne stava a guardare torvo il calice dal gambo ritorto come se contenesse pastone per maiali. Puntando verso uno dei vassoi, Torval piegò la testa di lato con fare pensoso, ma aveva già la risposta pronta. «Diciannove disertori, finora. Il M’Hael, lui ci ha ordinato di ucciderli appena li troviamo e di riportare indietro la testa come esempio.» Dopo aver preso uno spicchio di pera glassata dal vassoio che gli veniva porto, se lo infilò in bocca e fece un sorriso brillante. «In questo momento, tre teste pendono come frutti sull’Albero del Traditore.»
«Bene» disse Rand senza alcuna inflessione. Gli uomini che fuggivano adesso potevano farlo anche in seguito, quando dal loro comportamento sarebbero dipese le vite degli altri. E a questi uomini non poteva esser concesso di andare per la loro strada; se quei tizi sulle colline fossero fuggiti tutti insieme sarebbero comunque stati meno pericolosi di un solo uomo addestrato alla Torre Nera. L’Albero del Traditore? Taim era davvero portato per dare nomi alle cose. Ma gli uomini avevano bisogno di simboli e nomi, spille e giubbe nere, per restare insieme. Finché non fosse giunto per loro il tempo di morire. «La prossima volta che vengo in visita alla Torre Nera, voglio vedere le teste di tutti i disertori.»
Un secondo pezzo di pera, a metà strada dalla bocca di Torval, cadde dalle sue dita e macchiò il davanti della bella giubba. «Quel tipo di sforzo potrebbe interferire col reclutamento» disse lentamente Torval. «I disertori non è che si denunciano da soli.»
Rand lo guardò fisso finché l’altro non chinò il capo. «Quante sono le perdite dovute all’addestramento?» chiese poi. L’Asha’man dal naso appuntito esitò. «Quante?»
Narishma si sporse in avanti, fissando Torval. E lo stesso fece Hopwil. I servitori continuavano la loro danza silenziosa ed elegante, porgendo vassoi a uomini che neanche li vedevano più. Boreane approfittò della preoccupazione di Narishma per accertarsi che il suo boccale contenesse più acqua calda che vino speziato.
Torval si strinse nelle spalle, con troppa disinvoltura. «Cinquantuno, in tutto. Tredici con la capacità di incanalare ormai bruciata, e ventotto morti sul posto. Gli altri... Il M’Hael, lui aggiunge qualcosa al loro vino e così non si svegliano più.» A un tratto il suo tono divenne malevolo. «Può succedere all’improvviso, in qualsiasi momento. Un uomo cominciò a urlare che i ragni gli strisciavano sotto la pelle già al secondo giorno di addestramento.» Rivolse un sorriso crudele a Narishma e a Hopwil, e quasi lo estese a Rand, ma fu agli altri due che parlò, spostando lo sguardo da uno all’altro. «Capite? Non dovete più preoccuparvi di scivolare nella follia.
Non farete male a voi stessi né ad anima viva. Andate a dormire... per sempre. È più gentile che essere domati, se anche sapessimo come farlo.
Più gentile che lasciarvi pazzi e tagliati fuori dalla Fonte, no?» Narishma ricambiò lo sguardo, teso come una corda d’arpa, il boccale dimenticato tra le mani. Hopwil aveva ripreso a fissare accigliato qualcosa che solo lui poteva vedere.
«Più gentile» disse Rand con voce piatta, posando di nuovo il boccale sul tavolo accanto a sé. Qualcosa nel vino. La mia anima è nera di sangue, e dannata. Non era un pensiero duro, né spigoloso o tagliente: una semplice constatazione. «Una grazia che ogni uomo dovrebbe augurarsi, Torval.»
Il sorriso malvagio svanì dal volto di Torval, che rimase col fiato mozzato. I calcoli erano semplici: un uomo su dieci distrutto, uno su cinquanta pazzo, e altri che ancora arrivavano. Era solo l’inizio, e prima di morire non c’era modo di sapere se avevi superato le probabilità. Solo che alla fine, in un modo o nell’altro, le probabilità avrebbero superato te. Se non altro, anche Torval era esposto a quella stessa minaccia.
A un tratto Rand divenne consapevole di Boreane. Gli ci volle un istante prima di riconoscere l’espressione sul suo volto, e poi dovette trattenersi per non parlarle con freddezza. Come osava provare pietà! Pensava che a Tarmon Gai’don si potesse vincere senza spargimenti di sangue? Le Profezie del Drago esigevano che il sangue piovesse!
«Lasciaci soli» le disse, e lei chiamò silenziosamente a sé i servitori. Ma aveva ancora quell’aria di compassione quando li guidò fuori dalla tenda.
Guardandosi intorno alla ricerca di qualcosa che gli facesse cambiare umore, Rand non trovò nulla. La pietà rendeva deboli quanto la paura, e loro dovevano essere forti. Per affrontare ciò che li aspettava, dovevano diventare tutti d’acciaio. La sua creazione, la sua responsabilità.
Perso nei propri pensieri, Narishma scrutava nel vapore che saliva dal suo vino, e Hopwil sembrava ancora intento a guardare attraverso la parete della tenda. Torval lanciava occhiate furtive a Rand e cercava di far tornare la piega sprezzante sulla sua bocca. Solo Dashiva pareva indifferente, e se ne stava a braccia conserte a studiare Torval come fosse un cavallo in vendita.
In quel silenzio che si protraeva dolorosamente arrivò di corsa un ragazzo robusto e frustato dal vento, vestito di nero e con la spada e il drago sul colletto. Della stessa età di Hopwil, non ancora abbastanza adulto per potersi sposare nella maggior parte delle città, Fedwin Morr aveva addosso un’aria di intensità che si teneva più stretta della sua camicia; camminava in punta di piedi, e aveva gli occhi di un gatto a caccia che sapeva però di essere a sua volta cacciato. Era stato diverso, in passato, non molto tempo addietro. «Presto i Seanchan si sposteranno da Ebou Dar» disse mentre faceva il saluto. «Hanno intenzione di muoversi contro l’Illian.» Hopwil trasalì ansimando, strappato via dai suoi foschi pensieri. Ancora una volta, la reazione di Dashiva fu una risata, questa volta priva di allegria.
Annuendo, Rand raccolse lo Scettro del Drago. Dopo tutto, lo portava per ricordo. I Seanchan danzavano seguendo la loro melodia, non la canzone che lui avrebbe voluto imporre.
Se Rand aveva accolto in silenzio quella notizia, lo stesso non fu per Torval. Dopo aver ritrovato il suo sogghigno, inarcò sprezzante un sopracciglio. «Te le hanno raccontate loro tutte queste cose, vero?» chiese con fare derisorio. «O hai imparato a leggere nel pensiero? Lascia che ti dica una cosa, ragazzo. Io ho combattuto, sia contro l’Amadicia che contro l’Arad Doman, e nessun esercito prende una città per poi fare armi e bagagli, pronto a marciare per un migliaio di chilometri! Più di un migliaio! O credi che possano Viaggiare?»
Morr reagì con calma al sarcasmo di Torval. O, se ne era stato disturbato, l’unico modo in cui lo diede a vedere fu passando il pollice lungo l’elsa della sua spada. «Ho parlato con alcuni di loro. Per lo più erano Tarabonesi, e altri arrivano via nave ogni giorno, o quasi.» Passando accanto a Torval diretto verso il tavolo, rivolse al Tarabonese uno sguardo inespressivo.
«Tutti scattano sull’attenti non appena qualcuno con l’accento strascicato apre bocca.» Torval aprì la sua, infuriato, ma Morr proseguì in fretta, rivolto a Rand. «Stanno disponendo i soldati lungo i Monti Venir. Cinquecento, o anche mille per volta. Sono già arrivati fino a Capo Arran. E comprano o prendono tutti i carri che trovano nel raggio di una ventina di leghe da Ebou Dar, compresi gli animali per trainarli.»
«Carri!» esclamò Torval. «Calessi! Non è che vogliono tenere una bella fiera, per caso? E quale idiota farebbe marciare un esercito tra le montagne quando può usare delle strade più che buone?» Si accorse che Rand lo stava osservando, e si interruppe accigliandosi lievemente, all’improvviso non più così sicuro.
«Ti avevo chiesto di restare nascosto, Morr.» Rand lasciò che la rabbia trasparisse dalla sua voce. Il giovane Asha’man dovette arretrare quando lui balzò giù dal tavolo. «Non di andare a interrogare i Seanchan sui loro piani. Dovevi osservare e restare nascosto.»
«Sono stato attento; non indossavo le spille.» Gli occhi di Morr non cambiarono al cospetto di quelli di Rand, sempre predatore e preda insieme. Sembrava che ribollisse dall’interno. Se non avesse visto chiaramente che non era così, Rand avrebbe creduto che il ragazzo stava afferrando il Potere, e si sforzava di sopravvivere a saidin anche mentre ne riceveva una vitalità dieci volte maggiore di quella normale. Sembrava quasi che dovesse sudare. «Se qualcuno degli uomini coi quali ho parlato sapeva dove sono diretti non me l’ha detto, né io l’ho chiesto, ma con un boccale di birra in mano erano tutti pronti a lamentarsi per le marce continue senza alcuna sosta. A Ebou Dar, stavano prosciugando tutta la birra della città quanto più in fretta possibile, perché avevano saputo di dover riprendere a marciare. E raccoglievano i carri, come ho detto.» Venne fuori tutto d’un fiato, e Morr chiuse di scatto la bocca alla fine, come a stringere tra i denti altre parole che volevano volar via dalla sua lingua.
All’improvviso sorridente, Rand gli diede una pacca su una spalla. «Hai fatto un buon lavoro. Sapere dei carri sarebbe stato sufficiente, ma hai fatto un buon lavoro. I carri sono importanti» aggiunse, girandosi verso Torval.
«Se un esercito trae le sue risorse dal paese che attraversa, mangia ciò che trova. O non mangia, quando non trova niente.» Torval non aveva battuto ciglio sentendo parlare dei Seanchan a Ebou Dar. Se la notizia era già arrivata alla Torre Nera, perché Taim non gliene aveva accennato? Rand si augurò che il suo sorriso non sembrasse un ringhio. «Organizzare delle carovane di provviste è più difficile, ma ci si assicura che ci sia foraggio per gli animali e cibo per gli uomini. I Seanchan organizzano sempre tutto.»
Rovistando tra le mappe, trovò quella che gli serviva e la spianò, fermandola da una parte con la sua spada e dall’altra con lo Scettro del Drago.
La costa tra l’Illian ed Ebou Dar lo salutò dalla mappa, bordata per quasi tutta la sua lunghezza da colline e montagne, punteggiata da villaggi di pescatori e piccoli paesi. I Seanchan erano davvero organizzati. Avevano preso Ebou Dar da poco più di una settimana, ma gli occhi e le orecchie dei mercanti scrivevano che già erano cominciati i lavori per riparare i danni causati alla città durante la cattura, scrivevano di linde case di cura organizzate per i malati, di cibo e lavoro distribuiti ai poveri e a chi aveva lasciato casa per i problemi nell’entroterra. Le strade e la campagna intorno alla città erano pattugliate, così nessuno doveva preoccuparsi per banditi e tagliaborse, di notte o di giorno, e mentre i mercanti erano i benvenuti il contrabbando era stato ridotto al minimo quando non del tutto debellato.
Cosa che aveva sorprendentemente rattristato gli onesti mercanti illianesi.
Cosa stavano organizzando adesso i Seanchan?
Gli altri si raccolsero intorno al tavolo mentre Rand scrutava la mappa.
C’erano poche vie lungo la costa, misere stradine segnate più o meno come i percorsi per i carri. Le grandi vie del commercio erano tutte nell’entroterra, per evitare i terreni peggiori e le peggiori sorprese che il Mare delle Tempeste poteva offrire. «Da quelle montagne gli uomini possono rendere la vita difficile a chiunque provi a usare le strade dell’entroterra» disse infine Rand. «Controllando le montagne, rendono le vie sicure come quelle della città. Hai ragione, Morr. Stanno per arrivare in Illian.»
Poggiandosi sui pugni, Torval guardò in cagnesco Morr, che aveva avuto ragione dove lui aveva avuto torto. Un peccato grave, forse, secondo il suo giudizio. «Ciò nonostante, passeranno settimane prima che possano venire a infastidirti fin qui» disse con astio. «Un centinaio, cinquanta Asha’man piazzati a Illian potrebbero distruggere qualsiasi esercito di questo mondo prima che anche un sol uomo attraversi i cancelli della città.»
«Dubito che un esercito di damane sia facile da sconfiggere come degli Aiel lanciati all’attacco e colti di sorpresa» disse piano Rand, e Torval si irrigidì. «Inoltre, io devo difendere tutto l’Illian, non solo la capitale.»
Ignorando Torval, Rand tracciò con un dito delle linee lungo la mappa.
Tra Capo Arran e la città di Illian c’erano un centinaio di leghe d’acqua, attraverso la bocca della Fossa di Kabal, dove i capitani delle navi Illianesi dicevano che le sonde non raggiungevano il fondo ad appena un paio di chilometri dalla spiaggia. Le onde in quel tratto potevano capovolgere navi intere prima di spingersi verso nord e abbattersi sulla costa con frangenti alti fino a cinque metri. E con quel clima le condizioni sarebbero state anche peggiori. Aggirando la Fossa, bisognava marciare per duecento leghe prima di arrivare in città, anche scegliendo la via più corta, ma se i Seanchan si spingevano da Capo Arran potevano raggiungere il confine in due settimane nonostante le tempeste. Forse anche in meno tempo. Era meglio che fosse lui, e non loro, a scegliere dove combattere. Il dito scivolò lungo la costa meridionale dell’Altara, lungo la catena del Venir, fin dove le montagne non si riducevano a colline, prima di Ebou Dar. Cinquecento, anche mille soldati per volta. Un allettante filo di perle lasciato tra le montagne. Un bel colpo secco li avrebbe rispediti tutti a Ebou Dar, o poteva persino incastrarli tra quei monti mentre ancora cercavano di capire cosa lui avesse in mente. Oppure...
«C’è dell’altro» disse a un tratto Morr, di nuovo tutto d’un fiato. «Ho sentito parlare di una qualche arma delle Aes Sedai. Ho trovato il posto in cui era stata usata, pochi chilometri dalla città. Il terreno era tutto bruciato, completamente spoglio al centro per un diametro di almeno trecento passi, e i frutteti tutto intorno erano distrutti. La sabbia si era fusa in lastre di vetro. Saidin era peggio, laggiù.»
Torval congedò le sue parole con il cenno di una mano. «Forse c’erano delle Aes Sedai nei paraggi quando la città è caduta, no? O forse sono stati gli stessi Seanchan. Una sorella con un angreal potrebbe...»
Rand lo interruppe. «Che significa che saidin era peggio laggiù?» Dashiva si mosse, guardando Morr in modo strano, si sporse come a volerlo afferrare. Rand lo respinse bruscamente. «Che significa, Morr?»
Morr sgranò gli occhi, serrò forte le labbra, continuando a passare il pollice lungo l’elsa della sua spada. Il caldo che ribolliva dentro di lui sembrava pronto a esplodere. E adesso il suo volto era davvero imperlato di sudore. «Saidin era... strano» disse con voce roca. Le parole vennero fuori in rapidi scoppi. «Laggiù era peggio — riuscivo a... sentirlo... nell’aria tutto intorno — ma era strano ovunque nei pressi di Ebou Dar. E anche a un centinaio di chilometri di distanza. Ho dovuto combatterlo; non come sempre; era diverso. Come se fosse vivo. A volte... A volte non faceva quello che volevo io. A volte... faceva altre cose. È vero. Non sono pazzo! È vero!» Il vento soffiò forte, ululando per un istante, facendo tremare e schioccare le pareti della tenda, e Morr si zittì. Le campanelline di Narishma trillarono quando lui mosse di scatto la testa, poi si fermarono.
«Questo è impossibile» mormorò Dashiva nel silenzio, ma quasi parlando tra sé. «Non è possibile.»
«Chi può dire cosa è possibile?» ribatté Rand. «Io no! E tu?» Dashiva alzò la testa, sorpreso, ma Rand si rivolse a Morr, moderando il tono.
«Non ti preoccupare, amico.» Non un tono pacato — questo non gli sarebbe riuscito — ma almeno rassicurante, o così si augurò lui. Una sua creatura, una sua responsabilità. «Sarai con me nell’Ultima Battaglia. Te lo prometto.»
Il ragazzo annuì e si grattò il volto con una mano quasi meravigliato di trovarlo umido, ma guardò Torval, che se ne stava zitto e immobile come una statua. Morr sapeva del vino? Era davvero una grazia, considerando le alternative. Una grazia piccola e amara.
Rand riprese la lettera di Taim, piegò il foglio e se lo infilò in una tasca della giubba. Uno su cinque già impazziti, e altri ancora da venire. Morr era il prossimo? Dashiva ci andava sicuramente vicino. Gli sguardi fissi di Hopwil avevano assunto un nuovo significato, e anche il consueto silenzio di Narishma. Essere pazzo non significava sempre urlare e vedere i ragni.
Un tempo Rand aveva chiesto, con cautela e sapendo che la risposta sarebbe stata veritiera, come ripulire saidin dalla contaminazione. E per risposta aveva ricevuto un indovinello. Herid Fel aveva dichiarato che l’indovinello recitava «sani principi, sia dell’alta filosofia che della filosofia naturale», ma non aveva trovato alcun modo per applicarlo al problema concreto.
Possibile che Fel fosse stato ucciso perché avrebbe potuto risolvere l’indovinello? Rand aveva un’indicazione per la risposta, o pensava di averla, un azzardo che poteva essere disastrosamente sbagliato. Indicazioni e indovinelli non erano risposte, ma lui doveva fare qualcosa. Se non trovava il modo di eliminare la contaminazione, Tarmon Gai’don rischiava di svolgersi in un mondo già devastato dai pazzi. Bisognava fare ciò che era necessario.
«Sarebbe meraviglioso,» disse Torval quasi in un sussurro «ma chi potrebbe riuscirci se non il Creatore o...» Si zittì, a disagio.
Rand non si era reso conto di aver espresso a voce i propri pensieri. Gli occhi di Narishma, quelli di Morr e quelli di Hopwil erano identici, tutti accesi di un’improvvisa speranza. Dashiva sembrava stecchito. Rand si augurò di non aver detto troppo. Alcuni segreti dovevano restare tali. Inclusa la sua prossima mossa.
Poco tempo dopo, Hopwil correva verso il suo cavallo per andare sul crinale con ordini per i nobili, Morr e Dashiva cercavano Flinn e gli altri Asha’man e Torval se ne era andato per Viaggiare verso la Torre Nera con le disposizioni di Rand per Taim. Narishma fu l’ultimo, e pensando ad Aes Sedai, Seanchan e armi, Rand mandò via anche lui, con istruzioni accurate che fecero tendere la bocca del ragazzo.
«Non parlare con nessuno» concluse Rand a bassa voce, stringendo forte il braccio di Narishma. «E non fallire. Non ti permettere di fallire.»
«Non fallirò» rispose Narishma, senza batter ciglio. Fece un rapido saluto, poi andò via anche lui.
Pericoloso, sussurrò una voce nella testa di Rand. Oh, sì, molto pericoloso, forse troppo pericoloso. Ma potrebbe funzionare; potrebbe. In ogni caso, ora devi uccidere Torval. Devi.
Weiramon entrò nella tenda del consiglio, spingendo a spallate Gregorin e Tolmeran e cercando di spingere a spallate anche Rosana e Semaradrid, tutti ansiosi di dire a Rand che gli uomini nel bosco avevano preso la decisione giusta, dopo tutto. Lo trovarono a ridere finché le lacrime non gli scivolarono lungo il viso. Lews Therin era tornato. Oppure davvero lui era già pazzo. In entrambi i casi, c’era da ridere.