Robert Jordan Il sentiero dei pugnali

A Harriet,

la mia luce, la mia vita, il mio cuore,

per sempre.

Chi vuol banchettare con il potente deve inerpicarsi sul sentiero dei pugnali.

Annotazione anonima trovata a margine di una cronistoria

(forse risalente all’epoca di Artur Hawkwing)

degli ultimi giorni del Conclave di Tovan

Quando si sale in alto, tutti i sentieri sono lastricati di pugnali.

Vecchio proverbio seanchan

Prologo Apparenze ingannevoli

Ethenielle aveva visto montagne più basse di queste Colline Nere, il cui nome insincero nascondeva grandi cumuli di massi quasi sepolti, tra i quali si disegnavano ragnatele di sentieri ripidi e contorti. Molti di quei valichi avrebbero fermato persino una capra. Si poteva viaggiare per giorni attraverso boschi segnati dalla siccità e prati d’erba marrone senza incontrare alcun segno di abitazioni umane, per poi trovarsi all’improvviso circondati da sette o otto piccoli villaggi, tutti ignari di ciò che accadeva nel mondo.

Le Colline Nere erano un posto duro abitato da contadini, lontano dalle vie mercantili, un posto diventato ormai ancor più aspro del solito.

Uno scheletrico leopardo, che sarebbe dovuto scomparire alla vista di un uomo, se ne stava in cima a un pendio scosceso e osservava da meno di quaranta passi la donna che cavalcava insieme alla sua scorta di soldati in armatura. A ovest, gli avvoltoi volavano in cerchio disegnando nell’aria un cupo presagio. Nemmeno una nuvola oscurava il sole rosso sangue, eppure il cielo non era del tutto terso. Il vento caldo sollevava muraglie di polvere.

Scortata da cinquanta dei suoi uomini migliori, Ethenielle viaggiava senza preoccupazioni, e senza fretta. A differenza di Surasa, la sua antenata quasi leggendaria, lei non si illudeva che il clima avrebbe esaudito i suoi desideri solo perché sedeva sul Trono delle Nuvole. Riguardo alla fretta...

Con scambi di lettere, messaggi astutamente cifrati e sorvegliati con cura, avevano concordato un ordine di marcia che teneva conto del loro bisogno di viaggiare senza attirare attenzione. Un compito niente affatto facile. Alcuni lo avevano creduto impossibile.

Accigliata, Ethenielle rifletté sulla fortuna che le aveva permesso di arrivare così lontano senza dover uccidere nessuno, evitando villaggi che, pur essendo come escrementi di mosca sulle mappe, causavano una deviazione che allungava il cammino di intere giornate. I pochi stedding ogier non costituivano un problema. Gli Ogier avevano sempre prestato poca attenzione a quanto succedeva tra gli umani, e ormai se ne disinteressavano quasi del tutto, ma i villaggi... Erano troppo piccoli perché potessero esserci gli occhi e le orecchie della Torre Bianca, o di quell’individuo che dichiarava di essere il Drago Rinato — e forse lo era davvero; Ethenielle non sapeva decidere quale delle due ipotesi fosse la peggiore —, ma i venditori ambulanti passavano anche nei paesi più insignificanti. E trasportavano, insieme alle loro merci, un carico di pettegolezzi, parlavano con persone che a loro volta parlavano con altre persone, e voci e dicerie scorrevano come un fiume dalle mille diramazioni attraverso e oltre le Colline Nere. Con poche parole, un singolo pastore sfuggito alla sua attenzione poteva accendere un fuoco di segnalazione visibile a cinquecento leghe di distanza. Un fuoco di segnalazione che avrebbe incendiato boschi e pianure. E città, forse. Nazioni.

«Ho preso la decisione giusta, Serailla?» Contrariata da sé stessa, Ethenielle fece una smorfia. Forse non era più una ragazza, ma evidentemente quei pochi capelli grigi non la rendevano abbastanza adulta da evitare di lasciare la lingua a briglie sciolte. La decisione era stata presa. Tuttavia, la questione le si era fissata nella mente. In realtà, lei non si sentiva così spensierata come avrebbe voluto, e la Luce sapeva quanto ciò era vero.

La Prima Consigliera di Ethenielle guidò la sua giumenta grigia accanto all’elegante castrato nero della regina. Viso rotondo e placido e occhi pensosi, lady Serailla poteva essere scambiata per una contadina ficcata a forza negli abiti di una nobile, ma la mente che si celava dietro quei semplici lineamenti madidi di sudore era acuta quanto quella delle Aes Sedai. «Le alternative comportavano rischi solo diversi, non minori» disse con calma.

Robusta, eppure capace di sedere in sella con la stessa grazia che mostrava danzando, Serailla era sempre tranquilla. Non viscida o falsa, ma imperturbabile nel modo più assoluto. «Quale che sia la verità, a quanto pare la Torre Bianca è paralizzata oltre che divisa, maestà. Avresti potuto sederti a guardare la Macchia mentre il mondo cadeva a pezzi alle tue spalle. Avresti potuto, se fossi stata un’altra donna.»

Il semplice bisogno di agire. Era questo il motivo per cui si era spinta laggiù? Be’, se la Torre Bianca non voleva o poteva fare ciò che era necessario, allora questo compito toccava a qualcun altro. Che senso aveva fare la guardia contro la Macchia se poi il mondo cadeva a pezzi alle sue spalle?

Ethenielle guardò l’uomo magro che cavalcava con lei, dall’altro lato, con le striature di bianco sulle tempie che gli davano un’aria altera, la Spada di Kirukan nel suo fodero decorato poggiata nella piega di un braccio.

O almeno ‘Spada di Kirukan’ era il nome di quell’arma, ed era probabile che la mitica regina guerriera di Aramaelle l’avesse brandita. La lama era antica, e alcuni dicevano fosse stata costruita con l’uso del Potere. L’elsa a due mani era rivolta verso di lei, come esigeva la tradizione, ma Ethenielle non era propensa a usare la spada come erano soliti fare gli esagitati abitanti della Saldea. Una regina doveva ragionare, guidare e comandare, cose in cui nessuno poteva riuscire se al contempo era costretto a cercare di fare ciò che qualsiasi soldato del suo esercito avrebbe fatto assai meglio. «E tu, Portatore della Spada?» chiese. «Hai qualche rimorso dell’ultima ora?»

Lord Baldhere si girò nella sua sella lavorata in oro per guardare gli stendardi portati dai cavalieri dietro di loro, avvolti in cuoio conciato e velluto ricamato. «Non mi piace nascondere chi sono, Maestà» disse sdegnoso, tornando a voltarsi in avanti. «Il mondo ci conoscerà ben presto, e saprà ciò che abbiamo fatto. O almeno ciò che abbiamo provato a fare. Moriremo o entreremo nella storia, o entrambe le cose, quindi tanto varrebbe lasciare dei nomi perché li scrivano.» La lingua di Baldhere poteva colpire come una frusta, e il nobile fingeva di essere interessato alla musica e ai propri abiti più che a ogni altra cosa — l’elegante giubba blu era la terza che indossava quel giorno — ma, come in Serailla, in lui l’apparenza era ingannevole. Il Portatore della Spada per il Trono delle Nuvole aveva delle responsabilità ben più pesanti di quella spada nel suo fodero tempestato di gioielli. Sin dalla morte del marito di Ethenielle, circa venti anni addietro, Baldhere comandava sul campo gli eserciti di Kandor per lei, e i soldati lo avrebbero quasi tutti seguito fino a Shayol Ghul. Era considerato un grande condottiero, ma sapeva quando combattere e quando no, ed era un vincente.

«Il luogo dell’incontro deve essere poco più avanti» disse all’improvviso Serailla, nello stesso momento in cui Ethenielle vide l’esploratore mandato avanti da Baldhere, un uomo scaltro di nome Lomas che portava una testa di volpe sull’elmo. L’uomo si era fermato nel punto più alto del valico che li attendeva. Con la lancia di traverso, eseguì il cenno del braccio per indicare ‘punto di ritrovo in vista’.

Baldhere fece girare il suo castrato dal torace possente e urlò alla scorta l’ordine di fermarsi — sapeva anche urlare, quando voleva. Poi spronò il baio per raggiungere Serailla e la regina. L’incontro si sarebbe svolto con degli alleati di vecchia data, ma quando passarono accanto a Lomas, Baldhere rivolse all’uomo dal volto scarno un brusco ordine: «Osserva e riferisci.»

Se qualcosa fosse andata storta, Lomas avrebbe fatto segno alla scorta di avanzare e portare in salvo la regina.

Ethenielle emise un debole sospiro quando Serailla annuì la propria approvazione per quel comando. Alleati di vecchia data, eppure in quei tempi i sospetti si accumulavano come mosche su un mucchio di letame. E quello che stavano per fare avrebbe rimestato il mucchio facendo alzare in volo tutte le mosche. Troppi regnanti al Sud erano morti o svaniti negli ultimi anni perché lei potesse sentirsi a suo agio con la corona in testa. Troppe terre erano state devastate come se ci fosse passata un’orda di Trolloc.

Chiunque fosse, questo al’Thor aveva molto di cui rispondere. Molto.

Superato Lomas, il passo si apriva in una conca poco profonda e troppo piccola per meritare il nome di valle, con alberi troppo radi per poterla chiamare boschetto. Le ericacee, gli abeti blu e i pini mostravano un po’ di verde, insieme a qualche quercia, ma gli altri alberi erano tutti coperti di foglie marroni, quando non avevano i rami spogli. A sud, comunque, c’era ciò che rendeva quel luogo un ottimo scenario per l’incontro. Un pinnacolo slanciato, come una colonna di merletto dorato e lucente, messo di sbieco e in parte sepolto nella nuda collina, eppure proteso per più di settanta passi al di sopra delle cime degli alberi. Tutti i bambini delle Colline Nere grandi abbastanza da potersi allontanare dalle gonne delle madri conoscevano quel pilastro, ma li intorno non c’erano villaggi a meno di quattro giorni di viaggio, e nessuno si sarebbe avvicinato a meno di quindici chilometri. Le storie che si raccontavano su quel luogo parlavano di folli visioni, morti che camminavano e la fine eterna per chiunque toccasse la colonna.

Ethenielle non si considerava una donna impressionabile, eppure si scoprì a rabbrividire. Nianh le aveva detto che quella spira risaliva all’Epoca Leggendaria, ed era innocua. Con un po’ di fortuna, l’Aes Sedai non aveva motivo di ricordarsi di quella loro vecchia conversazione. In ogni caso, era un peccato che davvero non fosse possibile far resuscitare i morti, in quel luogo. Secondo la leggenda, Kirukan aveva decapitato un falso Drago a mani nude, e generato due figli con un altro uomo in grado di incanalare.

O forse si trattava di quello stesso falso Drago. Di sicuro quella donna avrebbe saputo come perseguire i loro obiettivi e restare in vita.

Come previsto, i primi due tra coloro che Ethenielle era venuta a incontrare erano lì in attesa, con quattro accompagnatori, due per lato. Paitar Nachiman aveva più rughe in viso rispetto all’uomo dalla sconvolgente bellezza che lei aveva ammirato da ragazzina, e gli restavano anche assai meno capelli, la maggior parte dei quali grigi. Per fortuna aveva smesso di seguire la moda dell’Arafel, rinunciando alle trecce, a favore di un taglio più corto. Ma sedeva ancora dritto in sella, e non aveva bisogno di spalline per tendere la seta ricamata della giubba; Ethenielle era inoltre sicura che l’uomo sapesse ancora maneggiare la spada che portava in vita con forza e abilità. Easar Togita, il volto squadrato e il capo rasato a eccezione di un codino bianco sulla sommità, era un po’ più basso del re dell’Arafel, e più magro, eppure al suo cospetto Paitar sembrava quasi delicato. Easar, Shienarese, non aveva un’espressione dura — casomai, i suoi occhi sembravano avere un’aria di permanente tristezza — ma pareva fatto dello stesso materiale della lunga spada che portava dietro la schiena. Ethenielle si fidava di entrambi, e sperava che i legami di parentela dessero ulteriore stabilità a quella fiducia. Da sempre le alleanze stipulate tramite matrimoni tenevano insieme le Marche di Confine almeno quanto lo faceva la guerra contro la Macchia, e lei aveva una figlia sposata col terzogenito di Easar, e un figlio sposato con la nipote preferita di Paitar, nonché un fratello e due sorelle che avevano trovato i rispettivi consorti tra le casate dei due uomini che in quel momento erano di fronte a lei.

I quattro accompagnatori erano tra loro diversi quanto lo erano i loro sovrani. Come sempre, Ishigari Terasian sembrava appena emerso dai postumi di un banchetto particolarmente alcolico, l’uomo più grasso che lei avesse mai visto in sella a un cavallo, con l’elegante giubba rossa tutta spiegazzata, gli occhi arrossati, la barba mal rasata. Kyril Shianri era l’esatto opposto, alto e magro, elegante quasi quanto Baldhere nonostante il sudore e la polvere sul viso, con campanelline d’argento sui risvolti degli stivali, sui guanti e nelle trecce; aveva la solita espressione insoddisfatta, e un modo tutto suo di guardare con freddezza dall’alto del suo naso sporgente tutti tranne Paitar. Per molti versi, Shianri era davvero un idiota — i re dell’Arafel non davano quasi mai retta ai loro consiglieri, affidandosi piuttosto alle regine — ma in lui c’era qualcosa che andava al di là delle apparenze. Agelmar Jagad sembrava una versione più grossa dello stesso Easar, vestito con abiti semplici e fatto di roccia e acciaio, con più armi appese addosso di quante ne portava Baldhere, una promessa di morte istantanea pronta ad avverarsi, mentre Alesune Chulin era magra laddove Serailla era robusta, graziosa dove l’altra era ordinaria, e ardente quanto Serailla pareva serena. Alesune sembrava nata per indossare quelle eleganti gonne azzurre.

Ma era bene ricordarsi che anche giudicare Serailla dalle apparenza era un grave errore.

«La Pace e la Luce ti favoriscano, Ethenielle di Kandor» la salutò con voce roca Easar quando lei fermò il cavallo davanti a loro, e nello stesso tempo Paitar intonò: «La Luce ti abbracci, Ethenielle di Kandor.» Aveva ancora una voce in grado di far accelerare il cuore di una donna. E una moglie che sapeva di averlo solo per sé, da capo a piedi; Ethenielle dubitava che Menuki avesse mai vissuto un istante di gelosia, o che avesse mai avuto motivi per provarne.

Anche lei limitò all’essenziale i saluti, esordendo con: «Spero che siate arrivati fin qui senza che nessuno vi notasse.»

Easar sbuffò e si spinse indietro sulla sella, guardandola con espressione cupa. Un uomo duro, ma ancora in lutto per la morte di sua moglie, undici anni addietro. Le apparenze erano sempre ingannevoli. «Se ci hanno visti, Ethenielle,» borbottò lo Shienarese «tanto vale andar via subito.»

«Parli già di andar via?» Con il tono della voce e uno scatto delle redini decorate, Shianri riuscì a mischiare al disprezzo una quantità di educazione appena sufficiente a non trasformare quella domanda in una sfida. Ciò nonostante, Agelmar lo studiò con freddezza, spostandosi appena sulla sella, come a voler ricordare a sé stesso la posizione di ogni sua singola arma.

Vecchi alleati di tante battaglie nella Macchia, ma presi dal vortice di quei nuovi sospetti.

Alesune fece danzare la sua cavalcatura, una giumenta grigia alta quanto un cavallo da guerra. Le sottili striature bianche nei suoi capelli parvero all’improvviso le creste di un elmo, e guardandola negli occhi era facile dimenticare che le donne dello Shienar non venivano addestrate all’uso delle armi né si battevano in duello. Il suo titolo era semplicemente ‘shata-yan della fortezza reale’, ma chiunque credeva che i compiti di una shata-yan fossero limitati al comandare cuochi, sguatteri e fornitori si sbagliava di grosso. «L’avventatezza non è sinonimo di coraggio, lord Shianri. Abbiamo lasciato la Macchia praticamente senza sentinelle, e se falliamo, o forse addirittura anche se abbiamo successo, alcuni di noi potrebbero finire con la testa su una picca. Magari tutti noi. Potrebbe occuparsene la Torre Bianca, se prima non ci pensa questo al’Thor.»

«La Macchia sembra quasi addormentata» mormorò Terasian, grattandosi le folte basette e carezzandosi il mento flaccido. «Non l’ho mai vista così tranquilla.»

«L’Ombra non dorme mai» intervenne a voce bassa Jagad, e Terasian annuì come a dire che, certo, anche quello era un fatto da tenere in considerazione. Agelmar era il miglior generale tra tutti loro, forse il migliore in assoluto, ma Terasian non si era guadagnato il suo posto alla destra di Paitar solo perché era un buon compagno di bevute.

«Gli uomini che mi sono lasciata dietro possono facilmente controllare la Macchia, a meno che non ricomincino le Guerre Trolloc» disse Ethenielle con fermezza. «E sono sicura che voi avete fatto altrettanto. In ogni caso, questo non ha alcuna importanza. Qualcuno di voi crede davvero che a questo punto potremmo tornare indietro?» Aveva posto la domanda in tono ironico, non si aspettava una risposta, eppure ne ottenne una.

«Tornare indietro?» ripeté una giovane voce femminile alle sue spalle.

Tenobia della Saldea arrivò al galoppo nella radura, tirando poi le redini del suo castrone bianco in modo da farlo impennare con gran teatralità.

Spesse linee di perle correvano lungo le maniche color grigio scuro del suo abito da cavallerizza con la gonna stretta, e i ricami rossi e dorati vorticavano a sottolineare la vita sottile e il seno generoso. Alta per essere una donna, riusciva a essere graziosa se non proprio bella nonostante un naso che solo con un eufemismo poteva definirsi importante. I grandi occhi oblunghi con il loro profondo colore azzurro di sicuro la aiutavano, ma un ruolo altrettanto importante lo giocava anche una sicurezza di sé così forte da sembrare una luce interiore. Come c’era da aspettarsi, la regina della Saldea era accompagnata solo da Kalyan Ramsin, uno dei suoi tanti zii, un uomo pieno di cicatrici e coi capelli grigi, il volto di un’aquila e i folti baffi che scendevano ai lati della bocca. Tenobia Kazadi accettava di ricevere consigli solo dai veri soldati. «Io non tornerò indietro,» proseguì con ardore «qualsiasi cosa facciate voialtri. Ho assegnato al mio caro zio Davram il compito di portarmi la testa del falso Drago, Mazrim Taim, e ora lui e Taim seguono insieme questo al’Thor, se devo credere a metà delle storie che ho sentito. Ho quasi cinquantamila uomini con me e, non importa cosa voi deciderete, io non tornerò indietro finché al’Thor e mio zio non avranno capito bene chi comanda la Saldea.»

Ethenielle scambiò delle occhiate con Serailla e Baldhere mentre Paitar ed Easar dicevano a Tenobia che anche loro avevano intenzione di andare avanti. Serailla scosse appena il capo, e si strinse brevemente nelle spalle.

Baldhere ruotò gli occhi in modo ben più evidente. Ethenielle non era addirittura arrivata a sperare che Tenobia alla fine decidesse di non unirsi a loro, ma di sicuro quella ragazza poteva causare dei problemi.

Gli abitanti della Saldea erano strani — spesso Ethenielle si chiedeva come sua sorella Einone riuscisse a stare bene avendo per marito un altro dei numerosi zii di Tenobia — ma la loro regina portava all’estremo la loro stranezza. Da un Saldeano era ovvio aspettarsi un minimo di esibizionismo, ma Tenobia godeva nello stupire persino i Domanesi e nel far sembrare noiosi gli abitanti dell’Altara. Il caratteraccio assai diffuso in Saldea era leggendario, ma quello di Tenobia era un incendio incontrollato col vento a favore, e non si capiva mai quale fosse la scintilla che l’aveva fatto esplodere. Ethenielle non voleva neppure pensare a quanto era difficile far ragionare quella ragazza quando lei non era disposta ad ascoltare; solo Davram Bashere era riuscito in quel duro compito. E poi c’era la questione del matrimonio.

Tenobia era ancora giovane, ma aveva da tempo raggiunto e superato l’età per sposarsi — il matrimonio era un dovere per tutti i membri di una casata regnante, e ancor di più per la sovrana in persona: bisognava stabilire alleanze e fornire un erede al trono — eppure Ethenielle non l’aveva mai presa in considerazione per qualcuno dei suoi figli. I requisiti che la regina della Saldea pretendeva in suo marito erano coerenti con il resto della sua personalità. Doveva essere in grado di affrontare e sconfiggere una decina di Myrddraal da solo. Magari mentre suonava l’arpa e componeva un poema.

Doveva essere capace di sbaragliare in dialettica qualsiasi studioso anche scendendo al galoppo un ripido pendio. O magari risalendolo. E ovviamente doveva riverirla — dopo tutto, lei era la regina — anche se di tanto in tanto Tenobia si aspettava che ignorasse qualsiasi suo ordine e se la mettesse in spalla. Quella ragazza voleva davvero che lo facesse! E la Luce aiutasse il malcapitato che sceglieva di ignorarla quando lei pretendeva deferenza o il contrario. Tenobia non aveva mai dichiarato questi suoi desideri per filo e per segno, ma qualsiasi donna con un po’ di sale in zucca che l’avesse sentita parlare di uomini ci avrebbe messo poco a capirlo. Tenobia sarebbe morta zitella. E questo significava che le sarebbe succeduto suo zio Davram, se lei lo lasciava in vita dopo quel tradimento, o l’erede di Davram.

Una parola giunse alle orecchie di Ethenielle, facendola sobbalzare sulla sella. Doveva prestare più attenzione, la posta in gioco era troppo alta. «Aes Sedai?» chiese aspramente. «Che c’entrano le Aes Sedai?» A parte Paitar, tutti loro erano stati abbandonati dalle Aes Sedai che avevano come consigliere quando si era diffusa la notizia di problemi nella Torre, e Nianh e Aisling avevano abbandonato rispettivamente lei ed Easar senza lasciare tracce. Se le Aes Sedai avevano colto anche solo un accenno dei loro piani... Be’, quelle donne erano sempre impegnate nei loro personali complotti. Sempre. Non le sarebbe affatto piaciuto scoprire di aver messo le mani in due vespai, e non in uno solo.

Paitar si strinse nelle spalle, sembrava un po’ imbarazzato. E non era cosa da poco, in lui: come Serailla, non si agitava quasi per nulla. «Di sicuro non ti aspettavi che lasciassi Coladara a casa, Ethenielle,» disse in toni concilianti «anche se fossi riuscito a tenerla all’oscuro dei preparativi.» No, non se l’era aspettato: la sorella prediletta di Paitar era un’Aes Sedai, e Kiruna gli aveva trasmesso un profondo attaccamento per la Torre. Ethenielle non se l’era aspettato, ma augurato sì. «Coladara ha avuto visite» proseguì lui. «Sette di loro. Portarmele dietro mi è parso prudente, date le circostanze. Per fortuna non è stata necessaria una grande opera di persuasione. In verità, non ho dovuto neppure provare a convincerle.»

«Che la Luce illumini e protegga le nostre anime» sospirò Ethenielle, e sentì qualcosa di molto simile pronunciato da Serailla e Baldhere. «Otto sorelle, Paitar? Otto?» Di sicuro la Torre era ormai al corrente di qualsiasi loro possibile mossa.

«E con me ce ne sono altre cinque» aggiunse Tenobia come se stesse annunciando di aver comprato un nuovo paio di scarpine. «Mi hanno trovato non appena ho varcato il confine della Saldea. Per caso, ne sono sicura: mi sono sembrate sorprese quanto me. Quando hanno capito quali erano le mie intenzioni — ancora non so come hanno fatto, ma ci sono riuscite — ero sicura che sarebbero andate di corsa da Memara.» Per un attimo, le sopracciglia le si aggrottarono in un’espressione torva. Elaida aveva fatto davvero male i suoi calcoli quando aveva pensato di inviare una sorella nel tentativo di spaventare Tenobia. «E invece,» terminò lei «Illeisien e le altre volevano mantenere il segreto almeno quanto me.»

«Ciò nonostante,» insisté Ethenielle «ci sono tredici sorelle. Basta che una di loro trovi il modo per mandare un messaggio. Poche righe. Magari convincendo con la forza un soldato o una cameriera. Qualcuno di voi si illude di poterle fermare?»

«I dadi sono stati lanciati, ormai» si limitò a dire Paitar. Ciò che è fatto è fatto... Gli abitanti dell’Arafel erano alla stregua dei Saldeani, secondo il metro di giudizio di Ethenielle.

«Quando saremo più a sud,» aggiunse Easar «forse saremo contenti di avere tredici Aes Sedai con noi.» Quella frase portò il silenzio, e le implicazioni rimasero sospese nell’aria. Nessuno se la sentiva di esprimerle a voce. Era qualcosa di ben diverso dalla guerra contro la Macchia.

Tenobia esplose in un’improvvisa, sorprendente risata. Il suo castrone provò a scalpitare, ma lei lo tenne fermo. «Ho intenzione di spingermi a sud il più in fretta possibile, ma vi invito tutti a cenare nel mio campo stanotte. Potrete parlare con Illeisien e le sue amiche, per stabilire se il mio parere è condivisibile o meno. Magari domani notte possiamo incontrarci tutti nel campo di Paitar e fare qualche domanda anche alle amiche della sua Coladara.» La proposta era così sensata, così palesemente opportuna, che tutti accettarono all’istante. E, come se le fosse venuto in mente solo allora, Tenobia aggiunse: «Mio zio Kalyan sarebbe onorato se stanotte gli permettessi di sedere accanto a te, Ethenielle. Ti ammira molto.»

Ethenielle lanciò un’occhiata a Kalyan Ramsin — questi aveva fermato il proprio cavallo dietro Tenobia e non aveva detto nulla, sembrava che a malapena respirasse. Gli lanciò solo un’occhiata, e per un istante quell’aquila ingrigita socchiuse gli occhi. In quel momento lei vide qualcosa che non aveva più visto dalla morte del suo Brys, vide un uomo che non guardava una regina ma una donna. La sorpresa fu come un colpo che le tolse il respiro. Lo sguardo di Tenobia saettò da suo zio a Ethenielle, un lieve sorriso di soddisfazione dipinto in volto.

Ethenielle si sentì oltraggiata. Se non fossero bastati gli occhi di Kalyan, quel sorriso rendeva gli intenti della donna chiari come acqua di sorgente.

La sfacciata Saldeana voleva far sposare quell’uomo con lei? Quella ragazzina presumeva che... All’improvviso, il senso di colpa prese il posto della rabbia. Lei stessa era ancor più giovane quando aveva arrangiato il secondo matrimonio di sua sorella Nazelle. Per il bene della nazione, eppure alla fine Nazelle aveva preso ad amare lord Ismic nonostante tutte le proteste iniziali. Ethenielle pianificava i matrimoni altrui da così tanto tempo che non aveva mai pensato di poter essere considerata un ottimo ‘partito’.

Guardò di nuovo Kalyan, più a lungo. Il volto coriaceo era di nuovo una maschera di rispetto, eppure lei aveva ancora in mente gli occhi che aveva visto poco prima. Il suo nuovo sposo doveva essere un uomo forte, ma Ethenielle aveva sempre preteso una possibilità d’amore per i matrimoni dei suoi figli, e spesso anche per quelli di fratelli e sorelle, e non avrebbe chiesto di meno per sé stessa.

«Invece di sprecare in chiacchiere la luce del giorno,» disse allora, col fiato più corto di quanto avrebbe voluto «occupiamoci di ciò per cui siamo venuti qui.» Che la Luce mi fulmini, pensò, sono una donna adulta, non una ragazzina che incontra per la prima volta il suo corteggiatore. «Allora?» chiese, e questa volta la sua voce fu debitamente ferma.

Fino a quel momento avevano preso ogni accordo tramite lettere accorte e studiate, e sapevano che avrebbero dovuto modificare i piani adeguandoli alle circostanze reali man mano che si spostavano verso sud. Quell’incontro aveva un unico scopo reale, una semplice e antica cerimonia delle Marche di Confine che, secondo le testimonianze storiche, si era ripetuta solo sette volte dai tempi della Frattura. Una semplice cerimonia che li avrebbe legati al di là di qualsiasi impegno espresso a parole, per quanto solenni. I sovrani si avvicinarono uno all’altro, ancora a cavallo, e i loro accompagnatori si fecero da parte.

Ethenielle sibilò quando, col coltello che portava alla cintura, fece un taglio nel proprio palmo sinistro. Tenobia rise nel fare altrettanto. Paitar ed Easar mostrarono la stessa, tiepida reazione di chi si toglie delle schegge da una mano. Quattro mani si protesero per incontrarsi, si strinsero, il sangue si mischiò gocciolando a terra, imbevendo il terreno pietroso. «Uniti, fino alla morte» disse Easar, e gli altri gli fecero eco. «Uniti, fino alla morte.» Erano legati, dal sangue e dalla terra. Ora dovevano trovare Rand al’Thor. E fare ciò che era necessario. A ogni costo.


Quando fu sicura che Turanna poteva drizzarsi a sedere sul cuscino senza bisogno d’aiuto, Verin si alzò e lasciò da sola la derelitta sorella Bianca, che sorseggiò dell’acqua. O meglio, provò a farlo. I denti di Turanna battevano contro la tazza d’argento, cosa niente affatto sorprendente. L’ingresso della tenda era basso, e Verin dovette accovacciarsi per mettere fuori la testa. La stanchezza le trivellò la schiena quando si piegò. Ma non aveva affatto paura della donna che tremava dietro di lei, avvolta in una tunica nera di lana grezza. Verin l’aveva schermata, e dubitava che Turanna avesse abbastanza forza nelle gambe in quel momento da provare a saltarle addosso, se anche le fosse venuta in mente un’idea così improbabile. Le Bianche non ragionavano in questo modo. In verità, date le sue condizioni, era difficile che Turanna riuscisse a incanalare anche un rivolo di Potere per diverse ore ancora, con o senza schermo.

Il campo degli Aiel si stendeva sulle colline dietro le quali era nascosta Cairhien, tende basse e dal colore della terra che riempivano lo spazio tra i pochi alberi lasciati in piedi così vicino alla città. Diafane nuvole di polvere erano sospese nell’aria, ma gli Aiel non parevano infastiditi né dalla polvere, né dal caldo né dallo sguardo cocente del sole furioso. Il campo era pieno di attività e impegno, simile in questo a qualsiasi città. Verin vedeva uomini che scuoiavano la selvaggina, affilavano i coltelli e preparavano i morbidi stivali tipici degli Aiel, donne che cucinavano sui fuochi da campo, stavano ai forni, lavoravano a dei piccoli telai, badavano ad alcuni dei pochi bambini presenti nell’accampamento. I gai’shain vestiti di bianco correvano in ogni direzione, trasportavano pacchi, battevano i tappeti o si occupavano di muli e cavalli da soma. Nessun negozio, nessun venditore ambulante. carri e calessi, ovviamente. Una città? Piuttosto erano migliaia di villaggi raccolti nello stesso posto, anche se c’erano molti più uomini che donne e, tranne i fabbri che facevano risuonare le loro incudini, quasi tutti quelli non vestiti di bianco portavano le armi. Anche molte donne erano armate.

I numeri erano di sicuro quelli di una grande città, più che sufficienti a racchiudere un piccolo gruppo di Aes Sedai prigioniere, eppure Verin vide una donna con una veste nera che arrancava per strada a meno di cinquanta passi da lei, sforzandosi di trascinarsi dietro una pila di rocce alta fino alla vita e sistemata su una pelle di mucca. Il cappuccio celava il volto della donna, ma nell’accampamento solo le sorelle catturate portavano quegli abiti neri. Una Sapiente passeggiava accanto alla pelle di mucca, illuminata dal Potere che usava per schermare la prigioniera, scortata da due Fanciulle che la frustavano con dei bastoni flessibili a ogni esitazione. Verin si chiese se quella processione era inscenata proprio a suo beneficio. Quella stessa mattina aveva visto Coiren Saeldain che, con gli occhi sgranati e il viso coperto di sudore, risaliva a fatica un pendio con la schiena curva sotto un cesto pieno di sabbia, accompagnata da una Sapiente e due Aiel. Il giorno addietro era toccato a Sarene Nemdahl: Le avevano ordinato di trasferire l’acqua da un secchio di pelle a un altro usando solo le mani, frustandola perché andasse più veloce e poi frustandola ancora per ogni goccia versata a causa delle frustate di prima. Sarene aveva approfittato di un momento di distrazione per chiedere a Verin il motivo di tutto ciò, anche se non era sembrato che si aspettasse una risposta. E di sicuro lei non era riuscita a dargliene una prima che le Fanciulle la facessero tornare a quell’inutile compito.

Verin trattenne un sospiro. Innanzitutto, non le sarebbe mai piaciuto vedere delle sorelle trattate a quel modo, quale che fosse lo scopo o il motivo, e poi era ovvio che quasi tutte le Sapienti volevano... Cosa? Volevano farle sapere che essere un’Aes Sedai lì non voleva dire nulla? Ridicolo.

L’avevano già chiarito fin troppo bene alcuni giorni prima. Volevano forse dirle che anche a lei poteva toccare la veste nera? Per il momento Verin credeva di essere al sicuro da quell’evenienza, ma le Sapienti avevano ancora un gran numero di segreti che lei non era riuscita a scoprire; uno tra questi, e nemmeno il più importante, era il funzionamento della loro gerarchia. Di sicuro non era il più importante, eppure poteva costare la vita o almeno una manciata di frustate. Una donna poteva dare ordini a un’altra ma anche essere comandata da quest’ultima, e i ruoli potevano invertirsi più volte, il tutto senza uno schema o un motivo che Verin riuscisse a vedere. Tuttavia, nessuno comandava Sorilea, e questa forse era la chiave della salvezza. Per certi versi.

Verin non poté reprimere un moto di soddisfazione. All’alba, nel Palazzo del Sole, Sorilea aveva voluto sapere quale fosse il massimo disonore per un abitante delle terre bagnate. Kiruna e le altre sorelle non avevano capito: non facevano nessuno sforzo concreto per rendersi conto della realtà che le circondava, forse per paura di ciò che potevano apprendere, per paura delle tensioni che la conoscenza avrebbe esercitato sui loro giuramenti.

Si sforzavano di trovare delle giustificazioni per il sentiero sul quale le aveva messe il destino, ma Verin aveva già dei motivi per la via che seguiva e per gli scopi che la motivavano. E aveva anche un preciso elenco nella borsa attaccata alla cintura, pronta a consegnarlo a Sorilea quando si fossero trovate da sole. Non c’era bisogno che altri sapessero. Non aveva mai conosciuto alcune delle prigioniere, ma credeva che quel suo elenco riassumesse le debolezze di gran parte di quelle donne, ed era questo che Sorilea stava cercando. La vita si sarebbe fatta ancor più dura per quelle con la veste nera. E, con un po’ di fortuna, il compito di Verin ne avrebbe tratto un gran giovamento.

Due grossi Aiel, entrambi con le spalle larghe quanto un manico d’ascia, sedevano fuori dalla tenda e sembravano assorti in un gioco che consisteva nel formare figure sempre più complesse con degli elastici intorno alle dita, ma si erano girati subito quando lei si era affacciata oltre i lembi dell’ingresso. Coram si era alzato come un serpente che svolgeva le sue spire, e Mendan aspettava, pronto a riporre l’elastico della loro partita. Se Verin si fosse messa in piedi, non sarebbe arrivata neppure al petto di quei due uomini. Ovviamente, però, era in grado di metterli entrambi a testa in giù e sculacciarli. Se ne avesse avuto il coraggio. Di tanto in tanto, aveva avuto la tentazione di farlo. Erano le sue guide, la proteggevano da eventuali incomprensioni nell’accampamento. E senza dubbio facevano rapporto su ogni sua parola o azione. Per certi versi, Verin avrebbe preferito che ci fosse Tomas al posto loro. Ma d’altra parte conservare un segreto col proprio Custode era molto più difficile che con degli estranei.

«Per favore, di’ a Colinda che con Turanna Norill ho finito,» disse a Coram «e chiedile di mandarmi Katerine Alruddin.» Voleva vedersela prima con le sorelle che non avevano Custodi. L’Aiel annuì prima di andar via, senza parlare. Quel popolo non era un granché quanto a maniere civili.

Mendan si accovacciò di nuovo, osservandola con occhi di un azzurro sorprendente. Uno dei due rimaneva sempre con lei, qualsiasi cosa Verin dicesse. Mendan aveva una striscia di tessuto rosso legata introno alla fronte e segnata con l’antico simbolo delle Aes Sedai. Come gli altri uomini che la portavano, e come le Fanciulle, sembrava non aspettare altro che lei facesse un errore. Be’, non erano i primi a controllarla a quel modo, né tanto meno i più pericolosi. Erano passati settantun anni dall’ultimo vero errore di Verin.

L’Aes Sedai sorrise a Mendan in modo volutamente vago e cominciò ad arretrare di nuovo nella tenda, quando all’improvviso qualcosa colse il suo sguardo e la catturò come stringendola in una morsa. Se l’alto Aiel avesse provato a tagliarle la gola in quello stesso momento, non se ne sarebbe neppure accorta.

Poco lontano dalla sua tenda, dove lei se ne stava ancora piegata in avanti, nove o dieci donne erano inginocchiate in fila e facevano ruotare le macine sopra delle pietre piatte, una scena tipica di qualsiasi fattoria isolata. Altre donne portavano il grano in dei cesti e raccoglievano la farina grezza. Le donne in ginocchio avevano gonne nere e bluse chiare, con fasce di tessuto ripiegato a tenere indietro i capelli. Una, notevolmente più bassa delle altre e la sola i cui capelli non arrivavano fino alla vita, non aveva bracciali né collane. Alzò il capo, e il risentimento sul suo volto arrossato dal sole si fece più acuto quando incontrò lo sguardo di Verin. Solo per un istante, però, prima che la donna tornasse in tutta fretta al suo compito.

Verin rientrò di scatto nella tenda, con lo stomaco in subbuglio. Irgain apparteneva all’Ajah Verde. O meglio, era appartenuta, prima che Rand al’Thor la quietasse. Essere schermata dalla fonte rendeva più debole e indistinto il legame col Custode, ma una volta quietata quel legame veniva reciso come se la donna o l’uomo in questione fossero morti. E in effetti uno dei due Custodi di Irgain era davvero morto per il contraccolpo, mentre l’altro si era lasciato uccidere combattendo contro un migliaio di Aiel senza neppure tentare la fuga. Con ogni probabilità, anche Irgain desiderava morire. Quietata. Verin si schiacciò le mani sul ventre. Si ripromise di non vomitare. Aveva visto di peggio che una donna quietata. Ben di peggio.

«Non c’è speranza, vero?» mormorò Turanna con voce impastata. Piangeva in silenzio, fissando la coppa d’argento che teneva tra mani tremanti come se dentro ci vedesse qualcosa di lontano e terribile. «Nessuna speranza.»

«Un modo c’è sempre, basta cercare» rispose Verin, battendole una mano distratta sulla schiena. «Devi sempre cercare.»

I suoi pensieri correvano veloci, e nessuno riguardava Turanna. Il fatto che Irgain fosse stata quietata le faceva rivoltare lo stomaco, la Luce sapeva quanto era vero. Ma perché mai quella donna doveva macinare il grano?

E vestita come una Aiel, poi! Possibile che le fosse stato assegnato quel lavoro proprio perché Verin potesse vederla? Una domanda stupida; anche con un ta’veren come Rand lontano solo pochi chilometri, c’era un limite al numero di coincidenze che poteva accettare. Che avesse fatto male i suoi calcoli? Nel peggiore dei casi, non poteva trattarsi di un grosso errore. Solo che talvolta i piccoli errori si rivelavano fatali almeno quanto quelli grandi. Quanto a lungo avrebbe resistito Verin se Sorilea avesse deciso di spezzarla? Poco, fastidiosamente poco, sospettava. Per certi versi, Sorilea era la persona più dura che avesse mai conosciuto. E lei non avrebbe potuto dire o fare nulla per fermarla. Quella però era una preoccupazione da lasciare a un altro giorno. Non aveva senso fasciarsi la testa prima di essersela rotta.

Inginocchiandosi anche lei, Verin si impegnò un po’ di più a consolare Turanna, ma non più di tanto. Parole di conforto che suonavano vuote alle sue orecchie come a quelle dell’altra, a giudicare dall’espressione vacua nei suoi occhi. Nulla avrebbe potuto modificare le condizioni di Turanna tranne Turanna stessa, e la spinta doveva venire dall’interno. La sorella Bianca si limitò a piangere più forte, senza emettere alcun suono mentre le spalle tremavano e il volto si rigava di lacrime. L’ingresso di due Sapienti e un paio di giovani aiel che non potevano stare in piedi all’interno della tenda fu per certi versi un sollievo. Per Verin, quanto meno. Lei si alzò e fece un elegante riverenza, ma nessuno dei nuovi arrivati le mostrò il minimo interesse.

Daviena aveva occhi verdi e capelli tra il biondo e il rosso, Losaine invece aveva gli occhi grigi e i capelli neri che mostravano qualche sfumatura di rosso solo sotto il sole; entrambe erano molto più alte di Verin ed entrambe avevano la cupa espressione di chi si è visto assegnare un compito che avrebbe preferito passare a qualcun altro. Nessuna delle due poteva incanalare con forza sufficiente da poter gestire Turanna, ma si legarono una all’altra come se per tutta la vita non avessero fatto altro che comporre dei circoli, e la luce di saidar intorno a una si fuse con quella dell’altra malgrado fossero fisicamente distanti. Verin si costrinse a sorridere per evitare di accigliarsi. E questo dove l’avevano imparato? Avrebbe scommesso di tutto che appena qualche giorno addietro non lo sapevano fare.

Tutto procedette rapidamente, e senza problemi. Quando i due uomini, accovacciandosi, presero Turanna tenendola per le braccia, lei lasciò cadere la coppa d’argento. Vuota, per sua fortuna. Turanna non oppose resistenza — e anche questo fu un bene, visto che uno qualsiasi di quegli Aiel poteva tranquillamente portarla fuori sotto un braccio come fosse un sacco di grano — ma la sua bocca rimase aperta a emettere un lamento senza fine.

Gli Aiel non le prestarono attenzione. Daviena, concentrando la potenza di quel circolo composto da due elementi, assunse il controllo dello schermo, e Verin lasciò il contatto con la Fonte. Nessuna di quelle due donne si sarebbe mai fidata di vederla abbracciare saidar senza saperne il motivo, nonostante i giuramenti da lei prestati. Nessuna delle due parve farci caso, ma di sicuro la situazione sarebbe cambiata se lei non avesse lasciato andare saidar. Gli uomini trascinarono via Turanna, i piedi scalzi strusciarono sugli strati di tappeti che coprivano il pavimento della tenda, e le Sapienti li seguirono all’esterno. Tutto qua. Quello che si poteva fare con Turanna era stato fatto.

Lasciando andare un lungo respiro, Verin sprofondò su uno dei cuscini dai colori accesi con i fiocchi lungo i bordi. Sui tappeti accanto a lei era poggiato un bel vassoio fatto di corde dorate. Dopo aver riempito dalla brocca di peltro una delle coppe d’argento scompagnate, Verin prese una lunga sorsata. Le faceva venir sete quel lavoro, e la stancava. Restavano ancora alcune ore di luce solare, eppure lei si sentiva come se avesse portato un cesto pesante per una ventina di chilometri. Risalendo diverse colline. La coppa tornò sul vassoio, e lei estrasse il piccolo taccuino rilegato in pelle che portava dietro la cintura. Ci voleva sempre un po’ di tempo perché le portassero le donne che chiedeva di vedere. Un po’ di tempo per consultare gli appunti — e per prenderne altri — non sarebbe andato sprecato.

Non c’era motivo di prendere appunti sulle prigioniere, ma l’improvvisa comparsa di Cadsuane Melaidhrin, tre giorni addietro, le dava da pensare.

Quali erano gli scopi di quella donna? Le sue compagne non erano degne di nota, ma Cadsuane stessa era una leggenda, e anche solo le parti credibili del suo mito la rendevano estremamente pericolosa. Pericolosa e imprevedibile. Verin prese una penna dal minuto scrittoio di legno che aveva sempre con sé, si sporse verso la bottiglia d’inchiostro nel suo apposito contenitore. E un’altra Sapiente entrò nella tenda.

Verin si mise goffamente in piedi così in fretta che lasciò cadere il taccuino. Aeron era del tutto incapace di incanalare, eppure le riverenze che lei rivolse a quella donna dai capelli ingrigiti furono molto più formali di quelle tributate a Daviena e Losaine. Giunta alla fine del profondo inchino, lasciò le gonne per protendersi verso il taccuino, ma le dita di Aeron ci arrivarono prima. Verin si raddrizzò, osservando con calma l’altra donna, più alta di lei, che sfogliava le varie pagine.

Occhi azzurri come il cielo incontrarono i suoi. In quel cielo c’era l’inverno. «Bei disegni e un sacco di nozioni su piante e fiori» disse fredda Aeron. «Non vedo nulla che riguardi le domande che sei stata inviata a fare.» Lanciò il taccuino a Verin più che passarglielo.

«Grazie, Sapiente» rispose lei umile, infilando di nuovo il taccuino al sicuro dietro la cintura. Aggiunse anche un’altra riverenza, per buona misura, profonda almeno quanto la precedente. «Ho l’abitudine di prendere appunti su quello che vedo.» Un giorno o l’altro avrebbe dovuto scrivere il codice che usava per i suoi taccuini — la raccolta di una vita riempiva casse e credenze nelle sue stanze sopra la biblioteca della Torre Bianca. Un giorno o l’altro, ma sperava che fosse quanto più in là possibile. «Riguardo le... ehm... prigioniere, finora mi hanno detto tutte la stessa cosa, anche se in versioni diverse. Il Car’a’carn sarebbe stato ospite della Torre fino all’Ultima Battaglia. Il suo... ehm... maltrattamento è cominciato per via di un tentativo di fuga. Ma questo lo sapete già, ovviamente. Non temete, però: sono sicura che scoprirò di più.» Tutto vero, anche se non tutta la verità; aveva visto morire troppe sorelle per rischiare di condannarne altre alla tomba senza un motivo davvero valido. Il problema era capire cosa potesse portare in quella direzione. Il rapimento del giovane al’Thor da parte di una delegazione che avrebbe dovuto trattare con lui faceva nascere negli Aiel una rabbia omicida, eppure ciò che Verin aveva definito ‘maltrattamento’ sembrava renderli appena nervosi.

I braccialetti d’oro e d’avorio fecero un lieve rumorio quando Aeron si aggiustò lo scialle scuro. Scrutò Verin come per leggerle nella mente.

Quella donna doveva avere una posizione elevata tra le Sapienti, e sebbene Verin avesse talvolta visto un sorriso increspare quelle guance abbronzate, un sorriso caldo e naturale, non era mai stato diretto a un’Aes Sedai. ‘Non avremmo mai sospettato che sareste state voi a fallire’ aveva detto a Verin, una frase per certi versi oscura. Ma il resto si era rivelato fin troppo chiaro.

‘Le Aes Sedai non hanno onore. Dammi un minimo motivo di sospetto, e io stessa ti frusterò finché non ti reggerai più in piedi. Dammi un motivo valido, e ti impalerò per darti in pasto ad avvoltoi e formiche.' Verin l’aveva guardata cercando di sembrarle aperta e priva di segreti. E umile: non doveva mai dimenticare l’umiltà. Docile e compiacente. Non aveva paura.

A suo tempo aveva dovuto affrontare sguardi anche più duri, da parte di donne — e uomini — che si sarebbero fatti ancor meno scrupoli di Aeron a porre fine alla sua vita. Ma quasi tutti i suoi sforzi erano serviti proprio a farsi inviare a fare quelle domande. Non poteva permettersi di rovinare tutto. Se solo quegli Aiel avessero mostrato qualche emozione sui loro volti.

A un tratto si rese conto che non erano più sole nella tenda. Due Fanciulle dai capelli chiarissimi erano entrate con una donna di un palmo più bassa di entrambe. La sorreggevano per farla stare dritta. E in disparte c’era Tialin, magra e coi capelli rossi, un’espressione truce sotto il bagliore di saidar col quale teneva schermata la prigioniera vestita di nero. I capelli della sorella pendevano in ricci zuppi di sudore sulle spalle, con alcune ciocche appiccicate a un viso così sporco che sulle prime Verin non l’aveva riconosciuta. Zigomi alti, ma non molto, un naso appena adunco e gli occhi castani leggermente a mandorla... Beldeine. Beldeine Nyram. Lei stessa le aveva dato qualche lezione quando era novizia.

«Se posso chiedere,» disse con cautela Verin «perché mi avete portato lei? Io avevo chiesto di vedere un’altra donna.» Beldeine non aveva Custodi, malgrado fosse una Verde — aveva conquistato lo scialle da appena tre anni, e spesso le Verdi erano particolarmente puntigliose nella scelta del primo Gaidin — ma se gli Aiel cominciavano a condurre da lei chiunque volevano, la prossima avrebbe potuto averne due o tre. Credeva di poter sopportare altri due incontri quel giorno, ma non se le donne in questione avevano anche un solo Custode. E dubitava che le Aiel le avrebbero dato una seconda possibilità.

«Katerine Alruddin è fuggita la notte scorsa.» Tialin parve quasi sputare le parole, e Verin sussultò.

«L’avete lasciata scappare?» esplose, senza riflettere. La stanchezza non era una buona scusante, ma le parole continuarono a uscirle di bocca senza che riuscisse a controllarsi. «Come avete potuto fare una simile idiozia?

Appartiene all’Ajah Rossa! E non le mancano né il coraggio né la forza nel Potere! Il Car’a’carn potrebbe essere in pericolo! Perché non siamo state avvisate appena è successo?»

«Lo abbiamo scoperto solo stamattina» ringhiò una delle Fanciulle. Lo sguardo di quegli occhi avrebbe levigato uno zaffiro. «Una Sapiente e due Cor Darei sono stati avvelenati, e il gai’shain che aveva portato da bere è stato ritrovato con la gola tagliata.»

Aeron inarcò un sopracciglio, rivolgendosi con freddezza alla Fanciulla.

«Per caso le domande erano rivolte a te, Carahuin?» Subito entrambe le Fanciulle si concentrarono nel compito di tenere Beldeine in piedi. Aeron lanciò appena un’occhiata a Tialin, ma la Sapiente dai capelli rossi chinò subito il capo. E Verin fu il prossimo bersaglio dell’attenzione di Aeron.

«La preoccupazione per Rand al’Thor ti fa... onore» disse malvolentieri la Aiel. «Ma egli è protetto. E non hai bisogno di sapere altro. Già quello che ti ho detto è troppo.» A un tratto, il suo tono si fece più duro. «Ma un’allieva non deve mai usare quel tono con una Sapiente, Verin Mathwin Aes Sedai. » Le ultime due parole sembravano quasi un insulto.

Trattenendo un sospiro, Verin si limitò a piegarsi in un’altra riverenza, rammaricandosi di non essere più magra come quando si era presentata per la prima volta alla Torre Bianca. Non aveva più il corpo adatto a tutti quegli inchini. «Perdonami, Sapiente» disse con umiltà. Fuggita!, ripeté a sé stessa. Le circostanze dell’evento rendevano tutto evidente, per lei se non per gli Aiel. «L’apprensione deve avermi fatto uscire di senno.» Era un vero peccato non potersi assicurare che a Katerine capitasse uno sgradevole e letale incidente. «Farò del mio meglio per controllarmi in futuro.» Aeron non batté ciglio, non c’era modo di capire se aveva o meno accettato le sue scuse. «Posso assumere il controllo di questo schermo, Sapiente?»

Aeron annuì senza guardare Tialin, e subito Verin abbracciò la Fonte per prendere lo schermo rilasciato dalla stessa Tialin. Non avrebbe mai smesso di meravigliarsi di come, tra gli Aiel, le donne incapaci di incanalare davano liberamente ordini a quelle in grado di farlo. Tialin non era molto più debole di lei nel Potere, eppure guardava Aeron quasi con la stessa deferenza delle due Fanciulle, e quando queste uscirono in fretta dalla tenda a un cenno della mano di Aeron, lasciando Beldeine a barcollare sul posto, Tialin si mosse appena un istante dopo.

Aeron non se ne andò, tuttavia, non subito. «Non devi parlare di Katerine Alruddin al Car’a’carn» disse. «Ha abbastanza pensieri, non c’è bisogno che tu gli dia altre sciocchezze di cui preoccuparsi.»

«Non gli dirò nulla su quella donna» si affrettò a rispondere Verin.

Sciocchezze? Una Rossa forte come Katerine non era una sciocchezza.

Forse valeva la pena prendere un appunto. C’era bisogno di pensarci su.

«Fai in modo di tenere a freno la lingua, Verin Mathwin, o la userai per urlare di dolore.»

Per quello non sembravano esserci risposte, così Verin si concentrò su umiltà e arrendevolezza, esibendosi nell’ennesima riverenza. Le sue ginocchia erano ormai pronte a gemere.

Una volta uscita anche Aeron, Verin si concesse un sospiro di sollievo.

Aveva temuto che la Sapiente sarebbe rimasta. Ottenere il permesso di rimanere da sola con le prigioniere le era costato quasi lo stesso sforzo necessario a convincere Sorilea e Amys che quegli interrogatori erano necessari, e che a condurli doveva essere qualcuna che conoscesse molto bene la Torre Bianca. Se mai si accorgeranno di essere state guidate verso questa decisione... Anche questa era una preoccupazione da rimandare a un altro giorno. A quanto pareva ne stava accumulando davvero tante.

«C’è abbastanza acqua per lavarti almeno le mani e la faccia» disse piano a Beldeine. «E se vuoi, posso Guarirti.» Tutte le sorelle che aveva interrogato avevano quanto meno i segni di qualche frustata. Gli Aiel non picchiavano mai i loro prigionieri se non quando questi versavano l’acqua o esitavano a svolgere gli incarichi assegnati — la peggiore delle parole di sfida riceveva tutt’al più una risata di scherno — ma le donne vestite di nero erano trattate come animali, pungolate con un bastone quando dovevano camminare, girare o fermarsi, e pungolate ancora più forte quando non obbedivano abbastanza in fretta. La Guarigione rendeva più semplici anche altre cose.

Sporca, sudata, tremante come una canna al vento, Beldeine arricciò le labbra. «Preferirei morire dissanguata piuttosto che essere Guarita da te!» disse in malo modo. «Forse c’era da aspettarselo che tu strisciassi ai piedi di queste selvatiche, di questi barbari, ma non avrei mai immaginato che ti abbassassi a rivelare i segreti della Torre! Questo rientra nell’accusa di tradimento, Verini E di ribellione!» Fece un verso carico di disprezzo. «E immagino che se non ti vergogni di ciò, non ti fermerai davanti a nulla!

Cos’altro avete insegnato a questa gente, tu e le altre, oltre alla creazione del legame?»

Verin fece schioccare la lingua, irritata, senza prendersi il disturbo di rispondere per le rime. Le faceva male il collo per aver dovuto guardare dal basso in alto gli Aiel — quanto a ciò, anche Beldeine era un bel po’ più alta di lei — e le ginocchia dolevano per le continue riverenze, ed erano state decisamente troppe le donne che quel giorno le avevano gettato addosso cieco disprezzo e stupido orgoglio quando loro per prime avrebbero dovuto comprendere meglio la situazione. Chi più di un’Aes Sedai poteva capire che una sorella doveva indossare diverse maschere? Non era sempre possibile intimidire gli altri, o minacciarli. Inoltre, era molto meglio comportarsi come una novizia che ricevere le punizioni adatte a una novizia, soprattutto quando queste portavano solo dolore e umiliazione. Anche Kiruna alla fine se ne sarebbe resa conto.

«Siediti, prima di finire per terra» disse Verin, dando lei per prima seguito a tali parole. «Lasciami indovinare come hai trascorso la tua giornata. A giudicare da tutta quella polvere, direi scavando una fossa. A mani nude, o ti hanno permesso di usare un cucchiaio? Quando decideranno che è terminata, te la faranno subito riempire di nuovo, e lo sai. Ora, fammi dare un’occhiata. Sei sporca ovunque, ma quella veste è pulita, quindi suppongo che eri nuda mentre scavavi. Sicura di non volere la Guarigione? Le scottature possono essere dolorose.» Riempì d’acqua un altro calice e con un flusso d’Aria lo fece fluttuare davanti a Beldeine. «Devi avere la gola secca.»

La giovane Verde fissò la coppa per un attimo, poi all’improvviso le cedettero le gambe e crollò a sedere su un cuscino con una risata amara. «Loro mi... abbeverano spesso.» Rise di nuovo, anche se Verin non riusciva a capire dove fosse la battuta. «Tutte le volte che voglio, purché riesca a berla fino all’ultima goccia.» Fissandola con rabbia, fece una pausa, poi andò avanti con la voce tesa. «Quel vestito ti sta davvero bene. Il mio l’hanno bruciato, le ho viste. Mi hanno preso tutto tranne questo.» Si toccò il Gran Serpente d’oro che portava al dito sinistro, un bagliore pulito tra tanta polvere. «Immagino che non abbiano avuto il coraggio di spingersi a tanto. Lo so cosa stanno cercando di fare, Verin, e non funzionerà. Né con me, né con nessuna di noi!»

Quella donna era ancora in guardia, sospettosa. Verin poggiò la coppa sul tappeto a fiori vicino a Beldeine, poi prese la sua e bevve un sorso d’acqua prima di parlare. «Davvero? E cosa stanno cercando di fare?»

Questa volta, la risata dell’altra fu fredda oltre che dura. «Spezzarci, e tu lo sai bene! Vogliono che facciamo il tuo stesso giuramento a Rand al’Thor. Oh, Verin, come hai potuto? Giurare fedeltà! E, peggio ancora, a un uomo, a lui! Anche se sei arrivata addirittura a ribellarti contro l’Amyrlin Seat, contro la Torre Bianca...» fece sembrare più o meno identiche le due accuse «...come hai potuto spingerti a tanto?»

Per un attimo, Verin si chiese se le cose non sarebbero andate meglio qualora anche alle sorelle trattenute nell’accampamento fosse successo quello che era successo a lei, presa come un legnetto nel turbine ta’veren di Rand al’Thor, con le parole che si riversavano dalla bocca prima ancora di formarsi nella mente. Non erano parole che non avrebbe mai potuto pronunciare di sua spontanea volontà — non era così che i ta’veren influenzavano eventi e persone — ma le avrebbe dette una volta su mille nelle stesse circostanze, una su diecimila. No, le discussioni per stabilire se bisognava tener fede ai giuramenti prestati a quel modo erano state lunghe e accese, e quelle per decidere come tenervi fede non si erano ancora concluse. Era meglio lasciare le cose come stavano. Distrattamente, Verin sfiorò la sagoma dell’oggetto che portava nel borsello appeso alla cintura, una piccola spilla, una pietra traslucida scolpita a imitare una sorta di giglio con troppi petali. Non la indossava mai, ma da circa cinquant’anni la teneva sempre a portata di mano.

«Sei da’tsang, Beldeine. Questo devi averlo sentito.» Non ebbe bisogno del brusco cenno del capo dell’altra donna: dire il loro nome ai ‘disprezzati’ era parte della legge aiel. Questo lo sapeva, anche se ignorava quasi tutto il resto. «I tuoi abiti e gli oggetti che potevano essere bruciati sono stati dati alle fiamme, perché nessun Aiel desidera possedere ciò che prima apparteneva a una da’tsang. Le altre cose, compresi i gioielli, sono state fatte a pezzi o ridotte in poltiglia a suon di martellate, e poi le hanno seppellite nelle fosse scavate per le latrine.»

«E il mio... il mio cavallo?» chiese ansiosa Beldeine.

«Non uccidono i cavalli, ma non so che fine abbia fatto il tuo.» Probabilmente ora apparteneva a qualcuno in città, o forse era stato donato a un Asha’man. Ma dicendoglielo le avrebbe fatto più male che bene. A Verin sembrava di ricordare che Beldeine fosse una di quelle ragazze che si affezionano al loro cavallo. «Ti hanno permesso di tenere l’anello perché tu possa sempre ricordare chi eri e vergognarti ancora di più. Non so se ti concederebbero di prestare giuramento ad al’Thor, anche se le implorassi.

Credo che dovresti impegnarti davvero.»

«Non lo farò! Mai!» Beldeine pronunciò quelle parole con poca forza, e chinò le spalle. Era scossa, ma non abbastanza.

Verin le rivolse un caldo sorriso. Un giorno, un uomo le aveva detto che quando sorrideva gli faceva tornare in mente la sua cara madre. Verin sperava che almeno quella non fosse una bugia. Quel tizio aveva provato a infilarle un coltello tra le costole, poco tempo dopo, e il suo sorriso era stata l’ultima cosa che aveva visto. «Non vedo perché dovresti farlo. No, io temo che a te spetti una lunga e inutile fatica. È questo che gli Aiel ritengono umiliante. Molto umiliante. Certo, se dovessero accorgersi che per te non lo è... Oh, diamine. Scommetto che non ti è piaciuto dover scavare buche senza avere niente addosso, anche se c’erano le Fanciulle a fare la guardia, ma immagina di dover rimanere nuda in una tenda piena di uomini...» Beldeine fece una smorfia. Verin continuò a cianciare: aveva trasformato quell’abilità di parlare a vanvera in una sorta di Talento. «Ovviamente, non dovresti fare altro che restare lì immobile. Ai da’tsang non è permesso di fare niente di utile se non nei casi di grande bisogno, e un Aiel preferirebbe abbracciare una carcassa marcescente piuttosto che... Be’, un pensiero poco piacevole, vero? In ogni caso, è questo che ti aspetta. Sono sicura che resisterai il più a lungo possibile, ma non so cosa dovrai sostenere. Non proveranno a estorcerti informazioni, non ti faranno nessuna delle cose che di solito subiscono i prigionieri. Ma di sicuro non ti lasceranno andare, neppure per un secondo, finché non saranno sicuri che la vergogna sia tanto forte in te da non lasciare spazio a nient’altro. E se per riuscirci dovranno tenerti qui per tutta la tua vita, ebbene lo faranno.»

Beldeine mosse le labbra senza emettere alcun suono, anche se le parole che aveva formulato erano evidenti. ‘Per tutta la vita’. Cambiò nervosamente posizione sul cuscino, e fece una smorfia. Forse per colpa di qualche scottatura, qualche frustata o semplicemente la scarsa abitudine al lavoro.

«Ci salveranno» disse infine. «L’Amyrlin non ci abbandonerà... Ci salveranno o... Ci salveranno!» Afferrò la coppa d’argento al suo fianco, reclinò indietro la testa per svuotarla in una sola sorsata e la protese per farsela riempire di nuovo. Verin fece fluttuare la brocca di peltro e la mise giù accanto alla ragazza, affinché potesse servirsi da sola.

«O fuggirete?» chiese poi, e Beldeine sussultò versando un po’ d’acqua dalla coppa che reggeva tra le mani sudice. «Siamo realistiche. Avete la stessa possibilità di riuscire a fuggire che di venire salvate. Siete circondate da un esercito di Aiel. E a quanto pare al’Thor può far arrivare qualche centinaio di Asha’man in qualsiasi momento, e sarebbero quegli uomini a darvi la caccia.» Beldeine tremò al pensiero, e la stessa Verin ci andò molto vicino. Quel particolare problema avrebbero dovuto risolverlo non appena si era presentato, ora non era più possibile. «No, io temo che dovrai venire a patti con la tua realtà, in qualche modo. Dovrai affrontarla per com’è. E sei sola, in questo. So che non ti permettono di parlare con le altre. Sola» sospirò. La ragazza la fissava a occhi sgranati, come se fosse una vipera rossa. «Ma non c’è bisogno di rendere la situazione più difficile del necessario. Lascia che ti Guarisca.»

Verin aspettò solo che l’altra annuisse, poi si inginocchiò e le mise le mani sul capo. La ragazza era quasi pronta. Aprendosi a saidar, Verin intessé i flussi della Guarigione, e la Verde ansimò e rabbrividì. Il calice, ora pieno solo per metà, le cadde di mano, e la brocca cadde di lato quando Beldeine la colpì agitando un braccio. Ecco, adesso era pronta.

Negli attimi di confusione in cui versava chiunque venisse Guarito, mentre Beldeine ancora batteva le palpebre e cercava di tornare in sé, Verin si aprì ancora di più attraverso l’angreal a forma di fiore che teneva nel borsello. Non era molto potente, ma sarebbe bastato, e lei aveva bisogno di tutto il Potere in più che le permetteva di usare. I flussi che cominciò a intessere non avevano niente a che vedere con la Guarigione. Spirito era di gran lunga l’elemento dominante, ma c’erano anche Vento e Acqua, Fuoco e Terra, quest’ultimo piuttosto difficile per lei, e anche le trame di Spirito dovevano essere divise più e più volte, seguendo uno schema complesso che avrebbe fatto impallidire anche un tessitore di tappeti. Se anche una Sapiente si fosse affacciata nella tenda, con un po’ di fortuna non avrebbe avuto il Talento necessario per capire cosa stava facendo Verin. Certo, in quel caso ci sarebbero stati comunque dei problemi, problemi dolorosi per lei e Beldeine, ma Verin poteva sopportare di tutto tranne essere scoperta.

«Cosa...» disse Beldeine stordita. La testa non le ciondolava solo perché Verin la teneva ferma, e gli occhi erano socchiusi. «Cosa stai... Che succede?»

«Niente di pericoloso per te» la rassicurò Verin. La ragazza sarebbe morta tra un anno, o dieci, in conseguenza di quello che lei stava facendo, ma la tessitura di per sé non era nociva. «Te lo prometto, è così sicuro che potrei usarlo su un bambino.» Ovviamente, dipendeva da come veniva usato.

Doveva posizionare i flussi uno per uno, ma parlare pareva d’aiuto piuttosto che d’intralcio. E un silenzio troppo duraturo poteva destare dei sospetti, se le due guardie erano all’ascolto. Verin lanciava continue occhiate verso i teli penzolanti dell’apertura della tenda. Le servivano delle informazioni che però non voleva condividere, risposte che nessuna delle donne da lei interrogate le avrebbe fornito liberamente. Uno degli effetti minori di quella tessitura era sciogliere la lingua e aprire la mente come il migliore degli infusi d’erbe, ed era anche più rapida.

Verin riprese a parlare con la voce ridotta a un sussurro. «Il giovane al’Thor pare convinto di avere delle sostenitrici nella Torre Bianca, Beldeine. Ovviamente, se è così allora lo appoggiano in segreto.» Anche un uomo con l’orecchio schiacciato contro il tessuto della tenda sarebbe riuscito a sentire solo che stavano parlando. «Dimmi tutto quello che sai.»

«Sostenitrici?» mormorò Beldeine, tentando di assumere un’espressione torva che però in quel momento sembrava fuori dalla sua portata. Provò a scuotersi, ma riuscì solo a prodursi in un movimento debole e scordinato.

«Tra le sorelle? Non è possibile. Non ce ne sono, se escludiamo quelle tra voi che... Come hai potuto, Verin? Perché non ti sei opposta?»

Verin fece un verso di irritazione, e non per l’assurdità dell’idea di opporsi a un ta’veren. Il ragazzo sembrava davvero sicuro di avere i suoi appoggi nella Torre. Perché? Con voce sempre bassa, Verin chiese: «Non hai neppure dei sospetti, Beldeine? Non hai sentito nessuna diceria prima di lasciare Tar Valon? Nessuna ha mai accennato alla possibilità di avvicinarlo in modi diversi? Dimmi.»

«Nessuna. Chi mai... Nessuna avrebbe... Ammiravo Kiruna così tanto...»

C’era un senso di desolazione nella voce assonnata di Beldeine, e le lacrime che le scendevano dagli occhi disegnavano strisce nella polvere del viso. Rimaneva dritta solo perché l’altra la teneva ferma.

Verin continuava a posizionare i fili della sua tessitura, con gli occhi che guizzavano di tanto in tanto verso l’apertura della tenda. Stava cominciando a sudare. Sorilea poteva decidere da un momento all’altro che lei non poteva più fare gli interrogatori da sola. Poteva mandarle una delle sorelle del Palazzo del Sole. E se qualcuna avesse saputo ciò che lei stava facendo, con ogni probabilità Verin sarebbe stata quietata. «E così avevate intenzione di portarlo da Elaida pulito e cucinato» disse a voce leggermente più alta. Il silenzio era durato troppo. Non voleva che la coppia all’esterno riferisse che lei bisbigliava con le prigioniere.

«Non potevo... oppormi... alla decisione di Galina. Era lei al comando... per ordine dell’Amyrlin.» Beldeine cambiò di nuovo posizione, debolmente. La voce era ancora sognante, ma c’era una nota di agitazione. Le palpebre tremolavano. «Al’Thor doveva essere... ridotto... all’obbedienza! Era necessario! Non dovevamo... trattarlo così duramente. Sottoporlo... a un... interrogatorio. Un errore.»

Verin sbuffò. Un errore? Più che altro un disastro. Un vero e proprio disastro. Ora Rand al’Thor guardava tutte le Aes Sedai quasi allo stesso modo di Aeron. E se anche fossero riuscite a portarlo a Tar Valon? Un ta’veren come lui nella Torre Bianca? Un pensiero che avrebbe fatto tremare anche le pietre. Anche se ci fossero riuscite, ‘disastro’ forse era ancora troppo poco per descrivere quella loro missione. E il prezzo che avevano pagato ai Pozzi di Dumai per evitare quella tragedia era tutto sommato ragionevole.

Continuò a fare domande con voce chiaramente udibile da chiunque fosse all’esterno della tenda. Fece domande di cui conosceva già le risposte, evitando tutte quelle più pericolose. Prestava poca attenzione alle parole che pronunciava o a quelle che uscivano dalla bocca di Beldeine. Più che altro, era concentrata sulla tessitura.

Nel corso degli anni, molte cose avevano catturato la sua attenzione, e non tutte avrebbero ricevuto l’approvazione della Torre. Quasi tutte le selvatiche che arrivavano alla Torre Bianca per l’addestramento — sia le selvatiche vere e proprie, che avevano imparato da sole i primi rudimenti, sia le ragazze che avevano semplicemente cominciato a toccare la Fonte perché la scintilla innata in loro si era accesa da sola; per alcune sorelle, non c’erano differenze tra loro — quasi tutte avevano creato un proprio trucco, che inevitabilmente rientrava in una di queste due categorie: o era un modo per origliare le conversazioni altrui, o un sistema per farsi obbedire da un’altra persona.

La Torre non dava molto peso al primo tipo di trucco. Anche una selvatica con un buon controllo su sé stessa imparava in fretta che, finché indossava il bianco delle novizie, non doveva neppure sfiorare saidar senza una sorella o un’Ammessa presente. Cosa che limitava decisamente le possibilità di origliare. L’altro trucco, però, era troppo in odore di Coercizione.

Certo, si trattava solo di un espediente per farsi regalare dal padre un gingillo o un abito che lui non voleva comprare, o per spingere la madre ad approvare i ragazzi che di solito avrebbe scartato, cose di questo genere, ma la Torre riusciva sempre a sradicare quel trucco con grande efficacia.

La maggior parte delle donne e delle ragazze con le quali Verin aveva parlato nel corso degli anni non riusciva più a riprodurre la tessitura, men che mai a usarla, e molte di loro non erano neppure in grado di ricordarla. Da quell’insieme di frammenti e mezze frasi di una trama quasi dimenticata da ragazze non addestrate che l’avevano creata per scopi limitati, Verin era riuscita a ricostruire una cosa da sempre vietata dalla Torre. All’inizio lo aveva fatto solo per curiosità. La curiosità, si disse con un certo sarcasmo mente continuava a lavorare i flussi su Beldeine, mi ha fatto saltare in più di un pentolone bollente. L’utilità era arrivata in seguito.

«Immagino che Elaida avesse intenzione di tenerlo nelle celle speciali» disse con disinvoltura. Quelle stanze con le pareti a griglia erano destinate agli uomini capaci di incanalare, alle iniziate della Torre finite in arresto, alle selvatiche che si erano dichiarate Aes Sedai e a chiunque altro dovesse essere sia recluso che tagliato dalla Fonte. «Un posto tutt’altro che comodo per il Drago Rinato. Poco riservato. Tu ci credi che al’Thor è il Drago Rinato, Beldeine?» Questa volta, Verin si fermò per sentire la risposta.

«Sì.» La parola fu un lungo sibilo, e la ragazza ruotò gli occhi spaventati per guardarla in viso. «Sì... ma deve... essere tenuto... al sicuro. Il mondo... deve essere... al sicuro... da lui.»

Interessante. Tutte le altre avevano detto che bisognava salvare il mondo da lui, ma era interessante che alcune si preoccupassero di proteggere anche al’Thor. E tra queste ce n’erano alcune dalle quali Verin non si sarebbe mai aspettata nulla di simile.

Ai suoi occhi, la tela che ora aveva intessuto sembrava solo un intrico caotico di fili trasparenti e fiocamente luminosi, tutti avvolti intorno alla testa di Beldeine, con quattro flussi di Spirito che fuoriuscivano da quel groviglio. Tirò due di questi, alle estremità opposte, e l’intrico ebbe un lieve tracollo, come se cadesse in sé stesso, assumendo una sembianza di ordine. La ragazza sgranò gli occhi all’improvviso, lo sguardo perso in lontananza.

Con voce bassa ma ferma, Verin le diede le sue istruzioni. Erano più che altro suggerimenti, ma lei li pronunciò con l’autorità di un ordine. Beldeine avrebbe dovuto trovare in sé i motivi per obbedire, altrimenti tutto sarebbe risultato un grande spreco.

Dette le parole finali, Verin tirò gli altri due fili di Spirito, e l’intrico crollò di nuovo, stavolta raggiungendo un ordine perfetto, uno schema preciso, più complicato del più complesso dei merletti, completo, legato dalla stessa azione che ne aveva causato il cambiamento. Questa volta, la tessitura continuò a cadere in sé stessa, e poi verso la testa di Beldeine. I fili luminosi parvero affondare nella ragazza, poi svanirono. Gli occhi di lei ruotarono a mostrare solo il bianco, poi Beldeine cominciò ad agitarsi e a tremare. Verin la tenne con tutta la delicatezza possibile, ma comunque la testa scattava da un lato e dall’altro, mentre i talloni nudi battevano forte sui tappeti. Dopo pochi istanti, non c’erano quasi più tracce di ciò che era successo, e solo la più attenta delle Sonde avrebbe rilevato qualcosa, ma non sarebbe comunque riuscito a identificare la tessitura. Verin l’aveva esaminata con cura, e nessuna era superiore a lei nel talento di Sondare.

Ovviamente quella non era Coercizione vera e propria, quella descritta dai testi antichi. La tessitura fatta da Verin era un lavoro dolorosamente lento e intricato, e c’era bisogno che chi riceveva gli ordini avesse motivi per eseguirli. Era molto più semplice se il soggetto era emotivamente vulnerabile, ma la fiducia era essenziale. Se il bersaglio nutriva dei sospetti, era inutile anche prenderlo di sorpresa. E questo ne riduceva considerevolmente l’utilità con gli uomini; erano davvero pochi quelli che non si insospettivano quando si trovavano nei pressi di un’Aes Sedai.

A parte la sfiducia, purtroppo gli uomini erano in generale dei pessimi soggetti per quella tessitura. Verin non era ancora riuscita a capire perché.

La maggior parte delle trame ideate da quelle ragazze era mirata a un padre o a un altro uomo. Qualsiasi individuo dalla forte personalità poteva chiedersi i motivi delle proprie azioni — o anche dimenticarsi di eseguirle, cosa che portava a un’altra serie di problemi — ma gli uomini tendevano a farlo con frequenza maggiore. Assai maggiore. Forse c’entrava comunque la questione del sospetto. Diamine, una volta un uomo era addirittura riuscito a ricordarsi dei flussi intessuti su di lui, oltre alle istruzioni ricevute. Un vero e proprio fastidio. E un rischio che Verin non aveva più intenzione di correre.

Alla fine le convulsioni di Beldeine rallentarono per poi cessare del tutto. La ragazza si portò una mano sporca alla testa. «Cosa... Che è successo?» chiese con voce appena udibile. «Sono svenuta?» Uno degli aspetti positivi di quella tessitura era che veniva dimenticata dal soggetto, cosa piuttosto prevedibile. Dopo tutto, papà non doveva ricordare che chissà come eri riuscita a farti comprare quel vestito costoso.

«Fa molto caldo» rispose Verin, aiutando la ragazza a rimettersi seduta.

«Anche a me è girata la testa un paio di volte, oggi.» Per la stanchezza, però. Gestire una tale quantità di saidar era spossante, soprattutto quando succedeva quattro volte nello stesso giorno. E l’angreal non attutiva più l’effetto una volta che si smetteva di usarlo. Anche a Verin avrebbe fatto comodo che qualcuno la aiutasse a stare dritta. «Credo che per oggi abbiamo concluso. Se rischi di svenire, forse troveranno qualcosa da farti fare lontano dal sole.» La prospettiva non parve molto incoraggiante per Beldeine.

Massaggiandosi la base della schiena, Verin si affacciò all’esterno. Coram e Mendan smisero ancora una volta di giocare con gli elastici: nessuno dei due dava segno di aver sentito qualcosa, ma lei non ci avrebbe scommesso molto. Disse che aveva finito con Beldeine e, dopo un attimo di riflessione, aggiunse che le serviva un’altra brocca poiché la ragazza aveva fatto cadere quella che aveva già. Entrambi gli uomini si incupirono visibilmente, nonostante l’abbronzatura. La richiesta sarebbe stata comunicata alle Sapienti che sarebbero venute a prendere Beldeine. E la punizione ricevuta avrebbe aiutato la ragazza a prendere la sua decisione.

Il sole era ancora lontano dall’orizzonte, ma il dolore che sentiva nella schiena fece capire a Verin che per quel giorno doveva fermarsi. Avrebbe potuto occuparsi ancora di un’altra sorella, ma se l’avesse fatto ne avrebbe risentito in ogni muscolo a partire dal mattino seguente. Le cadde lo sguardo su Irgain, che adesso era tra le donne incaricate di portare i cesti alle macine. E si chiese come sarebbe stata la sua vita se non avesse nutrito una così forte curiosità. Tanto per cominciare, avrebbe sposato Eadwin e sarebbe rimasta a Far Madding invece di andare alla Torre Bianca. E sarebbe ormai morta da tempo, e con lei i figli e i nipoti che non aveva mai avuto.

Con un sospiro, si rivolse di nuovo a Coram. «Quando torna Mendan, potresti andare da Colinda e dirle che vorrei vedere Irgain Fatamed?» Il dolore che avrebbe provato lei domattina sarebbe stata la giusta punizione per la sofferenza che aveva causato a Beldeine accusandola di aver versato dell’acqua, ma non era per questo che aveva deciso di sopportarlo, e neppure per dare sfogo alla sua curiosità. Aveva ancora una missione. Doveva tenere Rand in vita finché non fosse giunto anche per lui il momento di morire.

La stanza sembrava quasi quella di un grande palazzo, ma non aveva porte né finestre. Il fuoco nel camino di marmo dorato non emanava calore, e le fiamme non consumavano i ciocchi di legno. L’uomo seduto al tavolo con le zampe dorate, al centro di un tappeto di seta intessuto con fili lucenti d’oro e d’argento, si curava poco dei simboli di quell’Epoca. Servivano solo a impressionare gli altri, e basta. In realtà, era sufficiente la sua semplice presenza a piegare anche il più rigido degli orgogli. Si faceva chiamare Moridin, e senza dubbio nessun altro aveva mai meritato più di lui il nome della Morte.

Di tanto in tanto, sfiorava oziosamente una delle due trappole mentali che portava appese al collo. E, al suo tocco, il cristallo rosso sangue del cour’souvra pulsava, turbini che si muovevano a profondità infinite come i battiti di un cuore. Ma la sua attenzione era tutta concentrata su ciò che era davanti a lui sul tavolo, trentatré pezzi rossi e trentatré grigi disposti su una scacchiera di tredici riquadri per tredici. Una riproduzione dell’antenato di un famoso gioco. Il pezzo più importante, il Pescatore, era ancora al suo posto iniziale, nel riquadro centrale. Un gioco complesso, lo sha’rah, già antico molto prima della Guerra del Potere. Sha’rah, tcheran e no’ri, adesso si chiamava semplicemente ‘il gioco dei sassolini’, e ogni versione aveva i suoi sostenitori secondo i quali racchiudeva tutte le complessità della vita, ma Moridin aveva sempre preferito lo sha’rah. Solo nove persone ricordavano quel gioco. Lui ne era stato un maestro. Sha’rah era molto più complesso di tcheran e no’ri. Il primo obiettivo era la cattura del Pescatore. Solo allora cominciava la vera partita.

Arrivò un servitore, un ragazzo magro e aggraziato vestito di bianco, terribilmente bello, e si inchinò porgendo un calice di cristallo su un vassoio d’argento. Il giovane sorrise, ma solo con la bocca: gli occhi neri non erano semplicemente morti, ma privi di ogni parvenza di vita. La maggior parte delle persone si sarebbe sentita a disagio sotto quello sguardo. Moridin si limitò a prendere il calice e fece cenno al servitore di andare via. I vignaioli di quell’epoca producevano ottimi vini. Lui, però, non bevve.

Il Pescatore ancora attirava tutta la sua attenzione, quasi l’avesse davvero preso all’amo. Alcuni pezzi avevano diversi tipi di movimenti, ma solo il Pescatore cambiava caratteristiche a seconda di dove si trovava. Su un quadrato bianco, debole in attacco ma agile nella fuga, con grande possibilità di spostamento; su uno nero, forte in attacco ma lento e vulnerabile.

Quando si scontravano due giocatori molto forti, il Pescatore cambiava possesso molte volte prima della fine. La riga di traguardo fatta di riquadri verdi e rossi che circondava la scacchiera poteva essere minacciata da qualsiasi pezzo, ma solo il Pescatore ci si poteva muovere. Anche se nemmeno lì era al sicuro: il Pescatore non era mai al sicuro. Il giocatore che lo controllava cercava sempre di piazzarlo su un riquadro del proprio colore ma nella linea di traguardo alla fine della parte di scacchiera dell’avversario. Era un modo per vincere, il più facile, ma non l’unico. Chi non controllava il Pescatore, cercava sempre di costringere l’altro giocatore a piazzarlo su un riquadro del proprio colore. Andava bene un punto qualsiasi della linea di traguardo: controllare il Pescatore era più un rischio che un vantaggio. Ovviamente, c’era una terza via per la vittoria a sha’rah, se la si riusciva a intraprendere prima di lasciarsi intrappolare. A quel punto la partita degenerava sempre in uno scontro sanguinario, e aveva fine solo con il completo annullamento del nemico. Lui ci aveva provato, una volta, mosso dalla disperazione, ma il suo tentativo era fallito. Dolorosamente.

La furia ribollì all’improvviso nella sua testa, e davanti agli occhi Moridin vide delle macchioline nere quando afferrò la Vera Fonte. Un’estasi pari al dolore provato si scatenò dentro di lui. Con la mano strinse le due trappole mentali, e con il Potere catturò il Pescatore, lo alzò in aria, stava quasi per ridurlo in polvere e per cancellare quella polvere dal mondo dell’esistenza. Il calice gli si frantumò nell’altra mano. Stava quasi per rompere i cour’souvra. I saa erano una tempesta di nero, ma non gli annebbiavano la vista. Il Pescatore era sempre lavorato nella forma di un uomo con una benda sugli occhi e una mano premuta su un fianco, con alcune gocce di sangue che colavano tra le dita. Il motivo di questa rappresentazione, e del nome, era perso nelle nebbie del tempo. E a volte Moridin era turbato da ciò, si adirava pensando al sapere che poteva andare perduto nel girare della Ruota, un sapere di cui lui aveva bisogno, un sapere che aveva diritto di possedere. Ne aveva diritto!

Lentamente, rimise il Pescatore sulla scacchiera. Lentamente, liberò i cour’souvra dalla stretta delle dita. Non c’era bisogno di distruggere. Non ancora. Una calma glaciale sostituì la rabbia in un batter d’occhi. Dall’altra mano colavano sangue e vino, senza che lui se ne accorgesse. Forse il Pescatore derivava da un confuso resto di un ricordo di Rand al’Thor, l’ombra di un’ombra. Ma non era importante. Moridin si accorse che stava ridendo, e non fece niente per fermarsi. Sulla scacchiera, il Pescatore era in attesa, ma nella vera partita, al’Thor si muoveva già secondo i desideri di Moridin.

E presto, ormai...

Era molto difficile perdere una partita quando si giocava da entrambi i lati della scacchiera. Moridin rise così forte che le lacrime cominciarono a scendergli lungo il viso, ma lui non se ne rese conto.

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