Entrando nel grande edificio si sentì a disagio: la sensazione oppressiva di essere un estraneo a quel vasto e labirintico palazzo di cultura.
Frugando nella sua riserva di ricordi sintetici, non riuscì a trovare di esserci mai stato. O in qualsiasi altro museo. Quelli del Riab non gli avevano fornito un grande interesse per le arti visive, a quanto pareva. La musica sì. E il teatro. Perfino il balletto. Ma niente scultura né pittura, né alcunché che potesse ricondurlo al mondo che Nat Hamlin aveva abitato. Una deliberata differenza rispetto al passato abolito.
E tuttavia, perché era così nervoso entrando? Paura di essere riconosciuto, forse. Gente che si voltava, mormorava, indicava. Guarda, quello è Nathaniel Hamlin, il famoso psicoscultore. Ha fatto quella donna nuda che abbiamo visto prima. Hamlin. Hamlin. Quell’uomo assomiglia proprio ad Hamlin. Rendendo magari necessaria una spiegazione. Mi scusi, signora, ma lei si sbaglia. Il mio nome è Paul Macy. Mai scolpito in vita mia. Toccandosi ostentatamente il distintivo Riab. Sbattendoglielo davanti agli occhi. Devo dirle, signora, che Nat Hamlin è diventata una non-persona. E la donna che si allontanava imbarazzata, i tacchi che battevano sul pavimento di pietra, lanciandogli delle occhiate al di sopra della spalla, con una piccola smorfia di disprezzo. Magari andando anche a raccontare a una guardia che l’aveva infastidita.
Macy sorrise acidamente, e cancellò l’intero scenario. Non era molto probabile che succedesse qualcosa del genere. Rembrandt avrebbe potuto camminare in quel luogo, e nessuno l’avrebbe riconosciuto. Michelangelo. Picasso. Mamma, chi è quell’omino pelato? Zitto, caro, credo che sia qualche senatore. Sì. Macy cacciò via la sua apprensione. Entrarono.
Appena oltre l’ingresso dovettero fermarsi un momento sotto un cono di luce azzurra, che dava una sensazione di formicolio; un detector che controllava se non avessero esplosivi, coltelli, barattoli di pittura o altri strumenti vandalici. Evidentemente c’era una notevole ostilità diretta contro i capolavori dell’arte in quella città. Superarono l’esame ed entrarono nel monumentale salone. Faraoni di granito rosa a sinistra; Apollo in marmo bianco sulla destra. Davanti, una fuga vertiginosa di sale. C’era l’odore secco del passato: il diciannovesimo secolo, il quattordicesimo, il terzo.
— Dov’è? — chiese. — La tua statua.
— Al secondo piano, in fondo, la sezione arte moderna — disse Lissa. Ancora una volta sembrava distante, scontrosa. Scivolava facilmente in quello stato di cupa indifferenza. — Vai tu, Paul. Io aspetto qui, mi guardo qualcosa di egiziano. Non voglio vederla.
— Vorrei che tu venissi con me.
— No.
— Gesù, perché no?
— Perché mostra quanto fossi bella. Non voglio essere insieme a te quando la vedrai. E quando ti volterai verso di me e vedrai come sono diventata. Vai, Paul. Non avrai nessuna difficoltà a trovarla.
Lui fu ostinato. Rifiutandosi di lasciarla. Restio a vedere il pezzo di Hamlin senza di lei. E se quella vista l’avesse fatto crollare di nuovo a terra; chi l’avrebbe aiutato a rialzarsi? Ma lei fu ugualmente ferma. Non sarebbe andata con lui, e basta. Quella visita al museo era una sua idea assurda. Non poteva sopportare l’idea di vedere la statua. Non vuoi venire? No. No. Una piccola scena di litigio nel maestoso salone. I loro sussurri aspri che echeggiavano da arcate di alabastro. La gente che li guardava. Si aspettava che da un momento all’altro qualcuno dicesse: Ehi, quello non è lo scultore Nathaniel Hamlin? Laggiù, quel tipo alto che discute con la rossa. Terrorizzato da quell’idea irrazionale, il suo disagio divenne così forte che fu sul punto di lasciarla fare come voleva, quando d’improvviso lei si morsicò il labbro superiore, si premette le nocche contro la mascella, tirò su le spalle come se cercasse di toccarsi con esse i lobi delle orecchie, risucchiò le guance. Cominciò a muovere la bocca da una parte all’altra. Forse era infilzata da dardi invisibili. Gli occhi fuori dalle orbite. Lucidi per il panico. Dopo qualche momento, con voce appena udibile, disse: — E va bene. Vengo con te, ma sbrighiamoci!
— Cosa ti sta succedendo, Lissa?
— Ricevo di nuovo le voci. — Una serie di contrazioni le distorse la faccia. — Rimbalzano dalle pareti, una dozzina di pensieri diversi, diventano sempre più forti. Tutti mischiati. Cristo, portami fuori da qui. Portami fuori da qui.
Tutti nel museo dovevano averla sentita. Sembrava sul punto di andare in pezzi.
La prese per un braccio e la condusse rapidamente nel lungo corridoio di fronte a loro. Non c’era quasi nessuno lì. Senza sapere bene dove andasse, se la trascinò dietro, contagiato dall’ansia e dalla sofferenza di lei; Lissa scivolava sul pavimento lucido, ma lui la tenne in piedi. Figure a cavallo, in cotte di maglia, che correvano verso di loro e svanivano alle spalle. Arazzi scintillanti che pendevano nella penombra. Spade. Lance. Coppe d’argento cesellate. Tutto il bottino del passato, e nessuno intorno, soltanto un paio di guardiani robot dalle facce inespressive.
Quando ebbero percorso un centinaio di metri si fermò, rendendosi conto che Lissa si era calmata, e rimasero un momento fermi davanti a una teca contenente ampolle e piccoli vasi romani di vetro iridescente, con elaborati manici a spirale. Lei si voltò a guardarlo, disfatta, bagnata di sudore, e gli si aggrappò addosso, appoggiandogli la guancia al petto. La sua ansia si stava decisamente calmando, ma era ancora sconvolta.
Alla fine disse: — È stato spaventoso. Una delle esperienze peggiori. Erano una dozzina e parlavano tutti assieme, ciascuno dentro il mio cervello. E la mia testa si gonfiava, si gonfiava, fino a scoppiare.
— Stai meglio adesso?
— Non li sento più. Ma gli echi nel cervello… i rumori… Sai, vorrei potermene andare dall’intera razza umana. Su qualche pianeta gelato. Su qualche luna di Giove. E viverci tutta sola, in una cupola di plastica. Anche se probabilmente sentirei i disturbi statici fin lassù. Menti che trasmettono attraverso lo spazio. Riesci a immaginarti cosa significa non poter mai stare veramente soli, Paul? Non sapere mai quando la tua mente si sta trasformando in una radio ricetrasmittente? — Fece una risata fredda. — Ehi, è buffo. Io parlo a te di star soli. Tu che hai un fantasma piazzato dentro la testa. Sei combinato peggio di me. Paul e Lissa. Lissa e Paul. Che bella coppia di storpi che siamo!
— In qualche maniera ce la caveremo.
— Scommettiamo?
— Possiamo trovare aiuto, Lissa.
— Sicuro che possiamo. E lui ti ucciderà se ti avvicini a meno di un chilometro dai tuoi dottori. E nessuno può curarmi senza ridurre il mio cervello a un hamburger. Ma possiamo trovare aiuto, sicuro. Mi piacerebbe avere un po’ del tuo ottimismo, ragazzo. — Indicò. — Possiamo prendere quella scala. L’Incubo Numero Sedici ci aspetta.
Salirono al primo piano. Un corridoio pieno di porcellane cinesi e di bassorilievi assiri; poi una sala di miniature persiane e una di porcellane iraniane; gallerie dopo gallerie di tesori arcaici, e sbucarono alla fine in un cubo di plastica trasparente che sporgeva a sbalzo dal retro dell’edificio, sopra il verde avvizzito di Central Park. L’ala dell’arte moderna.
C’era folla. Macy guardò nervosamente Lissa, temendo che precipitasse in un altro abisso telepatico, ma sembrava controllata. Lo guidò lungo metri di quadri colorati, sculture, aggeggi ticchettanti e poster danzanti e specchi metabolici e liquosfere, e tutto il resto.
A sinistra. Un respiro profondo. Una piccola stanza, senza porta: solo un ingresso circolare. Sopra l’ingresso, in lettere dorate a rilievo: antigone 21 di nathaniel hamlin. Gesù. Un’esposizione privata, tutta per lui. Quello che gli era sembrato un semplice ingresso circolare era in realtà una porta pressurizzata invisibile, che proteggeva il capolavoro fornendogli il suo habitat ambientale e psicologico. Entrarono. Non avvertirono alcuna sensazione superando la soglia: dall’altra parte era solo più fresco, l’aria pungente, piena di ioni vaganti. Un lieve odore chimico. Un basso ronzio.
— È questa — disse Lissa.
Dieci o dodici persone erano assiepate intorno a essa; Macy non riusciva a vedere. Lissa gli si era aggrappata a un braccio, tesa. La sua tensione filtrava fino a lui, un’emanazione mentale a un passo dalla paura. Lui si sentiva allo stesso modo. Il gruppo di spettatori si allargò, e come attraverso uno squarcio fra le nuvole, Macy vide l’Antigone 21 di Nathaniel Hamlin.
Una figura femminile nuda, più grande della realtà. Inconfondibilmente Lissa, ma non c’era alcun pericolo che qualcuno nella stanza si volgesse dalla statua radiosa alla ragazza smunta e svuotata, e le collegasse fra di loro. Un corpo pieno e sodo. I seni più alti e pesanti: lo scultore li aveva idealizzati, o Lissa aveva perso peso anche lì? La posa aggressiva e dinamica, la testa gettata all’indietro, un braccio teso, le gambe larghe. Oh pionieri, cose del genere. Forza ed elasticità. Occhi luminosi e fieri. La bocca che non sorrideva, ma quasi. L’intera figura che gridava: posso affrontare, posso sopportare qualsiasi cosa, fatica e avversità, inondazioni e fame, rivoluzione e assassinio; ho resistito e resisterò, sono l’essenza di tutto ciò che resiste. L’eterno femminino. Eccetera.
Ma naturalmente la scultura non era solo un nudo accademico stile diciannovesimo secolo con un tocco sexy, e neppure un monumento sentimentale ai concetti stereotipati della femminilità. Era queste cose, sì, ma era anche una psicoscultura, e ciò significava che si avvicinava alla condizione della vita, era un intero cosmo in se stessa. Faceva dei trucchi. La stanza era programmata per accentuare gli effetti. Impercettibili mutamenti di luce. Quello strano ronzio, proveniente da una batteria di generatori sonici nascosti, controllava l’umore attraverso lo schema delle modulazioni, colpendo chi guardava a qualche livello sotterraneo della loro psiche.
Anche il grado di ionizzazione della stanza cambiava continuamente. E la statua medesima attraversava un ciclo di trasformazioni. Guarda, i capezzoli sono eretti adesso, i seni si sollevano (o è solo un’illusione ottica?), gli occhi sono quelli di una donna in calore. Cosa ne è stato della donna sprezzante e pronta a tutto di tre minuti fa? Adesso stiamo vedendo l’essenza della sessualità. A uno verrebbe voglia di saltarle addosso e scoparla.
Ma ancora cambia. I suoi succhi inacidiscono, i capezzoli si ammorbidiscono: una donna frustrata, una donna respinta. Quanto è amaro quella specie di sorriso. Nasconde dei risentimenti. Nel buio della notte sarebbe felice di castrare il maschio ignaro. Ma la forza dell’odio l’abbandona. Ha paura; sa che ci sono delle domande per le quali non ha risposta; sente i fantasmi della notte sbatacchiare contro la finestra, le ali che colpiscono sempre più forte. Il terrore chiude su di lei la sua mano. È sola, nuda e vulnerabile, neanche lontanamente forte come le piacerebbe che il mondo credesse.
Se adesso venissero ad attaccarla… Ma ciò che viene è l’alba. Una illuminazione. Ritrovare il proprio posto nell’universo, sotto un sole amichevole. Sembra più grande. Più vecchia, anche se non meno bella; voluttuosa, anche se più fredda di prima; padrona di se stessa, senza dubbio. Discendenza di Venere. Una personalità completamente diversa ogni qualche minuto.
Quali meccanismi sono all’opera sotto la pelle elastica di quella figura? Come viene messo in atto il ciclo di trasformazioni? Osservandola, il gioco continuamente mutevole delle emozioni e impressioni, i sottili mutamenti di posizione e di atteggiamento, Macy si sente impressionato e sopraffatto, ma anche vagamente truffato. Non aveva saputo cosa aspettarsi dall’arte del suo precedente io, se non che sarebbe stata drammatica e impressionante. Ma è davvero arte, questo astuto robot? Tutti questi trucchi meccanici riusciranno veramente ad affiancarsi ai veri capolavori artistici di tutti i tempi? Non è un critico. In verità non sa niente, ma l’intenso realismo della scultura, che costituisce la sua caratteristica più apparente, gliela fa sembrare esteticamente primitiva, un giocattolo di abilità, un trionfo dell’ingegno, non dell’arte.
Ma nonostante questo. Nonostante questo. È impossibile non reagire alla forza della scultura. Alla esattezza con cui Lissa è stata catturata da quegli ingranaggi e pulegge; non la sua Lissa, non la ragazza spezzata e confusa che conosce, ma la Lissa gloriosa di Nat Hamlin, il cui guscio vuoto è capitato al successore di Hamlin. Quello che Hamlin ha creato può anche essere semplicistico, paragonato a Leonardo, Cellini e Henry Moore, ma al di là di questa superficialità può celarsi una profondità accuratamente mascherata, sospetta Macy. Potrebbe stare lì a studiare la figura per ore. Giorni. Come sembrano fare gli altri. Quegli studenti che mormorano annotazioni nei registratori a mano, e quell’altro che prende olografie dell’opera da ogni angolo possibile… anche loro sono stati presi in trappola, chiaramente. Un capolavoro. Innegabilmente un capolavoro.
Con uno sforzo si voltò, avvertendo uno schiocco quasi udibile quando si interruppe il contato visivo con la scultura, e guardò Lissa. Era appoggiata a una parete, le labbra aperte, gli occhi fissi e vitrei, catturata dal mesmerismo del suo schiacciante simulacro. Una smorfia raggelata sulla sua bocca. Quali correnti di identità, si chiese, scorrevano da lei alla scultura, dalla scultura a lei? Quale inaridirsi dell’io si stava verificando, e quale arricchimento? Che effetto faceva vedersi trasformata in un’opera d’arte?
E dov’era Hamlin? Perché non saltava su e faceva salti di orgoglio di fronte al suo capolavoro, come quel giorno nell’ufficio di Harold Griswold? Hamlin era tranquillo. Ma non assente. Macy divenne gradualmente consapevole di lui, sotto la superficie, nelle profondità del suo cervello. Una spina nella zampa. Un sasso nella scarpa. Macy non pensava che sarebbe rimasto rinchiuso a lungo nella sua prigione.
E neanche Hamlin. Si stava sollevando lentamente alla superficie, come una bolla. Evocato alla coscienza da Antigone 21. Va bene così, pensò Macy. Venga pure. Posso tenerlo a bada. Preparandosi a riceverlo, Macy attese che il suo alter ego arrivasse alla superficie. Non era ostile, questa volta. Neppure aggressivo. Un’aria prevalente di calma. Nessun apparente risentimento per la recente sconfitta. Ma forse era una finta. Cogliermi alla sprovvista e cercare di nuovo di conquistare i centri del linguaggio. Sono pronto a qualsiasi cosa. Ma quando Hamlin aprì la conversazione, il suo tono era rilassato, cortese:
…Cosa te ne pare?
Impressionante. Non sapevo che fossi capace di tanto.
…E perché? Ti sembro un artista da strapazzo, Macy?
L’unico aspetto che conosco di te è la violenza, la criminalità. E non mi piace. Non associo la grande arte con questo tipo di personalità.
…Stronzate borghesi, amico.
Davvero?
…Punto primo: un uomo può essere un ladro, un assassino, un pederasta, qualsiasi cosa, ed essere lo stesso un grande artista. La sua moralità non ha niente a che fare con la qualità delle sue percezioni, giusto? Saresti sorpreso se sapessi quanta della roba in questo museo è stata prodotta da perfetti bastardi. Punto due: si dà il caso che io sia diventato un artista decente quindici anni prima che diventassi quello che chiamano un nemico della società. Quel pezzo che stai vedendo è stato finito prima che avessi il mio crollo. Punto terzo: dal momento che non mi hai mai conosciuto, non hai nessun maledetto diritto di giudicare che tipo di persona fossi.
Posso concederti il punto due, e forse l’uno. Ma perché dovrei ammettere il terzo? Ti conosco più che bene, Hamlin. Mi hai fatto svenire, ti sei messo a giocare con il mio cuore, hai cercato di impadronirti di pezzi del mio cervello, hai minacciato chiaro e tondo di uccidermi. Dovrei volerti bene per questo? Questa è la prima volta da quando sei venuto alla superficie che ti comporti in maniera civile. Sei venuto da me come un assassino; pretendi che non sia sorpreso che tu possa aver creato una scultura come questa?
…Credi davvero che io sia un criminale?
Sei stato condannato come tale.
…Lascia perdere quelle stronzate. Parlo dei miei rapporti con te. Credi che agisca così per pura cattiveria?
Cos’altro potrei pensare?
…Ma non è così, Macy. Non mi sei antipatico. Non voglio farti del male, non ho nessun sentimento negativo verso di te. Si dà solo il caso che tu sia capitato sulla strada di un uomo che combatte per la sua vita.
Ossia tu.
…Esatto. Voglio essere di nuovo me stesso. Non voglio rimanere sommerso dentro di te.
Il tribunale ha decretato…
…Che si inculi il tribunale. L’intero sistema Riab è un’assurdità isterica. Perché cancellarmi? Perché non riabilitarmi nel vero senso della parola? Non ero irrimediabilmente pazzo, Macy. Merda, è vero, ho fatto un sacco di cose orrende, lo ammetto, ero fuori di testa. Ma nell’anno 2007 potevano avere dei sistemi migliori per affrontare la pazzia che una condanna a morte.
Ma…
…Fammi finire. È stata una condanna a morte, no? Strapparmi dal mio corpo e gettarmi via, e mettere qualcun altro nella mia testa? Che ne è stato di tutte le esperienze che avevo accumulato? Che ne è stato delle mie capacità, del mio talento? Cosa è successo a me, dannazione, a me? Ucciso. Ucciso. Solo il corpo di uno zombie è rimasto. È soltanto per puro caso che sono ancora qui, e in queste condizioni, sospeso dentro di te. Che razza di umanitarismo è questo? Come lo chiamano tenersi il corpo e gettare via l’anima?
Non le ho fatte io le leggi.
…Su questo siamo d’accordo, Macy. Ma tu non sei uno stupido. Ti rendi conto di quanto palesemente ingiusto sia il sistema Riab. Vogliono separarmi dalla società perché sono pericoloso, e va bene, va bene, sono d’accordo: rinchiudetemi da qualche parte, cercate di rimettermi in sesto, purgatemi di tutti i veleni. D’accordo. E invece questo. Le superiori risorse della scienza moderna vengono usate per assassinare un grande scultore un po’ squilibrato e inventare al suo posto un commentatore dell’olovisione un po’ tonto.
Grazie.
…Cos’altro dovrei dire? Guarda la mia Antigone. Saresti capace di rifarla? Sarebbe capace qualcun altro? L’ho fatta io. Il mio dono all’umanità. E una cinquantina di altre quasi altrettanto belle. Non mi sto vantando, Macy. Sono dannatamente obiettivo. Ero qualcuno che valeva, avevo un dono speciale, avevo intensità e umanità. Forse il mio dono mi ha fatto impazzire, dopo un po’, ma almeno avevo qualcosa da offrire. E tu? Tu cosa sei? Chi sei? Non sei niente. Non hai profondità. Non hai consistenza. Non hai passato. Non hai realtà. Sono stato dentro di te a fare un inventario. Lo so di cosa sei fatto, Macy, ed è tutto sintetico. Non hai alcuno scopo per esistere. Non sai fare niente che non potrebbe far meglio un robot. Un commentatore dell’olovisione? Possono programmare una macchina con una bella voce calda, e ti farebbe sparire dall’etere per sempre.
Lo ammetto, rispose Macy. Era in piedi rigido, fingendo di studiare la scultura. Si chiese quanto tempo fosse trascorso durante il suo colloquio con Hamlin. Cinque secondi? Cinque minuti? Aveva perso il senso delle cose esterne. Concesso che tu eri un genio e io una nullità, cosa dovrei fare?
…Sgombrare il campo.
Facile a dirsi.
…Sì. Non è difficile. Posso farti vedere come. Ti rilassi, abbassi le tue difese, lasci che ti dia il coup de grace. Quindi tu sparisci nel limbo da cui ti hanno tirato fuori, e io posso funzionare come Nat Hamlin, indossando la maschera di Paul Macy. Posso ricominciare a scolpire. Tranquillamente. Finché non faccio del male a nessuno, me la posso cavare.
Faresti del male a me.
…Ma tu non hai nessun diritto di esistere! Sei una finzione, Macy. Non sei una persona reale.
Esisto adesso. Sono qui. Ho sentimenti, ambizioni e paure. Quando mangio una bistecca ne sento il sapore. Quando scopo una ragazza mi piace. Lo sai com’è. Tagliami e sanguino. Sono una persona reale, reale come chiunque sia mai vissuto.
…Come faccio a convincerti che non è vero?
Non puoi. Per me sono reale come chiunque altro lo è per se stesso. Senti, Hamlin, questa non è una questione di logica. Non posso dirti: okay, sei un genio, mi inchino alla cultura, tagliami la testa e prendi il mio posto. È molto meglio così, eccetera eccetera. No. Io ci sono, e voglio continuare a esserci.
…E io allora?
Finisci nel cesso, suppongo. In questo momento sei tu a essere irreale, lo sai? Ufficialmente sei morto. Sei solo un fantasma che si aggira dentro il mio cranio. Perché non compi un gesto nobile? La smetti di incasinare la vita di un essere umano decente e inoffensivo, e ti fai da parte. Sgombra il terreno, come hai detto a me. Abbassa le difese e lascia che ti stenda.
…Non sperarci.
Hai dato abbastanza capolavori al mondo.
…Sono ancora giovane. Sono migliore di te. Merito di vivere.
Il tribunale la pensava altrimenti. Il tribunale ti ha cancellato dal mondo per chissà quali crimini, e…
…Per stupro. Era solo stupro.
Non mi interessa se era per aver riutilizzato francobolli usati. Una sentenza è una sentenza. Non intendo rinunciare alla mia vita per rimediare a quello che tu chiami un errore giudiziario.
…Tu non hai una vita, Macy!
Spiacente. Ce l’ho.
Un lungo silenzio. Macy guardò la scultura, i visitatori, le pareti. Gli girava la testa. La presenza di Hamlin rimaneva manifesta dentro di lui, come una pressione costante, silenziosa, pesante. Alla fine:
…Va bene. Non si arriva da nessuna parte in questa maniera. Fatti un giro per il museo. Proseguiremo la discussione un’altra volta.
La sensazione di Hamlin che mollava. Affondava nuovamente nelle profondità. Plop. Splash. L’illusione della solitudine. Solenne musica di tromboni che sottolineava l’uscita dell’alter ego. Macy era inzuppato di sudore. Stava in piedi a fatica.
Lissa: — Ne hai visto abbastanza?
— Credo di sì. Possiamo andare. Aspetta, lascia che ti prenda per mano.
— Qualcosa non va, Paul?
— Un giramento di testa. — Non riusciva a guardarla. Stringendo le dita fredde della ragazza fra le sue. Passo. Passo. Attraverso la porta invisibile. Fuori, nel corridoio, trovò una panca e si lasciò cadere su di essa. Lissa si affannava intorno a lui, sconcertata. Macy disse: — Mentre guardavo la statua, ho avuto una specie di conversazione con Hamlin. Molto tranquilla. È stato quasi affascinante.
— Che cosa ti ha detto?
— Un sacco di insidiose stronzate. Mi ha invitato a uscire dal nostro corpo, per tenerselo lui. Per via del fatto che lui è un grande artista e merita di vivere più di me.
— Proprio quello che c’era da aspettarsi da lui!
— Appunto. Gli ho detto di no, e lui è tornato nella sua caverna. E adesso mi rendo conto che devo aver usato più energie di quanto credessi.
— Siediti. Riposa.
— È quello che sto facendo.
— E l’Antigone? — chiese lei.
— Incredibile. Mi ha sconvolto. Quasi provo una specie di orgoglio paterno di seconda mano. Voglio dire, sono state queste mani a crearla. Questo cervello. Anche se io non ero lì in quel momento. E…
— No — disse Lissa. — L’hanno fatto queste mani, ma non questo cervello. — Gli batté leggermente le dita sul cranio, con affetto. — Un cervello è solo una massa di formaggio grigio. I cervelli non creano sculture. Le menti lo fanno. E questa non è la mente che ha concepito l’Antigone.
— Me ne rendo conto — le disse rigidamente. I suoi cavilli l’avevano in qualche maniera disturbato. Un segno di lealtà nei confronti di Hamlin, forse. Sentì una punta di gelosia. Era difficile accettare che lei era stata lì, mentre quell’opera veniva creata, aveva posato, era stata presente nelle ore infuocate della creazione, lei e Hamlin, nei giorni prima che Paul Macy nascesse. Pensare a questo lo faceva sentire un intruso nel suo stesso corpo. Quali estasi avevano condiviso Lissa e Hamlin, quali gioie e dolori, quali momenti esaltanti? Lui era escluso da tutti questi eventi. Tagliato fuori dal muro impenetrabile del passato. Altri tempi, un altro io. Ma lei ricordava. Con la fronte aggrottata, osservò i visitatori del museo entrare a gruppi di tre e quattro nella sala di Hamlin. Hamlin ha ragione, pensò cupamente. Non sono niente. Non ho spessore. Non ho passato. Non ho realtà. Alzandosi di scatto disse: — C’è qualcos’altro che vorresti vedere, dal momento che siamo qui?
— È stata una tua idea venire.
— Visto che ci siamo.
— No, niente — disse Lissa. — Niente di importante.
— Andiamo, allora.
— Hai saputo quello che volevi sapere dall’Antigone? — chiese lei.
— Sì — disse lui. — Tutto quello che volevo sapere. E di più. Forse troppo. — Uscirono in fretta dall’edificio usando una porta laterale, nell’ala egiziana.