Pochi minuti dopo le sei era ancora nella sala stampa, dove stava terminando l’ultimo pezzo della giornata. Una rabbia fredda e torva lo attanagliava tuttora. Si uccidesse pure, quella troia. Non intendo farmi ricattare in questa maniera. Lei non significa niente per me, se non guai.
Con un gesto secco assunse il controllo dell’occhio volante che sorvegliava la strada al di fuori dell’edificio, tenendo costantemente sotto controllo eventuali dimostrazioni, attentatori, gente che si suicidava per protesta. Con movimenti abili, imparati da poco, fece muovere la telecamera aerea lungo la via, fino all’angolo dove Lissa aveva detto che l’avrebbe aspettato. Adesso il controllo fine.
Sì, eccola. Passeggiava in un piccolo cerchio, una zona chiusa di tensione, sulla strada affollata. Che vada al diavolo. Può fare quello che le pare di se stessa. Quello che le pare. Macy firmò e lasciò la sala stampa, e scivolando sulla superficie ghiacciata della sua rabbia, si diresse verso il pozzo. Giù per quaranta piani. Attraversò l’atrio, velocemente. Fuori. Una dolce serata di primavera. Lunghe file di impiegati diretti verso casa, che si infilavano nell’imboccatura del tubo. Era facilissimo evitarla in mezzo a quella folla. Bastava scivolare via.
Ma si accorse di camminare verso di lei. Uno-due-uno-due; non riusciva a fermarsi. Lei sembrava stesse parlando fra sé; gli occhi rivolti in basso, non si accorse di lui. Da venti metri di distanza la guardò con occhi corrucciati. Chi diavolo crede di essere, per usarmi in questa maniera? Giocare coi miei sentimenti. Ho bisogno di te, ho tanto bisogno di te! Con sottofondo di violini. Sfruttando il mio senso di colpa. Incontriamoci all’angolo, o salterò giù dal ponte di Palisades! Sicuro. Che mi importa se vuoi saltare giù da un ponte, tesoro? Non ho nessuna ragione di provare sensi di colpa. Colpa? Non ho fatto un bel niente. Sono tutto nuovo. Cristo, sono perfino vergine. Esatto: Paul Macy è vergine. Un maledetto vergine.
Era giunto a pochi passi dalla ragazza, ma lei non l’aveva ancora visto. Fece per toccarle un braccio ma si arrestò, mentre un curioso senso di fastidio gli passava nel cranio. Ancora quella sensazione di duplicità, quella confusione di identità. Disorientamento. Un risuonare lontano, come di una campana attutita. Assieme a esso arrivò un rapido spasmo di nausea, una lieve costrizione attorno al pomo di Adamo.
Poi tutti i sintomi fastidiosi svanirono. Le toccò il braccio. — E va bene — disse scorbutico. — Svegliati! Sono qui. È stato uno sporco trucco, ma ci sono caduto. Ed eccomi qui.
— Nat! — Guardandolo con un misto di stupore e felicità. Macchie di colore che punteggiavano le sue guance. Le palpebre che sbattevano; ha paura di me, si rese conto d’improvviso. Ebbe un secondo attacco di inquietudine, che sparì prima di avere un effetto qualsiasi. — Oh, Nat, grazie a Dio sei venuto.
— No — disse lui. — Stabiliamo questo una volta per tutte. Io mi chiamo Paul Macy. Se vuoi avere qualcosa a che fare con me, devi chiamarmi con questo nome, e basta. Paul Macy. Dillo.
— P-Paul.
— Dillo tutto.
— Paul Macy. Paul Macy.
— Bene. — Gli stava venendo il mal di testa: due lance di dolore che convergevano verso il centro del cranio. Quella ragazza non gli faceva bene. — Nat Hamlin non esiste più, e cerca di non dimenticarlo — disse. — Dunque: volevi incontrarmi, e sono venuto. Cos’hai in mente?
— Sembri così crudele, Paul. — Incespicò sul Paul.
— Solo irritato. La tua minaccia di suicidio… Che miserabile ricatto. Avrei dovuto vedere il tuo bluff.
— Non era un bluff.
— Come vuoi tu. Ci sono caduto e sono qui. Cosa vuoi?
— Non possiamo parlare qui — disse lei. — In mezzo alla gente. Per strada.
— Dove, allora?
— A casa tua?
Lui scosse la testa. — Assolutamente no.
— La mia, allora. Possiamo arrivarci in quindici minuti. È tutto sporco, ma…
— Cosa ne dici di un ristorante? — suggerì lui.
Lei si illuminò. — Benissimo. Qualsiasi locale vuoi tu. Uno dei tuoi preferiti, dove ti sentirai a tuo agio. Lui cercò di pensare a uno dei suoi ristoranti preferiti.
— Non conosco nessun ristorante — disse. — Scegline uno tu.
— Non ne conosci nessuno? Ma se mangi sempre fuori, praticamente ogni sera. Era una specie di mania per te…
— Quello era Nat Hamlin — disse lui. — Sarà stato lui a mangiare fuori ogni sera. Se lo dici tu. Ma non io. Non ancora.
Frugò nella sua riserva di ricordi, cercando il nome di qualche ristorante di Manhattan. Zero. Avrebbero dovuto fornirgli il nome di qualche ristorante quando avevano costruito Paul Macy, al Centro Riab. Non sarebbe stato affatto difficile per loro. Gli avevano dato ogni genere di ricordi. Campione della squadra di lacrosse al liceo. Varicella. Un padre e una madre. Una gamba rotta sulla montagna di Gstaad. Letture di Proust ed Hemingway. Una mano infilata sotto la polo di Jeanie Grossman. Trentacinque anni di ricordi fasulli. Ma nessuna informazione sui ristoranti. Forse Gomez, Iannuzzi e Brewster non mangiavano molto fuori. O forse l’argomento ristoranti era nascosto in qualche angolo della sua mente che non aveva ancora scoperto. Disse: — Sul serio. Non ne conosco nessuno. Scegli tu.
— C’è un ristorante del popolo a due isolati da qui. Ci vado spesso. Lo conosci?
— No.
— Potremmo andare lì.
Era un locale lungo e stretto, con pareti di ottone annerito e un fascio di fili luminosi che lampeggiavano difettosamente, intrecciati al soffitto di paglia. Era un self-service: uno prendeva quello che voleva, da una serie di cubicoli automatici lungo il bancone. Poi ci si sedeva a lunghi e squallidi tavoloni comuni. Macy, seguendo Lissa lungo il bancone, chiese: — Come fai a sapere cosa spendi?
— È un ristorante del popolo.
— E allora?
— Non sai cosa sia?
— Ci sono tante cose nuove per me.
— Paghi quello che ti puoi permettere — disse. — Se non hai soldi, mangi e ti metti in pari la volta successiva. Oppure vai ad aiutare a lavare i piatti.
— Funziona il sistema? — chiese Macy.
— Non molto bene. — Fece un sorriso spento, e cominciò ad accumulare cibo sul suo vassoio. In pochi momenti l’aveva completamente occupato con i piatti. Cinque tipi diversi di carne sintetica, una montagna di insalata e verdure, tre panini e altre cose. Lui fu più modesto: succhi vegetali, bistecca proteoide, fritto di alghe, una tazza di no-caffy. Al termine del bancone c’era un terminale del credito centrale, Lissa ci passò a fianco senza degnarlo di un’occhiata. Macy esitò un momento, confuso, scrutando lo schermo verde scuro. Con fare innervosito, autorizzò il terminale ad addebitare dieci dollari sul suo conto. Una ragazza con la faccia piatta, che lo seguiva nella fila, sbuffò con disprezzo. Si chiese se avesse pagato troppo o troppo poco. Lissa era già diretta verso un tavolo vuoto, in fondo al ristorante. Afferrò il vassoio e la raggiunse.
Si sedettero l’uno di fronte all’altra, il piano nudo del tavolo fra di loro. — Ho qualche oro — disse lei. — Ne vuoi una?
— Non saprei.
— Prova. — Tirò fuori un pacchetto. Il coperchio si aprì e ne uscì una sigaretta. Lui la prese. Anche lei ne prese una, e lui la osservò attentamente mentre premeva il cappuccio di accensione con l’unghia. Fece la stessa cosa. Una tirata profonda. Quasi immediatamente sentì un senso di vertigine e un’accelerazione dei battiti. Lei gli strizzò un occhio e gli soffiò il fumo in faccia.
Poi cominciò a mangiare, come se fosse a digiuno da settimane. La maniera con cui divorava il cibo, del tutto inconsapevole della propria voracità, lo affascinava: era come guardare un incendio spazzare un campo secco. La testa protesa in avanti, le mascelle che lavoravano freneticamente. Rumori di masticazione. Denti bianchi che balenavano. Lui rimase seduto immobile, inalando la sigaretta, cercando senza successo di infilzare un pezzo di alga con la forchetta. Lei alzò gli occhi. — Non hai fame? — chiese con la bocca piena.
— Non quanto te, suppongo.
— Non badare a me.
Lissa aveva i polsi sporchi, e c’era un velo di sudiciume visibile sul suo collo, indossava la medesima giacca blu del primo giorno in cui l’aveva vista. Ancora una volta nessun trucco. Le unghie erano spezzate. Ma non era in disordine soltanto esteriormente: emanava un senso di disgregazione interiore che lo terrorizzava. Evidentemente un tempo era stata una ragazza molto bella, forse straordinariamente bella. Tracce di questa bellezza ancora rimanevano. Ma aveva un aspetto disseccato, consumato, come se una febbre dell’anima avesse consumato la sua sostanza. Gli occhi, grandi e iniettati di sangue, non rimanevano mai fermi, svolazzando come uccelli da un posto all’altro. Guance più incavate del dovuto. Le mancavano circa cinque chili al peso ideale, calcolò. E aveva bisogno di un bagno. Spense il suo mozzicone e si tagliò un pezzo di bistecca. Filetto di cartapesta. Inghiottì a fatica.
Lissa disse: — Così va meglio! Un po’ di cibo in pancia, finalmente.
— Perché avevi così fame?
— È sempre così. Brucio energie.
— Sei ammalata?
Lei alzò le spalle. — Chi lo sa? — Lo fissò per un momento negli occhi. — Sto cercando di pensare a te come Paul Macy. Non è facile, stando seduta con Nat Hamlin di fronte.
— Nat Hamlin non esiste.
— Davvero non ti ricordi di me?
— Zero — disse lui.
— Merda! Ma cosa ti hanno fatto al Centro Riab?
Lui disse: — Hanno imbottito Nat Hamlin di dissolvitori di memoria, finché di lui non è rimasto più niente. Solo una specie di zombie, capisci? Un corpo vuoto e sano. La società non vuole sprecare un bel corpo sano. Poi hanno costruito me dentro la testa dello zombie.
— Costruito? Cosa vuoi dire con "costruito"?
— Mi hanno creato un’identità. — Chiuse un momento gli occhi. Gli sembrava di avere il colletto troppo stretto. Una sensazione di soffocamento. Non era previsto che spiegasse cose del genere. Il mondo doveva dare tutto quanto per scontato. — Hanno costruito il passato, un insieme di eventi in cui possa muovermi come se fossero realmente accaduti. Per esempio che sono cresciuto a Idhao Falls, e mi sono trasferito a Seattle a dodici anni. Mio padre era ingegnere e mia madre insegnante. Adesso sono morti entrambi. Né fratelli né sorelle. Facevo collezione di francobolli africani, andavo a caccia e a pesca. Sono stato all’università, l’UCLA, classe ’93, e mi sono laureato in filosofia e comunicazioni. Due anni di servizio civile, in Bolivia ed Ecuador, facendo la voce fuori campo per il Canale della Repubblica Del Popolo. Poi vari lavori TV e OV in Europa e negli Stati, e adesso qui a New York. Eccetera eccetera.
— Mio Dio — disse lei. — Ed è tutto falso?
— Più o meno. Segue la biografia di Nat Hamlin finché può. Riguardo all’età, per esempio. O il fatto che Hamlin si sia rotto una gamba quando aveva ventisei anni, e questo si vede dall’osso, così mi hanno fatto avere un incidente di sci per quell’anno.
— Cosa succederebbe se controllassi i registri dell’UCLA, cercando Paul Macy nel ’93?
— Lo troveresti. Con un asterisco Riab, per indicare che è solo una registrazione fittizia che copre un’identità retroattiva. La stessa cosa troveresti nel registro delle nascite di Idhao Falls. Fanno un lavoro molto accurato.
— Cristo — disse Lissa. E rabbrividì. — È una cosa raccapricciante! Sei davvero una persona interamente nuova.
— Non so fino a che punto sono una persona. Ma nuovo di sicuro.
— Allora non hai nessuna idea su chi sia io?
— Posavi per Nat Hamlin, vero?
Lei parve sorpresa. — Come fai a saperlo? Non ho mai detto a nessuno…
— Quel giorno che mi hai fermato per la strada — disse lui — mentre parlavamo, ho visto per un attimo la tua immagine, nuda in uno studio, e io ero chino su una tastiera complicata e ti dicevo di gridare. Come uno psicoscultore che cerchi di ottenere un effetto emotivo. È durata forse mezzo secondo, poi è sparita. — Si inumidì le labbra. — È stato come se un pezzo della memoria di Nat Hamlin venisse alla superficie.
— O un pezzo della mia mente che entrava nella tua — disse lei.
— Eh?
— Succede, non riesco a tenerlo sotto controllo. — Una risatina acuta. — Da qualsiasi parte ti sia venuta, era vera. Ero una delle modelle di Nat Hamlin. Dal gennaio all’agosto del ’06, quando lavorava alla sua Antigone 21. Quella che ha comprato il Metropolitan. La sua ultima grande opera, prima del crollo. Sai del suo crollo?
— Qualcosa. Non parlarmene. — Sentiva un cerchio di fuoco intorno alla testa. Il semplice fatto di stare per tanto tempo vicino a qualcuno appartenente alla sua vecchia vita era doloroso. — Mi dai un’altra oro?
Lei gli porse la sigaretta e disse: — Sono stata anche la sua amante, per tutto il cinque e gran parte del sei. Diceva che avrebbe divorziato e mi avrebbe sposato. Come Rembrandt. Come Renoir. Innamorato della modella. Solo che invece perse la testa. E cominciò a fare tutte quelle cose.
Macy, d’improvviso vulnerabile, cercò di fermarla sollevando una mano, ma non c’era modo di arrestare il flusso delle sue parole. — L’ultima volta che l’ho visto è stato il Giorno del Ringraziamento del 2006. Al suo studio. Litigammo e mi buttò giù dalle scale. — Fece una smorfia. Nella mente di Macy apparve un’immagine lancinante: un volo senza fine, la ragazza che cadeva, cadeva, le gonne intorno alle cosce, le gambe che si agitavano, le braccia che cercavano di afferrare qualcosa, il grido che diventava sempre più flebile, l’impatto improvviso. Il rumore di qualcosa che si spezzava. — Sei settimane in ospedale, con la pelvi spezzata. Quando sono uscita gli davano la caccia dal Connecticut al Kansas. Poi…
— Basta! - urlò Macy. La gente si voltò a guardarli.
Lissa si ritrasse da lui. — Scusa — disse, ripiegandosi su se stessa, tremante. Aveva le guance arrossate per la vergogna e l’eccitazione. Dopo un momento disse a bassa voce: — Fa molto male quando parlo di lui?
Un cenno di assenso. Silenzio.
— Hai chiesto di vedermi perché sei nei guai — disse lui alla fine.
— Sì.
— Ti saresti davvero uccisa se non fossi venuto?
— Sì.
— Perché?
— Sono sola. Non ho nessuno. Sto impazzendo.
— Come fai a saperlo?
— Sento delle voci. Le menti altrui entrano nella mia. E la mia nelle loro. Percezione extrasensoriale.
— ESP? — disse lui. — Come… la telepatia?
— Telepatia. Ecco cos’è. ESP. Telepatia.
— Non credevo che esistesse davvero.
Una risata amara. — Puoi scommeterci il culo. Seduta di fronte a te. In carne e ossa.
— Sai leggere nella mente? — chiese lui, sentendosi come se brancolasse in un sogno.
— Non esattamente. Solo toccare un’altra mente. Non lo posso controllare coscientemente. È come qualcosa che entra e che esce. Voci che ronzano nel mio cervello, una parola, una frase, un’immagine. Mi succede da quando avevo dieci anni, dodici. Solo che adesso è molto peggio. Molto, molto peggio. — Tremando. — Gli ultimi due anni. Un inferno.
— Perché?
— Non so più chi sono, un sacco di volte — disse lei. — Mi capita di essere cinque o sei persone insieme. Sento un rumore sibilante nella testa. Un ronzio. Voci. Come interferenze, solo che qualche volta filtrano delle voci. Ricevo tutte queste emozioni strane, e mi fanno paura. Non so se è la mia immaginazione o cosa. C’è qualcuno a due tavoli da qui che vuole violentarmi. Vorrebbe averne il coraggio. Nella sua testa sono nuda e sanguinante, con le gambe spalancate, legata al letto. E alla mia sinistra c’è una donna che trasmette odore di merda. Mi vede come una specie di stronzo gigantesco seduto qui. Non so perché. E tu…
— No — disse lui. — Non dirmelo.
— Non è niente di brutto. Pensi che sono sporca e vorresti portarmi a casa e farmi un bagno. E poi scoparmi. Non mi dispiace. Lo so di essere sporca. E piacerebbe anche a me andare a letto con te. Ma non riesco a sopportare tutte queste voci che si incrociano nel mio cervello. Sono indifesa, Nat, indifesa davanti a ogni pensiero che…
— Paul.
— Come?
— Chiamami Paul. È importante per me.
— Ma tu sei…
— Paul Macy.
— Ma in questo momento tu mi arrivavi come Nat Hamlin. Dal profondo di te stesso.
— No. Hamlin non esiste più. Io sono Paul Macy. — Un senso di nausea. I fili luminosi che dondolavano e sibilavano sopra la sua testa. Si accorse di averle preso le mani fra le sue. Dita screpolate contro i suoi polpastrelli. Disse: — Se soffri tanto perché non cerchi aiuto? Forse c’è una cura per l’ESP. È questo che vuoi, una cura? Potrei portarti dalla dottoressa Iannuzzi, è una donna molto comprensiva, e lei potrebbe mandarti nell’ospedale psichiatrico giusto, e…
— E mi farebbero l’elettroshock — disse Lissa. — Dislocazione di ricordi, come se fossi una criminale. Mi farebbero il lavaggio del cervello, cercando di curarmi. Non resterebbe più niente di me. Ho paura delle cure. Non ci sono mai andata, e non voglio andarci.
— Cosa vuoi allora?
— Non lo so.
— Allora cosa dovrei fare io per te?
— Non so neppure questo, Paul. Sono completamente suonata, perciò è inutile farmi domande razionali. — I suoi occhi luccicavano in maniera inquietante. Era malata, malata. — Quello che dovresti fare — disse lei — è di tagliare la corda, subito, come hai voluto fare dal primo momento in cui mi hai vista. Solo non farlo. Dio, ti prego, non farlo. Aiutami. Aiutami.
— Come?
— Stai con me un po’. Sono sola. Mi sono isolata dal mondo intero. Sai come vivo? Non ho un lavoro. Non ho più amici. Mi guardo nello specchio e vedo uno scheletro. Sto seduta a casa, e aspetto che le voci se ne vadano, e quelle mi urlano e urlano fino a spaccarmi la testa. Vivo con l’assistenza sociale. Poi me ne vado a fare una passeggiata, un giorno, e arrivo fino in centro, e vado a sbattere contro uno che passa per strada, e quello si volta, ed è Nat Hamlin, l’unico uomo che abbia mai amato. Solo che non è più Hamlin, ma è Paul Macy, mi dice, e… — Tirò un respiro. — E va bene. Non mi conosci per niente, e io non posso dire di conoscere te. Ma conosco il tuo corpo. Ogni centimetro. È una cosa familiare per me, un punto di riferimento, qualcosa a cui posso aggrapparmi. Lascia che mi ancori. Lascia che mi aggrappi. Sto affogando, Paul, e forse tu puoi tenermi a galla, per amore di quello che significavo per quello che tu eri. Forse. Forse per un po’. Non me lo devi, non mi devi nulla. Puoi alzarti e uscire, e ne avresti ogni diritto. Ma non farlo. Perché ho bisogno di te.
Sudato, intontito, i pugni serrati sotto il tavolo, Macy provò una folle ondata di compassione per lei. Aveva voglia di dire: Sì, certo, farò tutto quello che posso per te. Vieni a casa con me. Fatti un bagno, fumiamoci qualche oro e parliamo, parliamo di questa tua telepatia, di questa illusione. Non perché ti abbia mai conosciuta. Non perché le cose che sono successe fra te e Nat Hamlin ti diano qualche diritto su di me. Ma solo perché sei un essere umano che soffre e ti sei rivolta a me per aiuto, e come faccio a rifiutarmi? Un atto di pietà. Sì, sì, sarò la tua ancora di salvezza.
Invece disse: — Mi stai chiedendo molto. Neanche io sono l’individuo più stabile che ci sia al mondo. E per ordine dei dottori devo tenermi lontano da gente che abbia avuto a che fare con Nat Hamlin. Potresti procurarmi un sacco di guai. E io a te. Credo che i rischi per entrambi noi siano superiori al guadagno.
— Vuol dire che non vuoi essere coinvolto?
— Temo di sì.
— Mi dispiace averti fatto perdere tanto tempo — disse lei. Con voce sorda. Senza cambiare espressione. Senza crederci veramente, forse.
— Non ho perso tempo. Vorrei solo essere nelle condizioni di poterti aiutare. Ma un Riab vive lui stesso sull’orlo del collasso, all’inizio. Deve costruirsi una vita nuova. Perciò, quando chiedi a uno come me di assumersi un fardello in più… — E va bene, Macy. Smettila di spiegarti. Alzati ed esci prima che lei cominci a piangere e tu cominci ad ascoltarla di nuovo. Alzati. Non le devi niente. Hai i tuoi guai, e non sono piccoli. Si stava alzando. La ragazza che lo guardava, incredula. Le rivolse un sorriso falso, sapendo che un sorriso di qualsiasi genere è fuori luogo quando stai condannando una a morte. Si volta. Si allontana, fra i tavoli del ristorante del popolo, oltre il bancone, i crauti e le torte di alghe. Altri dieci passi e sei fuori.
Un grido dal fondo della sala.
— No! Torna indietro! Paul! Paul! Nat!
Le sue parole balzarono attraverso il golfo che li divideva come frecce. Sei centri. Zac zac zac zac zac zac! L’ultima mortale, dalla schiena al petto. Barcollò. San Sebastiano che cade fra i tavoli del ristorante. Il cervello in fiamme, qualcosa di molto strano che gli succedeva dentro, come due emisferi che si separassero e assumessero un’esistenza indipendente. Poi una voce che parlava distintamente da un punto appena sopra il suo orecchio sinistro e diceva:
Come puoi piantarla qui in questa maniera, lurido bastardo?
Cadde pesantemente a terra, su un gomito. Una fitta lancinante di dolore. Entro questo cono di rosso tormento, una curiosa limpidezza di percezione.
Chi l’ha detto? chiese, perdendo coscienza. E affondando, sentì:
Sono stato io, Nat Hamlin. Il tuo fratello gemello Nat.