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Durante le ore diurne non era così brutto. Si era costruito una confortevole routine e viveva dentro di essa, proprio come gli avevano consigliato al Centro. Quelli della Riab gli avevano trovato un piccolo appartamento vicino alla punta superiore della Manhattan Vecchia, a cinque minuti di tubo dagli uffici della compagnia, quaranta minuti camminando a piedi; non aveva voluto esporsi troppo presto all’ambiente caotico dei tubi nelle ore di punta, così all’inizio si recava al lavoro a piedi. L’esercizio fisico gli faceva bene, e comunque non aveva niente di meglio da fare del suo tempo. Ma dal quarto giorno in poi prese il tubo. I sobbalzi e lo stridore delle ruote non lo disturbarono quanto aveva temuto, e schiacciato come una sardina nelle vetture, non doveva preoccuparsi che la gente guardasse lui o il suo distintivo Riab.

Sul lavoro si inserì facilmente e piacevolmente nel meccanismo di trasmissione delle notizie. Aveva avuto sei mesi di addestramento al Centro, e così arrivava alla sua nuova carriera già esperto in fatto di proiezione vocale, dinamica della sincerità, tecniche di trucco e cose del genere; aveva solo bisogno di imparare i dettagli delle operazioni di tutti i giorni, i livelli di autorità, gli schemi di flusso eccetera. Tutti erano gentili con lui, anche se dopo i primi giorni la maggior parte lasciò perdere quella esagerata e irritante cortesia che lo faceva sentire un handicappato. Gli spiegavano cosa fare, lo aiutavano se sbagliava, rispondevano con pazienza e cortesia alle sue domande.

All’inizio Fredericks non gli lasciò fare nessuna vera trasmissione, soltanto sequenze che non andavano in onda, in condizioni simulate. Venne invece messo a leggere dei copioni ad alta voce, per abituarsi ai tempi, e a controllare l’inserimento degli altri annunciatori. Ma se la cavò così bene nelle sequenze simulate che il quinto giorno lo misero alle notizie serali, in annunci della durata di novanta secondi, in quella che chiamavano la sezione-mosaico, dove una serie di annunciatori forniva in rapida successione le notizie del giorno. Fredericks gli disse che nel giro di qualche altra settimana gli sarebbero stati assegnati servizi completi, compresa la scelta dell’occhio volante. Perciò tutto andava bene, professionalmente.

Le notti erano un’altra cosa.

Solitarie, tanto per cominciare. È opportuno evitare legami sessuali, almeno all’inizio, gli aveva suggerito lo psicologo del Centro. Potrebbero essere un elemento di disturbo durante le prime due o tre settimane di adattamento. E così aveva fatto. Aveva evitato di portarsi a casa qualcuna delle ragazze della compagnia, anche se molte di loro avevano dato chiari segni di essere disponibili. Basta chiedere, tesoro. Di sera sedeva da solo, nel suo modesto appartamento. Guardando un sacco di olovisione. Facendo finta che era importante per la sua carriera studiare come le varie reti presentavano le notizie. In verità, desiderava solo la compagnia dello schermo illuminato e dell’audio ad alto volume; la lasciava accesa anche quando non guardava.

Di sera non usciva. Per risparmiare, si diceva. Presumibilmente era stato un uomo ricco nella sua vita precedente, o almeno alquanto benestante. Un artista di successo, le cui opere erano molto richieste, i prezzi che salivano ogni anno nelle gallerie, e cose del genere. Ma tutto il suo patrimonio era stato confiscato dallo stato. La maggior parte del denaro se n’era andato per la terapia e per pagare il divorzio. Quel poco che era rimasto era servito per l’affitto e l’arredamento della casa. Era sostanzialmente povero, fino a quando non fossero cominciati ad arrivare gli assegni del suo nuovo lavoro. Ma sapeva che la vera ragione per cui stava a casa era la paura. Non era ancora pronto per cominciare l’esplorazione del mondo notturno di quella città formidabile. Non poteva uscire mentre il suo nuovo io era ancora fresco e cedevole.

Poi c’erano i sogni.

Non aveva avuto sogni al Centro Riab. Adesso sì. Traumatiche crisi di identità contrassegnavano i suoi sogni. Correva senza fiato lungo lucidi corridoi contorti, inseguito da un uomo che aveva la sua faccia. Stava in piedi accanto alla riva di una viscosa pozza grigio-verde che ribolliva e fumava, mentre un artiglio peloso usciva dalle sue profondità per afferrarlo. Camminava in punta di piedi attraverso un mare di sabbie mobili, affondando sempre di più, e qualcosa sotto gli mordeva le dita, tirandolo già con un rumore risucchiante. Un sabba di mostri lo attendeva sul fondo. Denti e corna verdi e occhi gialli. Spesso si svegliava urlando. E rimaneva sveglio, ascoltando qualcosa che batteva dentro il suo cervello. Fammi uscire, fammi uscire, fammi uscire! Folate impetuose di vento soffiavano nel suo cervello. Un poderoso russare che faceva tremare il midollo. Un gigante addormentato, inquieto, nervoso, intrappolato dietro la sua fronte. Che ruttava e scoreggiava dentro la sua testa. Toc. Toc. Toc.

Inoltre, lo tormentava una particolare duplicità dell’io, la sensazione di essere avvolto e imprigionato nei frammenti e nei fili della sua vecchia identità, e momentaneamente veniva risucchiato dentro di essa. Sono Nat Hamlin. Felicemente sposato. Psicoscultore. Questa è la mia faccia. Queste sono le mie mani. Perché mi trovo in questo piccolo appartamento sconosciuto? No. No. Sono Paul Macy. Lo ero. Prima. In un altro paese, per così dire. Di lui non resta neppure l’odore. Perché mi perseguita? Non sono Nat Hamlin.

Qualche volta, di notte, era difficile esserne certi. Arrivato alla terza notte, Paul Macy aveva paura di andare a letto. C’era quell’uomo con la sua faccia che lo perseguitava sempre, quando passava nella terra del sogno. Svegliandosi, agitato, avrebbe voluto chiamare un amico, per essere rassicurato. Ma non aveva amici. Quelli vecchi erano stati cancellati dalla terapia, e non se n’era ancora fatti di nuovi, a parte alcuni che aveva conosciuto al Centro Riab, compagni di ricostruzione come lui, e non voleva disturbarli in piena notte. Forse avevano demoni loro propri con cui lottare. E quelli della compagnia olovisiva. Non devo chiamarli. Manderesti all’aria l’intera finzione della tua stabilità, in una confessione dettata dal panico. Né poteva chiamare i suoi psicologi. Il dottor Brewster, la dottoressa Iannuzzi, il dottor Gomez. Tocca a te, adesso, gli avevano detto. Tagliamo il cordone ombelicale. E così, era solo. Datti da fare. Alla fine, per quanto brutta fosse la notte, riusciva a dormire. Alla fine.


— C’è qualche possibilità — chiese Macy — che il lavoro della Riab non sia riuscito del tutto? Voglio dire, certe volte mi sembra che Hamlin cerchi di venir fuori.

Un martedì, alla fine del maggio del 2011. Una settimana dopo essere stato dimesso dal Centro Riab. La sua prima sessione post-terapeutica. Il dottor Gomez, la faccia rotonda, carnagione scura, baffi neri spioventi, mento sfuggente, la fronte aggrottata, masticando uno stilo computer. Voce sommessa. — Non c’è la minima possibilità, Macy.

— Ma questi sogni…

— Sono come dei disturbi elettrostatici a livello mentale. Cosa le fa pensare che Hamlin esista ancora?

— Durante quegli incubi lo sento spingere dentro il mio cervello. Come qualcosa che cerchi di uscire.

— Non complichi le cose con la sua immaginazione, Macy. Ha fatto dei brutti sogni. Tutti fanno dei brutti sogni. Crede che io sia immune? Ho anch’io la mia parte di karma cattivo. Senza cercare ipotesi fantasiose, mi dica perché pensa che sia Hamlin.

— L’uomo con la mia faccia che mi insegue.

— Una metafora per il suo passato non a fuoco, forse.

— Un senso di confusione. Non sapere chi sono veramente.

— Chi è lei veramente?

— Paul Macy, ma…

— Questo è quello che è veramente. Nat Hamlin non esiste più. È stato eliminato dal suo corpo, cellula dopo cellula, ed estirpato. Mi ha veramente sorpreso, Macy. Credevo che avrebbe avuto uno dei migliori adattamenti mai visti.

— Anche a me sembrava così — disse Macy. — Ma da quando sono uscito ci sono state queste… queste scariche psichiche. Ho paura. E se Hamlin ci fosse ancora?

— Hamlin esiste solo come concetto astratto. È un famoso psicoscultore che ha avuto dei guai con la legge ed è stato estirpato. Adesso esiste solo attraverso le sue opere. Come Mozart. Come Michelangelo. Non è nella sua testa.

Macy disse: — Durante il mio primo giorno alla compagnia, sono entrato nell’ufficio di un dirigente, e c’era una grande scultura di Hamlin in un angolo. L’ho guardata e l’ho riconosciuta, l’ho guardata come si potrebbe guardare un’opera di Michelangelo, e dopo una frazione di secondo ho avuto questa sensazione, come se qualcuno mi avesse preso a martellate in testa. Quasi sono caduto a terra. L’impatto è stato tremendo. Come me lo spiega questo, dottor Gomez?

Lei come lo spiega?

— Come se Hamlin fosse ancora dentro di me, e si fosse alzato in piedi e urlasse: "È mia, l’ho fatta io!" Una tale ondata di orgoglio e di identità che l’ho sentita a livello cosciente come un dolore fisico.

— Balle — disse il dottore. — Hamlin è sparito.

— Come fa a esserne sicuro?

Gomez sospirò. — Ascolti — disse, e schiacciò un tasto sul terminale. Sulla parete del suo ufficio sbocciarono immagini dei profili psicologici di Macy. Gomez indicò. — Lì a sinistra. Quello è l’EEG di Nat Hamlin. Vede quelle onde irregolari, segno di tendenze psicopatiche? Quegli sbalzi orribili? Vede le tempeste elettriche che si scatenano nella testa di quell’uomo? Quello è l’EEG di un malato. Ammalato marcio. Capito?

"Adesso guardi qui. Abbiamo iniziato l’operazione di pulizia mentale. Stiamo eliminando Nat Hamlin. Le onde diventano più regolari. Dolci come quelle di un bambino. Diagramma dopo diagramma. Guardi. Guardi. Guardi. Man mano che Hamlin se ne va, sale alla ribalta Macy. Può vedere lo strato che si sovrappone, qui. Questo è l’aspetto di una doppia mente. Hamlin in declino, Macy in ascesa. Giusto? Due distinti schemi elettrici, nessun problema a distinguerne uno dall’altro. E da questa parte della stanza può vedere Hamlin interamente annullato. Vede qualcuna delle tipiche forme d’onda di Hamlin? Cazzo, le vede?

"Non dice niente, Macy. C’è il suo cervello su quella parete. Alpha, beta, tutto quanto. Confronti le sue onde e quelle di Hamlin. Completamente diverse. Due schemi separati. Lui è lui, e lei è lei. Lo dice la macchina. Non è una questione di opinione, ma di soglie di voltaggio. Un voltaggio non mente. Gli ampere non hanno opinioni. Le resistenze non ti fregano per ragioni personali. Ci stiamo occupando di fatti oggettivi, e i fatti oggettivi mi dicono che Nat Hamlin è stato cancellato. Dovrebbero dire la stessa cosa anche a lei."

— I sogni… la vista della psicoscultura…

— E va bene: lei è un po’ instabile. Un paio di traumi da adattamento imprevisti. Ma Hamlin? No.

— Un’altra cosa. Il primo giorno che sono uscito ho incontrato una ragazza per strada, qualcuna che aveva conosciuto Hamlin. Continuava a chiamarmi Nat. A dirmi che mi amava.

— Non aveva il suo distintivo Riab?

— Naturalmente.

— E quella scema ha continuato lo stesso a blaterare le sue idiozie?

— Credo che abbia dei problemi anche lei, mentalmente. Non so. Comunque — disse Macy — lei mi stava dicendo tutte queste cose, Nat qui e Nat là, senza badare a me che le dicevo di essere Paul Macy, e di colpo ho sentito, be’, una specie di calore in cima alla testa, e per mezzo secondo non ho più saputo chi fossi. Quale dei due ero. Era come se mi fosse entrato qualche cosa in testa e avesse mescolato tutto. Mi ricordavo perfino di aver fatto una psicoscultura alla ragazza. Vede, era una delle modelle di Hamlin, a quanto pare, e ho avuto questo ricordo fugace di lei che posava, e di me alla tastiera…

— Stronzate — disse Gomez.

— Come?

— Stronzate. Non era un ricordo. Non è possibile che possiate ricordare qualcosa che apparteneva al passato di Hamlin.

— Cos’era allora?

— Era un episodio di masochismo in caduta libera, Macy. Un normale desiderio di autodistruzione. Ha inventato questa immagine fantasma di se stesso che scolpiva la ragazza perché voleva illudersi che Hamlin stesse prendendo il sopravvento.

— Ma non vedo perché…

— Stia zitto e le spiegherò il meccanismo. Lei è vissuto in questo Centro per quattro anni, giusto? E ha ricevuto costanti attenzioni. Era come essere in un grembo. Qualsiasi sua necessità veniva immediatamente soddisfatta. Bene: è arrivato il momento della nascita, per Paul Macy, e la scaraventiamo fuori con un calcio nel sedere. Be’, non siamo esattamente così drastici: prima le troviamo un lavoro, un posto per abitare, ma è pur sempre una rottura di balle essere mandato fuori. E così è da solo. Di colpo, non c’è più cordone ombelicale a nutrirla, nessuna placenta in cui accoccolarsi.

"Be’, lei desidera attenzione, e un modo per ottenerla è di venire gridando che la sua personalità ricostruita non ha attecchito, che Hamlin sta bussando dentro la sua testa. Non dico che lo faccia coscientemente. È un meccanismo. Il suo io razionale desidera solo raggiungere un rapporto decente con il mondo esterno e vivere felicemente come Paul Macy, ma c’è anche un lato irrazionale in ciascuno di noi. Che spesso opera in perfetto disaccordo con i bisogni e i desideri del lato razionale.

"Immagini che io dica a qualcuno che la sua sanità mentale dipende dal fatto di non chiamare mai sua suocera con il nome di battesimo. Lui annuisce e dice: «Certo, capisco, se lo faccio mi rovino». E così, naturalmente, ogni volta che vede la vecchia troia, il suo nome di battesimo gli viene sulla punta della lingua. Comincia a sognare di chiamarla con il nome di battesimo. Ci pensa mentre è seduto alla scrivania. Proprio perché è la cosa più fottutamente distruttiva che potrebbe fare, la tentazione di farla continua a presentarsi alla sua mente, e immagina di continuo di averlo fatto.

"Adesso torniamo a lei. L’ultima cosa che desidera al mondo è che Hamlin resusciti, perciò naturalmente si immagina mentre fa una scultura di questa ragazza. Il che la sconvolge e la fa correre da me invocando aiuto. Il risultato immediato di questo meccanismo è di farle avere dei brutti sogni e un effetto secondario è quello di fornirle quella scusa per chiedere aiuto di cui lei ha tanto bisogno, inconsciamente. Vede come il lato oscuro della nostra mentre riesce sempre a farsi sentire? Ma non se ne preoccupi troppo, Macy. Non c’è niente di reale, nel senso che ci sia Hamlin. Oh, certo, è reale in senso psicologico; e allora? — Gomez fece un sorriso trionfante. — "Lei è un ragazzo sveglio. Ha seguito tutto il ragionamento, vero?"

Macy disse: — Non sarebbe il caso di fare dei nuovi EEG lo stesso? E se risultasse una doppia onda?

— Vuole davvero che la coccoli, vero?

— Che difficoltà ci sono a fare un test empirico?

— Posso eseguirlo in cinque minuti.

— Perché no allora?

— Perché non credo si debba cedere alle fantasie di un paziente. Crede di essere il mio primo lavoro di ricostruzione? Ne ho visti un centinaio come lei. So cosa è possibile e cosa non lo è. Se le dico che Hamlin è stato sradicato è perché lo so. Non perché sia un bastardo dalla testa dura.

— E va bene, sarò irrazionale — disse Macy. — Ma se avessi la prova dell’EEG di fronte a me…

— Non ci sto a questo gioco. La fantasia viene dal suo interno; che anche la cura venga da lì. Si dia da fare. Si convinca che la sua illusione dell’esistenza di Hamlin non è altro che una mossa per ottenere la nostra simpatia.

— E se le allucinazioni non se ne vanno?

— Devono andarsene.

— Ma se non lo fanno?

— Tornerà da noi martedì prossimo — disse Gomez. — Non ci sarò io, ma la dottoressa Iannuzzi. Che come lei sa è un tipo completamente diverso da me. Gentile e comprensiva, mentre io sono un figlio di puttana ostile e volgare. Se questa faccenda la disturberà ancora, forse le farà un EEG, anche se spero di no. Io non lo farò, Macy. Non posso. Il sergente istruttore non ti dà mai un bacino e ti rimbocca le coperte, per quanto tu lo preghi in ginocchio, e io in questa squadra sono il sergente istruttore. Perciò torni la settimana prossima.

Gomez si alzò. — L’ho vista all’ologiornale della sera, ieri. Se l’è cavata niente male.


La mattina successiva Macy trovò un cubo-messaggio indirizzato a lui, nella sua casella all’ufficio. Perplesso, infilò la piccola cassetta lucida nella fessura della sua scrivania. Sullo schermo apparve la faccia della ragazza che lo aveva fermato per strada la settimana prima. Occhi cerchiati di rosso, guance incavate, i capelli in disordine. Offrì alla telecamera un sorriso incerto, di sbieco, e disse: "Ti ho visto all’olovisione, e ho potuto mandarti questo. Ti prego, Nat, non spegnere. Non immagini neanche…"

Macy allungò la mano e schiacciò il pulsante. Ti prego, Nat. Non poteva sopportarlo. Il suo vecchio nome. Era come se gli infilassero delle schegge di legno sotto le unghie, come aghi dietro gli occhi. La notte prima i sogni erano stati peggiori che mai. Si era visto come due fratelli siamesi, con uno dei corpi che graffiava e mordeva il suo fratello identico. Poi la botola della soffitta che si apriva e la cosa sventrata che ne usciva vacillando. Era stata la ragazza a dare inizio a tutti i suoi traumi; non c’erano stati brutti sogni prima di quel maledetto incontro. Non intendeva offrirle una seconda occasione per rendere miserabile la sua vita. Se quel bastardo di Gomez non gli dava una terapia di supporto, doveva difendersi da solo contro i potenziali sconvolgimenti interiori. E quindi era necessario evitare nuove occasioni di angoscia.

Macy regolò l’apparecchio su Cancellazione e fece per premere il bottone. Poi nella sua mente vide la faccia triste, consunta della ragazza. Un essere umano come lui. Anche lei soffre. Potrei ascoltarla almeno una volta.

Schiacciò di nuovo Playback, e lei riapparve, dicendo: "Ti ho visto all’olovisione, e ho potuto mandarti questo. Ti prego, Nat, non spegnere. Non immagini neanche quanto tu significhi ancora per me, anche dopo tutto quello che è successo. So che hai subito la Riab, e le cose devono sembrarti un po’ strane, e non vuoi parlare con gente della tua vecchia vita. Ma averti trovato per strada è stato un tale miracolo che non posso semplicemente far finta che tu non esista. Perché non ce la faccio a tirare avanti così ancora per molto, Nat. Sto male. Ho bisogno di aiuto. Sto affondando e qualcuno mi deve buttare una corda."

C’era dell’altro, sullo stesso tono. Diceva che l’avrebbe aspettato mercoledì sera alle sei, all’angolo nord-est fra la 227 e Broadway, di fronte agli uffici della compagnia, e che l’avrebbe aspettato alla stessa ora anche le due sere successive, nel caso non fosse libero mercoledì. Oppure, se preferiva mettersi d’accordo in un altro modo, poteva chiamarla a casa, qualsiasi giorno dopo le undici di mattina, al numero tale. Con tutto il mio amore. La tua Lissa Moore.

Non posso, pensò. Non oso. Cancellò il cubo. Quella sera uscì con dieci minuti di anticipo, usando l’ingresso est dell’edificio per evitarla. Fece lo stesso giovedì e venerdì.

Lunedì trovò un altro cubo. Se lo tenne in tasca per tre ore; era riluttante a cancellarlo, ma aveva paura di vederlo. Alla fine lo infilò nella fessura. Sullo schermo, la faccia pallida della ragazza, su uno sfondo nero come il velluto. La bocca piegata in una strana smorfia. Un gonfiore ipertiroideo negli occhi che non aveva notato prima. Lilluminazione della cabina dove aveva registrato il messaggio era troppo forte, e sembrava strapparle la carne dagli zigomi. La sua voce, impulsiva, non modulata: "Non sei venuto. Ho aspettato, ma non sei venuto. Va bene, Nat. Paul. Forse non ti importa niente di me. Forse hai i tuoi guai a cui pensare, e non puoi perdere tempo con me. Non ti disturberò più. Aspetterò ancora questa sera, alle sei, stesso angolo, Broadway e 227, lato nord-est. Se non ci sarai per le otto e mezzo, per le nove io sarò morta. Faccio sul serio. Adesso sta a te".

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