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Se davvero lo stavano tenendo sotto sorveglianza, lui non se ne rese conto. Si occupò delle solite cose. Finì di preparare il copione per il servizio sul carisma lunedì. Su nastro martedì. Tutto liscio. Avanti e indietro dall’appartamento all’ufficio senza problemi. Hamlin, coerentemente, riaffiorò martedì sera, per la prima volta da mercoledì. Fecero quattro chiacchiere; Macy non disse nulla del suo colloquio con Gomez o del tentativo messo in atto da Hamlin di prendere il comando, mercoledì sera. Siamo persone educate, pensò Macy. Tu cerchi di fregarmi, io cerco di farti fuori, ma non parliamo di queste cose volgari. Hamlin fu molto piacevole, raccontò della sua vita e dei bei tempi. Segmenti selezionati della sua autobiografia arrivano danzando lungo l’interfaccia fra le due identità. Con sottotitoli.


L’ARTISTA SCOPRE IL SUO DONO

1984, l’anno di Orwell, la situazione complessiva adeguatamente incasinata, come previsto, anche se non tanto come quel vecchio bastardo pessimista aveva immaginato, e in questa piccola città abita il dodicenne Nat Hamlin, appena entrato nella pubertà, pieno di energie senza fondamento e ribollenti bisogni senza direzione. Quale piccola città? Dove? Occupati dei fatti tuoi. Il ragazzo è magro e alto per la sua età. Lunghe dita sensibili. Il padre vuole che diventi chirurgo del cervello. Si guadagna bene, figliolo, specialmente adesso con tutte queste psicosi in circolazione. Apri il cranio, vedi, e ci infili dentro le tue lunghe dita sensibili, tagli questo, giunti quest’altro, amputi quello, tremila dollari, prego, e investi in azioni sicure.

Il ragazzo non ascolta. In soffitta, modella piccole figure di creta. Non è mai entrato in un museo; non ha alcun interesse per l’arte. Ma c’è un piacere sensuale nello schiacciare e maneggiare la creta. Gli dà un caldo formicolio allo scroto e una deliziosa tensione nelle mascelle quando lavora con la creta. Riempie la soffitta di grottesche figurine. Di sicuro vedi il mondo in maniera strana, ragazzo. Hai visto per caso qualche Pee-cas-so? E chi è questo Pee-cas-so? È quel vecchio bastardo francese, ci fa un milione di dollari all’anno con questa roba? Sul serio? Dove posso vederne qualcuno? E va al museo, a due ore di viaggio. Pee-cas-so. Non è così che si scrive. Non è male, sì, sì. Ma io sono bravo quasi quanto lui. E ho appena cominciato.


PIACERI SOLITARI

Il primo pezzo di grandi dimensioni adorna adesso la soffitta. Un metro e dieci di altezza. Adattato da uno dei dipinti di Picasso: donna con due facce, il corpo bizzarramente distorto lungo l’asse perpendicolare, una vera sfida per un ragazzino di quattordici anni, per quanto sia bravo. Il creatore giace nudo davanti a essa. Baffetti radi. Culo foruncoloso. Atto di omaggio alla musa. Afferra l’organo con la sinistra. Su e giù, su e giù, su e giù. Oooh e ahhh. Sessanta secondi: vicino al suo record di velocità. E mira precisa. Battezza il capolavoro con zampilli di liquido salato. Ah. Ah. Ah.


FINE DELLA SUBLIMAZIONE

Lei ha lunghi capelli lisci e dorati, nello stile antiquato che va di moda fra le ragazze di questa città. Occhiali senza montatura, maglione di peloso cashmere verde, gonna corta. Hanno quindici anni. Lui l’ha attirata nella soffitta dopo averle detto timidamente, anestetizzato dall’erba, di essere uno scultore. Lei è una poetessa, le cui opere compaiono regolarmente sul giornale della città. Apprezza le belle arti. Questo villaggio di filistei; noi due contro tutti gli altri. Guarda, per questo mi sono ispirato a Picasso, e questi sono i miei lavori giovanili, e questo è quello che sto facendo adesso. Che cose strane, Nat, piene di talento. Vuoi dire che nessuno lo sa? Quasi nessuno. Chi le capirebbe. Io le capisco, Nat. Lo sapevo, Helene.

Sai una cosa? Non ho mai lavorato con una modella. Un passo avanti importante nella mia carriera. Oh, no, non potrei. Proprio non potrei. Voglio dire, sarei imbarazzata da morire! Ma perché? Dio ti ha dato il corpo. Senti, da che mondo è mondo le ragazze hanno posato per artisti famosi. E io ne ho bisogno. Come faccio altrimenti a crescere come artista? Lei esita. Be’, forse. Fumiamo prima. Lui tira fuori la sua riserva di erba. Lei aspira due boccate per ognuna di quelle di lui. Ridacchiando. Lui è mortalmente serio. Glielo chiede di nuovo. Sì, sì, sì. Sei sicuro che tua madre non salirà? No di certo, non gliene frega niente di quello che io faccio quassù.

Poi. I vestiti che cadono. Il suo corpo incandescente. Appena riesce a guardarla. Quindici anni e non l’ha mai vista. Un po’ indietro per la sua età, ha passato troppo tempo da solo in soffitta. Maglione, reggiseno. I suoi seni sono pesanti; non spuntano dritti, quando sono nudi, penzolano un poco. I capezzoli molto piccoli, appena più grandi dei suoi. Fossette nel sedere. I peli più scuri dei capelli, e più crespi. Sembra che le manchi qualcosa, senza l’uccello. Lui ha le guance in fiamme. Ecco, resta ferma così. Non osa toccarla. La fa mettere in posa muovendo le mani in aria. Vorrebbe che allargasse le gambe. Non sa bene che aspetto abbia, e non riesce a vedere. Ma lei non lo fa. È così fumata, però

Prende la creta. Sì. Sì. Lavora furiosamente. Nel frattempo quel posare la eccita. Anche l’artista dovrebbe essere nudo, dice. Per essere pari. Lui ride. Che idea assurda. Non riuscirei a concentrarmi. Mezz’ora. Il sudore che gli cola dalla fronte. Sono stanca di posare, dice lei. Posso smettere? Smettono. Lei gli viene vicino. Lo guida. Metti la mano qui. E qui. Oh. Oh. Oh. Gli tira giù la cerniera. Il suo uccello sta per esplodere. Presto, vienimi sopra. Oh. Oh, Dio!

LA GRANDE CITTÀ

Un piccolo appartamento. Dozzine delle sue opere favorite sparse dappertutto. Il famoso critico d’arte che gli fa visita. Alto, serio, i capelli argentei. Anche l’artista è alto e serio. Diciannove anni. Perché vorresti andare a una scuola d’arte, chiede il critico. Ragazzo mio, tu sei già un maestro. Una mano paterna intorno alle spalle di Hamlin. Quello che ti serve adesso è un mercante. Con una sponsorizzazione adeguata potresti arrivare lontano. E sei così giovane. Ancora la peluria sulle guance. Così dicendo il famoso critico d’arte accarezza le guance imberbi. Fissando nel fondo degli occhi il giovane artista. Potresti rendermi l’uomo più felice del mondo questa notte, dice il famoso critico d’arte, con tenerezza.


NELLA GALLERIA D’ARTE

Piccoli cerchi rossi incollati su ogni etichetta. Venduto. Venduto. Venduto. Venduto. Un debutto di buon auspicio. Tutta la gente in vista che compra. Il mercante, grasso, nella gloria della sua carne, che gli dà pacche sulle spalle. Ventidue anni. Un successo immediato. Adesso le scene si susseguono a caso, fondendosi l’una con l’altra, qualche volta due contemporaneamente, sullo schermo diviso a metà.


L’AVVENTO DELLA PSICOSCULTURA
AMORE NON CORRISPOSTO
LE SEDUZIONI DELLA RICCHEZZA
LA CELEBRE ATTRICE
SOLO SULLA VETTA
I TORMENTI DELLA FAMA
IL GIORNO IN CUI IL MUSEO COMPRÒ TUTTO
INCONTRANDO DI NUOVO HELENE, QUINDICI ANNI DOPO
VIAGGIANDO PER IL MONDO
UN CALCIO AL VIZIO
UNO DI TROPPO
MI CHIAMO LISSA

E la telecamera sempre più veloce, all’impazzata.


L’ANTIGONE
IL MAL DI TESTA
IL CROLLO
IL PRIMO STUPRO
FOLLE DI PAURA
IL LITIGIO CON LA MOGLIE
L’ANTIGONE TERMINATA
LISSA BUTTATA DALLE SCALE
MATTO DA LEGARE
STUPRO DOPO STUPRO
ARRESTATO
CONDANNATO
OBLITERATO
RISVEGLIATO

E la sequenza sfasata.


SOLO SULLA VETTA
FINE DELLA SUBLIMAZIONE
LA GRANDE CITTÀ
UN CALCIO AL VIZIO
MATTO DA LEGARE
NELLA GALLERIA D’ARTE
PIACERI SOLITARI L’ARTISTA
SCOPRE IL SUO DONO

Sempre più veloce. Nomi, date, eventi, aspirazioni, che roteano in una densa zuppa di ricordi, tutto che si confonde, i dettagli che spariscono. Forse non era mai accaduto nulla di tutto questo.

…Buona notte, vecchio mio.


Lissa piangeva sommessamente, fra sé, quando Macy andò a letto, martedì sera. Le toccò un braccio, e lei si scostò. Dopo, gli disse che le spiaceva di essere stata così scortese.


Mercoledì mattina, uscendo per recarsi al lavoro, a Macy parve di scorgere uno degli scagnozzi del Centro Riab, che a detta di Gomez dovevano sorvegliarlo. Un tipo piccoletto, con la pancetta, in piedi sull’ingresso dell’edificio dall’altra parte della strada, con in mano un giornale. Uno scambio imbarazzato di occhiate guardinghe. Da parte di Macy un rapido sorriso. Io e la mia ombra. Mano destra sulla spalla sinistra! Mano sinistra sulla spalla destra! Mani intrecciate dietro il collo!

Quella sera, propose a Lissa di andare in centro, in una fumeria, ma Lissa non volle. Una serata tranquilla in casa, con Brahms e Shostakovich. All’ora di andare a letto, Lissa disse di aver trovato un sistema per liberarsi di Hamlin.

— Come?

— Potresti violentare qualcuna e farti prendere. E dare la colpa a lui. Ci penseranno le autorità a cancellarlo completamente.

— Mi ucciderebbe se dovessimo essere arrestati — disse Macy. Un’idea folle. Una ragazza folle. Potresti violentare qualcuna e farti prendere. Dentro di lui Hamlin rise. Lissa pianse ancora quella notte, e quando Macy le chiese se poteva aiutarla, non rispose.


Non aveva molto da fare in ufficio giovedì… soltanto mezz’ora di lavoro per aggiustare un servizio che aveva registrato la settimana prima. Passò il resto della giornata cercando di sembrare occupato. Soprattutto, con un altro fine settimana di fronte, cercò di pensare a qualcosa che potesse distrarre Lissa, e magari strapparla dall’umor nero che così frequentemente si impadroniva di lei.

Sentiva che la stava perdendo. Che lei si stava perdendo. Scivolando in un mare tiepido e senza spiagge, ricoperto da una spessa nebbia blu. Non usciva di casa da tre giorni. Macy sospettava che se ne stesse a letto fino a mezzogiorno o all’una, poi si alzava per fumare, ascoltare musica, girare pagine di libri, sognare a occhi aperti. Galleggiando. Non parlava quasi più. Neppure rispondeva alle sue domande: solo qualche grugnito. La settimana prima Macy si era sentito assediato, con Lissa che divideva con lui l’appartamento, e Hamlin che divideva il cervello, ma adesso Lissa si stava avvolgendo nel suo bozzolo, e anche Hamlin si era allontanato. Macy era abituato alla solitudine, ma non per questo gli piaceva.

Quel week-end, decise, esploreremo le meraviglie del mondo al di là della porta di casa. Noleggeremo una macchina, ci faremo trecento, quattrocento chilometri in campagna, fin dove bisogna arrivare per vedere pascoli aperti. Picnic sull’erba. Una valletta boscosa. Romantiche fornicazioni sotto i rami di pini mormoranti e fragranti. Se ce ne sono ancora. E andremo in ristoranti di lusso. Chiederò ad Hamlin di indicarmene qualcuno. Pronto, pronto, c’è nessuno? E sabato notte, in una fumeria di Times Square, tutto luci e orpelli, inaleremo i più moderni allucinogeni e ci godremo due ore di terrestri fantasie. Forse visiteremo l’acquario, in maniera che Lissa possa origliare i sogni ponderosi e coriacei dei trichechi e delle balene. Ah, un fine settimana gratificante! Divertimento e nutrimento per le nostre anime sfibrate!

Ma quando Macy arrivò a casa, quella sera, Lissa non c’era. Un senso di déja vu: l’ha fatto anche giovedì scorso, no? È passata una settimana, e nulla è cambiato. Ma c’è una differenza questa volta, come rivela una rapida indagine negli armadi. Ha portato con sé le sue cose. Se n’è andata per sempre.


La cosa più facile, adesso, era anche la più difficile. Starsene tranquilli, dimenticarla, farsi una vita senza lei. Nient’altro che guai e fastidi con lei, no? Le complicazioni dell’animo femminile unite e moltiplicate dall’inesplicabilità della telepatia. Lasciala andare. Lasciala andare. Ci sono buone probabilità che ritorni, come l’ultima volta. Ma non poteva. Maledizione. Doveva andare a cercarla. Il posto più logico. Il suo appartamento.

Una dolce notte di primavera.

Le stelle in mostra sopra le punte della città. Venditori di sogni confusi che si aggiravano per le strade. Giù nel tubo. Whoosh whoosh whoosh. Cambio per la linea dell’East Side. Tornando sui propri passi. La sua stazione. Le strade strette, gli edifici malconci, sopravvissuti a tutte le trasformazioni culturali. Escrescenze coriacee che spuntano dal corpo del passato abolito. Quale di quelle case è la sua? Sembrano tutte uguali. Figure misteriose che appaiono e scompaiono nei vicoli. Una visita lì è come un viaggio a ritroso nel tempo. Un quartiere di azioni oscure e insondabile spionaggio; una Istanbul, una Lisbona della mente, inserita nel tessuto vibrante di New York. Questo sembra il posto giusto. Entrerò.

Elenco degli inquilini? Non farmi ridere!

Macy scrutò nella penombra giurassica dell’ingresso cavernoso. Scorse una figura, lontana, china e distorta, che zoppicò verso di lui mentre procedeva cautamente. Poi lo shock del riconoscimento: lui stesso che si avvicinava. Quella che vede è l’immagine di Paul Macy riflessa in uno specchio crepato e ondulato che occupa la parete in fondo. Risate. Applausi. Su sei piani di casa, apparecchi olovisivi offrono la loro merce con assordante simultaneità. Lissa? Lissa? Abitava al quinto piano, no? Salirò. Busso alla porta, se riesco a trovarla. Oppure chiedo ai vicini. La signorina Moore, la ragazza coi capelli rossi, è stata via una settimana circa… l’ha vista questa sera? Io non ho visto niente. Su per le scale. Dove altro può essere fuggita se non qui? Il suo nido. Il suo eremitaggio.

Al quarto pianerottolo si fermò. Gli scagnozzi di Gomez l’avevano seguito fin lì? Senza dubbio. Sorvegliandolo da vicino. Forse strisciavano su per le scale dietro di lui, per non perderlo di vista. Era possibilissimo che qualche inserviente del Centro Riab fosse in quel momento un piano o due sotto di lui, immobile, in attesa che riprendesse a salire. Quando io faccio un passo lui fa un passo. Quando io mi fermo lui si ferma. E così saliamo. Afferrando la balaustra, Macy si sporse per metà e sbirciò nel pozzo delle scale. In quell’oscurità era impossibile essere sicuri. Qualcuno aveva ritirato in fretta la testa, laggiù? Controlliamo. Aspettiamo un minuto, poi guardiamo di nuovo. Eccolo. Ma ancora non ne era certo. Be’, al diavolo. Non mi importa se mi seguono o no. Saliamo. Passo. Passo. Alt. Ascolta. Questa volta sono sicuro di aver sentito qualcosa dietro di me. È rassicurante sapere che mi seguono dovunque vada. Su.

Si fermò di nuovo sul pianerottolo del quinto piano. Doppia fila di porte che si restringe all’infinito. Lissa dietro una di queste. Forse sarebbe meglio avvertirla che era venuto a cercarla. Forse uscirà sul corridoio e non dovrò andare a bussare a tutte le porte. Un respiro profondo. Emettendo il più forte segnale mentale che gli riuscì, sperando che fosse sulla lunghezza d’onda di lei. Lissa. Lissa. Sono io, Paul, sono vicino alle scale. Sono venuto a prenderti, tesoro. Mi senti, Lissa?

Nessuna risposta.

Okay. Adesso guardiamo. Cominciò a percorrere il corridoio, studiando le porte senza volto. In un buco come questo, non si mettono targhette con il nome. Non riusciva a ricordare dove fosse la sua stanza. Alla fine del corridoio, lontano dalle scale, ma c’erano dozzine di porte. Eccone una che potrebbe essere quella giusta. Fece per bussare ma si trattenne. Vergogna? Paura? Gente strana e selvaggia abita questi slum. Magari non parlano neanche inglese. E io che vengo a disturbare il loro misero pasto. Ma se non busso non la troverò mai.

Ancora una volta sollevò la mano. No. Olovisione al massimo volume, lì dentro. Non poteva essere lei. Andrò avanti. Qui? No, in questo stanno cuocendo qualcosa. Calamari al curry. Polpette di ragno. Lissa? Lissa? Dove sei?

Passi nel corridoio, alle sue spalle.

Qualcuno correva verso di lui.

Rapinatore. Accoltellatore. L’inseguitore delle scale. Macy cercò di voltarsi per affrontarlo, ma prima di essere arrivato a metà, l’altro gli fu addosso, gli afferrò le braccia, bloccandolo. Un uomo grande quanto lui. Lottarono silenziosamente, nel buio, grugnendo. Un ginocchio si piantò nel fondo schiena di Macy. Riuscì a liberarsi un braccio, cercò di afferrare il suo assalitore, un occhio, un orecchio, qualsiasi cosa. Prima che usasse il coltello. Prima che usasse il paralizzatore.

Con uno scossone, Macy riuscì a spingere l’altro contro la parete, colpendolo forte con la spalla, ma poi sentì il braccio prigioniero che veniva storto oltre i limiti. Una fitta selvaggia di dolore. Disperatamente, Macy colpì nuovamente l’altro con la spalla. Cercò di dargli una testata, sperando di atterrarlo con un colpo solo. Niente da fare. Niente da fare. La lotta selvaggia continuò, inutile chiamare aiuto: chi avrebbe aperto la porta in un posto del genere? Slam e slam e slam. Era interamente preso a difendersi. Una concentrazione totale. Entrambi respiravano affannosamente. Sto opponendo più resistenza di quanto si aspettasse! Un punto morto. Per fortuna è uno solo. Se riuscissi a liberarmi la mano, e sbattergli la testa contro la parete…

Poi. Nel momento più frenetico della lotta. Una convulsione interna.

Hamlin.

La sua mossa.

Il tempo si arrestò, in maniera che Macy poté percepire ciascuna fase della conquista con calma e distacco. Hamlin, avendo raccolto le forze per alcuni giorni, si stava avvantaggiando del combattimento nel corridoio, della totale concentrazione di Macy nelle proprie difficoltà, per impadronirsi dei centri motori del loro cervello comune. Strappando connessioni a piene mani e reinserendole sotto la propria giurisdizione. Macy stava cadendo in un abisso senza tempo. E Hamlin stava sistematicamente ed efficientemente portando a termine quella che doveva essere una conquista attentamente calcolata. Gamba destra. Gamba sinistra. Braccio destro. Braccio sinistro. La paralisi si diffondeva, un’inattesa gelata estiva. Macy affondava, affondava, affondava. Nessun modo per difendersi; si era lasciato il fianco scoperto, e il nemico si stava riversando oltre la palizzata. Giù. Giù. Giù. Molto freddo, adesso, e un grande silenzio. Dov’era la sorveglianza di Gomez? Mano destra sulla spalla sinistra. Estremo pericolo. Ah. Bell’aiuto. Macy si rese conto che lui e Gomez si erano dimenticati di concordare un segnale importante, quello che diceva: Aiuto, mi sta conquistando! Non che ci fosse qualcuno ad aiutarlo, lì. Mano destra sulla spalla sinistra. Mano sinistra sulla spalla destra. Estremo pericolo. Giù. Giù. Mi ha preso.

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