Clawly smise di percorrere nervosamente l’ufficio, e si fermò davanti alla scrivania di Oktav, con il volto satanico contratto. A parte i segni della sua perquisizione, tutto nella stanza era nell’identica posizione in cui l’aveva lasciata al mattino. La porta che dava sul corridoio chiusa, il nero mantello di Oktav appoggiato allo schienale della poltrona, la porta che dava sulla camera interna aperta. Come se il veggente fosse stato chiamato con urgenza, per un lavoro da sbrigare in poco tempo.
Clawly era irato con se stesso, per l’impulso che lo aveva spinto a tornare in quel luogo. Certo, la sua perquisizione aveva scoperto delle cose inquientanti e significative… in particolare, un assortimento di piccoli oggetti e utensili che sembravano risalire, senza soluzioni di continuità, fino agli ultimi anni del Medio Evo dell’Alba della Civiltà; molto significativa era una serie di appunti, dapprima vergati in caratteri sbiaditi su fogli bianchi di fibra vegetale, poi dattiloscritti, su fogli simili, poi impressi su plastica, quindi registrati su nastri, per arrivare finalmente alle moderne tecniche di registrazione su filo e su nastro e terminare nella recentissima multiregistratrice.
Ma Clawly aveva pensato di scoprire qualcosa che potesse gettare un po’ di luce nelle tenebre che avvolgeva il problema più urgente.
Aveva ancora la fortissima convinzione secondo la quale quella stanza non era che il centro di una rete, la chiave dell’intera faccenda… ma era una chiave che lui non sapeva usare.
Thorn? Thorn costituiva da solo un intero problema, che si era presentato soltanto da poche ore, ma che appariva ricco di possibilità e di sfumature addirittura esasperanti. Estrasse di tasca, e sfiorò nervosamente, il frammento di nastro con il suo breve messaggio registrato, che aveva trovato alcune ore prima sulla scrivania di Thorn, nel loro ufficio… quel messaggio che esisteva, e che nessuno ricordava di avere visto registrare da parte di Thorn.
SI È PRESENTATA UNA QUESTIONE DELLA MASSIMA IMPORTANZA. DEVO AFFRONTARLA DA SOLO. CANCELLA, O RIMANDA, OGNI ATTIVITÀ FINO AL MIO RITORNO.
Sebbene lo stile del messaggio fosse quello caratteristico di Thorn, c’era in esso una sottilissima differenza, una corrente sotterranea straniera, come se un’altra mente stesse usando la gamma di riflessi muscolari di Thorn. E il messaggio stesso, che avrebbe potuto prestarsi a qualunque interpretazione, ricordava in maniera allarmante i tentativi degli amnesiaci nascosti che cercavano di guadagnare tempo.
D’altra parte, Thorn era il tipo capace di giocare al lupo solitario, se l’occasione gli sembrava adatta.
Se avesse voluto seguire il suo primo impulso, Clawly avrebbe continuato la ricerca di Thorn, iniziata subito dopo il ritrovamento del messaggio. Ma aveva già affidato questa ricerca ad agenzie molto più competenti di qualsiasi individuo singolo. Se qualcuno poteva trovare Thorn, loro lo avrebbero trovato, e se lui avesse tentato da solo, sarebbe stato solo per calmare un po’ la sua ansia.
No, il suo compito era un altro.
Il programma di ricerca? Ma era già bloccato, dalla decisione contraria del Consiglio, e dall’assenza di Thorn. In quel campo, non poteva fare molto. Inoltre, sentiva che un programma di ricerca sarebbe stato una misura troppo lenta, vaga e inadeguata, nella situazione attuale.
Il Consiglio stesso, allora? Ma quale dato comprensibile e definito avrebbe potuto offrire, oltre a quelli presentati la sera prima?
La sua mente, allora? E se fosse stata quella, la strada per arrivare a una soluzione? Giunse più forte che mai la convinzione che dal suo inconscio si diramavano sentieri oscuri… e uno di essi giungeva proprio a una versione di Clawly demoniaca, scimmiesca, spaventosamente crudele… e che se lui fosse riuscito a concentrarsi nella maniera adatta, avrebbe potuto percorrere uno di quei sentieri.
C’era un fascino in quei sentieri oscuri… il fascino del fato, la promessa di un mondo che meglio si adattava ai tratti della sua personalità più oscuri e più retrivi. E, se Thorn era stato sostituito, questo sarebbe stato il migliore sistema di raggiungerlo.
Ma questo non significava affrontare il problema. Significava piuttosto tuffarsi con ingiustificabile leggerezza nell’ignoto… era una possibilità estrema e pazzesca.
Per affrontare un problema, bisognava tenere i piedi sulla terra… e mantenere l’equilibrio.
Qual era, allora, il suo compito?
Cominciò a domandarsi se quella stanza non avesse un effetto deleterio sul suo sistema nervoso. Quella stanza silenziosa, nella quale si avvertiva la presenza di legami indefinibili con il futuro e il passato, nella quale si provava la sensazione di trovarsi sull’orlo di un centro di tutte le cose, un centro immutabile e senza tempo, nel quale non si svolgevano azioni… quella stanza indeboliva la sua forza di volontà, lo rendeva incapace di prendere una decisione, ora che non c’era più un veggente a parlare per lui.
Il problema era in un certo senso chiarissimo. La Terra era minacciata da un’invasione, che proveniva da una frontiera di nuovo genere.
Ma il vero problema era questo: come affrontarla?
Si allungò sulla scrivania, e accese il televisore, spaziando su diverse scene locali della Blue Lorraine. La Grande Rotonda, con la sua panoramica aerea, dove una lenta corrente subtronica portava sciami di giovani allegri e sorridenti seguendo una spirale ascendente. La Rotonda Fiorita, dove i cittadini camminavano lentamente lungo viali pieni delle piante più esotiche. Gli altri centri della vita di comunità. Gli interminabili corridoi delle imprese private, lungo i quali era possibile trovare di tutto, dagli intagliatori di marionette ai laboratori subtronici specializzati. Le scuole, efficienti e frequentatissime. Le aree produttive, dove i sorveglianti efficienti e competenti seguivano con precisione cronometrica le fasi della produzione. I centri di manutenzione e di riparazione. Le grandi cucine, dove cuochi abilissimi rendevano l’arte culinaria veramente perfetta. I centri di divertimento e sportivi, nei quali regnavano l’allegria e l’eccitazione.
Dovunque, felicità… o, piuttosto, libertà creativa. Un mondo grande, ricco e in pieno sviluppo, che non si rendeva conto, se non durante gli incubi notturni, dell’abisso sul quale stava danzando.
Un mondo incredibilmente impreparato.
Il volto di Clawly si contorse in una smorfia. Così, pensò, devono avere pensato gli dèi dell’Alba della Civiltà, guardando l’umanità la sera prima di Ragnarok, il giorno della distruzione del mondo.
Poterli scuotere dalla loro indifferenza, fare loro capire il pericolo!
Le parole del veggente gli danzavano nella mente:
«Armalo. Mobilitalo. Non lasciarlo in attesa quiescente del cacciatore… Devi fornire una ragione… inventare un pericolo… Marte…»
Marte! La scoperta del veggente aveva fatto in modo che Clawly non si accorgesse di quanto aveva inteso dire con quella parola, ma ora, nel ricordarla, un lampo accecante illuminò la sua mente. Una falsa invasione marziana. Rapporti scientifici inconfutabili dalla Prima Spedizione Interplanetaria… misteriose scomparse di astronavi… astronavi sconosciute che si avvicinavano alla Terra… voci di un’immensa flotta… combattimenti nella stratosfera…
Firemoor, del Settore Extraterrestre, era suo amico, e credeva nelle sue teorie. Inoltre, Firemoor era audace… quasi incosciente. Tra i suoi sottoposti, moltissimi erano del suo temperamento. Si poteva fare qualcosa, dopotutto!
Improvvisamente Clawly scosse il capo, e aggrottò le sopracciglia. Propagare la notizia della minaccia di invasione sarebbe stato un crimine della peggior specie. Era un’idea che doveva essere stata suggerita dalla parte più oscura e tenebrosa della sua natura… o da un’influenza post-ipnotica delle parole di Oktav. Eppure…
No! Doveva dimenticarsene. Trovare un altro sistema.
Scese dalla scrivania, sulla quale era rimasto appollaiato per tutto il tempo, e cominciò a percorrere l’ufficio a grandi passi. Opposizione. Aveva bisogno di questo. Qualcosa di concreto contro cui lottare. Qualcosa, qualche persona, qualche gruppo, che si opponesse a lui, che tentasse di distruggerlo a ogni passo.
Si fermò, chiedendosi perché mai non ci avesse pensato in precedenza.
C’erano due uomini che tentavano di abbatterlo, che avevano pervicacemente combattuto le sue teorie e quelle di Thorn, due uomini che avevano mostrato uno strano mutamento di personalità nei mesi passati, che gli avevano dato una strana sensazione di diversità, di estraneità.
Due membri del Consiglio Mondiale.
Conjerly e Tempelmar.
Sfiorando le cime degli alberi, scendendo tra il fogliame, spaventando uno scoiattolo che si esponeva al sole su un alto ramo, Clawly volò fino a compiere un brusco atterraggio sulla terrazza della casa di Conjerly.
Silenzio assoluto. Solo il ronzio delle api in giardino, tra i fiori, e un impasto di odori penetranti e dolciastri che aleggiava nell’aria. Il sole splendeva. Senza interruzione, la massa compatta degli alberi si stringeva intorno alla casa.
Clawly si avvicinò silenziosamente alla porta che si apriva nella parete color crema. Non si tolse gli abiti di volo. Aveva sollevato la cuffia durante il volo.
Sollevò la mano, e attraversò due volte il raggio invisibile che percorreva la porta. Si udì una bassa melodia musicale, che fu ripetuta subito dopo.
Non si udì alcun suono, in risposta, non si udì rumore di passi. Clawly attese.
La pace che lo circondava, il silenzio e la mancanza di ogni traccia di vita, agirono negativamente sui suoi nervi scossi. Le abitazioni nel cuore della foresta, che potevano essere raggiunte solo in volo, erano estremamente solitarie e isolate.
Poi udì un altro suono, debole e ritmico, che era stato nascosto dal ronzio delle api. Giungeva dall’interno della casa. Un respiro. Gli intervalli tra un respiro e l’altro sembravano lunghi, in maniera anormale.
Clawly esitò. Poi passò decisamente sotto il raggio.
Senza produrre rumore, percorse un corridoio oscuro, e freddo. Il respiro divenne progressivamente più forte, sebbene il ritmo non mutasse minimamente. Di fronte alla terza porta che incontrò, l’aumento d’intensità fu notevole.
Quando i suoi occhi si furono abituati alla penombra, distinse un basso divano e un corpo umano disteso su di esso, sulla schiena, con le braccia allungate. A intervalli regolari, il petto dell’uomo si sollevava.
Clawly si voltò, aprì una finestra, e si avvicinò al divano.
Sul pavimento, sotto la mano di Conjerly, c’era una busta vuota. Clawly la raccolse, l’annusò, e l’allontanò rapidamente per evitare di aspirare i residui della sostanza soporifica.
Scosse il dormiente, e dopo qualche tentativo, continuò a scuoterlo piuttosto rudemente.
Il pesante respiro di Conjerly continuò come se nulla fosse accaduto.
La prima impressione fornita dal volto di Conjerly era di assoluto vuoto, una mancanza di espressione, di sentimenti, di qualsiasi cosa. Ma un esame più attento lasciò intravedere tracce di personalità, vaghe e indistinte, come immagini intraviste sul fondo di un pozzo.
Più Clawly studiava quel volto, più si accorgeva che il sospetto che aveva avuto prima, nell’ufficio di Oktav, era fondato. Questo era il Conjerly che lui aveva conosciuto. Forse privo d’immaginazione, cocciuto e rude, un po’ troppo incline al conservatorismo, un po’ troppo teatrale in certi atteggiamenti… ma nulla di estraneo, nulla di maligno.
Il ritmo della respirazione cambiò. Il dormiente si agitò. Una mano si sollevò lentamente, e sfiorò ciecamente il petto.
Clawly osservò, immobile. Da ogni parte, il pesante silenzio estivo premeva su di lui.
Il ritmo della respirazione continuava a cambiare. Il dormiente si agitò. La mano si mosse sul colletto allentato della veste da camera.
E cambiò anche qualcos’altro. Sembrò a Clawly che il volto del Conjerly che lui conosceva stesse lentamente affondando in uno stretto pozzo senza fondo, rimpicciolendo, scomparendo del tutto, lasciando solo una maschera vuota. E poi, gli sembrò che un altro volto salisse a riempire la maschera… e in questo secondo volto si poteva leggere una nuova gamma di sentimenti, se non proprio maligni, per lo meno contorti e ostili.
Il dormiente mugolò, mormorò. Clawly si chinò su di lui, e riuscì ad afferrare delle parole. Parole con un’impronta di lontananza e di diversità infinita, parole che sembravano giungere da un altro cosmo.
— … Macchina transtemporale… invasione…, tre giorni… noi… prevenire ogni azione… finché…
Poi, dal silenzio alle sue spalle, un suono diverso… un debole scricchiolio.
Clawly si voltò di scatto. In piedi sulla porta, alto e impressionante, c’era Tempelmar.
E sul volto magro ed equino di Tempelmar stava scomparendo un’espressione nella quale erano uniti sospetto, allarme, e qualcosa di più immediato… un’espressione mortale.
Ma quando Clawly lo fissò direttamente, il volto aveva già assunto un’espressione gentile, condiscendente e un po’ perplessa: — Ebbene?
Un altro suono, alle sue spalle. Voltandosi, e facendosi indietro di qualche passo, in modo da poter tenere entrambi sotto controllo, Clawly vide che Conjerly si stava alzando, con espressione dapprima assente. Fissò Clawly. Allora anche la sua espressione cambiò, ed egli pronunciò un «Ebbene?» simile a quello di Tempelmar, anche se più irato, più indignato, e meno gentile. Era un’espressione che non apparteneva all’uomo che aveva dormito, drogato, sul divano.
Le parole che Clawly aveva appena intuito continuavano a ronzargli nelle orecchie.
Cominciò a fare le sue scuse:
— Ero venuto a parlare del programma… ho sentito il rumore di un respiro affannoso… mi sono allarmato… sono entrato…
Ma mentre parlava, mentre considerava la possibilità di un immediato attacco fisico e il modo migliore di affrontarlo, aveva già preso la sua decisione.
Doveva andare da Firemoor.