Thorn non si chiese per quale motivo il luogo in cui si trovava fosse oscuro e maleodorante, roccioso e asciutto, né da dove venisse l’acre odore di fumo che gli giungeva alle nari. Era felice di giacere là e di sentire la mente in un corpo, dopo le sensazioni terribili di quel viaggio spaventoso. Il Mondo II era ancora un ricordo ossessionante. Ma come un incubo dal quale ci si è appena destati, poteva essere dimenticato. Tra un istante si sarebbe alzato e avrebbe fatto ciò che doveva fare. Tra un istante, lo sapeva, non avrebbe trovato pace fino a quando l’allarme non fosse stato dato e tutti i passi necessari non fossero stati presi, finché l’invasione non fosse stata affrontata e decisamente respinta. Sarebbe stato un uomo teso, pronto a sacrificarsi, un vero combattente.
Ma per il momento nulla aveva importanza, nulla poteva interrompere l’oasi di pace nella quale si trovava.
Strano, però, che il fumo denso non lo facesse tossire, e che il suo corpo non dolesse per la posizione scomoda e per il terreno roccioso.
Attutito, come se giungesse dal sottosuolo, udì un lontano ululato, triste e interminabile, che finì in una bassa nota di minaccia.
Cominciò a rialzarsi.
La sua mano incontrò un soffitto roccioso. Subito proseguì l’esplorazione, incontrando pareti irregolari e rocciose, da entrambe le parti.
Era lui che si trovava sottoterra, non l’ululato.
Cosa diavolo stava facendo Thorn II in una caverna del Mondo I? Perché indossava quel rozzo insieme di indumenti pesanti, che sembrava comprendere stivali massicci, e pellicce? Dove aveva trovato il lungo coltello che portava appeso alla cintura?
L’oscurità incombente si riempì improvvisamente di minacce. Con un senso di panico, continuò frettolosamente l’esplorazione a tentoni delle pareti, e scoprì di trovarsi in una piccola stanza a cupola, al centro della quale il soffitto era alto quel tanto che bastava a permettergli di alzarsi in piedi. Da tre parti la parete si stendeva fino al pavimento ineguale, o ai margini di stretti crepacci orizzontali, nei quali riusciva a malapena a infilare la mano.
Il quarto lato presentava una bassa apertura. Inginocchiandosi e procedendo ventre a terra, riuscì a entrarvi.
C’era un passaggio, che portava verso l’alto. L’odore di fumo si fece più pesante. Dopo due curve a gomito, dalle rocce aguzze che sfioravano ma non laceravano i suoi pesanti indumenti, cominciò a vedere la grigia luce del giorno.
Il passaggio si allargò, e Thorn poté camminare in posizione quasi eretta. Poi, improvvisamente, sfociò in una grande caverna, alla cui estremità opposta si stendeva il cupo panorama esterno.
Il panorama consisteva in una collina erta, coperta di alberi scheletrici, bianchi di neve. Si trovava a una certa distanza, come al di là di un burrone.
Ma Thorn non la osservò attentamente, perché stava osservando soprattutto il fuoco che ostruiva l’imboccatura dello stretto passaggio, e che emanava un fumo denso che ondeggiava ovunque, rendendo la luce del giorno ancor più fioca e nebulosa.
Vide subito che si trattava di un fuoco davvero notevole, sebbene non fosse in grado di dire il perché. Dopo un po’ decise che il motivo era costituito dal modo veramente intelligente in cui era stato sistemato, in modo da bruciare intensamente per un lungo periodo; alcuni ceppi e alcuni rami secchi erano posti in modo tale da non cadere nel fuoco fino a quando gli altri non fossero stati consumati. Chiunque avesse costruito quel fuoco doveva averlo predisposto per bruciare per un periodo di diverse ore.
Ma perché doveva perdere tempo ad ammirare un fuoco? Con qualche calcio lo allontanò, visto che i grossi stivali che Thorn II aveva trovato chissà dove servivano benissimo, e si diresse verso l’apertura della caverna.
Si udì un rumore di zampe sulla roccia, e Thorn pensò di avere visto un animaletto peloso scomparire nell’oscurità.
La caverna si trovava sul fianco di una collina, simile a quella che aveva visto davanti a lui, e più in basso si trovava un torrente gelato e sinuoso. In alto, un cielo grigio e cupo sembrava annunciare l’arrivo imminente della notte. Le colline impedivano la vista dell’orizzonte. Era molto freddo.
La scena era spaventosamente familiare.
Thorn II era pazzo, o lo era diventato? Perché, altrimenti avrebbe dovuto nascondersi in una caverna di una riserva polare allo stato selvaggio? Perché doveva averlo fatto, sebbene fosse difficile immaginare come avesse potuto farlo in un periodo così breve.
Sarebbe stato divertente se, dopo essere tornato al suo mondo d’origine, fosse morto di fame in una riserva, o fosse stato ucciso da uno dei terribili animali che la popolavano.
Doveva arrivare in cima alla collina sul cui fianco si apriva la caverna. Dovunque si fosse trovato, dalla cima avrebbe potuto distinguere un pigliastelle, o qualche altro segno riconoscibile.
Gli venne improvvisamente in mente che quella gola era diabolicamente simile a una che si trovava nei boschi, vicino all’anfiteatro sincromico, una gola che lui e Clawly avevano esplorato più volte, da ragazzi. La forma del torrente era inconfodibile.
Ma non poteva essere. Il tempo non era quello adatto. E quella gola aveva una vegetazione molto più fitta. Inoltre, l’erosione manca di fantasia: si ripete molto spesso.
Fece per esaminare gli strani e voluminosi indumenti che Thorn II aveva indossato. E così, ebbe il modo di vedere le sue mani… e gelò.
Restò per un istante a occhi chiusi. E non li riaprì neppure quando si udì rumore di zampe, sopra di lui, e una pietra cadde dall’alto ai suoi piedi.
Rapidamente decise di arrivare in cima alla collina e stabilire la sua posizione prima di fare qualcos’altro, prima di pensare a qualcos’altro, certo prima di esaminare le sue mani e il suo viso più attentamente. Si trattava più della spinta del terrore che di una determinazione. Uscì sulla piattaforma rocciosa che si trovava davanti all’apertura della caverna, e si voltò indietro. Ebbe nuovamente l’impressione di vedere un animale peloso che si nascondeva frettolosamente. Più o meno delle dimensioni di un gatto. Osservò attentamente le strade che portavano verso la cima, scelse quella che sembrava meno pericolosa, e immediatamente cominciò a salire con passo rapido e uniforme, con gli occhi fissi risolutamente davanti a sé.
Ma dopo avere percorso qualche metro, vide qualcosa che lo costrinse suo malgrado a fermarsi.
Su una sporgenza circondata dagli abeti, a una dozzina di metri di distanza, su un lato del sentiero che stava percorrendo, tre gatti lo stavano guardando.
Erano gatti, certo, gatti domestici, sebbene il loro pelo sembrasse molto fitto.
Ma non si trovavano, di solito, gatti domestici in una riserva di vita primitiva. La loro presenza indicava la vicinanza di un’abitazione umana. Inoltre, lo stavano fissando con un’attenzione che indicava la loro familiarità con l’uomo, e non andava d’accordo con la fuga iniziale… se l’animale che aveva visto prima era stato davvero un gatto.
Chiamò: — Micio! — La sua voce tremò lievemente. — Micio!
Il suono svanì lentamente in lontananza, e le parole sembrarono congelate dal freddo.
E poi ci fu una risposta al suono, o meglio, una eco, da parte del gatto che si trovava a destra, un animale nero e grigio.
Non fu esattamente la parola “Micio” che il gatto miagolò, ma fu un suono così simile a essa, così fedele alle intonazioni esatte, che Thorn fu costretto a rabbrividire.
— Mii… iio. — Una parodia della sua voce, una sfida ironica e incredibile.
Thorn ebbe paura.
Riprese a salire. Non appena si mosse, i gatti svanirono.
Per qualche tempo avanzò velocemente, sebbene l’ascesa non fosse agevole, a causa del terreno franoso che ostruiva il sentiero, e ai rami degli alberi caduti. L’ultimo «Mii… iio» gli ronzava nelle orecchie, e molte volte fu sicuro di avere intravisto rapidi corpicini pelosi che scivolavano accanto a lui, fuori portata, seguendo la sua avanzata. I suoi pensieri presero una direzione spiacevole. I gatti. Quanti secoli di stretto contatto con l’umanità avevano passato… e in quei secoli, di quanto era aumentata la loro abilità, di quanto si era affinata la loro intelligenza? I gatti erano sempre rimasti in disparte, indipendenti nel bel mezzo della civiltà umana. Questi pensieri lo portarono ad altre conclusioni meno concrete…
Una volta, udì un altro suono, la ripetizione del triste ululato che già aveva sentito nella caverna. Poteva trattarsi di lupi, o di cani, e il suono sembrava giungere dal fondo della gola, in lontananza.
Il cielo stava oscurandosi.
La rapida ascesa lo stancava meno del previsto. Stava ansimando, ma regolarmente, senza affanno. Capì che non avrebbe dovuto fermarsi per riposare.
Gli abeti cominciarono a diradarsi, verso la cima della collina. Si trovò davanti a un pendio più dolce, quasi libero dalla vegetazione.
A poca distanza, davanti a lui, più in alto, sporgeva un grosso lastrone di granito. Su di essso c’erano tre gatti, accovacciati, intenti a fissarlo. Qualcosa, nel modo in cui erano disposti, e nei piccoli movimenti che facevano, suggeriva l’idea che i tre stessero discutendo e che l’oggetto della discussione fosse… lui.
L’ululato giunse nuovamente, e i gatti rizzarono le orecchie. Ci furono altri movimenti, altri sguardi nella sua direzione. Poi, quando lui riprese ad avanzare, uno dei gatti… quello tigrato… balzò a terra, gli passò accanto come un fulmine e scomparve verso il basso. Mentre gli altri due, quello nero e quello grigio e nero, scesero dal lastrone di granito con aria più tranquilla, e cominciarono ad avanzare nella direzione scelta da Thorn, lanciandogli spesso rapide occhiate.
Lui affrettò il passo, lieto di avere tante riserve di energia. L’ascesa era molto più facile. Non c’erano frane, né massi, né alberi.
Si udì nuovamente l’ululato, ripetuto in lontananza debolmente.
I corpi spettrali dei gatti apparivano accanto a lui, tra le rocce. A poco a poco, Thorn si abituò alla loro presenza.
Gli sembrava tutto estremamente naturale, chissà perché, come se lui fosse stato creato per marciare in quel mondo crepuscolare.
Ci fu un’ultima curva, nel sentiero, e poi Thorn fu in cima alla collina.
Per molto tempo continuò a voltarsi e a guardare, a guardare e a voltarsi. Tutto il resto… emozioni, pensiero… era subordinato all’atto di guardare.
Là in cima la luce era ancora abbastanza buona. E non c’erano colline a impedire la vista. Si stendeva, coperta di neve, senza luce, senza vita, dolorsamente tetra, fino a un orizzonte oscuro, in tre direzioni, e fino a una lontana parete di ghiaccio luccicante, nella quarta direzione.
L’unica traccia di vita era offerta da un sottile filo di fumo che si levava nell’aria, in lontananza, oltre l’altopiano che Thorn stava osservando.
Fino a quando poté, rifiutò di riconoscere le rovine che sorgevano di quando in quando a interrompere la monotonia del paesaggio… vaste ossature montagnose di edifici, cose contorte e annerite, circondate da strane formazioni di roccia che sembravano colate di lava, come se la terra stessa avesse ribollito in una marea di calore intollerabile nel momento in cui quelle rovine erano state create.
Era un mondo in rovina, dal quale gli ultimi raggi di un sole al tramonto, sfiorando per un istante le cupe macerie, traevano bagliori di un giallo malato.
Ma poté evitare di riconoscere la verità solo per pochi minuti. Il sospetto che l’aveva sfiorato alla vista della gola era stato esatto. Il monte contorto e coperto di neve che si trovava davanti a lui era la tomba della Croce d’Opale. Il nero monolito che sorgeva in lontananza, a sinistra, era quanto restava della Grigia H. Quelle due torri distrutte, piegate in angoli pazzeschi, che si rivolgevano l’una verso l’altra come per cercare sostegno, erano i Gemelli Grigi. Quella massa squarciata e contorta che sorgeva dall’altra parte della gola, e che spiccava nera sullo sfondo abbagliante della neve, era la Rugginosa Ti.
Ma non poteva trattarsi del Mondo I, anche dopo molti anni, e dopo una catastrofe. Perché non esitevano tracce, neppure collinette, della Blue Lorraine, della Malva Zeta, né del Mirto Y. E neppure del Mondo II, perché le rovine della Stella Nera avrebbero dovuto costituire un’enorme massa oscura sulla sinistra, nelle immediate vicinanze.
Abbassò lo sguardo sulle sue mani.
Erano dure e callose, percorse da una rete di cicatrici, raggrinzite dal freddo, con le unghie sporche e trascurate. Eppure, erano le mani di Thorn.
Le sollevò per toccare il suo volto screpolato dalla barba lunga e ispida e incolta, e dai lunghi capelli raccolti sul collo, all’interno del cappuccio di pelo.
I suoi abiti erano una miscellanea di pelli rigide e conciate maldestramente, di parti logore e sporche di un abito di volo, di stoffe rappezzate alla meglio, come i pezzi di elastoide che costituivano le suole degli stivali.
La grossa cintura, rinforzata da pezzi di nastro da registrazione, sosteneva, oltre al coltello, due sacche che sembravano essere state ricavate dai pezzi di qualche attrezzatura industriale.
Una delle sacche conteneva una fionda, con diverse strisce di elastoide di ricambio, numerosi grossi sassi, e tre pezzi di cibo nero e dall’aspetto dubbio.
Nell’altra sacca si trovavano due piccoli contenitori di cibo concentrato, sul cui involucro si poteva leggere una data di venticinque anni prima, un tubetto di stimolante nel quale era rimasta una sola pillola, due pezzi di metallo tagliente, una pietra focaia, altri tre pezzi di elastoide, dell’altro nastro di registrazione, una rozza corda, una lente di plastica, una lima da intaglio, un piccolo proiettore di calore smantellato, che mostrava segni di rielaborazione, diversi oggetti inidentificabili, e… la grigia sfera levigata che lui aveva rubato all’Yggdrasil.
Mentre si diceva che non poteva trattarsi della stessa, le sue dita ne riconoscevano l’inconfondibile superficie levigata, la sua forma irripetibile, la sua inerzia stranamente eccessiva.
La sua mente ricordò che aveva sospettato di trovarsi di fronte a una sola molecola supergigante, una chiave… se la si sapeva usare… per aprire le porte di mondi invisibili.
Ma Thorn ebbe soltanto il tempo di immaginare che la cosa doveva essere legata alla sua mente, e non ai suoi numerosi corpi, e di chiedersi come fosse potuta sfuggire alla minuziosa perquisizione alla quale era stato sottoposto all’interno della Stella Nera. Poi la sua attenzione fu attirata da un debole guaito ansioso che si udì all’improvviso, e che cessò immediatamente.
Si voltò. Lungo il pendio della collina che lui aveva salito poco prima, un branco di lupi, o di cani, stava giungendo… perlomeno, doveva trattarsi di una trentina di animali che erano sbucati dalla vegetazione e dalle rovine. Seguivano la stessa strada sinuosa che lui aveva percorso. Nella loro corsa silenziosa c’era una strana sensazione di disciplina. Non poté esserne sicuro… la luce era insufficiente… ma gli sembrò che sul dorso di due o tre animali si trovassero dei corpicini pelosi più piccoli.
Ora sapeva per quale motivo era stato acceso il fuoco all’imboccatura della caverna.
Ma il branco si trovava tra lui e quel fuoco, così si voltò e corse sull’altopiano, verso il punto in cui aveva visto levarsi un filo di fumo.
Mentre correva, aprì il tubetto e inghiottì la pillola di stimolante, mormorando un ringraziamento a quel Thorn… decise di chiamarlo Thorn III… che aveva conservato la pillola per tanti anni, in attesa di un’emergenza altrimenti insuperabile.
Fu una corsa perfetta. I suoi piedi dai pesanti stivali evitarono ogni ostacolo, scelsero le zone di terreno più solide, con una sicurezza che fece sorgere una domanda nella mente di Thorn: Thorn III conosceva forse la strada? E quando lo stimolante cominciò a fare effetto, la sua velocità aumentò. Ma quando si voltò per un istante, vide che il branco era già arrivato in cima alla collina, e si riversava sull’altipiano. Gli animali cominciarono ad abbaiare, un suono costante, ansioso e lamentoso.
Davanti a lui, nell’oscurità crescente, apparve una luce tremolante, vaga e lontana. La osservò, ed essa cominciò a diventare più grande, lentamente. Thorn cercò di scegliere il momento esatto per scattare.
Il terreno si fece più accidentato. Fu incredibile notare l’abilità con la quale i suoi piedi evitavano gli ostacoli. La luce divenne ben visibile, e illuminò un’apertura semircicolare che si trovava dietro di essa.
L’orda ululante si avvicinò.
Udì il rumore delle zampe, proprio alle sue spalle.
Allora scattò.
Appena in tempo. Un grosso corpo peloso balzò contro di lui, con le zanne pronte a colpire la gola, e bagnò di saliva gli abiti di Thorn, mentre l’uomo balzava al di là del fuoco; poi Thorn si voltò, con il coltello stretto in pugno, e si mise in posizione, accanto all’uomo rugoso che impugnava una lancia, di fronte all’apertura della stanza semisepolta, fatta di plastoide annerito del tempo.
Poi, per qualche istante, ci fu una battaglia caotica… forme allungate di animali che si ritiravano di fronte alle fiamme… occhi rossi e zampe possenti… lancia e fionda che colpivano… ansiti, grugniti, mugolii, ululati… e, a dominare l’intera scena, e a renderla infernale, quei tre musi felini miagolanti che osservavano sul dorso di tre cani che si trovavano alla retroguardia.
Poi, come se fosse stato emanato un ordine, i cani si ritirarono all’unisono, e tutto finì improvvisamente. Senza pronunciar parola, Thorn e l’altro uomo cominciarono a riparare e a rifornire di combustibile il fuoco che era stato rovinato dal subitaneo assalto. Quando ebbero finito, l’altro individuo domandò: — Ti hanno colpito da qualche parte? Sarò pazzo, ma penso che i diavoli abbiano cominciato ad avvelenare i denti di alcuni cani.
Thorn disse: — Non credo — e cominciò a esaminare braccia e mani. L’altro annuì.
— Cosa mangi? — domandò improvvisamnte.
Thorn rispose. L’altro sembrò colpito dai concentrati. Disse:
— Potremmo andare a caccia insieme per qualche tempo, penso. Bisogna organizzarsi… lasciare uno di guardia, mentre l’altro dorme.
Parlava rapidamente, mangiandosi le parole. La sua voce doveva essere rimasta inutilizzata per molto tempo. Osservava Thorn con aria perplessa.
Thorn lo studiò. Era piccolo e zoppicava, ma barba, pelle e indumenti erano uguali a quelli di Thorn. Il volto grinzoso non era familiare. Gli occhi rossi e ansiosi non erano quelli di un individuo mentalmente normale. La presenza di Thorn sembrava agitarlo, scuoterlo in maniera incredibile. Ogni volta che chiudeva le labbra rovinate e nervose, Thorn capiva che l’uomo tratteneva una fiamma di parole.
L’uomo domandò: — Da dove vieni?
— Una caverna nella gola — replicò Thorn, chiedendosi cosa doveva dirgli. — Qual è la tua storia?
L’uomo lo fissò in modo strano. Tremava. Poi schiuse le labbra.
Thorn, accovacciato dietro alla tremante barriera di fiamma, con gli occhi fissi su una notte la cui oscurità era interrotta solo da qualche rosso riflesso di occhi in agguato, fu sicuro di avere sempre saputo quanto l’uomo gli stava raccontando.
— Mi chiamavo Darkington. Ero uno studente di geologia. Ciò che mi ha salvato è stato il fatto di trovarmi nelle montagne quando l’energia si è scatenata. Penso che tutti sapessimo cosa sarebbe accaduto, con l’energia, vero? Era nell’aria. Abbiamo sempre saputo che un giorno qualcuno avrebbe scoperto cosa si trovava dietro alla gravità e all’elettricità e al magnetismo… — pronunciò faticosamente queste parole. — E più loro cercavano di nascondere la cosa, più eravamo sicuri che qualcuno aveva scoperto qualcosa. Penso che non avrebbero dovuto nascondere così la scoperta. Penso che delle creature intelligenti non debbano tirarsi indietro di fronte al proprio destino.
“Ma comunque, mi trovavo nelle montagne quando l’energia si è scatenata e ha divorato tutto il metallo che ha potuto raggiungere. I vapori raggiunsero il nostro gruppo, e due di noi morirono. Dopo, alcuni di noi si misero in marcia per cercare di entrare in contatto con gli altri superstiti, ma i vapori erano più pericolosi, verso sud, e alcuni morirono mentre gli altri uscirono di senno. Mi unii a un gruppo che voleva organizzare un nucleo umano al di là della cintura vulcanica, ma commettemmo diversi errori, e poi venne il primo dei lunghi inverni e frustrò tutti i nostri piani e ci fece capire che le stagioni erano molto cambiate, dato che lo sconvolgimento della crosta terrestre assorbiva l’anidride carbonica dall’aria, e le piante erano insufficienti a riequilibrare la situazione. Dopo mi misi in marcia e cercai di unirmi ad altre bande di superstiti, ma quando il cannibalismo iniziò i cani e i gatti divennero veramente pericolosi, mi diressi verso nord, e arrivai nella zona dei ghiacciai. Da quel momento in poi, ho vagabondato da queste parti, come vedi.”
Guardò Thorn. La sua voce era già secca. La sua ansia di parlare, come una fame di origine nervosa, non lo aveva portato lontano.
Thorn scosse il capo, cercando di vedere nell’oscurità, al di là del fuoco.
— Deve esserci un modo — disse lentamente. — Certo, sarebbe difficile, e noi rischieremmo le nostre vite, ma deve esserci un modo.
— Un modo? — domandò con voce atona l’altro.
— Sì, tornare dove gli uomini stanno ricominciando a unirsi e a ricostruire. Immagino che ci si debba dirigere a sud. Dovremo cercare e vivere della nostra caccia per molto tempo, ma sono sicuro che ci arriveremo.
Ci fu un lungo silenzio. Una strana espressione di simpatia apparve sul volto dell’altro.
— Tu stai sognando — disse a Thorn, e la sua voce gracchiante sembrò più gentile. — Anch’io ho sognato, così intensamente che per un po’ sono riuscito a credere che i sogni fossero veri. Ma si tratta soltanto di sogni. Nessuno si sta riunendo. Nessuno sta ricostruendo la civiltà, tranne… — la sua mano indicò qualcosa al di là del fuoco. — Tranne quei diavoli, là fuori.