CAPITOLO 6

Quando Shevek venne rimandato a casa dopo una decade trascorsa all’ospedale, il suo vicino della Stanza 45 venne a trovarlo. Era un matematico, molto alto e allampanato. Aveva uno strabismo divergente, cosicché non potevi mai essere certo se fosse lui a guardare te, o tu a guardare lui. Egli e Shevek coesistevano amichevolmente, a fianco a fianco nel dormitorio dell’Istituto, ormai da un anno, senza essersi mai rivolti una frase completa.

Desar ora entrò e fissò Shevek (o i punti al suo fianco). - Niente? — chiese.

— Mi sento bene, grazie.

— Portarti il pasto dal refettorio?

— Col tuo? — disse Shevek, influenzato dallo stile telegrafico di Desar.

— D’accordo.

Desar portò un vassoio con due pasti dal refettorio dell’Istituto, e mangiarono insieme nella stanza di Shevek. Lo fece nuovamente, mattino e sera, per tre giorni, finché Shevek non si sentì nuovamente in grado di muoversi. Era difficile capire perché Desar lo facesse. Non era un tipo amichevole, e i legami di fratellanza parevano significare poco, per lui. Una delle ragioni per le quali si teneva lontano dalla gente era quella di nascondere la propria disonestà; egli era stupefacentemente pigro o francamente proprietarista, poiché la Stanza 45 era piena di cose che non aveva diritto, o motivo, di tenere: piatti della mensa, libri di biblioteche, una scatola di arnesi per scolpire il legno, presi a un deposito di forniture per artigiani, un microscopio proveniente da qualche laboratorio, otto diverse coperte, un armadio pieno di abiti, alcuni dei quali, chiaramente, non erano della misura di Desar né lo erano mai stati, altri che dovevano essere le cose che metteva addosso quando aveva otto anni, dieci. Pareva ch’egli si recasse nei depositi e nei magazzini a prendere le cose a manciate, indipendentemente dal fatto che gli occorressero o no. — Perché tieni tutte quelle cianfrusaglie? — gli chiese Shevek, la prima volta che venne ammesso nella stanza. Desar fissò accanto a lui. — Boh, la roba si accumula da sola… — rispose, vagamente.

Il campo scelto da Desar nelle matematiche era talmente esoterico che nessuno, tanto nell’Istituto quanto nella Federativa di Matematica, avrebbe potuto controllare con coscienza di causa i suoi progressi. E questo era esattamente il motivo per cui Desar l’aveva scelto. Egli aveva dato per assodato che i motivi di Shevek fossero identici. — Diavolo — disse una volta, - lavoro? Bell’incarico, qui. Sequenza, Simultaneità, sterco. — Alcune volte Shevek provava simpatia per Desar, altre lo detestava, per gli stessi motivi. Rimase con lui, però, e deliberatamente, come parte della sua decisione di cambiare vita.

La malattia gli aveva fatto comprendere che se avesse cercato di andare avanti da solo sarebbe andato incontro a un crollo totale. Lo vedeva in termini morali, e si giudicava senza pietà. Aveva continuato a tenersi per se stesso, contrariamente all’imperativo etico della fratellanza. Shevek a ventun anni non era esattamente un pedante, con la sua moralità appassionata e severa; ma essa combaciava ancora con una matrice rigida, l’Odonianesimo semplicistico insegnato ai bambini da adulti mediocri, una predica interiorizzata.

Si era comportato male. Doveva comportarsi bene. E così fece.

Si proibì la fisica cinque sere su dieci. Si offrì per il lavoro di comitato nell’amministrazione dei domicili dell’Istituto. Presenziò alle riunioni della Federativa di Fisica e dell’Unione dei Membri dell’Istituto. Si iscrisse a un gruppo che praticava la retroazione biologica e il condizionamento delle onde cerebrali. In refettorio si costrinse ad accomodarsi a tavoli grandi, invece che a piccoli tavoli, con un libro davanti.

Fu una sorpresa: pareva che gli altri fossero lì ad aspettarlo. Lo prendevano con sé, gli davano il benvenuto, lo invitavano a dividere il letto e l’allegria. Lo portarono in giro con loro, e in tre decadi egli imparò più cose su Abbenay di quante non ne avesse imparate in un anno. Si recò con gruppi di persone giovani e allegre in campi sportivi, centri artistici, piscine, feste, musei, teatri, concerti.

I concerti: furono una rivelazione, una scossa di gioia.

Non si era mai recato a un concerto ad Abbenay, in parte perché pensava alla musica come a qualcosa che si fa, piuttosto che qualcosa che si ascolta. Da bambino aveva sempre cantato, o suonato uno strumento, nei cori e nei complessi locali; l’esperienza gli era sempre piaciuta, ma egli non aveva molto talento. E lì si fermavano le sue conoscenze musicali.

I centri di apprendimento insegnavano tutte le tecniche che preparavano alla pratica di una qualsiasi arte: insegnavano canto, metrica, danza, uso della spazzola, dello scalpello, del coltello, del tornio e così via. Tutto in modo pragmatico: i bambini imparavano a vedere, parlare, ascoltare, spostare, maneggiare. Non veniva fatta distinzione tra arte e artigianato; l’arte non veniva considerata come una cosa che avesse un suo posto nella vita, ma come una tecnica fondamentale della vita, come ad esempio la parola. In questo modo l’architettura aveva prodotto, fin dall’inizio, spontaneamente, uno stile coerente, puro e semplice, dalle proporzioni sottili. La pittura e la scultura servivano prevalentemente come elementi dell’architettura e della pianificazione urbana. Per quanto riguardava le arti delle parole, poesia e narrativa tendevano ad essere effimere, legate al canto e alla danza; solo il teatro risaltava con un posto tutto suo, e solo il teatro veniva chiamato «l’Arte», qualcosa di completo in se stesso. C’erano molti gruppi teatrali regionali e itineranti di attori e danzatori, gruppi di repertorio, spesso con il loro drammaturgo fisso. Recitavano tragedie, commedie su canovaccio, mimi. Erano accolti con la felicità con cui si accoglieva la pioggia nelle solitarie cittadine del deserto, erano l’evento dell’anno dovunque giungevano. Capace di racchiudere l’isolamento e la comunalità dello spirito anarresiano, e nato da essi, il teatro drammatico aveva raggiunto una forza e una luminosità straordinarie.

Shevek, tuttavia, non era molto sensibile al teatro. Gli piaceva lo splendore verbale, ma l’intera idea della recitazione non gli era molto congeniale. Soltanto in quel secondo anno ad Abbenay finalmente scoprì la sua Arte: l’arte che si fa usando come materiale il tempo. Qualcuno lo condusse a un concerto all’Unione Musicale. La sera successiva, egli vi ritornò. Si recò a tutti i concerti: con i suoi nuovi amici, se possibile, o anche da solo, all’occasione. La musica era un bisogno più pressante, una soddisfazione più profonda, dello stare insieme con altri.

I suoi sforzi per uscire dalla reclusione essenziale costituivano, in realtà, un insuccesso, ed egli lo sapeva. Non si fece alcun amico. Copulò con alcune ragazze, ma la copulazione non era la gioia che sarebbe dovuta essere. Era la semplice soddisfazione di un bisogno, come l’evacuazione, ed egli in seguito ne provava vergogna, poiché implicava il fatto di usare un’altra persona come un oggetto. La masturbazione era preferibile, ed era il corso più giusto per un uomo come lui. La solitudine era il suo destino; era intrappolato nella sua stessa eredità genetica. Lei l’aveva detto: «Il lavoro viene per primo.» Rulag l’aveva detto con calma, come per asserire una realtà di fatto, impotente a cambiarla, a uscire fuori della propria gelida cella. E lo stesso valeva per lui. Il suo cuore anelava verso di loro, le anime giovani e gentili che lo chiamavano fratello, ma egli non poteva raggiungerle, né esse potevano raggiungere lui. Era nato per essere solo, un maledetto, freddo intellettuale, un egoista.

Il lavoro veniva per primo, ma non portava a nulla. Come il sesso, sarebbe dovuto essere un piacere, e non lo era. Egli continuava a macinare gli stessi problemi, senza avvicinarsi di un passo alla soluzione del Paradosso Temporale di To, per non parlare poi della Teoria della Simultaneità, che l’anno precedente gli era parsa quasi a portata di mano. Quella sicurezza, oggi, gli sembrava incredibile. Si era davvero creduto capace, all’età di vent’anni, di sviluppare una teoria che avrebbe cambiato le fondamenta della fisica cosmologica? Doveva essere stato fuori di sé per vario tempo, prima della febbre, evidentemente. Si iscrisse a due gruppi di lavoro sulle matematiche filosofiche, convincendosi che ne aveva bisogno e rifiutandosi di ammettere che avrebbe potuto dirigere entrambi i corsi con la stessa capacità degli istruttori. Evitò Sabul quanto più poté.

Nella sua prima fiammata di nuovi propositi, si era riproposto di conoscere meglio Garab. La donna reagì come meglio poté, ma l’inverno era stato severo con lei; era malata, e sorda, e vecchia. Diede inizio a un corso primaverile, ma dovette poi lasciarlo. Era imprevedibile, una volta quasi non riconosceva Shevek, l’altra se lo trascinava in domicilio a parlare con lei tutta la sera. Shevek aveva già superato da tempo le posizioni di Garab, e trovava piuttosto faticose le chiacchierate serali. Era costretto a lasciare che Garab lo annoiasse per ore, con cose che egli già sapeva o che aveva dimostrato parzialmente scorrette, oppure doveva addolorarla e confonderla nel tentativo di condurla sulla giusta strada. La cosa era superiore alla pazienza e al tatto di qualsiasi persona della sua età, ed egli finì con l’evitare Garab quando poteva, e sempre con un rimorso di coscienza.

Non c’erano altre persone con cui parlare di lavoro. Nessuno all’Istituto conosceva abbastanza la fisica temporale pura da potersi tenere al suo livello. Gli sarebbe piaciuto insegnarla, ma non gli era ancora stato assegnato un incarico d’insegnamento o un’aula all’Istituto; l’Unione dei Membri degli studenti di facoltà respinse la sua richiesta. Non volevano mettersi in urto con Sabul.

Con il procedere dell’anno, cominciò a spendere un mucchio di tempo scrivendo lettere ad Atro e ad altri fisici e matematici di Urras. Poche di queste lettere vennero spedite. Alcune le scrisse e semplicemente le stracciò. Scoprì che il matematico Loai An, a cui aveva scritto una lettera di sei pagine sulla reversibilità temporale, era morto da venti anni; si era dimenticato di leggere la premessa biografica del libro di An, Geometrie del Tempo. Altre lettere, che egli cercava di far recapitare dai mercantili di Urras, venivano fermate dagli amministratori del Porto di Anarres. Il Porto era sotto il diretto controllo del CDP, poiché le sue operazioni richiedevano il coordinamento di molti gruppi di produzione, e alcuni dei coordinatori conoscevano lo iotico. Questi amministratori del Porto, con le loro conoscenze particolari e con la loro importante posizione, tendevano ad acquisire la mentalità burocratica: dicevano «no», automaticamente. Diffidavano delle lettere ai matematici, poiché parevano messaggi in codice, e nessuno poteva assicurare loro che non si trattasse di messaggi in codice. Le lettere dirette ai fisici venivano passate se Sabul, che era il loro consulente, le approvava. Egli non approvava quelle che si occupavano di argomenti estranei alla sua branca di fisica Sequenziale. «Non rientra nella mia competenza» egli brontolava, restituendo la lettera. Shevek la mandava ugualmente agli amministratori del Porto, e la lettera gli ritornava indietro con la stampigliatura «Non approvata per l’esportazione».

Portò tutta la questione alla Federativa di Fisica, alle cui riunioni Sabul si prendeva raramente la briga di assistere. Nessuno laggiù dava importanza alla libera comunicazione con il nemico ideologico. Alcuni dei presenti tennero sermone a Shevek per il fatto che lavorava in un campo talmente arcano che, per sua stessa ammissione, non c’era un’altra persona su tutto il pianeta capace di comprenderlo. — Ma si tratta soltanto dal fatto che è un campo nuovo — egli disse, la qual cosa non lo fece approdare a nulla.

— Se è nuovo, condividilo con noi, non con i proprietaristi!

— Da un anno chiedo ogni trimestre di fare un corso. Voi dite ogni volta che non c’è sufficiente richiesta. Ne avete paura perché è nuovo?

Questo non gli procurò alcun amico. Se ne andò incollerito.

Continuò a scrivere lettere a Urras, anche se non ne inviava nessuna. Il fatto di scrivere per qualcuno che poteva capire — che avrebbe potuto capire — gli rendeva possibile scrivere, pensare. In altro modo non gli era possibile.

Le decadi passarono, e così i trimestri. Due o tre volte all’anno giungeva il premio: una lettera di Atro o di un altro fisico di A-Io o di Thu, una lunga lettera, scritta fittamente, fitta di dimostrazioni, tutta teoria dal saluto alla firma, tutta profonda astrusa fisica temporale metamatematico-etico-cosmologica, scritta in una lingua ch’egli non sapeva parlare, da uomini ch’egli non conosceva, che cercavano ferocemente di rintuzzare e distruggere le sue teorie, nemici della sua patria, rivali, stranieri, fratelli.

Per giorni interi, dopo aver ricevuto una lettera, era irascibile e gioioso, lavorava giorno e notte, sprizzava idee come una fontanella. Poi, lentamente, con sforzi disperati, divincolandosi, egli ritornava sulla terra, sulla terra arida, prosciugata.

Stava terminando il terzo anno all’Istituto quando Garab morì. Egli chiese di parlare al suo rito funebre, che venne tenuto, come si usava, nel luogo dove la persona defunta aveva lavorato: in questo caso una delle aule di lezione, nell’edificio dei laboratori di Fisica. Fu lui l’unico oratore. Nessuno studente venne ad assistere; Garab non aveva insegnato negli ultimi due anni. Vennero alcuni anziani membri dell’Istituto, e c’era anche il figlio di Garab, un uomo di mezza età che faceva il chimico agrario nel Nordest. Shevek si mise dove si metteva sempre Garab per fare lezione. Disse a questa gente, con la voce arrochita dalla tosse che ormai lo colpiva ogni inverno, che Garab aveva gettato le fondamenta della scienza del tempo, e che era il massimo cosmologo che avesse mai lavorato all’Istituto. — Noi fisici abbiamo ora la nostra Odo — disse. — L’abbiamo, e non l’abbiamo mai onorata. — Dopo l’orazione, una vecchia lo ringraziò, con le lacrime agli occhi. — Prendevamo sempre il decimo giorno insieme, io e lei, a far le pulizie nel nostro isolato; ci divertivamo così tanto a chiacchierare — disse, rabbrividendo al vento gelido mentre uscivano dall’edificio. Il chimico agrario mormorò convenevoli e scappò via di corsa per trovare il passaggio che lo riportasse nel Nordest. In una collera di dolore, impazienza, senso di futilità, Shevek si allontanò dall’Istituto e si mise a camminare senza meta per le vie cittadine.

Tre anni all’Istituto, e che cosa aveva combinato? Un libro, di cui si era appropriato Sabul; cinque o sei articoli inediti; e un’orazione funebre per una vita sprecata.

Nulla di quanto faceva veniva compreso. Per dirlo più onestamente, nulla di quanto faceva era significativo. Egli non svolgeva alcuna funzione necessaria, personale o sociale. In realtà — fenomeno non raro nel suo campo — si era bruciato a vent’anni. Non avrebbe mai raggiunto qualcosa di più. Era definitivamente giunto al muro.

Si fermò davanti all’auditorium dell’Unione Musicale per leggere il programma della decade. Quella sera non c’era concerto. Si voltò per allontanarsi dal manifesto e si trovò a faccia a faccia con Bedap.

Bedap, sempre sulla difensiva e un po’ miope, non diede segno di riconoscimento. Shevek lo prese per il braccio.

— Shevek! Accidenti, sei proprio tu! — Si abbracciarono, si baciarono, si staccarono, si abbracciarono una seconda volta. Shevek era sopraffatto dall’amore. Perché mai? Non aveva provato molto affetto per Bedap neppure in quell’ultimo anno, all’Istituto Regionale. Non si erano mai scritti, nei tre anni passati da allora. La loro amicizia risaliva agli anni dell’adolescenza, era passata. Eppure c’era dell’amore: fiammeggiava come carboni scossi.

Camminarono, si parlarono, e nessuno dei due si accorse della direzione che prendevano. Gesticolavano e si interrompevano. Le ampie strade di Abbenay erano tranquille nella notte invernale. A ciascun incrocio il pallido lampione creava una polla argentea, in cui si agitava una neve secca, simile a frotte di minuscoli pesci, che rincorreva le loro ombre. Con la neve si era alzato un vento gelido, tagliente. Le labbra insensibili e il battito di denti cominciarono a disturbare la conversazione. Presero l’omnibus delle dieci, l’ultimo, per l’Istituto; il domicilio di Bedap era lontano, alla periferia orientale della città, una lunga camminata nel freddo.

Egli osservò la Stanza 46 con ironica meraviglia. — Shevek, tu vivi come un marcio profittatore urrasiano.

— Su, via, non sono a quel punto. Prova a indicare qualcosa di escrementale! — La stanza, infatti, conteneva quasi esclusivamente ciò che conteneva quando Shevek vi era entrato la prima volta. Bedap indicò: — Quella coperta.

— Quella c’era già al mio arrivo. Qualcuno deve averla fatta a mano e poi lasciata qui quando se n’è andato. Ti pare che una coperta sia eccessiva in una notte come questa?

— Si tratta chiaramente di un colore escrementale — disse Bedap. — Come analista di funzioni, devo farti notare che non c’è bisogno dell’arancione. L’arancione non svolge alcuna funzione vitale nell’organismo sociale, né al livello cellulare né a quello organico, e certamente non al livello olo-organismico, cioè a quello di maggiore centralità etica; in questo caso la tolleranza è una scelta molto meno buona che non l’escrezione. Devi tingerla verde marcio, fratello! E che cos’è tutta questa roba?

— Appunti.

— In cifrario segreto? — chiese Bedap, curiosando in un quaderno con la freddezza che, come Shevek poteva ricordare, gli era caratteristica. Il suo senso della sfera privata, della proprietà privata, era addirittura inferiore a quello di gran parte degli anarresiani. Bedap non aveva mai avuto una matita preferita ch’egli amasse portare con sé, o una vecchia camicia di cui si fosse innamorato e che non volesse mai gettare nel contenitore della riciclazione, e se gli veniva fatto un dono, egli cercava di tenerlo con sé per riguardo verso il donatore, ma finiva sempre per perderlo. Si vergognava un po’ di questo suo tratto e diceva che dimostrava come egli fosse meno primitivo degli altri, un primo esempio dell’Uomo Promesso, il vero ed originario Odoniano. Eppure egli aveva il senso del riserbo. Cominciava nel cranio, suo o di qualsiasi altro, e di lì in poi era completo. Non spiava mai. Ora disse: — Ricordi le stupide lettere che ci scrivevamo in codice quando eri al progetto d’imboschimento?

— Questo non è un cifrario segreto: è iotico.

— Hai imparato lo iotico? Perché lo usi per scrivere?

— Perché nessuno, su questo pianeta, capisce ciò che dico. Né desidera capirlo. L’unica persona che lo capiva è morta tre giorni fa.

— Sabul è morto?

— No. Garab. Sabul non è morto. Sarebbe bello!

— Qual è il guaio?

— Il guaio con Sabul? Per metà l’invidia, per l’altra metà l’incompetenza.

— Pensavo che il suo libro sulla causalità fosse eccellente. Lo dicevi tu.

— Anch’io lo pensavo, finché non ne ho letto le fonti. Sono tutte idee urrasiane. E neppure nuove, per giunta. Sono vent’anni che non fa niente di originale. E che non fa un bagno.

— E tu, cosa pensi? — chiese Bedap, posando una mano sul quaderno e fissando Shevek con uno sguardo preoccupato. Bedap aveva occhi piccoli, tendenti a socchiudersi come avviene per i miopi, viso robusto, corporatura massiccia. Si mangiava le unghie, che, dopo anni di questa pratica, si erano ridotte a semplici strisce sui polpastrelli spessi e sensibili.

— Niente di buono — rispose Shevek, sedendosi sulla predella del letto. — Mi sono messo nel campo sbagliato?

Bedap sorrise con ironia. — Tu?

— Penso che alla fine del trimestre chiederò un altro incarico.

— Che incarico?

— Non so. Insegnamento, ingegneria. Devo togliermi dalla fisica.

Bedap si accomodò sulla sedia della scrivania, si mordicchiò un’unghia, e disse: — Mi pare assurdo.

— Mi sono accorto dei miei limiti.

— Non sapevo che tu ne avessi. Nel campo della fisica, intendo dire. Tu hai sempre avuto ogni sorta di limiti e di difetti. Ma non nella fisica. Io non sono un fisico temporale, lo so. Ma non occorre saper nuotare per riconoscere un pesce, non occorre mandar luce per riconoscere una stella…

Shevek guardò l’amico e fece, o meglio si lasciò scappare, l’affermazione che non era mai stato capace di dire chiaramente a se stesso: — Ho pensato al suicidio. Spesso. Mi pare la cosa migliore.

— Non è certo la strada che ti porterà dall’altra parte della sofferenza.

Shevek sorrise, impacciato. — Ricordi quella conversazione?

— Benissimo. È stata una conversazione molto importante per me. E per Takver e Tirin, penso.

— Davvero? — Shevek si alzò in piedi. Lo spazio in cui passeggiare avanti e indietro si riduceva a quattro passi, ma non poteva rimanere fermo. — Era importante per me, a quell’epoca — disse, fermandosi accanto alla finestra. — Ma qui sono cambiato. C’è qualcosa di sbagliato, qui. Non so che cosa sia.

— Io lo so — disse Bedap. — Il muro. Sei arrivato al muro.

Shevek si voltò, con uno sguardo spaventato negli occhi. — Il muro?

— Nel tuo caso, il muro pare essere Sabul, e i suoi sostenitori nelle unioni scientifiche e nel CDP. Per quanto riguarda me, sono ad Abbenay da quattro decadi. Quaranta giorni. E mi sono stati sufficienti per capire che anche in quarant’anni, qui, non riuscirei a combinare nulla, nulla di nulla, di ciò che desidero fare: migliorare l’istruzione scientifica nei centri d’apprendimento. A meno che le cose non cambino. O che io mi unisca ai nemici.

— Nemici?

— Gli uomini piccini. Gli amici di Sabul! La gente che detiene il potere.

— Ma cosa dici, Bedap! Non abbiamo strutture di potere, qui.

— No? Che cos’è che rende Sabul così forte?

— Non certo una struttura di potere, un governo. Qui non siamo su Urras, dopotutto!

— No. Noi non abbiamo governo e non abbiamo leggi, giusto. Ma per quel che posso vedere, le idee non sono mai state controllate dalle leggi e dal governo, neppure su Urras. Se lo fossero state, come avrebbe potuto, Odo, sviluppare le sue? Come avrebbe potuto, l’Odonianesimo, divenire un movimento mondiale? Gli archisti cercarono di cancellarlo con la forza, ma non ci riuscirono. Non puoi schiacciare le idee cercando di reprimerle. Puoi schiacciarle soltanto ignorandole. Rifiutandoti di pensare, rifiutandoti di cambiare. E questo è precisamente ciò che fa adesso la nostra società! Sabul si serve di te quando può, e quando non può ti impedisce di pubblicare, di insegnare, perfino di lavorare. Giusto? In altre parole, egli ha del potere su di te. E da dove ottiene quel potere? Non da un’autorità investita, non ne esistono. Non dalla superiorità intellettuale, non l’ha. Lo ottiene dalla codardia innata della normale mente umana. La pubblica opinione! Questa è la struttura di potere di cui fa parte, ed egli sa come usarla. L’inconfessato, inconfessabile governo che comanda la società Odoniana soffocando le menti individuali!

Shevek appoggiò le mani al davanzale della finestra, e al di là delle deboli riflessioni del vetro fissò l’oscurità esterna. Infine disse: — Parole folli, Bedap.

— No, fratello, sono perfettamente sano di mente. La cosa che fa impazzire la gente è cercare di vivere al di fuori della realtà. La realtà è terribile. Ti può uccidere. E, a darle abbastanza tempo, finisce certamente per ucciderti. La realtà è dolore… sei stato tu stesso a dirlo! Ma sono le menzogne, l’evasione dalla realtà, a farti impazzire. Sono le bugie: quelle che ti spingono a desiderare di ucciderti.

Shevek si voltò verso di lui e lo fissò. — Ma non puoi parlare seriamente di un governo, qui su Anarres!

— Dalle Definizioni di Tomar: «Governo: l’uso legale del potere per conservare ed estendere il potere.» Basta che tu sostituisca «legale» con «basato sulla consuetudine» e hai subito Sabul, e l’Unione dell’Istruzione e il CDP.

— Il CDP!

— Il CDP è, oggi come oggi, fondamentalmente una burocrazia archistica.

Dopo un istante Shevek rise, ma con poca naturalezza, e disse: — Su, dai, Bedap, è divertente, ma è un discorso un po’ malato, no?

— Shevek, non hai mai pensato che la cosa che viene chiamata «malattia» nel modello analogico, la disaffezione sociale, lo scontento, l’alienazione, potrebbe venire chiamato, analogicamente, dolore… la cosa a cui ti riferivi quando hai parlato del dolore, della sofferenza? E che, come il dolore, riveste una sua funzione nell’organismo?

— No! — disse Shevek, con violenza. — Parlavo in termini personali, spirituali.

— Ma hai parlato della sofferenza fisica, di un uomo che moriva per le bruciature. E io parlo della sofferenza spirituale! Di gente che vede il proprio talento, il proprio lavoro, la propria vita sprecati! Di cervelli di primo piano che si devono sottomettere a cervelli stupidi. Di forza e coraggio strangolati dall’invidia, dalla sete di potere, dalla paura del cambiamento. Il cambiamento è libertà, il cambiamento è vita… c’è forse qualcosa di altrettanto fondamentale per il pensiero Odoniano? Ma ormai non c’è più nulla che cambi! La nostra società è malata. Tu lo sai. Tu stai soffrendo a causa della sua malattia. La sua malattia suicida!

— Basta, Bedap. Piantala!

Bedap non disse altro. Cominciò a rodersi l’unghia del pollice, metodicamente, pensosamente.

Shevek si sedette di nuovo sulla predella del letto e si prese la testa fra le mani. Seguì un lungo silenzio. La neve non cadeva più. Un vento secco, buio, premeva contro la finestra. La stanza era fredda; nessuno dei due giovani si era tolto il soprabito.

— Senti, fratello — disse infine Shevek. — Non è la nostra società a frustrare la creatività individuale. È la povertà di Anarres. Questo pianeta non è fatto per reggere una civiltà. Se ci rilassassimo reciprocamente, se non rinunciassimo ai nostri desideri in vista del bene comune, nulla, nulla di questo mondo spoglio potrebbe salvarci. La solidarietà umana è la nostra unica risorsa.

— La solidarietà, certo! Perfino su Urras, dove il cibo piove a terra dagli alberi, perfino laggiù Odo diceva che la solidarietà umana è la nostra sola speranza. Ma noi abbiamo tradito tale speranza. Abbiamo permesso che la cooperazione divenisse obbedienza. Su Urras hanno il governo da parte di una minoranza. Qui abbiamo il governo della maggioranza. Ma è governo! La coscienza sociale non è più una cosa vivente, ma una macchina, una macchina di potere, controllata da burocrati!

— Io e te potremmo offrirci volontari e venire assegnati dalla lotteria al CDP, nel giro di poche decadi. Questo ci trasformerebbe forse in burocrati, in capi?

— Non si tratta dei singoli individui che vengono assegnati al CDP, Shevek. Molti di loro sono simili a noi. Anzi, fin troppo simili a noi. Bene intenzionati, ingenui. E non è solo il CDP. È ogni cosa di Anarres. Centri di apprendimento, istituti, miniere, macine, pescherie, fabbriche di alimentari, progetti agricoli e stazioni di ricerca, comunità monoprodotto: dovunque la funzione richieda degli esperti e una stabile istituzione. Ma questa stabilità dà spazio all’impulso autoritaristico. Nei giorni iniziali dell’Insediamento ne eravamo coscienti, stavamo sul chi vive. La gente compiva delle discriminazioni molto accurate tra quel che è l’amministrazione di oggetti e il governo di persone. L’hanno fatto talmente bene da farci dimenticare che la volontà di dominio è altrettanto centrale negli esseri umani quanto l’impulso verso l’assistenza reciproca, e deve venire educata in ciascun individuo, in ogni nuova generazione. Nessuno nasce odoniano, come nessuno nasce civilizzato! Ma noi l’abbiamo scordato. Noi non educhiamo alla libertà. L’istruzione, l’attività più importante dell’organismo sociale, è divenuta rigida, moralistica, autoritaria. I bambini imparano a ripetere a memoria le parole di Odo come se fossero legge… la massima bestemmia che si possa immaginare!

Shevek esitò a rispondere. Egli stesso aveva sperimentato ripetutamente il tipo d’insegnamento ricordato da Bedap, quando era bambino, e anche all’Istituto, e non poteva certo negare quelle accuse.

Bedap approfittò senza rimorso di quel varco. — È sempre più agevole non pensare con la propria testa. Trovare una piccola, sicura gerarchia, e accomodarsi entro di essa. Non cambiare nulla, non rischiare la disapprovazione, non mettere in agitazione i colleghi. È sempre più facile lasciarsi governare.

— Ma non è governo, Bedap! Gli esperti e i più anziani finiranno sempre per dirigere ogni gruppo, ogni federativa; conoscono meglio il lavoro. Il lavoro deve essere fatto, in fin dei conti! E il CDP, sì, potrebbe diventare una gerarchia, una struttura di potere, se non fosse organizzato in modo da evitare proprio questo. Guarda come è organizzato! Volontari, scelti a sorte; un anno di addestramento; poi quattro anni di Servizio; poi fuori. Nessuno potrebbe accumulare potere, nel senso archista, con solo quattro anni a disposizione.

— Alcuni restano più di quattro anni.

— Consiglieri? Non conservano il voto.

— I voti non sono importanti. Ci sono persone, dietro le quinte, che…

— Via! Questa è paranoia! Dietro le quinte… come? che quinte? Ogni persona può assistere alle riunioni del CDP, e se è coinvolta direttamente, può prendere la parola e votare! Cerchi di pretendere che abbiamo dei politicanti? — Shevek era infuriato con Bedap. Le sue orecchie sporgenti erano rosse, la sua voce si era alzata. Era tardi, nel quadrilatero non si vedevano luci accese. Desar, dalla Stanza 45, batté sulla parete per avere silenzio.

— Dico quello che sai — rispose Bedap, con voce assai più bassa. — Che persone come Sabul dominano in realtà il CDP, anno dopo anno.

— E se sai questo — lo accusò Shevek, parlando sottovoce, in tono secco, — perché non hai dato pubblicità alla cosa? Perché non hai chiesto nella tua federativa una seduta di critica, se ne hai le prove? Se le tue idee non sopportano l’esame pubblico, non le voglio neppure come bisbigli notturni.

Gli occhi di Bedap si erano fatti molto piccoli, come due perline di acciaio. — Fratello — disse, — sei ipocrita. Lo sei sempre stato. Guarda un po’ al di fuori di quella tua maledetta coscienza pura, una volta tanto! Vengo da te a bisbigliare perché so che di te posso fidarmi, maledizione! A chi altri posso parlare? Credi che voglia fare la fine di Tirin?

— La fine di Tirin? — La sorpresa aveva fatto alzare la voce a Shevek. Bedap gli fece segno di non gridare, indicando la parete. — Che cos’è successo a Tirin? Dov’è?

— Al Manicomio dell’Isola Segvina.

— Al Manicomio?

Bedap, accomodandosi di lato sulla sedia, sollevò le gambe e avvolse le braccia intorno ad esse. Poi parlò tranquillamente, con riluttanza.

— Tirin scrisse un dramma e lo mise in scena, l’anno dopo la tua partenza. Era divertente… un po’ pazzo… conosci il suo tipo di cose. — Bedap si passò una mano sui capelli arruffati e chiari, sciogliendoseli sulla nuca. — Poteva sembrare anti-Odoniano, a uno stupido. E in giro c’è un mucchio di stupidi. Ci fu molto rumore. Ebbe una reprimenda. Pubblica. Io non ne avevo mai viste. Tutti vengono alla riunione della tua federativa e ti esprimono disapprovazione. Era il modo usato per riportare in riga un caposquadra o un amministratore con tendenze a comandare. Ora lo usano soltanto più per dire a un individuo di smettere di pensare con la propria testa. Fu una cosa molto brutta. Tirin non riuscì a superarla. Io credo che l’abbia fatto davvero uscire di senno, un poco. Dopo di allora, ebbe l’impressione che tutti fossero contro di lui. Cominciò a parlare troppo… parole amareggiate. Non discorsi irrazionali, ma sempre critici, sempre amari. E parlava in quel modo a chiunque incontrava. Be’, terminò l’Istituto, si qualificò come insegnante di matematica e chiese un incarico. Ne ebbe uno. In un gruppo per la riparazione delle strade, nell’insediamento del Sud. Protestò, dicendo che si trattava di un errore, ma i calcolatori della Divisione del Lavoro ripeterono quella assegnazione. E così egli vi andò.

— Tirin non ha mai lavorato all’aperto nel periodo in cui l’ho conosciuto — lo interruppe Shevek. — Da quando aveva dieci anni. È sempre riuscito a ficcarsi in lavori a tavolino. La Divisione del Lavoro gli ha dato quanto si meritava.

Bedap non gli badò. — Non so bene cosa sia successo, laggiù. Mi scrisse varie volte, e ogni volta da una nuova assegnazione. Sempre lavori fisici, in piccole comunità isolate. Mi scrisse che lasciava l’incarico e tornava nell’Insediamento Settentrionale per vedermi. Ma non arrivò mai. Smise di scrivermi. Infine lo rintracciai tramite gli Archivi del Lavoro di Abbenay. Mi mandarono una copia del suo cartellino, e l’ultima voce era solo: «Cura. Isola Segvina.» Cura! Tirin aveva ucciso qualcuno? Aveva violentato qualcuno? Per che altri motivi ti mandano al Manicomio, oltre a questi?

— Non è vero che ti mandino al Manicomio. Sei tu che richiedi di venire assegnato ad esso.

— Non dirmi queste stronzate — fece Bedap, colto da collera improvvisa. — Tirin non ha mai chiesto di venirvi mandato! Loro l’hanno fatto impazzire, e poi l’hanno sbattuto laggiù. Sto parlando di Tirin; di Tirin: non lo ricordi?

— Lo conoscevo prima ancora di te. E cosa credi che sia, il Manicomio… una prigione? È un rifugio. Se ci sono assassini e scansafatiche cronici, è perché hanno chiesto di recarsi laggiù, dove non sono sottoposti a pressioni, sono liberi da punizioni. E poi, chi è questa gente che continui a citare, «loro»? «Loro l’hanno fatto impazzire», eccetera. Vuoi dire che l’intero sistema sociale è malvagio, che in realtà «loro», i persecutori di Tirin, i tuoi nemici, «loro» siamo noi… l’organismo sociale?

— Se puoi cancellarti dalla coscienza Tirin dicendo che era uno «scansafatiche», allora credo di non avere altro da dirti — rispose Bedap, raggomitolato sulla sedia. C’era un tale dolore, chiaro e semplice, nella sua voce, che la collera ipocrita di Shevek sparì subito.

Per lungo tempo, nessuno dei due parlò.

— Farei meglio ad andarmene a casa — disse Bedap, sciogliendosi faticosamente dalla posizione e alzandosi in piedi.

— C’è un’ora di cammino, da qui. Non dire sciocchezze.

— Be’, io pensavo… visto che…

— Non dire sciocchezze.

— D’accordo. Dov’è il cesso?

— A sinistra. Terza porta.

Quando ritornò, Bedap propose di dormire sul pavimento, ma siccome non c’era tappeto e c’era una sola coperta, la proposta era, come ripeté con voce monotona Shevek, una sciocchezza. Entrambi erano cupi e irosi; accigliati, come se avessero fatto a pugni senza aver sfogato tutta la loro collera. Shevek srotolò il materasso ed entrambi vi si stesero sopra. Spenta la luce, un’oscurità argentea penetrò nella camera: la semioscurità di una notte cittadina, quando c’è neve sul terreno e la luce viene riflessa debolmente verso l’alto dal suolo. Faceva freddo. Ciascuno accolse con piacere il tepore del corpo del compagno.

— Ritiro quanto detto sulla coperta.

— Senti, Bedap, non intendevo…

— Oh, riparliamone domattina.

— Giusto.

Si accostarono maggiormente. Shevek si stese prono, e in un paio di minuti cadde addormentato. Bedap lottò per mantenere la conoscenza, scivolò nel tepore, più profondamente, nell’assenza di difesa, nella fiducia del sonno, e dormì. Nella notte uno di loro pianse forte, a causa di un sogno. L’altro, ancora assonnato, allungò un braccio, mormorando parole rassicuranti, e il peso cieco e tiepido del suo tocco superò tutte le paure.


S’incontrarono nuovamente la sera successiva, e discussero se fosse il caso di unirsi per qualche tempo, come avevano fatto quando erano adolescenti. Occorreva discuterlo, poiché Shevek era decisamente eterosessuale, e Bedap decisamente omosessuale; il piacere della coabitazione sarebbe stato prevalentemente di Bedap. Shevek era pienamente d’accordo, tuttavia, nel riconfermare la vecchia amicizia; e quando si accorse che il suo elemento sessuale aveva una grande importanza per Bedap, che era, per lui, una vera consumazione, allora prese la guida e si assicurò con molta tenerezza e molta ostinazione che Bedap passasse nuovamente con lui la notte. Presero una singola libera in un domicilio del centro, e vi abitarono insieme per una decade; quindi si separarono nuovamente: Bedap ritornò al suo dormitorio e Shevek alla Stanza 46. In nessuno dei due il desiderio sessuale era abbastanza forte da rendere duraturo il vincolo. Avevano semplicemente riaffermato la reciproca fiducia.

Eppure Shevek a volte si domandò, continuando a vedere Bedap quasi quotidianamente, che cosa fosse ciò ch’egli amava, la cosa di cui si fidava, nell’amico. Trovava detestabili le opinioni nutrite in quel periodo da Bedap, e trovava fastidiosa la sua insistenza nel parlarne. Discutevano ferocemente tra loro quasi ogni volta. Si causavano reciprocamente molto dolore. Nel lasciare Bedap, spesso Shevek si accusava di volere soltanto rimanere caparbiamente abbarbicato a una amicizia che ormai aveva fatto il suo tempo, e si riprometteva con rabbia di non rivedere Bedap.

La verità, tuttavia, era che egli amava Bedap, da uomo, più di quanto non l’avesse mai amato da ragazzo. Inetto, insistente, dogmatico, distruttivo: Bedap poteva essere tutto ciò; ma aveva raggiunto una libertà di mente che Shevek cercava, anche se ne odiava l’espressione. Egli aveva cambiato la vita di Shevek, e Shevek lo sapeva: sapeva che finalmente stava andando avanti, e che era stato Bedap a permettergli di andare avanti. Combatté Bedap ad ogni passo del cammino, ma continuò ad avanzare, a discutere, a fare del male e a riceverlo, a trovare — nella rabbia, nella negazione, nel rifiuto — ciò che cercava. Non sapeva che cosa cercasse. Ma sapeva dove cercarlo.

Era, consciamente, un anno altrettanto infelice per lui quanto l’anno che l’aveva preceduto. Continuava a non fare alcun progresso nel suo lavoro; anzi, in realtà aveva abbandonato del tutto la fisica temporale ed era ritornato all’umile lavoro di laboratorio, aiutato da un tecnico abile e taciturno, a studiare le velocità subatomiche. Era un campo molto frequentato, e il suo tardivo ingresso venne accolto dai colleghi come l’ammissione che aveva finalmente smesso di cercare di essere originale. L’Unione dei Membri dell’Istituto gli assegnò un corso d’insegnamento, fisica matematica per studenti del primo anno. Non ricavò alcun senso di trionfo dal fatto che finalmente gli fosse dato un corso, poiché era proprio così: il corso gli era stato dato, gli era stato permesso. Ricavava scarso piacere da ogni cosa. Il fatto che le pareti della sua coscienza rigorosa e puritana si stessero allargando immensamente non gli era affatto di conforto. Si sentiva freddo e sperduto. Ma non aveva luogo in cui ritirarsi, non aveva riparo, così continuò ad addentrarsi nel freddo, perdendosi sempre più.

Bedap si era fatto molti amici, un gruppo instabile e disaffezionato, e alcuni di loro presero in simpatia il giovane timido. Non si sentiva più vicino a loro di quanto non si sentisse vicino alle persone, più convenzionali, ch’egli conosceva all’Istituto, ma trovava assai più interessante la loro indipendenza di mente. Essi conservavano l’autonomia della coscienza anche a costo di diventare degli eccentrici. Alcuni di loro erano dei nuchnibi intellettuali che da anni non lavoravano a un’assegnazione regolare. Shevek li disapprovava severamente, quando non era con loro.

Uno di essi era un compositore chiamato Salas. Salas e Shevek desideravano imparare l’uno dall’altro. Salas conosceva poco la matematica, ma finché Shevek riusciva a spiegare la fisica con modelli analogici o esperienziali, era un ascoltatore intelligente e insaziabile. Allo stesso modo Shevek ascoltava ogni cosa che Salas potesse dirgli sulla teoria musicale, ed ogni cosa da lui suonata su nastro o col suo strumento, la portativa. Ma alcune cose che Salas gli disse gli parvero estremamente preoccupanti. Salas aveva un incarico in un gruppo di escavazione di un canale nella Piana del Temae, ad oriente di Abbenay. Veniva in città nei tre giorni liberi di ogni decade, e andava da una o dall’altra delle ragazze. Shevek aveva dato per scontato che avesse scelto quell’incarico perché voleva un po’ di lavoro all’aperto, tanto per cambiare; ma poi seppe che Salas non aveva mai avuto un’assegnazione in campo musicale, soltanto assegnazioni da manovale non qualificato.

— Come sei elencato alla Divisione del Lavoro? — chiese, perplesso.

— Gruppo di fatica comune.

— Ma sei addestrato! Hai fatto sei, otto anni al conservatorio dell’Unione Musicale, no? Perché non ti assegnano a insegnare musica?

— Mi hanno assegnato. Mi sono rifiutato. Non sarò pronto a insegnare se non tra una decina d’anni. Sono un compositore, ricorda, non un esecutore.

— Ma ci devono essere degli incarichi per compositori.

— E dove?

— All’Unione Musicale, suppongo.

— Ma i membri dell’Unione non amano le mie composizioni. E al momento non ci sono molti altri che le amino. Non posso fare un’unione da solo, non ti pare?

Salas era una persona ossuta e di bassa statura, era già calvo sul cranio e sulla parte superiore del viso; quel che gli restava dei capelli, lo portava corto, a mo’ di frangia chiara che gli copriva il mento e la nuca. Aveva un sorriso dolce, che copriva di rughe il suo volto espressivo. — Capisci, io non scrivo nel modo in cui mi hanno insegnato a scrivere al conservatorio. Scrivo musica disfunzionale. — Sorrise in modo ancora più dolce del solito. — Loro desiderano i corali. Io aborro i corali. Vogliono pezzi ampiamente armonici, come quelli scritti da Sessur. Io odio la musica di Sessur. Ora sto scrivendo un pezzo di musica da camera. Pensavo che potrei chiamarlo Il principio di simultaneità. Cinque strumenti, ciascuno dei quali suona un tema ciclico indipendente; nessuna causalità melodica; il processo in avanti sta completamente nei rapporti tra le parti. Ne viene una bella armonia. Ma loro non lo ascolteranno. Non possono!

Shevek meditò un poco sulle sue parole. — Se lo chiamassi Le gioie della solidarietà — disse, — lo ascolterebbero?

— Accidenti! — disse Bedap, che stava ascoltando. — Questa è la prima frase cinica da te pronunciata in tutta la tua vita, Shevek. Benvenuto nel gruppo!

Salas rise. — L’ascolterebbero, ma non l’accetterebbero per la registrazione o l’esecuzione regionale. Non è nello Stile Organico.

— Niente di strano che non abbia mai ascoltato musica moderna quando ero nell’Insediamento Settentrionale. Ma come possono giustificare questo tipo di censura? Tu scrivi musica! La musica è un’arte cooperativa, organica per definizione, sociale. Forse è la più nobile forma di comportamento sociale di cui siamo capaci. È certamente una delle gioie più nobili che un individuo possa assumersi. E per sua natura, per la natura comune di tutte le arti, è una condivisione. L’artista divide con altri, è questa l’essenza del suo atto. Indipendentemente da ciò che possono dire i membri della tua Unione, come può giustificare, la Divisione del Lavoro, il fatto che non ti sia dato un incarico nel tuo stesso campo?

— Non vogliono condividerla — disse Salas, allegramente. — La temono.

Bedap parlò con maggiore serietà: — Possono giustificarlo perché la musica non è utile. Scavare canali è importante, lo sai; la musica è semplice decorazione. Si è fatto tutto il giro del cerchio, fino a ritornare alla più vile forma di utilitarismo profittatoriale. La complessità, la vitalità, la libertà d’invenzione e d’iniziativa che erano il centro dell’ideale Odoniano, le abbiamo gettate via tutte. Siamo tornati direttamente alla barbarie. Se una cosa è nuova, fuggila subito; se non puoi mangiarla, gettala via!

Shevek pensò al proprio lavoro e non ebbe nulla da obiettare. Eppure non poteva unirsi alla critica di Bedap. Bedap l’aveva costretto a comprendere di essere, in realtà, un rivoluzionario; ma egli sentiva profondamente di essere tale a causa della sua educazione e della sua istruzione di Odoniano e anarresiano. Non poteva ribellarsi contro la sua società, poiché la sua società, giustamente concepita, era una rivoluzione, una rivoluzione permanente, un processo continuo. Per riaffermarne la validità e la forza, egli pensava, bastava soltanto agire, senza timore di punizione e senza speranza di premio: agire dal centro della propria anima.


Bedap e alcuni suoi amici avevano progettato di passare una decade insieme, facendo il giro dei Ne Theras. Egli aveva persuaso Shevek a venire. Shevek amava la prospettiva di dieci giorni sulle montagne, ma non quella di dieci giorni di opinioni di Bedap. La conversazione di Bedap ricordava un po’ troppo le Sedute di Critica, l’attività comune che gli era sempre piaciuta meno, in cui ciascuno si alzava e si lamentava dei difetti di funzionamento della comunità, e, di solito, anche dei difetti del carattere dei vicini. Tanto più s’avvicinava la data della vacanza, tanto meno gliene piaceva l’idea. Ma si ficcò in tasca un quaderno, in modo da poter andar via e pretendere di lavorare, e partì anche lui.

Si incontrarono dietro la stazione dei camion della zona orientale, il mattino presto: tre donne e tre uomini. Shevek non conosceva nessuna delle donne, e Bedap gliene presentò soltanto due. Come si avviarono lungo la strada delle montagne, si portò al fianco della terza. — Shevek — disse.

La donna rispose: — Lo so.

Comprese che doveva già averla incontrata da qualche parte, e che avrebbe dovuto ricordare il suo nome. Le sue orecchie divennero rosse.

— Vuoi scherzare? — fece Bedap, mettendosi alla sua sinistra. — Takver era all’Istituto Settentrionale con noi. Abita ad Abbenay da due anni. Non vi siete più visti da allora?

— L’ho visto un paio di volte — disse la ragazza, e rise, voltandosi verso di lui. Aveva la risata di una persona che ama mangiare bene, una risata larga e infantile. Era alta e piuttosto sottile, con braccia tonde e fianchi ampi. Non era molto bella; aveva volto scuro, intelligente e allegro. Nei suoi occhi c’era un carattere di nero, che non era l’opacità degli occhi scuri e luminosi, ma qualcosa di profondo, che ricordava la cenere nera e spessa, sottile, molto soffice. Shevek, incontrando i suoi occhi, seppe di avere commesso una mancanza imperdonabile nel dimenticarla, e, nello stesso istante, seppe anche di essere stato perdonato. Di essere in fortuna. Che la sua fortuna era cambiata.

Cominciarono a salire sulle montagne.

Nella fredda serata del loro quarto giorno di escursione, egli e Takver sedevano sul ciglio spoglio di una gola. Quaranta metri più in basso, un torrente di montagna scendeva tra le rocce, fra sponde bagnate dagli spruzzi. C’era poca acqua corrente su Anarres; anche l’acqua da tavola era scarsa in molte località; i fiumi erano corti. Solo nelle montagne c’erano acque che scorrevano rapidamente. Il rumore dell’acqua che gridava e picchiettava e cantava era nuovo per loro.

Si erano arrampicati su e giù per simili gole per tutta la giornata, fra le montagne, e avevano male alle gambe. Gli altri del gruppo erano nel Rifugio, una costruzione di pietra eseguita da persone in vacanza per persone in vacanza, ben tenuta; la Federativa dei Ne Theras era il più attivo dei gruppi di volontarii che amministravano e proteggevano le poche zone «panoramiche» di Anarres. Un guardiano antincendi che abitava laggiù nel corso dell’estate aiutava Bedap e gli altri a preparare un pasto con i rifornimenti delle dispense. Takver e Shevek erano usciti, nell’ordine, separatamente, senza dire la loro destinazione e, in realtà, senza saperla.

Egli l’aveva trovata sul ciglio, seduta fra i delicati cespugli di spina di luna, simili a matasse di trina, che crescevano sulle montagne; i rami rigidi e fragili avevano colore argenteo nel crepuscolo. In un varco tra le cime, ad est, la pallida luminosità del cielo annunciava il sorgere della luna. Il ruscello era rumoroso nel silenzio delle montagne alte e spoglie. Non c’era vento, non c’erano nubi. L’aria al di sopra delle montagne era simile ad ametista, dura, chiara, profonda.

Sedevano già da qualche tempo, senza scambiarsi parola.

— Non mi sono mai sentito attratto verso una donna, in tutta la mia vita, come lo sono da te. Fin da quando abbiamo iniziato questa gita. — Il tono di Shevek era freddo, quasi risentito.

— Non intendevo rovinarti la vacanza — rispose lei, con la sua risata larga e infantile, troppo forte per il crepuscolo.

— Non si rovina affatto!

— Ah, bene. Pensavo che volessi dire che ti distraggo.

— Distrarmi! È come un terremoto.

— Grazie.

— Non dipende da te — disse lui, seccamente. — Dipende da me.

— Questo è ciò che credi — rispose.

Ci fu una pausa piuttosto lunga.

— Se desideri copulare — disse lei, — perché non me l’hai chiesto?

— Perché non sono certo che sia la cosa che desidero.

— Neanch’io. — Il suo sorriso era sparito. — Ascolta — disse. La sua voce era morbida, e non aveva molto timbro; aveva la stessa caratteristica soffice dei suoi occhi. — Devo proprio dirtelo. — Ma la cosa che doveva dirgli rimase inespressa per molto tempo. Infine egli la fissò con una tale aria di apprensione e di implorazione che lei si affrettò a dire, tutto d’un fiato: — Ecco, devo dirti che non voglio copulare con te, ora. Né con chiunque altro.

— Hai rinunciato al sesso?

— No! — disse lei, indignata, ma senza spiegazioni.

— Io potrei anche averlo fatto — disse lui, gettando un ciottolo nel ruscello. — Oppure sono diventato impotente. Sarà quasi mezzo anno, e poi era con Bedap. In realtà sarà quasi un anno. Diventava ogni volta meno soddisfacente, e alla fine ho smesso. Non c’era niente. Non ne valeva la pena. Eppure ricordo che so come dovrebbe essere…

— Sì, è così — disse Takver. — Anch’io copulavo molto, per passatempo, fino a diciotto, diciannove anni. Era una cosa emozionante, interessante, piacevole. E poi… non saprei. Come dici tu, diventava insoddisfacente. Non mi interessa il piacere. Il solo piacere, intendo.

— Vuoi bambini?

— Sì, quando sarà il momento.

Egli gettò un altro ciottolo nel ruscello, che ora svaniva nell’ombra della gola, lasciando dietro di sé solamente il suono: un’incessante armonia di suoni disarmonici.

— Io voglio terminare un lavoro.

— E il fatto di essere celibe, ti aiuta?

— C’è un legame. Ma non so quale sia, e non è una connessione di causa ed effetto. All’incirca all’epoca in cui il sesso cominciava a diventarmi insoddisfacente, la stessa cosa mi succedeva per il lavoro. Sempre più. Tre anni senza arrivare a nulla. Sterilità. Sterilità su ogni lato. A perdita d’occhio, un solo deserto arido, bruciato dal calore spietato di un sole senza misericordia, una desolazione senza vita, senza orme, senza scudo e senza copule, qua e là segnata dalle ossa calcinate dei viaggiatori sfortunati…

Takver non rise; emise una risata lamentosa, come se la risata le facesse male. Egli cercò di distinguere chiaramente il suo viso. Dietro la sua testa scura, il cielo era duro e chiaro.

— Che c’è di sbagliato nel piacere, Takver? Perché non lo vuoi?

— Non c’è nulla di sbagliato. E poi, io lo voglio. Solo, non ne ho bisogno. E se prendessi le cose che non mi occorrono, non arriverei mai a prendere quelle che mi occorrono davvero.

— E qual è la cosa che ti occorre?

Ella guardò in basso, facendo scorrere l’unghia sulla superficie di una sporgenza rocciosa. Non disse nulla. Si sporse in avanti per cogliere un rametto di spina di luna, ma non lo raccolse, si limitò a toccarlo, a sentire lo stelo peloso e la foglia delicata. Shevek vide, dalla tensione dei movimenti, che Takver cercava con tutta la forza di trattenere, di frenare una tempesta di emozioni, in modo da poter parlare. E quando parlò, parlò a voce bassa, un po’ bruscamente. — Mi occorre il legame — disse. — Quello vero. Corpo, mente e tutti gli anni della vita. Niente di inferiore.

E alzò lo sguardo su di lui con sfida, forse con odio.

Una gioia stava sorgendo misteriosamente in lui, simile al suono e all’odore dell’acqua corrente che giungevano attraverso l’oscurità. Provava un senso di illimitatezza, di chiarezza, di chiarezza totale, come se fosse stato messo in libertà. Dietro la testa di Takver, il cielo si stava rischiarando con il sorgere della luna; le vette lontane s’innalzavano chiare e argentee. — Sì, è proprio questo — egli disse, privo di imbarazzo, privo del senso di parlare con un’altra persona; diceva ciò che gli veniva in mente, pensoso. — Non me ne ero mai accorto.

Nella voce di Takver c’era ancora un po’ di risentimento. — Tu, non te ne sei mai dovuto accorgere.

— E perché?

— Perché, credo, non ne hai mai visto la possibilità.

— Cosa intendi dire, la possibilità?

— La persona!

Egli pensò a queste parole. Sedevano a circa un metro di distanza l’uno dall’altra, con le braccia strette attorno ai ginocchi poiché stava scendendo il freddo. Il respiro arrivava in gola come acqua ghiacciata. Potevano vedere il loro respiro, il pallido vapore nella luce lunare che si alzava progressivamente.

— Il momento in cui me ne accorsi — disse Takver, — fu la notte prima che tu lasciassi l’Istituto Regionale. C’era una festa, lo ricorderai. Alcuni di noi rimasero a parlare per tutta la notte. Ma è successo quattro anni fa. E tu non conoscevi neppure il mio nome. — Il rancore era scomparso dalla sua voce; pareva desiderasse fornirgli delle scusanti.

— Tu vedesti in me, quella notte, ciò che io ho visto in te in questi quattro giorni?

— Non lo so. Non posso dirlo. Non si trattava soltanto di una cosa sessuale. Io ti avevo già notato prima, sotto quell’aspetto. Ma quella volta fu differente; io ti vidi. Non posso sapere cosa tu veda ora. E allora non sapevo veramente cosa io vedessi. Non ti conoscevo molto bene. Però, quando parlasti, mi parve di vedere chiaro dentro di te, fino al centro. Ma tu potevi essere totalmente diverso dal modo in cui io ti pensavo. Non sarebbe stata colpa tua, in fin dei conti — aggiunse. — Semplicemente, sapevo che ciò che vedevo in te era ciò che mi occorreva. Non solamente ciò che potevo desiderare!

— E sei ad Abbenay da due anni e non…

— Non ho fatto cosa? Era tutto dalla mia parte, nella mia testa, tu non conoscevi neppure il mio nome. Una persona sola non può fare un’unione, dopotutto!

— E avevi paura che, venendo da me, io avrei potuto non desiderare il legame.

— Non paura. Sapevo che eri una persona che… non si sarebbe lasciata forzare… Be’, sì, avevo paura. Avevo paura di te. Non di fare un errore. Sapevo che non era un errore. Ma tu eri… tu. Tu sei diverso da tanti altri, lo sai. Io avevo paura di te perché sapevo che eri un mio uguale! — Il suo tono, nel terminare, era fiero, ma dopo un istante disse molto gentilmente, con tenerezza: — Non ha veramente importanza, sai, Shevek.

Era la prima volta che le sentiva pronunciare il suo nome. Si voltò verso di lei e le disse incespicando, quasi soffocando sulle parole: — Non ha importanza? Prima mi fai vedere… mi fai vedere qual è la cosa importante, la cosa veramente importante, la cosa che mi è mancata per tutta la vita… e poi dici che non ha importanza!

Erano a faccia a faccia, adesso, ma non si erano toccati.

— È quello che ti occorre, allora?

— Sì. Il legame. La possibilità.

— Adesso… per la vita?

— Adesso e per la vita.

Vita, ripeteva il flusso di acqua scorrente sotto di loro, sulle rocce, nella fredda oscurità.


Quando Shevek e Takver tornarono dalle montagne, si trasferirono in una stanza doppia. Non ce n’era nessuna libera negli isolati vicino all’Istituto; ma Takver ne conosceva una non molto distante, in un vecchio domicilio all’estremità nord della città. Per avere la stanza si recarono dall’amministratore delle abitazioni dell’isolato — Abbenay era divisa in circa duecento zone amministrative locali, chiamate isolati — una donna che molava lenti e che teneva in casa i suoi tre bambini piccoli. Per tale motivo teneva le schede delle abitazioni in un ripiano in cima a un armadio, in modo che i bambini non potessero metterci le mani. Controllò che la stanza fosse registrata come vuota. Shevek e Takver la registrarono come occupata apponendo le loro firme.

Neppure il trasloco fu complicato. Shevek portò una scatola piena di carte, i suoi stivali da inverno, e la coperta colore arancione. Takver dovette fare tre viaggi. Il primo ebbe come destinazione il deposito distrettuale di capi d’abbigliamento, per prendere un vestito nuovo a ciascuno dei due, atto che le pareva oscuramente, ma fortemente, essenziale all’inizio del loro legame di compagni. Poi si recò al proprio vecchio dormitorio, una volta per i suoi vestiti e le sue carte, e una seconda volta, con Shevek, per prendere una quantità di curiosi oggetti: complesse strutture concentriche di fil di ferro, che si muovevano in modo lento, cambiando intimamente, quando venivano appese al soffitto. Le aveva fatte lei, con pezzi di filo e arnesi del deposito strumenti per artigiani, e le chiamava Occupazioni di Spazi Disabitati. Una delle due sedie della stanza era decrepita, cosicché la portarono in una bottega di riparazioni, dove ne presero una sana. Con questa, la stanza fu arredata. La nuova stanza aveva soffitto molto alto, e ciò la faceva parere spaziosa e lasciava un mucchio di posto per le Occupazioni. Il domicilio era costruito su una delle basse colline di Abbenay, e la stanza aveva una finestra d’angolo da cui entrava la luce del pomeriggio: da quella finestra si godeva la vista della città, le strade e le piazze, i tetti, il verde dei parchi, la pianura al di là della città.

L’intimità dopo la lunga solitudine, la gioia improvvisa, misero alla prova sia la stabilità di Shevek sia quella di Takver. Nelle prime decadi egli ebbe grandi oscillazioni dalla spensieratezza alla angoscia; ella ebbe scatti di collera. Entrambi erano ipersensibili e inesperti. La tensione non durò, a mano a mano che divennero esperti l’uno dell’altra. La loro fame sessuale continuò come diletto appassionato, il loro desiderio di unione veniva quotidianamente rinnovato perché veniva quotidianamente esaudito.

Era ormai chiaro a Shevek, e gli sarebbe parsa follia pensare diversamente, che i suoi anni di disperazione in quella città erano parte della sua grande felicità presente, poiché l’avevano portato ad essa, l’avevano preparato ad essa. Ogni cosa che gli era successa faceva parte di ciò che gli stava succedendo ora. Takver non vedeva una simile oscura concatenazione di effetto/causa/effetto, ma Takver non era un fisico temporale. Ella vedeva il tempo in modo ingenuo, come una strada stesa. Tu avanzavi, e arrivavi in qualche parte. Se eri fortunato, arrivavi in qualche parte che valeva la pena di andarci.

Ma quando Shevek prese quella metafora e la riformulò nei propri termini, spiegando che, a meno che il passato e il futuro non divenissero parte del presente mediante il ricordo e l’intenzione, non c’era, in termini umani, alcuna strada, alcun punto dove andare, ella annuì prima ch’egli fosse giunto a metà. — Esattamente — disse. — Questo è ciò che ho fatto per gli scorsi quattro anni. Non è tutta fortuna. Soltanto una parte.

Takver aveva ventitré anni: uno meno di Shevek. Era cresciuta in una comunità agricola, Valle Rotonda, nel Nordest. Era un posto isolato, e prima di giungere all’Istituto Regionale Settentrionale, ella aveva lavorato più duramente del normale, per un giovane anarresiano. Non c’erano abbastanza persone a Valle Rotonda per fare i lavori che occorrevano, ma non era una comunità abbastanza grande, o abbastanza produttiva nell’economia generale, per ottenere la priorità dai calcolatori della Divisione del Lavoro. Doveva badare a se stessa. A otto anni, Takver toglieva pagliuzze e sassolini dal grano di holum al mulino, tre ore al giorno, dopo tre ore di scuola. Poca della sua istruzione pratica di bambina era rivolta all’arricchimento personale: era solo parte dello sforzo della comunità per sopravvivere. Nelle stagioni della semina e del raccolto, ogni persona superiore ai dieci anni e inferiore ai sessanta lavorava nei campi, tutto il giorno. A quindici anni era stata incaricata di coordinare i carichi di lavoro sui quattrocento campi coltivati dalla comunità, e aveva assistito il dietetista nel refettorio della cittadina. Non c’era niente d’inconsueto in tutto ciò, e Takver non vi dava molto peso, ma inevitabilmente queste esperienze avevano plasmato certi elementi del suo carattere e delle sue opinioni. Shevek era lieto di avere fatto la propria parte di kleggich, di lavoro duro, perché Takver disprezzava la gente che cercava di evitare la fatica fisica. — Guarda Tinan — diceva, — che piange e si lamenta perché l’hanno comandato per quattro decadi al raccolto delle radici di holum. È così delicato che potresti crederlo un uovo di pesce! Avrà mai toccato il letame? — Takver non era molto caritatevole, e aveva un carattere facile ad andare in collera.

Ella aveva studiato biologia all’Istituto Regionale Settentrionale, con sufficiente distinzione, cosicché aveva deciso di recarsi all’istituto Centrale per approfondire gli studi. Dopo un anno, le era stato chiesto di unirsi a un nuovo gruppo che stava allestendo un laboratorio per studiare tecniche che permettessero di aumentare e migliorare le riserve di pesce commestibile dei tre oceani di Anarres. Quando la gente le chiedeva che lavoro facesse, ella rispondeva: — Sono una genetista dei pesci. — Il lavoro le piaceva; esso combinava due cose a cui attribuiva molto valore: l’accurata, documentata ricerca, e uno scopo specifico di aumento o miglioramento. Lontana da un simile lavoro, ella non si sarebbe sentita soddisfatta. Ma il lavoro non esauriva i suoi interessi. Gran parte di ciò che passava per la mente e nello spirito di Takver aveva poco a che vedere con la genètica dei pesci.

Il suo interesse per i paesaggi e le creature viventi era appassionato. Questo interesse, che limitativamente si poteva chiamare «amore per la natura», pareva a Shevek qualcosa di assai più ampio che il semplice amore. Ci sono delle anime, egli pensava, il cui cordone ombelicale non è mai stato reciso. Esse non si sono mai svezzate dall’universo. Esse non concepiscono la morte come un nemico; attendono il giorno in cui si disferanno per ritornare nell’humus. Era strano vedere Takver che prendeva una foglia in mano, o anche una pietra. Ella diveniva un’estensione della foglia, e la foglia un’estensione di lei.

Ella mostrò a Shevek le vasche di acqua marina, al laboratorio di ricerca: cinquanta e più specie di pesci, grandi e piccoli, grigi o vivaci, eleganti e grotteschi. Egli ne fu affascinato e anche un po’ intimorito.

I tre oceani di Anarres erano altrettanto pieni di vita quanto la sua terraferma ne era priva. I mari erano isolati tra loro da vari milioni di anni, e le forme di vita avevano seguito processi indipendenti di evoluzione. La loro varietà era stupefacente. Non era mai venuto in mente a Shevek che la vita potesse proliferare così selvaggiamente, in modo così esuberante, che, anzi, forse l’esuberanza fosse la qualità essenziale della vita.

Sulla terraferma, le piante se la cavavano abbastanza bene, nella loro maniera rada e spinosa, ma gli animali che avevano provato a respirare aria avevano rinunciato quasi tutti al progetto quando il clima del pianeta era entrato in un’èra millenaria di polvere e siccità. Sopravvivevano i batteri, dei quali molti erano litofagi, e qualche centinaia di specie di vermi e crostacei.

L’uomo si era inserito con attenzione, e con rischio, in questa ristretta ecologia. Se avesse pescato, ma non troppo avidamente, e se avesse coltivato, usando soprattutto come concime rifiuti organici, si sarebbe potuto inserire. Ma non poteva inserire altro. Non c’era erba per erbivori. Non c’erano erbivori per i carnivori. Non c’erano insetti per fecondare le piante con fiori; gli alberi da frutto importati venivano tutti fertilizzati a mano. Nessun animale venne importato da Urras, per non mettere a repentaglio il delicato equilibrio della vita. Giunsero soltanto i Coloni, e così ben puliti esternamente e internamente che portarono con sé solamente una minima parte della loro fauna e flora personale. Neppure la pulce era riuscita ad arrivare su Anarres.

— Amo la biologia marina — Takver disse a Shevek, davanti alle vasche dei pesci, — perché è così complessa: una vera rete. Questo pesce mangia quel pesce che mangia pesciolini neonati che mangiano ciliati che mangiano batteri e qui ritorni al punto di partenza. Sulla terraferma ci sono soltanto tre gruppi, tutti non-cordati… se non conti l’uomo. È una strana situazione, biologicamente parlando. Noi anarresiani siamo isolati in modo innaturale. Sul Vecchio Pianeta ci sono diciotto gruppi di animali terrestri; ci sono alcune classi, come quella degli insetti, che contengono un numero così ampio di specie che non sono mai state contate tutte, e alcune di queste specie hanno popolazioni di miliardi di individui. Prova a pensarci: dovunque tu guardi, animali, altre creature, che condividono la terra e l’aria con te. Ti potresti sentire tanto più una parte. — Il suo sguardo seguì il movimento di un piccolo pesce azzurrino, entro l’acqua semibuia della vasca. Shevek, attento, seguì la traiettoria del pesce e quella dello sguardo di lei. Rimase fra le vasche per vario tempo, e spesso in seguito ritornò con lei al laboratorio e agli acquari, sottomettendo la sua arroganza di fisico a quelle piccole e strane vite, all’esistenza di esseri per i quali il presente è eterno, esseri che non spiegano se stessi e che non devono neppure giustificare all’uomo le loro vie.

La maggior parte degli anarresiani lavorava da cinque a sette ore al giorno, con da due a quattro giorni di riposo ogni decade. I particolari riguardanti la regolarità, la puntualità, i giorni di riposo e così via venivano decisi, tra l’individuo e la sua squadra di lavoro, o gruppo, o federativa di coordinamento, al livello a cui si raggiungeva meglio la cooperazione e l’efficienza. Takver conduceva da sola i suoi progetti di ricerca, ma il lavoro e i pesci avevano le proprie esigenze indifferibili: ella passava da due a dieci ore al giorno nel laboratorio, senza giorni di riposo. Shevek aveva adesso due incarichi d’insegnamento: un corso di matematica avanzata in un centro di apprendimento, e un altro all’Istituto. Entrambi i corsi erano al mattino, ed egli tornava alla stanza a mezzogiorno. Di solito Takver non era ancora rientrata. L’edificio era silenzioso. La luce del sole non aveva ancora raggiunto la doppia finestra che guardava a sud e ad ovest sulla città e il piano; la stanza era fredda e ombreggiata. Le delicate, concentriche sculture mobili appese a diversi livelli in alto si muovevano con la precisione introversa, il silenzio, il mistero degli organi del corpo e dei processi della mente raziocinante. Shevek si sedeva al tavolo sotto le finestre e cominciava a lavorare, a leggere o prendere appunti e fare calcoli. Gradualmente la luce del sole faceva il suo ingresso, scorreva sui fogli posati sul tavolo, sulle sue mani posate sui fogli, e riempiva la stanza di luminosità. Ed egli lavorava. Le false partenze e le perdite di tempo si rivelarono essere basi, fondamenta, gettate nel buio, ma gettate bene. Su di queste, metodicamente e con attenzione, ma con una destrezza e una sicurezza che non gli pareva qualcosa di suo, bensì una conoscenza che si servisse di lui per operare, che lo usasse come veicolo, egli edificò la magnifica, robusta struttura dei Principi della Simultaneità.

Takver, come ogni uomo o donna che accetta la vicinanza dello spirito creatore, non sempre lo trovava facile. Sebbene la sua esistenza fosse necessaria a Shevek, la sua presenza concreta poteva essere una distrazione. Non voleva tornare a casa troppo presto, poiché egli spesso cessava di lavorare quando lei tornava a casa, e le pareva che questo fosse sbagliato. Più avanti nel tempo, quando sarebbero stati anziani e sazi, egli avrebbe potuto ignorarla, ma a ventiquattr’anni non poteva. Pertanto Takver regolò i suoi compiti in laboratorio in modo da non arrivare a casa fino al pomeriggio avanzato. Ma neanche questo era perfetto, poiché egli aveva bisogno di attenzioni. Nei giorni in cui non aveva lezione, all’ora di arrivo di Takver egli poteva essere a tavolino da sei, otto ore, senza interruzione. Quando si alzava, barcollava dalla stanchezza, gli tremavano le mani e non era del tutto coerente. Il modo con cui lo spirito creatore usa i propri veicoli è assai rude; esso li consuma, poi li scarta e si procura un nuovo modello. Per Takver, invece, non ci potevano essere sostituzioni, e quando vedeva fino a qual punto Shevek fosse usato, ella protestava. Avrebbe potuto gridare, come una volta aveva fatto il marito di Odo, Asieo: «Per l’amor di Dio, donna! Non puoi servire la Verità un poco alla volta?» salvo il particolare che la «donna» era lei, e che non aveva dimestichezza con Dio.

Allora si mettevano a parlare, uscivano a passeggiare o si recavano ai bagni, e poi a pranzare alla mensa dell’Istituto. Dopo il pranzo c’erano riunioni, o un concerto, o si incontravano con gli amici: Bedap e Salas e le loro conoscenze, Desar e altri dell’Istituto, i colleghi e gli amici di Takver. Ma le riunioni e gli amici erano periferici, per loro. Non era loro necessaria né la partecipazione sociale né quella semplicemente socievole; il loro legame era sufficiente, e non potevano nascondere che lo fosse. Tuttavia la cosa non pareva offendere gli altri. Anzi, al contrario, Bedap, Salas, Desar e gli altri venivano a loro come gli assetati alla fontana. Gli altri erano periferici per loro, ma essi erano centrali per gli altri. Non che facessero molto; non erano più amichevoli di tanti altri, né erano conversatori più brillanti; eppure i loro amici li amavano, contavano su di loro, e continuavano a portare loro regali… le piccole offerte che circolavano tra quelle persone, che possedevano nulla e tutto: una sciarpa fatta all’uncinetto, un pezzo di granito picchiettato di granati rosa, un vaso fatto a mano alla bottega della Federativa dei Vasai, una poesia sull’amore, una serie di bottoni di legno scolpiti a mano, una conchiglia del Mare di Sorruba. Davano il regalo a Takver, dicendo: — Ecco, a Shevek potrebbe piacere come fermacarte — oppure a Shevek, dicendo: — Ecco, a Takver potrebbe piacere questo colore. — Nel donare cercavano di condividere ciò che si condividevano Shevek e Takver, di celebrare, di lodare.

Fu una lunga estate, calda e luminosa: l’estate del 160° anno dell’Insediamento di Anarres. Abbondanti piogge nella primavera avevano inverdito i Piani di Abbenay e portato via la polvere, cosicché l’aria era straordinariamente chiara; di giorno il sole era caldo, e di notte le stelle splendevano fitte. Quando la Luna era in cielo si potevano distinguere i profili delle coste e dei continenti, sotto i ricci bianchissimi delle sue nubi.

— Perché ha un aspetto così bello? — disse Takver, stesa accanto a Shevek sotto la coperta arancione, con la luce spenta. Su di loro erano sospese, oscuramente, le Occupazioni di Spazi Disabitati; fuori della finestra era sospesa la Luna, brillante. — Pur sapendo che è un pianeta come questo, con solamente un clima migliore e degli abitanti peggiori, pur sapendo che sono tutti proprietaristi, e che combattono guerre, e fanno leggi, e mangiano mentre altri muoiono di fame, e comunque invecchiano tutti e incontrano le loro sfortune, e hanno i reumatismi e i calli ai piedi esattamente come la gente di qui… pur sapendo tutto questo, perché sembra così felice, come se la vita lassù dovesse essere tanto gioiosa? Io non posso guardare quella luminosità e pensare che ci possa vivere qualche orribile ometto con le maniche sudice e la mente atrofizzata come Sabul; non posso, e basta.

Le loro braccia e i loro petti nudi erano illuminati dalla Luna. La fine, sottile peluria sul viso di Takver componeva un’aureola che le offuscava í lineamenti; i capelli e le ombre erano neri. Shevek le toccò il braccio argenteo con la propria argentea mano, meravigliandosi al tepore del contatto in quella sera fresca.

— Quando puoi vedere una cosa nella sua totalità — egli disse, — ti pare sempre bellissima. I pianeti, le vite… Ma da vicino, un mondo è tutto terra e rocce. E, da un giorno a un altro giorno, la vita è un lavoro duro, ti stanchi, ne perdi la forma generale. Hai bisogno della distanza, di un intervallo. Il modo per vedere quanto sia bella la terra, è vederla dalla Luna. Il modo per vedere quanto sia bella la vita, è vederla dalla posizione elevata della morte.

— Questo è giusto per Urras. Teniamocene lontani, e lasciamo che resti la Luna… io non la voglio! Ma non intendo salire su una tomba e abbassare gli occhi sulla vita e dire: «Oh, che bella!». Io voglio vederla intera da in mezzo ad essa, qui, ora. Non me ne importa un fischio dell’eternità.

— Non ha niente a che vedere con l’eternità — disse Shevek, sorridendo: un uomo magro e irsuto di argento e di ombra. — La sola cosa che devi fare, per vedere la vita nella sua totalità, è di guardarla in quanto mortale. Io morirò; tu morirai; altrimenti, come potremmo amarci diversamente? Il sole sta ogni momento per scoppiare, altrimenti non potrebbe continuare a brillare.

— Ah! i tuoi discorsi! la tua maledetta filosofia!

— Discorsi? Non sono discorsi. Non è la ragione. È il tocco della mano. Io tocco la totalità, la stringo. Qual è la luce della Luna, qual è Takver? Come posso temere la morte? Se la stringo, se stringo nella mia mano la luce…

— Non fare il proprietarista — mormorò Takver.

— Cuore mio, non piangere.

— Non piango. Sei tu, che piangi. Sono le tue lacrime.

— Ho freddo. La luce della Luna è fredda.

— Stenditi. — Un grande brivido gli percorse tutto il corpo quando lei lo strinse fra le braccia.

— Ho paura, Takver — bisbigliò.

— Fratello, anima cara, taci.

Dormirono l’uno fra le braccia dell’altra quella notte, molte notti.

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