Shevek venne destato dalle campane della torre della cappella, che suonavano la Prima Armonia per annunciare le funzioni religiose del mattino. Ciascuna nota fu per lui come un pugno alla nuca. Era talmente pieno di nausea, e tremante, che non riusciva a rimanere seduto sul letto che per brevi periodi. Infine riuscì a trascinarsi nella stanza da bagno e a fare un lungo bagno freddo, che servì ad alleviargli il mal di capo; ma continuò a sentire l’intero suo corpo come una cosa estranea: a sentirlo, inesplicabilmente, come una cosa vile. Quando ritornò nuovamente in grado di pensare, si affacciarono alla sua mente frammenti e istanti della sera precedente, scene vivide e prive di significato del ricevimento a casa di Vea. Cercò di non pensarvi, ma in breve si accorse di non poter pensare ad altro. Ogni cosa, tutto divenne vile. Si sedette alla scrivania e rimase a sedere immobile, assolutamente miserabile, e a fissare nel vuoto, per più di mezz’ora.
Si era trovato in imbarazzo abbastanza spesso, e si era accorto molte volte di avere fatto la figura dello scemo. Da giovane aveva sofferto della sensazione che gli altri lo ritenessero strambo, diverso da loro; in anni successivi aveva sperimentato, dopo averla deliberatamente invitata, la collera e il disprezzo di molti suoi colleghi anarresiani. Ma non aveva mai accettato veramente, realmente, il loro giudizio. Non si era mai vergognato di se stesso.
Non sapeva che la paralizzante umiliazione che provava era una conseguenza chimica del fatto di essersi ubriacato, al pari del mal di testa. Né la conoscenza di questo particolare avrebbe contato molto per lui. La vergogna — la sensazione di essere una cosa vile, il senso di distacco da sé — fu una rivelazione. Egli vide con una nuova chiarezza, una chiarezza spaventosa; e vide molto più in là di quei ricordi incoerenti della sera passata in casa di Vea. Non era stata soltanto la povera Vea a tradirlo. Non era stato soltanto l’alcool che aveva cercato di vomitare; era stato tutto il pane ch’egli aveva mangiato su Urras.
Appoggiò i gomiti sul piano della scrivania e si prese la testa tra le mani, premendo sulle tempie: la posizione rannicchiata del dolore; poi osservò la propria vita alla luce della vergogna.
Su Anarres egli aveva scelto, sfidando le attese della propria società, di fare il lavoro che si sentiva individualmente chiamato a fare. Fare quel lavoro era ribellarsi: rischiare la persona per amore della società.
Qui su Urras, quell’atto di ribellione era un lusso, era indulgere alle proprie passioni. Essere un fisico su Urras equivaleva a servire non la società, non l’umanità, non la verità, bensì lo Stato.
Nella sua prima sera in quella stanza, egli aveva domandato loro, in tono di sfida e di curiosità: - Che cosa intendete fare di me? — Ed egli sapeva, adesso, che cosa avevano fatto di lui. Chifoilisk gli aveva detto la semplice realtà. Essi lo possedevano. Aveva pensato di poter mercanteggiare con loro: un’idea estremamente ingenua, da anarchico. L’individuo non può mercanteggiare con lo Stato. Lo Stato non riconosce altra moneta che il potere: e batte la moneta da sé.
Vedeva ora — nei particolari, un episodio dopo l’altro, fin dall’inizio — di avere commesso un errore nel venire su Urras; il suo primo grosso errore, e un errore che probabilmente gli sarebbe durato per il resto della vita. Una volta visto ciò, una volta riesaminate tutte le prove che aveva rimosso e negato per mesi (e per farlo gli occorse un lungo tempo, seduto immobile alla scrivania) e giunto alla ridicola e abominevole ultima scena con Vea, e rivissuta anche quella, e sentita la propria faccia diventare rovente e le orecchie fischiare: a questo punto, tutto terminò. Anche in quella sua postalcolica valle di lacrime, egli non provava alcun senso di colpa. Era tutto finito, ora, e ciò a cui doveva pensare era: che cosa doveva fare, adesso? Essendosi chiuso in prigione, come poteva agire da uomo libero?
Non era disposto a fare fisica per i politici. Questo era chiaro, ormai.
Se avesse cessato di lavorare, lo avrebbero lasciato andare a casa?
A questo pensiero, trasse un lungo respiro e sollevò la testa, fissando, senza vederlo, il panorama verde illuminato dal sole fuori della finestra. Per la prima volta si era concesso di pensare al ritorno a casa come a una genuina possibilità. Quel pensiero minacciò di abbattere le saracinesche e di sommergerlo di desiderio incalzante. Parlare pravico, parlare con amici, vedere Takver, Pilun, Sedik, toccare la polvere di Anarres…
Non l’avrebbero lasciato partire. Non aveva ancora pagato il prezzo del viaggio. Ed egli stesso non poteva concedersi di andare: di rinunciare, scappare via.
Seduto alla scrivania, avvolto dalla chiara luce del mattino, picchiò le nocche sull’orlo del tavolo nettamente e seccamente, due, tre volte; il suo volto era calmo e pareva pensoso.
— Dove vado? — disse forte.
Un colpo alla porta. Efor entrò con il vassoio della colazione e i giornali del mattino. — Venuto alle sei come sempre, ma ancora dormiva — osservò, posando il vassoio con mirabile destrezza.
— Mi sono ubriacato, ieri sera — disse Shevek.
— Bellissimo finché dura — disse Efor. — Questo è tutto, signore? Bene — e uscì con la stessa destrezza, rivolgendo sulla soglia un inchino a Pae, che era entrato mentre egli usciva.
— Non intendevo piombare nel bel mezzo della colazione! Mentre tornavo dalla cappella, ho pensato di dare un’occhiata.
— Si sieda. Prenda un po’ di cioccolata. — Shevek non sarebbe riuscito a mangiare se Pae non avesse almeno fatto il gesto di mangiare insieme con lui. Pae prese un panino al miele e lo spezzettò su un piattino. Shevek si sentiva ancora un po’ scosso, ma aveva fame, e si dedicò alla colazione con gusto. Pae parve trovare più arduo del normale dare inizio alla conversazione.
— Riceve ancora quella robaccia? — chiese infine, in tono divertito, toccando i giornali ripiegati che Efor aveva messo sulla tavola.
— Li porta Efor.
— Li porta lui?
— Gliel’ho chiesto io — disse Shevek, adocchiando Pae: un’occhiata brevissima, esplorativa. — Aumentano la mia comprensione del vostro paese. Mi interessano le vostre classi inferiori. Quasi tutti gli anarresiani venivano dalle classi inferiori.
— Sì, certo — disse l’altro, con un’aria rispettosa e un cenno d’assenso. Mangiò un pezzetto di pane al miele. — Mah, dopotutto, penso che potrei prendere una tazza di cioccolata — disse, e suonò il campanello posato sul vassoio. Efor apparve alla porta. — Un’altra tazza — disse Pae, senza voltarsi. — Be’, signore, desideravamo portarla in giro ancora qualche volta, adesso che il tempo ritorna bello, per mostrarle altre zone del paese. O anche una visita all’estero, magari. Ma questa maledetta guerra ha messo la parola fine ai nostri progetti, temo.
Shevek guardò i titoli del giornale in cima alla pila: A-IO, THU SI SCONTRANO PRESSO CAPITALE BENBILI.
— C’erano notizie più recenti per televisione — disse Pae. — Abbiamo liberato la capitale. Il Generale Havevert sarà reintegrato.
— Allora, la guerra è finita?
— Non ancora, poiché il Thu tiene ancora le due province orientali.
— Capisco. Dunque, il vostro esercito e quello del Thu si combatteranno nel Benbili. E non qui?
— No, no. Sarebbe una pazzia che ci invadessero, o che noi li invadessimo. Abbiamo superato quel tipo di barbarie che portava ogni volta la guerra nel cuore di stati altamente civilizzati! L’equilibrio del potere viene conservato da questo tipo di azioni di polizia. Comunque, noi siamo ufficialmente in guerra. E tutte le solite noiose restrizioni ritorneranno in effetto, temo.
— Restrizioni?
— La segretezza di tutte le ricerche compiute nel Collegio della Nobile Scienza, per esempio. Niente d’importante, comunque, soltanto un timbro governativo. E a volte un ritardo nella pubblicazione di qualche articolo, quando i pezzi grossi pensano che sia pericoloso perché non lo capiscono!… E gli spostamenti saranno un po’ limitati, specialmente per lei e gli altri stranieri presenti tra noi, temo. Finché durerà lo stato di guerra, lei non dovrebbe lasciare l’area universitaria, penso, senza il permesso del Cancelliere. Ma non ci badi. Posso farla uscire quando desidera, senza farle fare tutta la tiritera.
— Lei tiene le chiavi — disse Shevek, con un sorriso ingenuo.
— Oh, sono un assoluto specialista in questo genere di cose. Mi piace aggirare le leggi e far fesse le autorità. Forse sono per natura un anarchico, eh? Dove diavolo s’è cacciato quel vecchio rimbambito, lui e la mia tazza?
— Per prenderla, deve scendere fino alle cucine.
— Be’, non dovrebbe metterci mezza giornata. Va be’, non ho voglia di aspettare. Non voglio portarle via quanto le resta del mattino. Tra l’altro, ha visto l’ultimo Bollettino della Fondazione per le Ricerche Spaziali? Hanno presentato i piani di Reumere per l’ansible.
— Che cos’è l’ansible?
— È quel che lui chiama uno strumento di comunicazione istantanea. Dice che se i temporalisti… e qui si riferisce a lei, naturalmente… tirassero soltanto fuori le equazioni dell’inerzia temporale, gli ingegneri… che sarebbe lui… potrebbero costruire il maledetto apparecchio, provarlo, e così, per inciso, dimostrare la validità della teoria, nel giro di pochi mesi o poche settimane.
— Gli ingegneri sono già di per se stessi una dimostrazione dell’esistenza della reversibilità causale. Vede come Reumere ha già costruito il suo effetto prima che io gli abbia fornito la causa. — Sorrise di nuovo, ma questa volta in modo assai meno ingenuo. Quando Pae si fu chiuso la porta alle spalle, Shevek si alzò di scatto. — Sporco bugiardo profittatore! — esclamò in pravico, livido di rabbia, con le mani serrate a pugno per non cedere alla tentazione di afferrare qualcosa e scagliarlo contro Pae.
Entrò Efor, portando un vassoio con una tazza e un piattino. Si arrestò sulla soglia, con uno sguardo d’apprensione.
— Non è niente, Efor. Pae… Non voleva più la tazza. Puoi portare via tutto.
— Benissimo, signore.
— Senti. Non vorrei visite, per un certo periodo. Puoi tener fuori la gente?
— Molto facilmente, signore. Nessuno in particolare?
— Sì, lui. E tutti. Di’ che lavoro.
— Sarà lieto di saperlo, signore — disse Efor, e le sue rughe si sciolsero per un istante in una smorfia maliziosa; poi, con familiarità rispettosa: — Faccio passare nessuno che lei non vuole — e infine, con proprietà di linguaggio e tono ufficiale: — Grazie, signore, e felice giornata a lei.
Il cibo, e l’adrenalina, avevano fatto svanire la paralisi di Shevek. Cominciò a passeggiare su e giù per la stanza, nervoso e inquieto. Voleva fare qualcosa. Ormai aveva perso quasi un anno senza fare nulla, oltre che rendersi ridicolo. Era ora che facesse qualcosa.
Dunque, per fare che cosa, era venuto su Urras?
Per fare della fisica, per asserire, con il suo talento, un diritto di ogni cittadino di ogni società: il diritto di lavorare, di venire mantenuto mentre lavorava, e di condividere il prodotto con tutti coloro che lo desideravano. Il diritto di ogni Odoniano e di ogni uomo libero.
I suoi ospiti benevoli e protettivi gli permettevano di lavorare, e lo mantenevano mentre lavorava, d’accordo. Il guaio veniva nella terza parte della cosa. E neppure lui era ancora arrivato a quello stadio. Non poteva condividere ciò che non possedeva.
Ritornò alla scrivania, si sedette e prese un paio di ritagli di carta fittamente vergati che teneva nella tasca meno accessibile, meno usata, dei suoi calzoni stretti ed eleganti. Allargò con le dita i due ritagli e cominciò a osservarli. Gli venne in mente ch’egli stava diventando come Sabul: scriveva molto piccolo, abbreviato, su pezzetti di carta. Ora sapeva perché Sabul lo facesse: Sabul era possessivo, tendeva a nascondere, a celare. Quello che su Anarres era psicopatia, su Urras era un comportamento razionale.
Di nuovo Shevek tornò a sedersi immobile, con la testa china, e a studiare i due piccoli pezzi di carta su cui aveva annotato alcuni punti essenziali della Teoria Temporale Generale, fin dove arrivava.
Per i tre giorni successivi sedette alla scrivania e fissò i due pezzetti di carta.
A volte si alzava e camminava per la stanza, o scriveva qualcosa, o usava il calcolatore da tavolo, o chiedeva a Efor di portargli qualcosa da mangiare o si stendeva sul letto e cadeva addormentato. Poi tornava a sedersi alla scrivania.
La sera del terzo giorno era seduto, tanto per cambiare, sulla panca di marmo accanto al fuoco. S’era seduto su quella panca la prima sera ch’era entrato in quella stanza, in quella graziosa cella di prigione, e di solito andava a sedere laggiù quando aveva visite. In quel momento non aveva visite, ma pensava a Saio Pae.
Come tutti i cercatori di potere, Pae era sorprendentemente miope. La sua mente aveva qualcosa di frivolo, di abortivo; le mancavano profondità, affetto, immaginazione. Era, in effetti, uno strumento ben primitivo. Eppure aveva delle reali potenzialità, che, sebbene deformate, non erano andate perdute. Pae era un fisico molto astuto. O, più esattamente, era molto astuto nelle cose che riguardavano la fisica. Non aveva mai fatto nulla di originale, ma il suo opportunismo, il senso innato che gli faceva indovinare dove potesse trovarsi un vantaggio, lo portavano ogni volta al campo più promettente. Aveva il fiuto per dove mettersi al lavoro, esattamente come lo aveva Shevek, e Shevek rispettava questo fiuto tanto in lui quanto in se stesso, poiché esso costituisce per uno scienziato un attributo di singolare importanza. Era stato Pae a dare a Shevek il libro tradotto dalla lingua della Terra, il simposio sulla teoria della Relatività, le cui idee, negli ultimi tempi, erano giunte a occupare sempre di più la sua mente. Era possibile che, dopotutto, fosse venuto su Urras soltanto per incontrare Saio Pae, il suo nemico? Che fosse venuto a cercarlo, sapendo di poter ricevere dal proprio nemico ciò che non poteva ricevere dai suoi amici e fratelli, ciò che nessun anarresiano poteva dargli: la conoscenza di qualcosa di forestiero, di esterno: ricevere delle nuove…
Dimenticò Pae. Pensò al libro. Non avrebbe saputo dire con chiarezza neppure a se stesso che cosa, esattamente, egli avesse trovato così stimolante nel libro. Buona parte della fisica in esso contenuta era, in fin dei conti, arretrata; i metodi erano farraginosi, e l’atteggiamento di quegli stranieri, talvolta, del tutto antipatico. I Terrestri erano stati degli imperialisti intellettuali, dei gelosi costruttori di muri. Perfino Ainsetain, colui che aveva dato origine alla teoria, si era sentito in dovere di avvertire che la sua fisica non abbracciava altro modello che quello fisico, e che non si doveva ritenere che vi fossero compresi il metafisico, il filosofico e l’etico. La qual cosa, naturalmente, era superficialmente vera; eppure egli aveva usato il numero, il ponte tra il razionale e il percepito, tra la psiche e la materia. «Il Numero, l’Indisputabile» come l’avevano chiamato gli antichi fondatori della Nobile Scienza. Impiegare la matematica in questo senso equivaleva a impiegare il modello che precedeva tutti gli altri e ad essi conduceva. Ainsetain l’aveva saputo; con accattivante cautela aveva ammesso ch’egli credeva che la sua fisica descrivesse veramente la realtà.
Stranezza e familiarità: in ciascun movimento del pensiero Terrestre, Shevek trovò questa combinazione, e ne fu costantemente affascinato. E provò simpatia: anche Ainsetain aveva cercato una teoria unificante dei campi. Dopo avere spiegato la forza di gravità come una funzione della geometria dello spaziotempo, egli aveva cercato di estendere la sintesi fino a includere le forze elettromagnetiche. Non c’era riuscito. Già nel corso della sua vita, e per molti decenni dopo la sua morte, i fisici del suo mondo si erano allontanati dai suoi tentativi e dai suoi fallimenti, per dedicarsi alle magnifiche incoerenze della teoria quantistica e alla ricca messe tecnologica dei suoi risultati, e per concentrarsi infine sul modello tecnologico in modo talmente esclusivo da arrivare a un punto morto, una catastrofica mancanza d’immaginazione. E tuttavia la loro intuizione originaria era giusta: al punto in cui erano, il progresso era da cercare nell’indeterminatezza che il vecchio Ainsetain si era rifiutato di accettare. E il suo rifiuto era stato ugualmente giusto… a lunga scadenza. Solamente, gli erano mancati gli strumenti per dimostrarlo: le variabili di Saeba e le teorie della velocità infinita e della causa complessa. Il suo campo unificato esisteva, nella fisica Cetiana, ma esisteva in base a condizioni ch’egli forse non sarebbe stato disposto ad accettare; la velocità della luce come fattore limite era essenziale alle sue grandi teorie. Entrambe le sue Teorie della Relatività erano altrettanto belle, altrettanto valide, e utili, come sempre, anche dopo i secoli trascorsi, eppure dipendevano da una ipotesi che non poteva essere dimostrata vera, e che anzi, poteva essere, ed era stata dimostrata, in talune condizioni, falsa.
Ma una teoria in cui tutti gli elementi fossero dimostrabilmente veri non era una semplice tautologia? Nella regione dell’indimostrabile, o perfino del confutabile, giaceva l’unica possibilità di spezzare il cerchio e di progredire.
In tal caso, l’indimostrabilità dell’ipotesi della coesistenza reale — il problema contro cui Shevek aveva battuto disperatamente la testa in quegli ultimi tre giorni, e, anzi, in quegli ultimi dieci anni — aveva davvero importanza?
Egli aveva cercato a tentoni di afferrare in pugno la certezza, come se si trattasse di qualcosa che si potesse possedere. Egli aveva preteso una sicurezza, una garanzia, che non è data, e che, se fosse data, diverrebbe una prigione. Prendendo come semplice assunto, come postulato, la validità della coesistenza reale, gli si offriva la possibilità di usare le belle geometrie della relatività; e di lì sarebbe stato possibile andare avanti. Il passo successivo era perfettamente chiaro. La coesistenza della successione poteva venire trattata con uno sviluppo in serie di trasformate di Saeba; con questo modo di affrontarle, la successività e la presenza non presentavano alcuna antitesi. La fondamentale unità dei punti di vista della Sequenza e della Simultaneità diveniva palese; il concetto di intervallo serviva a collegare gli aspetti statico e dinamico dell’universo. Come aveva potuto fissare in faccia la realtà per dieci anni senza vederla? Non ci sarebbe stata alcuna difficoltà nell’andare avanti da lì. Anzi, egli era già andato avanti. Era già arrivato. Aveva visto tutto ciò che doveva venire in questo primo, apparentemente superficiale, barlume del metodo, fornitogli dall’avere compreso un insuccesso vecchio di secoli. Il muro era abbattuto. La visione era chiara e integra. Ciò ch’egli vedeva era semplice, più semplice di ogni altra cosa. Era la semplicità: e in essa era contenuta ogni complessità, ogni promessa. Era la rivelazione. Era la strada sgombra, la strada di casa, la luce.
Il suo spirito era come un bambino che correva fuori, verso la luce del sole. Senza fine, senza fine…
Eppure nella sua profonda tranquillità e felicità egli tremò di paura; le sue mani tremarono, e i suoi occhi si riempirono di lacrime, come se egli avesse fissato il sole. Dopotutto, la carne non è trasparente. Ed è strano, estremamente strano, sapere che la propria vita è stata esaudita.
E tuttavia continuò a guardare, e ad andare sempre più avanti, con la stessa gioia infantile, finché, d’improvviso, non poté più andare avanti; tornò indietro e guardandosi intorno, attraverso le lacrime vide che la stanza era buia e le alte finestre erano piene di stelle.
Il momento era andato; ed egli l’aveva lasciato andare. Non cercò di afferrarsi ad esso. Sapeva di esserne parte, non il momento parte di lui. Egli gli era affidato.
Dopo qualche tempo, si alzò con ancora un brivido e accese la lampada. Girò un poco nella stanza, toccando cose, la legatura di un libro, un paralume, lieto di essere ritornato tra questi oggetti familiari, di essere ritornato nel suo mondo… poiché in quell’istante la differenza tra questo pianeta e quello, tra Urras e Anarres, non aveva per lui maggiore significato della differenza di due granelli di sabbia sulle spiagge del mare. Non c’erano più abissi, non c’erano più muri. Non c’era più esilio. Aveva visto le fondazioni dell’universo, ed esse erano solide.
Si recò nella stanza da letto, camminando lentamente e con passo leggermente incerto, e si lasciò cadere sul letto senza spogliarsi. Vi giacque con le braccia dietro la testa, di tanto in tanto prevedendo e risolvendo un particolare o l’altro del lavoro che occorreva fare, assorto in un solenne e delizioso stato di ringraziamento, che gradualmente sfumò in una serena fantasticheria, e infine in sonno.
Dormì per dieci ore. Si destò pensando alle equazioni che avrebbero espresso il concetto di intervallo. Si mise a tavolino e cominciò a lavorare su di esse. Quel pomeriggio aveva una lezione, e andò a tenerla; andò a pranzare alla mensa degli Anziani di Facoltà e parlò con i colleghi laggiù incontrati del tempo e della guerra, e degli altri argomenti ch’essi portarono all’attenzione. Se essi notarono qualche cambiamento in lui, egli non se ne accorse, poiché non era realmente consapevole della loro presenza. Tornò alla sua stanza e lavorò.
Gli urrasiani dividevano il giorno in venti ore. Per otto giorni passò da dodici a sedici ore quotidiane alla scrivania, o a passeggiare per la stanza, spesso con i suoi occhi chiari rivolti alla finestra, al cui esterno splendeva la tiepida luce del sole di primavera, e le stelle e la Luna giallastra e calante.
Quando giunse con il vassoio della colazione, Efor lo trovò disteso sul letto, vestito per metà, con gli occhi chiusi, che pronunciava frasi in una lingua straniera. Lo destò. Shevek si svegliò con una scossa convulsa, si alzò e raggiunse faticosamente l’altra stanza, la scrivania, che era perfettamente vuota; fissò il calcolatore, che era stato cancellato, e poi rimase fermo accanto ad esso, come un uomo che è stato colpito alla testa e non se n’è ancora accorto. Efor riuscì a farlo tornare a letto e disse: — Signore, febbre. Chiamo il medico?
— No!
— Ne è sicuro, signore?
— No! Non far entrare nessuno, Efor. Di’ che sono malato.
— Allora andrebbero subito a chiamare il medico. Posso dire che lavora ancora, signore. A loro piace sentirlo dire.
— Chiudi a chiave la porta, quando esci — disse Shevek. Il suo corpo non trasparente l’aveva tradito; era debole per l’esaurimento, e pertanto irritabile e spaventato. Aveva paura di Pae, di Oiie, di una squadra di ricerca della polizia. Ogni cosa da lui letta, udita, semicompresa a proposito della polizia urrasiana, della polizia segreta, gli tornò in mente in modo vivido e terribile, come quando un uomo, ammettendo a se stesso la propria malattia, ricorda ogni parola da lui letta sul cancro. Fissò Efor con la desolazione della febbre.
— Lei può fidarsi di me — disse l’uomo, nel suo modo sommesso, svelto, ambiguo. Portò a Shevek un bicchiere d’acqua e uscì, e la serratura della porta d’ingresso scattò dietro di lui.
Si occupò di Shevek nel corso dei due giorni successivi, con un tatto che era del tutto estraneo al suo addestramento di cameriere personale.
— Avresti dovuto fare il dottore, Efor — gli disse Shevek, quando la sua debolezza divenne un’apatia soltanto fisica, non spiacevole.
— Quel che dice la mia vecchia. Non vuole mai che nessun altro la curi fuori di me quando ha qualcosa. Mi fa: «Tu hai il tocco». E io credo che l’ho davvero.
— E non hai mai lavorato con i malati?
— No. signore. Non voglio neppure metterci piede negli ospedali. Brutto giorno quando mi toccherà morire in una di quelle fogne.
— Gli ospedali? Perché, che hanno?
— Niente, signore, non quelli dove portavano lei se stava peggio — disse Efor, con gentilezza.
— Che tipo di ospedali intendi dire, allora?
— I nostri. Sporchi. Buchi di culo — disse Efor, senza violenza nella voce, descrittivamente. — Vecchi. Morto un figlio in uno. Ci sono buchi per terra, grossi, si vede le travi, capisce? Gli ho detto: «Ma come?». Sa, i topi salgono su dai buchi, ti arrivano nel letto. Mi fanno: «Edificio vecchio, fa da ospedale da seicento anni». Stabilimento della Divina Armonia per i Poveri, si chiama. Un buco di culo, ecco cos’è.
— Ti è morto un bambino in quell’ospedale?
— Sì, signore, mia figlia Laia.
— Di che cosa è morta?
— Valvola del cuore, hanno detto. Non è cresciuta molto. Due anni, aveva, quand’è morta.
— Hai altri figli?
— Nessuno vivo. Nati tre. È stata dura, per la mia vecchia. Ma adesso dice: «Oh, be’, non devo farmi il sangue marcio su di loro, in fin dei conti stanno meglio così!». C’è ancora qualcosa che posso fare per lei, signore? — Il brusco passaggio alla sintassi delle classi superiori fece sobbalzare Shevek; disse con impazienza: — Sì! Continua a raccontare.
Poiché aveva parlato spontaneamente, o poiché non stava bene e occorreva venirgli incontro, questa volta Efor non s’irrigidì. — Pensavo di fare il medico militare, una volta — disse, — ma loro mi hanno preso prima. Di leva. Mi fanno: «Attendente, tu fai l’attendente». E così l’ho fatto. Buona qualifica, attendente. Venuto fuori dall’esercito, subito passato a fare il cameriere personale.
— Avresti potuto imparare a fare il medico, nell’esercito? — chiese Shevek. La conversazione continuò. Era difficile per Shevek seguirla, sia come linguaggio, sia come sostanza. Gli venivano riferite cose di cui non aveva esperienza. Non aveva mai visto un topo, o una caserma, o un manicomio, o un ospizio di mendicità, o un negozio di prestiti su pegno, o un’esecuzione capitale, o un ladro, o una casa d’affitto, o un esattore della pigione, o un uomo che voleva lavorare e non trovava lavoro da compiere, o un bambino morto in un rigagnolo. Tutte queste cose comparivano nei ricordi di Efor come fatti abituali o come abituali orrori. Shevek dovette mettere a prova la propria immaginazione e fare ricorso ad ogni briciola di conoscenza di cui disponeva su Urras, per capirle. Eppure gli erano familiari in un modo diverso da ogni altra cosa da lui finora vista su Urras, ed egli ne sapeva il motivo.
Questa era la Urras che gli era stata mostrata a scuola, su Anarres. Era il mondo da cui i suoi antenati erano fuggiti, preferendo la fame e il deserto e l’esilio senza fine. Questo era il mondo che aveva formato la mente di Odo e l’aveva incarcerata otto volte per averne parlato. Questa era la sofferenza umana in cui affondavano le radici gli ideali della sua società, il terreno da cui scaturiva.
Non era la «Urras reale». La dignità e la bellezza della stanza in cui egli ed Efor si trovavano erano altrettanto reali quanto lo squallore in cui era nato Efor. Per Shevek, il compito di un pensatore non era quello di negare una realtà a spese dell’altra, ma di includere e di collegare. Non era un compito facile.
— Mi sembra di nuovo stanco, signore — disse Efor. — Meglio riposare.
— No, non sono stanco.
Efor lo studiò per un momento. Quando Efor svolgeva funzione di servitore, la sua faccia solcata di rughe, completamente rasata, era totalmente priva di espressione; nel corso della precedente ora, Shevek l’aveva vista passare attraverso straordinari cambiamenti di asprezza, ironia, cinismo e dolore. Al momento la sua espressione era comprensiva benché distaccata.
— Diverso da tutto questo, il posto da dove viene lei, no? — disse Efor.
— Molto diverso.
— Nessuno è mai senza lavoro, lassù.
C’era un debole tono d’ironia, o forse di domanda, nella sua voce.
— No.
— E nessuno ha fame?
— Nessuno ha fame mentre un altro mangia.
— Ah.
— Ma siamo stati affamati. Abbiamo patito a lungo la fame. C’è stata una carestia, devi sapere, otto anni fa. Ho conosciuto una donna, a quell’epoca, che ha ucciso il figlio, perché non aveva latte, e non c’era nient’altro, nient’altro da dargli. Non è tutto… tutto latte e miele su Anarres, Efor.
— Non ne dubito affatto, signore — disse Efor, con uno dei suoi bizzarri ritorni alla forma elegante. Poi disse con una smorfia, mostrando i denti: — Comunque, laggiù non c’è nessuno di loro!
— Loro?
— Sì, signor Shevek. Quelli che lei ha nominato una volta. I padroni.
La sera successiva, Atro passò a trovarlo. Pae doveva essere stato di vedetta, poiché qualche minuto dopo che Efor ebbe fatto entrare l’anziano studioso, anch’egli giunse, come se si fosse trovato da quelle parti per caso, e chiese con affascinante partecipazione notizie sull’indisposizione di Shevek. — Lei ha lavorato troppo nelle ultime settimane, signore — disse. — Non dovrebbe stancarsi così. — Non si sedette, e si accomiatò molto presto: la vera anima della urbanità. Atro continuò a parlare della guerra nel Benbili, che stava diventando, come la mise lui, «un’operazione su grande scala».
— Il popolo di questo paese, approva la guerra? — Shevek chiese, interrompendo un discorso di strategia. Lo rendeva perplesso l’assenza di giudizi morali, nei giornali popolari, sull’argomento. Avevano lasciato il tono retorico ed eccitato, ed ora le loro parole, frequentemente, erano le stesse dei bollettini televisivi emanati dal governo.
— Approvarla? Non penserai che siamo pronti a gettarci per terra e a lasciare che i maledetti thuviani marcino sopra di noi? La nostra condizione di potenza mondiale è in ballo!
— Ma intendo il popolo, non il governo. Il… il popolo che deve combattere.
— Che cosa vuoi che sia, per loro? Sono abituati alla coscrizione di massa. È la loro funzione, mio caro amico! Combattere per il loro paese. E, lasciamelo dire, non c’è miglior soldato al mondo che il soldato iotico, una volta che si sia abituato a prendere ordini. In tempo di pace può fare grandi parole sentimental-pacifistiche, ma il suo coraggio è sempre lì, pronto a mostrarsi. Il soldato semplice è sempre stato la nostra massima risorsa come nazione. È così che siamo diventati la potenza che siamo.
— Arrampicandovi su una catasta di bambini morti? — disse Shevek, ma la collera, o, forse, un’inconfessata riluttanza a ferire i sentimenti del vecchio scienziato, gli fece tenere bassa la voce; e Atro non lo udì.
— No — continuava a dire Atro, — troverai che l’animo del popolo è saldo come l’acciaio, quando il paese è minacciato. Sì, alcuni provocatori a Nio e nelle città industriali fanno chiasso tra una guerra e l’altra, ma è grande vedere come il popolo faccia quadrato quando la bandiera è in pericolo. Tu non lo crederai, lo so. Il guaio dell’Odonianesimo, lo sai, mio caro amico, è che è femmineo. Esso, semplicemente, non include il lato virile della vita. «Sangue, acciaro e fulgor di battaglia», come dice l’antico poeta. Non capisce il coraggio… l’amore per la bandiera.
Shevek rimase in silenzio per un istante, poi disse, gentilmente: — Questo può essere vero, in parte. Voglio dire, non abbiamo bandiere.
Quando Atro se ne fu uscito, Efor entrò per ritirare il vassoio del pranzo. Shevek lo fermò. Gli andò vicino, dicendo: — Scusami, Efor — e posò sul vassoio una striscia di carta. Su di essa aveva scritto: «C’è un microfono in questa stanza?».
Il servitore chinò il capo e lesse, lentamente, poi alzò lo sguardo su Shevek e gli diede una lunghissima occhiata, da vicino. Quindi i suoi occhi si spostarono per un attimo verso il caminetto.
«Stanza da letto?» chiese Shevek, con lo stesso sistema.
Efor scosse il capo, posò il vassoio e seguì Shevek nella camera da letto. Chiuse la porta dietro di sé con l’assenza di rumore caratteristica di un buon servitore.
— Notato il primo giorno, spolverando — disse, con un sogghigno che trasformò le sue rughe in rigidi solchi.
— Non ce ne sono, qui dentro?
Efor alzò le spalle. — Mai visto nessuno. Potremmo aprire l’acqua, signore, come nelle storie di spie.
Passarono avanti, raggiungendo il magnifico tempio d’oro e d’avorio del cesso. Efor aprì i rubinetti e poi diede un’occhiata alle pareti. — No — disse. — Non credo. E gli occhi spia li potrei vedere. Trovati quando lavoravo per uno di Nio, una volta. Se li vedi una volta non ti scappano più.
Shevek prese un altro pezzo di carta dalla tasca e la mostrò a Efor. — Sai da dove provenga?
Era il messaggio che aveva trovato nel soprabito: «Unisciti a noi tuoi fratelli.»
Dopo una pausa (leggeva lentamente, muovendo le labbra chiuse), Efor disse: — Non so da dove proviene.
Shevek rimase deluso. Pensava che lo stesso Efor era in una posizione eccellente per far scivolare qualcosa nelle tasche del suo «padrone».
— No, so da chi viene. In un certo senso.
— Chi? Come posso raggiungerli?
Altra pausa. — Pericolosa faccenda, signor Shevek. — Distolse la faccia e andò ad aumentare il flusso dell’acqua dei rubinetti.
— Non voglio coinvolgerti. Se potessi soltanto dirmi… dirmi dove andare. Cosa dovrei chiedere. Mi basta un nome.
Una pausa ancora più lunga. Il volto di Efor aveva un aspetto tirato, duro. — Non… — cominciò a dire, poi s’interruppe. Poi disse, bruscamente, a voce molto bassa: — Senta, signor Shevek, Dio sa come la vogliono, come abbiamo bisogno di lei, ma senta, lei non ha idea di come sia. Come pensa di nascondersi? Un uomo come lei? Con l’aspetto che ha lei? È una trappola, qui, ma è una trappola dappertutto. Lei può scappare, ma non può nascondersi. Non so cosa dirle. Darle dei nomi, sicuro. Chieda a qualsiasi Niota, le dirà dove andare. Ne abbiamo abbastanza. Dobbiamo avere un po’ d’aria da respirare. Ma se la prendono, la fucilano, come mi sento? Lavoro per lei da otto mesi, sono arrivato ad amarla. Ad ammirarla. Vengono da me tutti i momenti. Io dico: «No. Lasciatelo stare. Una brava persona, non c’entra coi nostri guai. Lasciatelo tornare da dove viene dove la gente è libera. Lasciate che qualcuno sia libero da questa prigione maledetta da Dio dove viviamo!».
— Non posso tornare. Non ancora. Voglio incontrare queste persone.
Efor rimase in silenzio. Forse fu l’abitudine di tutta una vita come servitore, come uno che obbedisce, a farlo annuire, infine, e dire, bisbigliando: — Tuio Maedda, quello che cercate. Strada dei Giochi, nella Città Vecchia. La drogheria.
— Pae dice che non mi è permesso di lasciare la zona universitaria. Mi possono fermare se mi vedono salire sul treno.
— Taxi, magari — disse Efor. — Ne chiamo uno, lei scenda per le scale. Conosco Kae Oimon al posteggio. Ha del buon senso. Ma non so…
— Benissimo. Subito. Pae è appena passato, mi ha visto, pensa che non uscirò di casa perché sono malato. Che ora è?
— Sette e mezza.
— Se parto adesso, ho tutta la notte per trovare dove devo andare. Chiamami il taxi, Efor.
— Le preparo la valigia, signore.
— Una valigia di cosa?
— Le serviranno degli abiti…
— Ho già addosso degli abiti! Vai.
— Non può andar via senza niente — Efor protestò. Era questo a renderlo ansioso e inquieto più di ogni altra cosa. — Ha soldi?
— Oh… già. Devo prenderli.
Shevek era già pronto a uscire; Efor si grattò la fronte, fece faccia triste e severa, ma si recò al telefono del corridoio per chiamare il taxi. Al suo ritorno trovò Shevek accanto alla porta del corridoio, con già addosso il soprabito. — Scenda — disse Efor, di malavoglia. — Kae viene alla porta di servizio, tra cinque minuti. Gli dica di uscire per la Strada del Parco, laggiù non c’è il controllo come alla porta principale. Non passi dalla porta, la fermano di sicuro.
— Sarai punito per questo, Efor?
Entrambi parlavano a bisbigli.
— Io non so che lei è uscito. Domattina, dico che lei non s’è ancora alzato. Dorme. Li terrà lontani un po’.
Shevek lo prese per le spalle, lo abbracciò, gli strinse la mano. — Grazie, Efor!
— Buona fortuna — disse l’uomo, sorpreso. Shevek era già partito.
La costosa giornata con Vea aveva consumato a Shevek la maggior parte del denaro spicciolo, e la corsa in taxi fino a Nio gli richiese altre dieci unità. Scese a una stazione principale della metropolitana, e servendosi della piantina raggiunse con la metropolitana la Città Vecchia, una sezione della città ch’egli non aveva mai visto. La Strada dei Giochi non era riportata sulla piantina, ed egli scese dal vagoncino alla fermata centrale della Città Vecchia. Quando uscì dalla spaziosa stazione di marmo e risalì sulla strada, si arrestò, confuso. Non sembrava affatto Nio Esseia.
Cadeva una pioggia fine, nebbiosa, ed era molto buio; non c’erano lampade stradali. C’erano i lampioni, ma le luci non erano accese, o le lampade erano rotte. Qua e là, da finestre chiuse da scuri, filtravano aloni giallognoli. Più avanti, lungo la strada, veniva della luce da una porta aperta, attorno alla quale oziava un gruppo di uomini, che parlavano forte. Il lastrico della strada, lucido di pioggia, era sporco di pezzi di carta e di rifiuti. Le vetrine dei negozi, a quanto poteva distinguere, erano basse ed erano completamente coperte di pannelli di metallo o di legno, ad eccezione di uno che era stato sventrato dal fuoco ed era vuoto e annerito, con alcune schegge di vetro ancora aderenti alla cornice della vetrina infranta. La gente tirava dritto, ombre frettolose e mute.
Una vecchia donna veniva per la scala dopo di lui, ed egli si voltò per chiederle la strada. Alla luce del globo giallo che contrassegnava l’ingresso della metropolitana, la vide chiaramente in faccia: bianca e segnata, con lo sguardo spento e ostile della stanchezza. Grandi orecchini di metallo le dondolavano sulle guance. Saliva le scale laboriosamente, china per la fatica, o per l’artrite o per qualche deformità della colonna vertebrale. Ma non era vecchia come egli aveva pensato; doveva avere meno di trent’anni.
— Può dirmi dov’è la Strada dei Giochi? — le chiese, balbettando. La donna lo guardò con indifferenza, affrettò il passo quando raggiunse la cima della scala, e si allontanò senza una parola.
Shevek si diresse a casaccio per la strada. L’emozione della decisione improvvisa e della fuga da Ieu Eun si era trasformata in apprensione, in un senso di venire spinto, di essere inseguito. Evitò il gruppo di uomini accanto alla porta: l’istinto lo avvertiva che uno straniero isolato non si doveva avvicinare a quel tipo di gruppo. Quando vide un uomo davanti a lui che camminava da solo, lo raggiunse e gli ripeté la domanda. L’uomo rispose: — Non lo so — e si voltò dall’altra parte.
Non c’era altro da fare che andare avanti. Giunse a un incrocio meglio illuminato, a una strada che si snodava nella pioggia e nella foschia, in entrambe le direzioni, in una triste, opaca vistosità di insegne pubblicitarie luminose. C’erano molti negozi di vino e di prestiti su pegno, e alcuni di essi erano ancora aperti. Nella strada c’erano molte persone, che passavano in fretta davanti a Shevek, o entravano e uscivano dai negozi di vino. Un uomo giaceva per terra, accanto al bordo del marciapiede, con il cappotto tirato fin sopra la testa, steso alla pioggia, addormentato, malato, morto. Shevek lo fissò con orrore, lui e gli altri che passavano senza guardare.
Mentre era fermo, paralizzato, qualcuno si fermò accanto a lui e sollevò la faccia per guardarlo in viso: un uomo di bassa statura, non rasato, dal collo torto, di cinquanta o sessanta anni, con occhi rossi e la bocca senza denti aperta in una risata. Rideva in modo privo di senno dell’uomo grande e atterrito che gli stava davanti, e puntava contro di lui la mano tremolante. — Ma dove li hai presi, tutti quei capelli, eh, eh, dove li hai presi, tutti quei capelli — borbottava.
— Può… mi può dire dov’è la Strada dei Giochi?
— Certo, ci gioco, non gioco, non ho più niente. Se ne hai tu, hai qualcosa per un goccio in una notte fredda? Qualcosa ce l’hai di sicuro.
Si avvicinò. Shevek si ritrasse, vide la mano aperta ma non capì.
— Dai, signore, giochiamo, dammi qualcosa — mormorava l’uomo, senza minacciare e senza supplicare, meccanicamente, con la bocca ancora aperta in un ghigno privo di significato, la mano protesa.
Shevek capì. Si frugò in tasca, trovò il denaro che gli rimaneva, lo cacciò nelle mani del mendicante, e poi, raggelato da una paura che non era paura per se stesso, spinse via l’uomo, che continuava ancora a mormorare e a cercare di afferrarsi al suo cappotto, e si tuffò nella più vicina porta aperta. C’era un’insegna che diceva: «Pegni e Oggetti Usati Ottime Occasioni». All’interno, tra rastrelliere di soprabiti consumati, scarpe, scialli, pentole ammaccate, lampade rotte, piatti spaiati, taniche, cucchiai, perline, cocci e frammenti, ciascun pezzo di rigatteria marcato col suo prezzo, si arrestò e cercò di calmarsi.
— Cerca qualcosa?
Ripeté ancora una volta la richiesta d’informazioni.
Il negoziante, un uomo bruno, alto quasi quanto Shevek, ma curvo e molto magro, lo guardò attentamente. — Cosa vuole andarci a fare?
— Cerco una persona che abita laggiù.
— Da dove viene?
— Devo arrivare laggiù, Strada dei Giochi. È molto distante?
— Da dove viene, signore?
— Vengo da Anarres, dalla Luna — disse Shevek, con ira. — Devo andare nella Strada dei Giochi, adesso, questa sera.
— Ma è proprio lei? Lo scienziato? Che diavolo fa, qui?
— Scappo dalla polizia! E lei vuole dire alla polizia che sono qui, o vuole aiutarmi?
— Dannazione — disse l’uomo. — Dannazione. Senta… — Esitò, fu sul punto di dire qualcosa, poi sul punto di dire qualcosa di diverso; infine disse: — Basta che prosegua — e con lo stesso fiato, sebbene, a quanto pareva, con un completo rovesciamento di mente, aggiunse: — Va bene, chiudo. La porto io. Aspetti. Dannazione!
Andò a frugare nel retrobottega, spense le luci, uscì con Shevek, abbassò delle serrande di metallo e le chiuse a chiave, mise il lucchetto alla porta, e si avviò a passo svelto, dicendo: — Venga!
Camminarono per venti o trenta isolati, immergendosi nel labirinto di strade tortuose e vicoli che costituiva il cuore della Città Vecchia. La pioggia greve di foschia cadeva ovattata nell’oscurità illuminata in modo discontinuo, e sollevava odore di marcio, di pietra e metallo bagnati. Svoltarono in uno stretto vicolo privo d’illuminazione, tra due alti e antichi edifici da abitazione, il cui piano terreno era tutto costituito di negozi. La guida di Shevek si fermò e bussò alla serranda della vetrina di uno di questi: «V. Maedda, Drogheria e Pasticceria». Dopo un tempo piuttosto lungo, la porta venne aperta. L’uomo del banco dei pegni conferì con una persona all’interno, poi fece un gesto a Shevek, e tutt’e due entrarono. A farli entrare era stata una ragazza. — Tuio è dietro, venga — disse, alzando la testa per fissare Shevek, alla debole luce proveniente da un corridoio. — Ma è proprio lei? — Aveva una voce debole e ansiosa; sorrise in modo strano. — Ma è proprio lei? — ripeté.
Tuio Maedda era un uomo di carnagione bruna, sui quarant’anni, con volto tormentato, intellettuale. Chiuse un’agenda in cui stava scrivendo qualcosa, e si alzò rapidamente in piedi al loro ingresso. Salutò per nome l’uomo dei pegni, ma non distolse lo sguardo da Shevek.
— È venuto da me in negozio a chiedere come si arrivava qua, Tuio. Dice di essere lui, sai, quello di Anarres.
— Ed è proprio lei, eh? — Maedda disse lentamente. — Shevek. E che cosa ci fa, qui? — Fissò Shevek con occhi luminosi, allarmati.
— Cerco aiuto.
— Chi l’ha mandata da me?
— Il primo a cui l’ho chiesto. Non so chi lei sia. Gli ho chiesto dove potevo andare, e mi ha detto di venire da lei.
— Qualche altra persona sa che lei è qui?
— Non sanno che sono uscito. Domani lo sapranno.
— Va’ a chiamare Remeivi — Maedda disse alla ragazza. — Si accomodi, dottor Shevek. Le converrebbe dirmi cos’è successo.
Shevek si sedette su una sedia di legno ma non si sbottonò il cappotto. Era stanco, tremava. — Sono scappato — disse. — Dall’Università, dalla prigione. Non so dove andare. Forse è tutta una prigione, qui. Sono venuto qui perché parlano delle classi inferiori, delle classi lavoratrici, e io ho pensato, guarda, sono come la mia gente. Gente che potrebbe aiutarsi tra loro.
— Che tipo di aiuto cerca?
Shevek si sforzò di calmarsi. Si guardò attorno, nell’uficio piccolo e sporco, e infine guardò Maedda. — Io ho una cosa che loro desiderano — disse. — Un’idea. Una teoria scientifica. Sono venuto qui da Anarres perché pensavo che qui avrei potuto fare il lavoro e pubblicarlo. Non capivo che qui un’idea è una proprietà dello Stato. E io, per uno Stato, non lavoro. Non posso prendere il denaro e le cose che mi danno. Io voglio andarmene. Ma non posso tornare a casa. Dunque sono venuto qui. A voi non serve la mia scienza, e forse anche a voi non piace il vostro governo.
Maedda sorrise. — No. Non mi piace affatto. Ma anche il mio governo non vuole molto bene a me. Lei non ha scelto il posto più sicuro dove recarsi, né per lei né per noi… Non si preoccupi. Oggi è il giorno; decideremo adesso cosa fare.
Shevek prese il messaggio che aveva trovato in tasca al cappotto e lo porse a Maedda. — Questa è la cosa che mi ha fatto venire. Proviene da gente che lei conosce?
— «Unisciti a noi tuoi fratelli…». Non so. Forse.
— Voi siete Odoniani?
— Parzialmente. Sindacalisti, libertari. Lavoriamo con i thuvianisti, il Sindacato Socialista dei Lavoratori, ma siamo anticentralisti. Lei è arrivato in un momento molto caldo, sa.
Maedda annuì. — È annunciata una dimostrazione, a tre giorni da oggi. Contro il reclutamento, le tasse di guerra, l’aumento di prezzo degli alimentari. Ci sono quattrocentomila disoccupati a Nio Esseia, e loro alzano le tasse e i prezzi. — Aveva continuato a fissare attentamente Shevek per tutta la durata della conversazione; ora, come se l’esame fosse finito, distolse lo sguardo e appoggiò la schiena alla sedia. — Questa città è pronta a tutto. Quel che ci occorre è uno sciopero, uno sciopero generale, e dimostrazioni con grande partecipazione di massa. Come lo sciopero del Mese Nono, guidato da Odo — aggiunse con un sorriso asciutto, forzato. — Ci servirebbe una Odo, oggi. E loro non hanno nessuna Luna con cui comprarci, questa volta. Faremo giustizia qui, o in nessun luogo. — Fissò nuovamente Shevek, e infine disse in tono più dolce: — Lei sa che cosa ha significato la vostra società, qui, per noi, negli ultimi centocinquant’anni? Sa che la gente, qui da noi, quando vuole augurarsi buona fortuna, dice: «Possa tu rinascere su Anarres!». Sapere che esiste, che c’è una società senza governo, senza polizia, senza sfruttamento economico, in modo che loro non possano più ripetere che si tratta soltanto di un miraggio, di un sogno da idealisti! Mi chiedo se lei capisce pienamente la ragione per cui l’hanno tenuta così bene nascosta laggiù a Ieu Eun, dottor Shevek. Perché non le hanno mai permesso di comparire in una riunione aperta al pubblico. Perché le saranno dietro come cani dietro a un coniglio, nel momento in cui si accorgeranno che lei è scomparso. Non è soltanto per il fatto che vogliono quella sua idea, dottor Shevek. Ma perché lei stesso è un’idea. Un’idea pericolosa. L’idea dell’anarchia, fatta carne. Che cammina tra noi.
— Allora avete la vostra Odo — disse la ragazza con la sua voce debole e ansiosa. Era rientrata mentre Maedda stava parlando. — Dopotutto, Odo era soltanto un’idea. Il dottor Shevek ne è la dimostrazione.
Maedda rimase in silenzio per un istante. — Una dimostrazione indimostrabile — disse poi.
— Perché?
— Se la gente sapesse che è qui, lo saprebbe anche la polizia.
— Che venga pure, e che provi a prenderlo — disse la ragazza, e sorrise.
— La dimostrazione dovrà essere assolutamente non violenta — disse Maedda, con improvvisa violenza nella voce. — Anche il Sindacato Socialista ha accettato questa condizione!
— Io non l’ho accettata, Tuio. Non conto di lasciarmi spaccare la faccia o di sparare in testa dai cappotti neri. Se mi colpiranno, restituirò il colpo.
— Unisciti a loro, se ti piacciono i loro metodi. La giustizia non si ottiene con la forza!
— E il potere non si ottiene con la passività.
— Noi non cerchiamo il potere. Noi cerchiamo la fine del potere! Che ne dice lei? — Maedda fece appello a Shevek. — I mezzi sono il fine. Odo l’ha ripetuto per tutta la vita. Soltanto la pace porta la pace, solo gli atti giusti portano giustizia! Non possiamo essere divisi su questo punto alla vigilia dell’azione!
Shevek portò lo sguardo sull’uomo, e sulla ragazza, e sull’uomo dei pegni, che ascoltava accanto alla porta, teso. Disse con voce stanca e tranquilla: — Se potete usarmi, usate me. Forse potrei pubblicare un comunicato a questo proposito, su uno dei vostri giornali. Non sono venuto su Urras per nascondermi. Se tutta la gente sapesse che sono qui, forse il governo avrebbe paura di arrestarmi in pubblico? Non so.
— È così — disse Maedda. — Naturalmente. — I suoi occhi scuri ardevano di eccitazione. — Dove diavolo è Remeivi? Va’ a chiamare sua sorella, Siro, dille di cercarlo e di farlo venire qui… Scriva perché è venuto qui, scriva di Anarres, scriva perché non vuole vendersi al governo, scriva cosa desidera… noi lo stamperemo. Siro! Chiama anche Meisthe… Noi la nasconderemo, ma per Dio, faremo sapere ad ogni uomo dell’A-Io che lei è qui, che lei è con noi! — Le parole uscivano da lui a valanga, le sue mani tremavano mentre parlava; cominciò ad andare avanti e indietro, rapidamente, per la stanza. — E poi, dopo la dimostrazione, dopo lo sciopero, vedremo. Forse le cose saranno differenti! Forse non dovrà più nascondersi!
— Forse tutte le porte delle prigioni si spalancheranno da sole — disse Shevek. — Su, datemi un po’ di carta, fatemi scrivere.
La ragazza Siro si avvicinò a lui. Sorridendo, si piegò come per inchinarsi a lui, un poco timorosamente, con decoro, e lo baciò sulla guancia; poi uscì. Il tocco delle sue labbra era freddo, ed egli lo sentì sulla guancia per lungo tempo.
Passò un solo giorno nella soffitta di una casa della Strada dei Giochi, e due notti e un giorno in una cantina, sotto un negozio di mobili usati, uno strano posto buio, pieno di specchiere vuote e di letti rotti. Scrisse. Gli portarono ciò che aveva scritto, stampato, entro poche ore: dapprima nel giornale Età Moderna, e in seguito, quando la tipografia dell’Età Moderna venne chiusa e i redattori arrestati, come volantini stampati in una tipografia clandestina, insieme con piani e incitamenti per le dimostrazioni e lo sciopero generale. Non rilesse ciò che scriveva. Non ascoltò Maedda e gli altri, che gli descrivevano l’entusiasmo con cui venivano letti i volantini, l’approvazione dilagante per il piano degli scioperi, l’effetto che la sua presenza alla dimostrazione avrebbe fatto agli occhi del mondo. Quando lo lasciavano solo, a volte prendeva un piccolo notes che teneva nel taschino della camicia e guardava gli appunti e le equazioni, scritti in cifrario, della Teoria Temporale Generale. Li guardava e non riusciva a leggerli. Non li capiva. Rimetteva di nuovo il notes nel taschino e sedeva con la testa tra le mani.
Anarres non aveva bandiere da agitare, ma tra i cartelli che inneggiavano allo sciopero generale, e le bandiere azzurre e bianche dei Sindacalisti e dei Lavoratori Socialisti c’erano molti cartelli fabbricati in casa che mostravano il verde Cerchio della Vita, il vecchio simbolo del Movimento Odoniano di due secoli prima. Tutte le bandiere e le insegne splendevano bravamente al sole.
Era bello stare all’aperto, dopo le stanze dalle porte chiuse a chiave, i nascondigli. Era bello camminare, dondolando le braccia, respirando l’aria pura di un mattino di primavera. Essere in mezzo a così tante persone, una folla così immensa, migliaia di persone che marciavano insieme, che riempivano tutte le trasversali oltre che gli ampi corsi lungo cui marciavano: era terribile, ma era anche esilarante. Quando cantavano, tanto l’esilaramento quanto la paura divenivano un’esaltazione cieca; gli occhi di Shevek si riempivano di lacrime. Era profondo, nelle strade profonde, temperato dall’aria aperta e dalle distanze, indistinto, soggiogante, quel sollevarsi di migliaia di voci in un solo canto. Il canto del fronte della marcia, assai lontano, al fondo della strada, e delle folle infinite che lo seguivano erano sfasati dalla distanza che il suono stesso doveva percorrere, cosicché il motivo pareva sempre indugiare e poi recuperare rispetto a se stesso, come un canone, e tutte le parti del canto venivano cantate nello stesso tempo, nello stesso momento, anche se ogni persona che cantava intonava il motivo come una linea, dall’inizio alla fine.
Shevek non conosceva i loro canti, e si limitava ad ascoltare e a lasciarsi trasportare dalla musica, finché a partire dal fronte si spinse all’indietro, travolgente, di onda in onda, lungo il grande e lento fiume di persone, un canto ch’egli conosceva. Sollevò il capo e lo cantò con loro, nella propria lingua, nelle parole in cui l’aveva imparato: l’Inno dell’Insurrezione. Era stato cantato in quelle strade, in quelle medesime strade, duecento anni prima, dalla stessa gente, la sua gente.
O luce dell’est, ridesta
Coloro che han dormito!
Il buio verrà infranto,
La promessa mantenuta.
Le file accanto a Shevek tacquero per ascoltarlo da lui, ed egli cantò con tutta la sua voce, sorridendo, procedendo con loro.
C’erano forse centomila esseri umani in Piazza del Campidoglio, o forse due volte tanto. Gli individui, al pari delle particelle della fisica atomica, non potevano venire contati, né si potevano determinare le loro posizioni, né prevedere il loro comportamento. Eppure, come massa, quella enorme massa fece ciò che gli organizzatori dello sciopero avevano previsto: si raccolse, marciò ordinatamente, cantò, riempì la Piazza del Campidoglio e tutte le strade circostanti, rimase immobile nella sua innumerabilità, inquieta ma paziente nel chiaro mezzogiorno ad ascoltare gli oratori, le cui singole voci amplificate in modo irregolare battevano e riecheggiavano sulle facciate illuminate dal sole del Senato e del Direttorato, raschiavano e sibilavano al di sopra del mormorio continuo, attutito, vasto della folla stessa.
C’erano più persone, ferme nella Piazza, di quante ne vivessero in tutta Abbenay, pensò Shevek, ma era un pensiero senza significato, un tentativo di quantificare l’esperienza diretta. Era fermo con Maedda e gli altri sui gradini del Direttorato, davanti alle colonne e alle alte porte di bronzo, e vedeva il campo tremulo e scuro di facce, e ascoltava gli oratori come li ascoltavano anch’esse: non ascoltare e comprendere nel senso in cui la mente razionale individuale percepisce e comprende, ma piuttosto come una persona guarda una cosa o ascolta i propri pensieri, o come un pensiero percepisce e comprende il Sé. E quando egli parlò, parlare non fu molto diverso dall’ascoltare. Non era la sua volontà cosciente a muoverlo, in lui non c’era coscienza di se stesso. La multipla eco della sua voce proveniente da altoparlanti lontani e riverberata dalle facciate di pietra dei massicci edifici, tuttavia, lo distrasse un poco, facendolo esitare di tanto in tanto e facendolo parlare molto lentamente. Ma non esitò mai per cercare le parole. Egli disse la loro mente, il loro essere, nella loro lingua, anche se si limitò a dire ciò che aveva già detto dal proprio isolamento, dal centro del proprio essere, molto tempo addietro.
— È la nostra sofferenza che ci porta insieme. Non è l’amore. L’amore non obbedisce alla mente, e diventa odio quando viene forzato. Il legame che ci unisce è al di là della scelta. Noi siamo fratelli. Siamo fratelli in ciò che condividiamo. Nel dolore, che ciascuno di noi deve soffrire da solo, nella fame, nella povertà, nella speranza, conosciamo la nostra fratellanza. Lo sappiamo, perché abbiamo dovuto impararlo. Sappiamo che il solo aiuto per noi è quello che ci diamo reciprocamente, che nessuna mano ci salverà se non tenderemo la mano. E la mano che voi tendete è vuota, come la mia. Voi non avete nulla. Voi non possedete nulla. Voi non siete proprietari di nulla. Voi siete liberi. Tutto ciò che avete è ciò che siete, e ciò che date.
«Io sono qui perché voi vedete in me la promessa, la promessa da noi fatta duecento anni fa in questa stessa città… la promessa mantenuta. Noi l’abbiamo mantenuta, su Anarrés. Noi non abbiamo altro che la nostra libertà. Noi non abbiamo altro da darvi che la vostra libertà. Noi non abbiamo altra legge che il singolo principio dell’aiuto reciproco tra individui. Non abbiamo altro governo che il singolo principio della libera associazione. Non abbiamo stati, non abbiamo nazioni, presidenti, capi del governo, capi militari, generali, principali, banchieri, padroni di casa, non abbiamo salari, ospizi, polizia, soldati, guerre. E le cose che abbiamo non sono molte. Siamo compartecipanti, e non proprietari. Non siamo prosperi. Nessuno di noi è ricco. Nessuno di noi ha potere. Se è Anarres ciò che volete, se Anarres è il futuro che cercate, allora vi dirò che dovete accostarvi ad esso con mani vuote. Dovete raggiungerlo da soli, e nudi, come il bambino giunge nel mondo, nel futuro, senza alcun passato, senza alcuna proprietà, dipendente in tutto da altri per la sua vita. Non potete prendere ciò che non avete dato, e dovete dare voi stessi. Non potete comprare la Rivoluzione. Non potete fare la Rivoluzione. Potete soltanto essere la Rivoluzione. È nel vostro spirito, oppure non è in alcun luogo.»
Quando stava finendo di parlare, il rombo degli elicotteri della polizia che si avvicinavano cominciò a sommergere la sua voce.
Si allontanò dai microfoni e guardò in alto, stringendo le palpebre contro il sole. Poiché molti nella folla fecero come lui, il movimento delle loro teste e delle loro mani fu simile al passaggio del vento su un campo di grano illuminato dal sole.
Il frastuono delle pale rotanti delle macchine nell’ampia scatola di pietra della Piazza del Campidoglio era intollerabile: strepiti e stridori come la voce di un mostruoso robot. Esso sommerse il crepitio delle mitragliatrici sparate da bordo degli elicotteri. Anche quando il suono della folla si alzò in tumulto, il rombo degli elicotteri fu ancora udibile al di sopra di esso: l’urlo privo di mente delle armi, la parola senza significato.
Il fuoco degli elicotteri era puntato sulle persone ferme sui gradini del Direttorato o nelle immediate vicinanze. Il portico a colonne dell’edificio offerse immediato rifugio a coloro che stavano sui gradini, e in pochi istanti divenne una compatta massa di persone. Il rumore della folla, mentre la gente incalzava, presa dal panico, verso le otto strade che si allontanavano dalla Piazza del Campidoglio, si innalzò in un lamento simile a un grande vento. Gli elicotteri erano vicino alla folla, su di essa, ma non si poteva capire se avessero cessato il fuoco o stessero ancora sparando; i morti e i feriti nella folla erano premuti troppo strettamente per cadere.
Le porte foderate di bronzo del Direttorato cedettero con uno schianto che nessuno udì. La gente premeva e inciampava verso di esse per mettersi al riparo, per sottrarsi alla pioggia di metallo. Si spinsero a centinaia nelle alte sale di marmo: alcuni rannicchiandosi per nascondersi nel primo rifugio che scorgevano, altri andando avanti per trovare l’uscita posteriore, altri fermandosi a spaccare tutto ciò che potessero prima dell’arrivo dei soldati. Quando i soldati arrivarono, risalendo in marcia, nei loro bei cappotti neri, i gradini, tra uomini e donne morti e morenti, videro sulla parete alta, grigia, levigata del grande atrio una parola scritta all’altezza degli occhi di un uomo in piedi, con grandi macchie di sangue: ABBASS.
Spararono al morto che giaceva più vicino alla parola, e in seguito, quando il Direttorato fu riportato all’ordine, la parola venne lavata via dalla parete con acqua, sapone e stracci: ma rimase; era stata pronunciata; aveva significato.
Comprese ch’era impossibile andare più avanti con l’uomo che era con lui: l’uomo diventava debole, cominciava a inciampare. Non c’era alcun posto dove andare, soltanto lontano dalla Piazza del Campidoglio. E non c’era alcun posto dove fermarsi, anche. La folla si era due volte raccolta in Viale Mesee, cercando di presentare un fronte alla polizia, ma i carri armati dell’esercito erano giunti di rincalzo alla polizia, e avevano spinto la folla innanzi a sé, verso la Città Vecchia. Né l’una né l’altra volta i soldati spararono, ma si poteva udire il crepitio delle mitragliatrici da altre strade. Gli elicotteri percorrevano avanti e indietro le strade; da sotto di quelli non si poteva scappare.
L’uomo insieme a Shevek respirava ad ansiti, boccheggiava mentre avanzava faticosamente. Shevek l’aveva per metà trasportato per vari isolati, e adesso si trovavano alquanto indietro rispetto alla massa principale della folla. Era inutile cercare di raggiungerla. — Ecco, siediti qui — disse all’uomo, e lo aiutò a sedersi sullo scalino più alto della scala che portava all’ingresso seminterrato di una qualche sorta di deposito, sulle cui finestre chiuse era scritta col gesso la parola SCIOPERO, a grandi lettere. Scese fino alla porta del seminterrato e provò ad aprirla; era chiusa a chiave. Tutte le porte erano chiuse a chiave. La proprietà era privata. Egli raccolse un pezzo di lastra rotto da un angolo degli scalini e colpì fino a staccare dalla porta il lucchetto e l’anello, lavorando né furtivamente né vendicativamente, bensì con la sicurezza di una persona che lavorasse sulla propria porta d’ingresso. Guardò all’interno. Il seminterrato era pieno di casse e vuoto di persone. Aiutò l’altro uomo a scendere gli scalini, chiuse la porta alle loro spalle e disse: — Siediti, sdraiati, se vuoi. Vado a cercare acqua.
Il luogo, evidentemente un deposito di sostanze chimiche, aveva una fila di lavandini, e un sistema di idranti per gli incendi. L’altro uomo era svenuto, quando Shevek fu di ritorno. Egli colse l’occasione per lavare la mano dell’uomo con un filo d’acqua del tubo e per dare un’occhiata alla sua ferita. Era peggiore di quanto pensasse. Più di un proiettile doveva averla colpita, staccandogli nette due dita e fracassandogli il palmo e il polso. Spuntavano schegge d’osso simili a stuzzicadenti. L’uomo era fermo accanto a Shevek e Maedda quando gli elicotteri avevano cominciato a fare fuoco, e, colpito, si era afferrato a Shevek per sostenersi. Shevek aveva tenuto un braccio intorno a lui per tutta la durata della fuga nell’interno del Direttorato; due persone riuscivano a stare in piedi meglio di una sola, nella prima, selvaggia calca.
Fece quanto poté per fermare il sangue con un fazzoletto arrotolato, e per bendare, o almeno coprire, la mano fracassata, e fece bere all’uomo un po’ d’acqua. Non conosceva il suo nome; dalla fascia bianca al braccio doveva essere uno degli Operai Socialisti; pareva avere l’età di Shevek, sulla quarantina, o forse qualche anno di più.
Alle cave del Sudovest, Shevek aveva visto uomini feriti molto più gravemente di questo in incidenti, e aveva imparato che la gente può sopportare e superare cose incredibili, in ciò che riguardava le gravi ferite e il dolore. Ma laggiù ci si era presa cura dei feriti. C’era un chirurgo per amputare, plasma per compensare le perdite di sangue, un letto su cui giacere.
Si sedette sul pavimento accanto all’uomo, che adesso era in stato di semincoscienza, nello shock, e si guardò attorno, osservando le file di casse, i lunghi corridoi bui in mezzo ad esse, il lucore bianchiccio del giorno, che filtrava dalle fessure delle finestre chiuse, sulla parete anteriore, le bianche righe di salnitro sul soffitto, i segni degli stivali degli operai e delle ruote dei carrelli sull’impolverato pavimento di cemento. Un’ora centinaia di migliaia di persone che cantavano sotto il cielo aperto; un’ora dopo, due uomini nascosti in un seminterrato.
— Siete spregevoli — disse Shevek, in pravico, all’altro uomo. — Non potete tenere aperte le porte. Non sarete mai liberi. — Toccò delicatamente la fronte dell’uomo; era fredda e sudata. Allargò per qualche momento la fasciatura, poi si alzò, attraversò il buio seminterrato fino alla porta e si affacciò sulla strada. La squadra di carri armati era passata. Pochi sbandati della dimostrazione gli passarono davanti, di corsa, con la testa bassa, in territorio nemico. Shevek cercò di fermarne due; un terzo finalmente si arrestò. — Mi serve un dottore, c’è un ferito. Puoi mandare qui un dottore?
— Meglio portarlo via.
— Aiutami a trasportarlo.
L’uomo si allontanò. — Vengono di qua — gli disse ancora, girando indietro la testa. — Fai meglio a scappare.
Non passò nessun altro, e infine Shevek scorse una fila di soldati dal cappotto nero, in fondo alla strada, lontano. Ritornò al seminterrato, chiuse la porta, si riavvicinò al ferito, si sedette accanto a lui sulla polvere del pavimento. — Al diavolo — disse.
Dopo un poco, prese dalla tasca della camicia il piccolo notes e cominciò a studiarlo.
Nel pomeriggio, guardando con cautela all’esterno, vide un carro armato stazionato dall’altra parte della strada, e due altri, messi di traverso, all’incrocio. Questo spiegava le grida che aveva udito: dovevano essere soldati che si passavano ordini tra loro.
Atro gli aveva spiegato, una volta, come si facesse, come i sergenti potessero dare ordini ai soldati, i tenenti potessero dare ordini a soldati e sergenti, i capitani… e così via fino ai generali, che potevano dare ordini a tutti e non dovevano prenderne da nessuno, eccetto il comandante in capo. Shevek aveva ascoltato con disgusto e incredulità. — La chiami organizzazione? — aveva domandato. — La chiami addirittura disciplina? Ma non è nessuna delle due cose. È un meccanismo coercitivo di straordinaria inefficienza… una sorta di macchina a vapore del settimo millennio! Una struttura così rigida e fragile, che cosa può fare che ne valga la pena? — Questo aveva dato modo ad Atro di parlare del valore della guerra come nutrice del coraggio e della virilità ed eliminatrice degli inadatti, ma per il filo stesso del suo ragionamento era costretto a concedere l’efficacia della guerriglia, organizzata dal basso, autodisciplinata. — Ma essa funziona soltanto quando la gente pensa di combattere per qualcosa di proprio… sai, la loro casa o un’idea o l’altra — aveva detto l’anziano scienziato. Shevek aveva cambiato argomento. Adesso continuò la discussione, nel buio seminterrato, tra le pile di casse di sostanze chimiche prive di etichetta. Spiegò ad Atro ch’egli adesso capiva perché l’esercito fosse organizzato nel modo in cui era organizzato. Anzi, era necessario che fosse così. Nessuna forma razionale di organizzazione sarebbe servita allo scopo. Egli, semplicemente, non aveva capito che lo scopo era quello di permettere a uomini con mitragliatrici di uccidere uomini e donne disarmati, facilmente e in grande quantità, quando veniva loro ordinato di farlo. Solo, non riusciva ancora a capire come il coraggio, la virilità o l’adattamento c’entrassero.
Di tanto in tanto parlò anche con l’uomo che era con lui, quando cominciò a scendere il buio. L’uomo era adesso sdraiato con gli occhi aperti, e un paio di volte aveva emesso dei gemiti in un modo che aveva toccato il cuore di Shevek, gemiti pazienti, quasi infantili. Aveva compiuto un generoso sforzo per tenersi in piedi e per continuare ad andare avanti, per tutto il periodo in cui erano avvolti dal primo panico della folla che li aveva spinti nel Direttorato e fuori di esso, e quando si erano messi a correre, e poi a camminare, verso la Città Vecchia; aveva tenuto sotto il cappotto la mano ferita, premuta contro il fianco, e aveva fatto del suo meglio per continuare ad andare avanti e non far rimanere indietro Shevek. La seconda volta che aveva emesso un gemito, Shevek gli aveva preso la mano sana e aveva bisbigliato: — No, no. Sta’ quieto, fratello — soltanto perché non poteva sopportare di udire il suo dolore senza poter fare nulla per lui. L’uomo probabilmente aveva pensato ch’egli intendesse dire che doveva stare quieto per non tradire alla polizia la loro presenza, poiché annuì debolmente e strinse le labbra.
I due resistettero laggiù per tre notti. Per tutto quel periodo vi furono combattimenti sporadici nel distretti dei magazzini, e lo sbarramento dell’esercito non si spostò da quell’isolato del Viale Mesee. I combattimenti non giunsero mai molto vicino allo sbarramento, che era fortemente presidiato, cosicché i due uomini nascosti non ebbero alcuna opportunità di uscire senza farsi catturare. Una volta, quando il suo compagno era sveglio, Shevek gli domandò: — Se ci consegnassimo alla polizia, che cosa farebbero?
L’uomo sorrise e bisbigliò: — Ci sparerebbero.
Poiché si erano sentite molte sventagliate di mitragliatrice, vicino e lontano, per ore, e di tanto in tanto qualche forte esplosione e il rombo degli elicotteri, questa opinione pareva giustamente fondata. La ragione del sorriso era assai meno chiara.
Morì a causa della perdita di sangue quella notte, mentre giacevano l’uno accanto all’altro per riscaldarsi, sul materasso apprestato da Shevek con paglia da imballaggio trovata nelle casse. Era già rigido quando Shevek si svegliò, e si rizzò a sedere, e ascoltò il silenzio nel grande seminterrato buio, e, fuori, nella strada e in tutta la città, un silenzio di morte.