CAPITOLO 1

C’era un muro. Non pareva importante. Era fatto di ciottoli uniti senza pretese, con un po’ di malta. Gli adulti potevano guardare senza sforzo al di là del muro, e anche i bambini non avevano difficoltà di scavalcarlo. Dove incontrava la strada, invece di avere un cancello degenerava in una pura geometria, una linea, un’idea di confine. Ma l’idea era reale. E importante. Da sette generazioni non c’era nulla di più importante, al mondo, di quel muro.

Come ogni altro muro, anch’esso era ambiguo, bifronte. Quel che stava al suo interno e quel che stava al suo esterno dipendevano dal lato da cui lo si osservava.

Osservato da un lato, il muro recingeva un campo spoglio, di una sessantina di acri, chiamato Porto di Anarres. Il campo comprendeva un paio di grosse gru, una piazzola di atterraggio per í razzi, tre magazzeni, una rimessa per gli autocarri e un dormitorio. Il dormitorio aveva un aspetto duraturo, severo, melanconico. Non si vedevano giardini, né bambini: era chiaro che non vi abitava nessuno, che chi arrivava non si fermava a lungo. In effetti si trattava di una zona di quarantena. Il muro chiudeva al suo interno non soltanto il campo di atterraggio, ma anche le navi che scendevano dallo spazio, gli uomini che giungevano con le navi, i mondi da cui provenivano e, complessivamente, il resto dell’universo. Chiudeva nel suo interno l’universo e lasciava fuori Anarres, libera.

Osservato dall’altro lato, il muro chiudeva Anarres. Al suo interno c’era tutto il pianeta: un grande campo di prigionia, isolato dagli altri mondi e dagli altri uomini, in quarantena.

Varie persone percorrevano la strada, dirette al campo d’atterraggio; altre erano ferme accanto al punto dove la strada tagliava il muro.

La gente veniva spesso al Porto dalla vicina città di Abbenay, nella speranza di vedere una nave spaziale, o semplicemente per guardare il muro. Dopotutto, era l’unico muro di cinta esistente su quel mondo. In nessun altro posto si poteva vedere un cartello che dicesse: «Non entrare». Gli adolescenti, in particolare, ne erano attratti. Si portavano fino al muro e si mettevano a sedere in cima. A volte lo spettacolo consisteva in una squadra di lavoro, occupata a portare nei magazzeni le casse venute coi camion. A volte c’era addirittura un’astronave mercantile, ferma nella piazzola. I mercantili scendevano otto volte l’anno, e il loro arrivo era noto unicamente agli addetti interni del Porto; così, per gli spettatori che avevano la buona fortuna di vederne uno, erano oggetto di molta emozione, all’inizio. Ma essi rimanevano sul muretto, a sedere, e la nave rimaneva nella piazzola, accovacciata: una torre nera e tozza, tra incastellature mobili, lontano, in fondo al campo. E dopo un po’ una donna lasciava la squadra di lavoro e si avvicinava dicendo: — Per oggi si chiude, fratelli. — La donna portava il bracciale della Difesa: una vista quasi altrettanto rara quanto una nave spaziale. L’arrivo della donna era molto emozionante. Ma anche se il tono era blando, non ammetteva repliche. La donna era a capo della squadra, e in caso di provocazione si sarebbe fatta aiutare dai suoi addetti. E comunque non c’era nulla da vedere. Gli stranieri, gli uomini di un altro mondo, rimanevano nascosti nella nave. Niente spettacolo.

E lo spettacolo era noioso anche per gli addetti della Difesa. A volte la caposquadra si augurava che qualcuno cercasse di superare il muro: un membro dell’equipaggio straniero nell’atto di abbandonare la nave, o un ragazzo di Abbenay sgattaiolato a dare un’occhiata da vicino al mercantile. Ma queste cose non succedevano mai. Non succedeva mai nulla. E quando invece successe qualcosa, la caposquadra non era preparata ad affrontarlo.

Il capitano della nave mercantile Pensiero le disse: — Che vuole, quella gente? Ce l’hanno con la mia nave?

La caposquadra osservò a sua volta, e scorse una vera folla accanto al passaggio: cento persone, forse più. Rimanevano laggiù ferme, senza sedersi e senza camminare, come la gente che rimaneva immobile davanti alle stazioni, durante la Carestia, ad attendere che passassero i convogli del cibo. La vista le fece venire i brividi.

— No. Quella gente, ah, protesta — disse nel suo iotico lento e stentato. — Protesta contro il, ah, lei lo sa. Passeggero?

— Ah, ce l’hanno col bastardo che dobbiamo prendere a bordo? E chi vogliono fermare? Lui… o noi?

La parola «bastardo», intraducibile nella lingua della caposquadra, non aveva significato per lei, salvo quello di un termine vago straniero per indicare i suoi compatrioti, ma il suono della parola non le era mai piaciuto, e neppure il tono del capitano, né, in fin dei conti, il capitano. — Potete provvedere a voi stessi? — gli chiese, tagliando corto.

— Al diavolo, certo. Lei cerchi solo di scaricare la merce alla svelta. E di accompagnare a bordo il bastardo passeggero. Non c’è banda di Odoniani che possa far paura a noi. — Toccando la cosa che portava alla cintura, un oggetto di metallo, simile a un pene deforme, fissò con superiorità la donna disarmata.

La donna rivolse all’oggetto fallico (che, come sapeva, era un’arma) un’occhiata gelida. — Il carico sarà completato per le ore quattordici — disse. — Tenete a bordo l’equipaggio al sicuro. Partenza alle quattordici e quaranta. Se vi occorrerà aiuto, registrerete un messaggio presso il Centro di Controllo. — E si affrettò ad allontanarsi, prima che il comandante potesse trovare altre occasioni per ostentare superiorità. L’ira la indusse a rivolgersi con veemenza ai suoi subordinati e alla folla. — Laggiù, lasciate libero il passaggio! — ordinò, quando fu vicino al muro. — Passano gli autocarri, si rischiano ferimenti. Toglietevi di mezzo!

Uomini e donne della folla si misero a muoverle obiezioni e cominciarono a discutere tra loro. Continuarono ad attraversare la strada; alcuni passarono all’interno del muro. E tuttavia lasciarono libero il passaggio, o quasi. Come la caposquadra non aveva esperienza nel dare ordini a una folla, così anche quegli uomini e quelle donne non avevano esperienza nel formare una folla. Membri di una comunità, non elementi di una collettività, non erano spinti da sentimenti di massa; c’erano altrettante emozioni diverse, tra loro, quante erano le persone. E, non aspettandosi che gli ordini potessero essere arbitrali, non avevano pratica nel disobbedirli. La loro inesperienza salvò la vita del passeggero.

Alcuni di loro erano venuti per uccidere un traditore. Altri erano venuti per impedirgli di lasciare il pianeta, o per lanciargli delle invettive, o semplicemente per vederlo; e tutti questi altri ostruirono il percorso breve e diretto degli assassini. Nessuno aveva armi da fuoco, ma un paio aveva un coltello. Un’aggressione, per loro, significava attacco diretto, corpo a corpo; volevano avere il traditore fra le mani. Erano convinti che sarebbe arrivato sotto sorveglianza, in un veicolo. Mentre cercavano di ispezionare un camion e discutevano con l’autista indignato, l’uomo che cercavano arrivò a piedi lungo la strada, da solo. Quando lo riconobbero, aveva già attraversato una buona metà del campo, seguito da cinque addetti della Difesa. Coloro che avevano desiderato di ucciderlo si consolarono con l’inseguimento, troppo tardi, e col lancio di pietre, non troppo tardi. Riuscirono soltanto ad affannare l’uomo da loro cercato, che giunse esausto alla nave, ma un ciottolo da un chilo colpì un addetto della Difesa sulla tempia, uccidendolo sul colpo.

I portelli della nave si chiusero. La squadra della Difesa tornò indietro, portando con sé il collega morto; non fecero alcun tentativo di fermare i primi della folla che correva di gran carriera verso la nave, anche se la caposquadra, pallida per l’ira e lo shock, li maledì mentre le passavano davanti, ed essi deviarono per evitarla. Una volta giunti alla nave, i capintesta della folla si dispersero e rimasero fermi, irresoluti. Il silenzio della nave, gli imprevisti movimenti dei grandi, scheletrici paranchi, lo strano aspetto calcinato del terreno, l’assenza di ogni cosa costruita su scala umana, li disorientarono. Un soffio di vapore o di gas di qualche ordigno connesso con la nave ne fece sobbalzare alcuni; alzarono gli occhi con inquietudine verso i razzi, spalancati sopra di loro come grandi tunnel oscuri. Una sirena emise un fischio di avvertimento, lontano, dall’altra parte del campo. Prima una persona, poi un’altra, cominciarono a ritornare al muro e al passaggio. Nessuno le fermò. In dieci minuti il campo rimase vuoto; la folla si disperse a gruppetti lungo la strada per Abbenay. E parve che non fosse successo nulla, dopotutto.

All’interno della nave Pensiero stavano succedendo molte cose. Poiché il centro di Controllo aveva anticipato l’orario della partenza, tutte le routine dovevano essere eseguite di corsa. Il capitano aveva ordinato di legare il prigioniero con le cinture di sicurezza e di chiuderlo nel quadrato dell’equipaggio, insieme con il medico, per toglierseli dai piedi tutt’e due. C’era un teleschermo, nel quadrato, e se desideravano guardare il decollo, potevano guardarlo da lì.

Il passeggero osservava lo schermo. Vedeva il campo, e il muro che lo circondava, e lontano, al di là del muro, le pendici dei Ne Theras, punteggiati di holum cespugliosi e di rade, argentee spine di luna.

Tutto questo, d’improvviso, si precipitò verso il basso con vertiginosa rapidità. Il passeggero si sentì premere la testa contro l’appoggio imbottito. Era come l’esame del dentista: la testa tirata all’indietro, la mascella tenuta aperta con la forza. Non riusciva a prendere il fiato, si sentiva male, si sentiva sciogliere le budella per la paura. L’intero suo corpo gridava alle enormi forze che si erano impadronite di lui: Non ora, non ancora, aspettate!

Gli occhi lo salvarono. Ciò che continuavano a vedere e a riportargli con insistenza lo fece uscire dall’autismo del terrore. Ora sullo schermo compariva una strana vista, un grande, pallido pianoro di pietra. Era il deserto, visto dalle montagne che dominavano la Valle Grande. Come era tornato alla Valle Grande? Cercò di dire a se stesso che era su un velivolo. No, su una nave spaziale. Il bordo del pianoro brillava con la lucentezza della luce sull’acqua, della luce che giunge dall’altra sponda di un mare lontano. Non c’era acqua in quei deserti. Che cosa stava osservando, allora? Il pianoro di pietra non era più un piano, ma una cavità, una grossa tazza piena di luce. Mentre la guardava meravigliato, divenne meno profonda, e versò fuori del bordo la sua luce. D’improvviso una linea l’attraversò: una linea astratta, geometrica, la perfetta sezione di un cerchio. Al di là di quell’arco c’era l’oscurità. E l’oscurità rovesciò l’intera immagine, facendola diventare negativa. La parte reale, la parte di pietra, non era più concava e piena di luce, bensì convessa, e rifletteva, rimandava la luce. Non era né un piano né una tazza, ma una sfera, una palla di pietra bianca che cadeva nell’oscurità, che s’allontanava. Era il suo mondo.

— Non capisco — disse a voce alta.

Qualcuno gli rispose. Per qualche tempo non riuscì a comprendere che la persona ferma accanto alla sua poltroncina si rivolgeva a lui, gli rispondeva: in quel momento non sapeva più che cosa fosse una risposta. Era chiaramente consapevole di una cosa soltanto: il suo totale isolamento. Il mondo gli era caduto via da sotto i piedi, ed egli era rimasto solo.

Aveva sempre temuto che succedesse una cosa simile, più di quanto non avesse temuto la morte. Morire è perdere se stessi e riunirsi al resto. Egli aveva mantenuto se stesso, e aveva perso il resto.

Alla fine riuscì ad alzare lo sguardo sull’uomo che gli stava accanto. Era uno straniero, naturalmente. D’ora in poi ci sarebbero stati unicamente stranieri. L’uomo si rivolgeva a lui in lingua straniera: iotico. Le parole avevano senso. Tutte le piccole cose avevano un senso; soltanto l’intero, la totalità, non l’aveva. L’uomo diceva qualcosa a proposito delle cinghie che lo tenevano legato alla poltroncina. Toccò qualcosa sotto lo schienale, che si raddrizzò e per poco non lo fece cadere a terra, nella sua condizione di stordimento e di mancanza di equilibrio. L’uomo cominciò a chiedere se qualcuno s’era fatto male. Di chi parlava? «È sicuro che non si è fatto male?» La forma educata con cui ci si rivolgeva a un’altra persona in iotico era la terza persona. L’uomo parlava di lui. Ed egli non capiva perché dovesse essere ferito; l’uomo continuava a parlare di gente che tirava le pietre. Ma la pietra non giungerà mai a colpire, pensò. Posò lo sguardo sullo schermo, cercando la pietra bianca che cadeva nell’oscurità, ma lo schermo era spento.

— Mi sento bene — disse infine, scegliendo la frase a caso.

Non parve avere il potere di tranquillizzare l’uomo. — Per favore, venga con me. Sono un dottore.

— Mi sento bene.

— Per favore, venga con me, dottor Shevek!

— Lei è un dottore — rispose Shevek, dopo una breve pausa. — Io no. Io mi chiamo Shevek.

Il dottore, un uomo di bassa statura, dalla pelle chiara, calvo, gli rivolse un sorriso ansioso, stentato. — Lei dovrebbe trovarsi nella sua cabina, signore… pericolo d’infezione… lei non avrebbe dovuto incontrare altri che me, ho passato due settimane in zona di disinfezione per niente, accidenti a quel capitano! Per favore, venga con me, signore. Mi riterranno responsabile se…

Shevek si accorse che quel piccolo uomo era scosso. Non provava nessun rimorso, nessun dispiacere per lui; ma anche nella condizione in cui era in quel momento, nella solitudine assoluta, la legge fondamentale era valida: l’unica legge che avesse sempre rispettato. — Va bene — disse, e si alzò in piedi.

Si sentiva ancora stordito, e la spalla destra gli doleva. Sapeva che la nave si stava muovendo, ma non avvertiva nessuna sensazione di moto; c’era soltanto il silenzio, un silenzio spaventoso, profondo, dall’altra parte delle paratie. Il dottore lo condusse per silenziosi corridoi di metallo, fino a una stanza.

Era una stanza molto piccola, con pareti spoglie, segnate da linee. Shevek provò un senso di repulsione, ricordando un luogo che non desiderava ricordare. Si arrestò sulla soglia. Ma il dottore insistette e pregò, ed egli entrò.

Si sedette sul letto a forma di scaffale, e, con la testa ancora leggera e sonnolenta, osservò, privo di curiosità, il dottore. Sentiva che avrebbe dovuto provare curiosità: quell’uomo era il primo urrasiano da lui visto. Ma era troppo stanco. Avrebbe preferito stendersi sul letto e mettersi immediatamente a dormire.

Era rimasto sveglio tutta la notte precedente, occupato a imparare le proprie carte. Tre giorni prima, aveva provveduto a mandare a Pace e Abbondanza Takver e i bambini, e da quel momento in poi era stato occupatissimo, a correre alla torre radiofonica per scambiare messaggi dell’ultimo istante con gente di Urras, a discutere progetti e occasioni con Bedap e gli altri. Per tutti quei giorni precipitosi, da quando era partita Takver, non gli era parso di essere lui a fare le cose, ma che fossero le cose stesse a farlo agire, di loro volontà. Si era trovato nelle mani di altre persone. La sua volontà non aveva agito. Non c’era stato bisogno che agisse. Ma era stata la sua volontà a dare l’avvio a tutto, a creare il momento ch’egli viveva, le pareti che lo circondavano. Quanto tempo prima? Anni. Cinque anni prima, nel silenzio della notte, a Chakar, sulle montagne, quando aveva detto a Takver: «Andrò ad Abbenay ad abbattere i muri.» E già prima di allora; molto prima, nella Polvere, negli anni della carestia e della disperazione, quando aveva promesso a se stesso che non avrebbe mai agito se non per propria libera elezione. E seguendo quella promessa era giunto lì: a quel momento senza un tempo, a quel luogo senza una terra, a quella piccola stanza, quella prigione.

Il dottore aveva esaminato la sua spalla contusa (la contusione aveva sorpreso Shevek; la tensione e la fretta non gli avevano fatto comprendere bene ciò che era successo al campo di atterraggio, e non si era accorto della pietra che lo aveva colpito di striscio). Ora il dottore si voltò verso di lui, con in mano una siringa ipodermica.

— Non voglio — disse Shevek. Il suo iotico parlato era lento, e, come aveva notato nelle comunicazioni radiofoniche, pronunciato male, ma la grammatica era abbastanza giusta. Aveva più difficoltà a capire che a parlare.

— È vaccino per il morbillo — disse il dottore, professionalmente sordo alla richiesta.

— No — disse Shevek.

Il dottore si morsicò il labbro per un istante e poi disse: — Signore, sa che cos’è il morbillo?

— No.

— Una malattia. Contagiosa. Spesso assai grave negli adulti. Su Anarres non la conoscete; le misure profilattiche adottate nel corso del primo insediamento del pianeta sono riuscite a tenerla lontano. Su Urras è molto diffusa. Potrebbe ucciderla. Come, del resto, un’altra decina di infezioni da virus altrettanto comuni. Lei non ha acquisito la resistenza. Che mano usa, signore, la destra?

Shevek, automaticamente, scosse la testa. Con la grazia di un prestigiatore, il dottore gli infilò l’ago nel braccio destro. Shevek sopportò in silenzio questa e altre iniezioni. Non aveva né il diritto di diffidare né quello di protestare. Si era consegnato a quelle persone; aveva rinunciato al suo diritto di decisione, nato insieme con lui. Quel diritto se n’era andato, era caduto insieme con il suo mondo, con il mondo della Promessa, la pietra spoglia.

Il dottore riprese a parlare, ma egli non l’ascoltò.

Per ore o giorni esistette in un vuoto: un vuoto miserabile e secco, privo di passato e di futuro. Le pareti s’innalzavano opprimenti intorno a lui. Al di là di esse c’era il silenzio. Braccia e natiche gli dolevano a causa delle iniezioni; la febbre non si alzò mai fino al delirio, ma lo mantenne in un limbo tra la ragione e l’assenza di ragione, in una terra di nessuno. Il tempo non passava. Il tempo non esisteva. Egli era il tempo: egli soltanto. Era il fiume, la freccia, la pietra. Ma non si muoveva. La pietra rimaneva immobile nel mezzo della traiettoria. Non c’erano né giorno né notte. A volte il dottore spegneva la luce, o l’accendeva. C’era un orologio, incassato nella parete accanto al letto; la lancetta passava dall’uno all’altro dei venti numeri del quadrante, senza significato.

Si destò dopo un sonno lungo e profondo, e poiché era rivolto in direzione dell’orologio, lo osservò in modo ancora sonnolento. La lancetta era poco più avanti del numero 15, la qual cosa, se anche quel quadrante iniziava dalla mezzanotte, come gli orologi anarresiani da 24 ore, significava che era pomeriggio inoltrato. Ma come poteva esistere il pomeriggio nello spazio tra due mondi? Be’, la nave doveva seguire un proprio fuso orario, in fin dei conti. Il fatto di essere riuscito a spiegarsi tutto questo lo rincuorò immensamente. Si rizzò a sedere e non provò stordimento. Scese dal letto e cercò di stare in piedi: l’equilibrio era soddisfacente, anche se gli pareva che le piante dei piedi non fossero perfettamente a contatto con il pavimento. Il campo di gravità della nave, evidentemente, doveva essere piuttosto debole. Quella sensazione non gli piacque: le cose che più gli occorrevano erano la stabilità, la solidità, la realtà ferma. Per poterle trovare, cominciò metodicamente a ispezionare la piccola stanza.

Le pareti spoglie erano piene di sorprese, pronte a rivelarsi a un tocco su un piccolo pannello: lavandino, cesso, specchio, tavolino, sedia, armadio, ripiani. C’erano vari apparecchi elettrici assolutamente misteriosi, relativi al lavandino, e il rubinetto dell’acqua non si chiudeva automaticamente una volta terminata la pressione, ma continuava a versare fino a quando non lo si chiudeva: un’indicazione, pensò Shevek, o di una grande fiducia nella natura umana, o di una grande disponibilità di acqua calda. Pensando che la seconda ipotesi fosse quella giusta, si lavò completamente, e, non scorgendo alcuna salvietta, si asciugò per mezzo di uno degli strumenti misteriosi, che emetteva un soffio piacevole e solleticante di aria calda. Poiché non gli riuscì di trovare i suoi abiti, indossò nuovamente quelli che si era trovato addosso al risveglio: calzoni larghi e annodati in vita, tunica priva di forma, entrambi di colore giallo vivo con piccole macchie blu. Si osservò allo specchio. Gli parve che l’effetto complessivo fosse assai sgraziato. Così, dunque, si vestivano su Urras? Cercò invano un pettine, rimediò con le dita, e, ripulito, fece per lasciare la stanza.

Non poté lasciarla. La porta era chiusa a chiave.

L’incredulità iniziale di Shevek si trasformò in rabbia: una rabbia, un cieco desiderio di violenza, quale egli non aveva mai sperimentato in precedenza, in tutto il corso della sua vita. Cercò di spezzare la robusta maniglia della porta, picchiò le mani contro il metallo liscio, poi si voltò e colpì con il pugno il pulsante di chiamata, da usare, gli aveva detto il dottore, in caso di necessità. Nulla accadde. C’erano altri piccoli pulsanti numerati, di colori differenti, sul pannello dell’intercom; picchiò le mani su tutti, in una sola volta. L’altoparlante della parete cominciò a brontolare: «Che diavolo sì vengo metta a posto dalla ventidue…».

Shevek superò tutte quelle voci: — Aprite la porta!

La porta si aprì, e il dottore fece capolino. Alla vista della sua testa calva, della sua faccia giallognola e preoccupata, la collera di Shevek si raffreddò e andò a ritirarsi in una sua tenebra interiore. Disse: — La porta era chiusa a chiave.

— Mi dispiace, dottor Shevek… una precauzione… contagio… per chiudere fuori gli altri…

— Chiudere fuori, chiudere dentro: il medesimo atto — disse Shevek, abbassando sul dottore il suo sguardo chiaro, lontano.

— Le precauzioni…

— Precauzioni? Devo star chiuso in una scatola?

— Il quadrato ufficiali — si affrettò a proporre il medico, come offerta di pace. — Ha fame, signore? Forse desidera vestirsi prima che andiamo nel quadrato.

Shevek osservò i vestiti del dottore; calzoni azzurri aderenti, infilati in stivali che parevano levigati e sottili come il tessuto; tunica color viola, aperta sul davanti e allacciata con alamari d’argento; al di sotto di questa, visibile soltanto al collo e ai polsi, una camicia di maglia d’i un bianco abbagliante.

— Non sono vestito? — chiese Shevek, alla fine.

— Oh, il pigiama può andare benissimo, dopotutto. Non ci sono formalità su una nave mercantile!

— Pigiama?

— Quello che lei indossa. Indumenti per dormire.

— Indumenti da indossare mentre si dorme?

— Sì.

Shevek batté le palpebre. Non fece commenti. Domandò: — Dove sono gli abiti che indossavo?

— I suoi abiti? Li ho fatti pulire… Sterilizzazione. Spero che la cosa non le dia fastidio, signore… — Andò a ispezionare un portellino che Shevek non aveva notato, e ne trasse un pacchetto avvolto in un foglio di carta di color verde chiaro. Svolgendo la carta, ne trasse il vecchio abito di Shevek, che pareva molto pulito e forse leggermente ridotto di taglia, accartocciò il foglio di carta verde, azionò un altro pannello, gettò la carta nel contenitore che era apparso, e rivolse a Shevek un sorriso incerto. — Ecco fatto, dottor Shevek.

— Che cosa succede alla carta?

— Carta?

— La carta verde.

— Oh, l’ho messa nella spazzatura.

— Spazzatura?

— Sì, come l’immondizia. La bruciano.

— Voi bruciate la carta?

— Oh, forse si limitano a gettarla nel vuoto. Non so. Non ho studiato medicina dello spazio, dottor Shevek. Mi è stato conferito l’onore di attendere alle sue necessità, signore, a causa della mia esperienza con altri visitatori extramondani: gli ambasciatori di Terra e di Hain. Io mi occupo delle procedure di decontaminazione e di acclimatazione per tutti gli stranieri che giungono in A-Io. Non che lei, beninteso, sia uno straniero nello stesso senso, naturalmente. — Rivolse un’occhiata timida a Shevek, che non riuscì ad afferrare tutte le parole, ma che riconobbe la natura ansiosa, diffidente, bene intenzionata sotto le parole.

— No — lo rassicurò Shevek, — forse abbiamo una bisavola in comune, duecento anni fa, su Urras. — Cominciò a rimettersi i suoi vecchi vestiti, e mentre infilava la testa nella camicia vide che il dottore cacciava gli «indumenti per dormire» blu e gialli nel contenitore della «spazzatura». Shevek s’interruppe, con ancora il colletto all’altezza del naso. Infilò completamente la testa, si inginocchiò e aprì il contenitore. Era vuoto.

— Gli indumenti vengono bruciati?

— Oh, si trattava di un pigiama di poco conto, di quelli per servizio. Metti e butta via, come si suol dire; costa meno che farlo pulire.

— Costa meno — ripeté Shevek, in tono meditativo. Pronunciò quelle parole nel modo in cui un paleontologo poteva osservare un fossile: il fossile che rivela la datazione di un intero strato geologico.

— Temo che il suo bagaglio sia andato perduto in quell’ultimo tratto di corsa, per raggiungere la nave. Spero che non vi fosse qualcosa di realmente importante.

— Non ho portato nulla — disse Shevek. Anche se il suo abito era stato candeggiato fino quasi a diventare bianco e si era ristretto un poco, gli andava ancora bene, e il contatto ruvido e familiare della tela di holum era assai piacevole. Tornò a sentirsi se stesso. Si sedette sul letto, davanti al dottore, e disse: — Vede, so che voi non vi limitate a prendere le cose, come noi. Nel vostro mondo, su Urras, una persona deve comprare le cose. Io sono venuto nel vostro mondo, non ho denaro, non posso comprare, e dunque dovrei portare con me ciò che mi occorrerà. Ma quanto posso portare? Vestiti, sì, potrei portare due vestiti. Ma il cibo? Come posso portare una quantità sufficiente di cibo? Non ne posso portare, non ne posso comprare. Se volete che viva, dovete darmelo. Io sono anarresiano, e costringo gli urrasiani a comportarsi come gli anarresiani; dare, invece di vendere. Se volete. E, naturalmente, non è necessario che mi teniate in vita! Io sono il Mendicante, capisce?

— Oh, ma niente affatto, signore, no, no. Lei è un ospite che ci fa un altissimo onore. La prego, non giudichi tutti noi dall’equipaggio di questa nave: sono persone molto ignoranti, molto limitate… non ha idea dell’accoglienza che riceverà al suo arrivo su Urras. Dopotutto lei è uno scienziato di celebrità mondiale… anzi, galattica! Ed è il nostro primo visitatore di Anarres! Le garantisco, le cose saranno molto diverse quando arriveremo al Campo di Pei.

— Non dubito che saranno diverse — rispose Shevek.


La Rotta Lunare richiedeva normalmente quattro giorni e mezzo all’andata e altrettanti al ritorno, ma questa volta vennero aggiunti al volo di ritorno cinque giorni di acclimatazione a vantaggio del passeggero. Shevek e il dottor Kimoe li trascorsero in vaccinazioni e conversazioni. Il capitano del Pensiero li passò in orbita attorno a Urras, bestemmiando. Quando doveva parlare con Shevek, lo faceva in modo imbarazzato e irrispettoso. Il dottore, che era sempre pronto a spiegare qualsiasi cosa, aveva già pronta una propria analisi: — È abituato a considerare tutti gli stranieri come inferiori, come persone non pienamente umane.

— La creazione di pseudo specie, così la definiva Odo. Già. Pensavo che forse, su Urras, la gente avesse cessato di pensare a quel modo, dato che avete molte lingue e molte nazioni, e perfino visitatori provenienti da altri sistemi solari.

— Be’, assai pochi di questi, dato che il viaggio interstellare è così costoso e lento. Ma forse non sarà sempre così — aggiunse il dottor Kimoe, con l’intenzione, evidentemente, di fare un complimento a Shevek o di farlo parlare. Shevek ignorò tale intenzione.

— Il Secondo Ufficiale - disse, — pare avere timore di me.

— Oh, per quello là si tratta di fanatismo religioso. È un epifanista di stretta osservanza. Recita i Primi ogni sera. Una mente completamente priva di elasticità.

— Dunque egli mi vede… in che modo?

— Come un pericolosissimo ateo.

— Ateo! E perché mai?

— Be’, perché lei è un Odoniano di Anarres… su Anarres non ci sono religioni.

— Non ci sono religioni? E che siamo, su Anarres, pietre?

— Voglio dire religioni regolari… chiese, sette… — Kimoe era facile a confondersi. Aveva la sicurezza sbrigativa tipica dei medici, ma Shevek gliela sconvolgeva continuamente. Ogni sua spiegazione terminava, dopo due o tre domande di Shevek, in confusioni. Ciascuna risposta dava per assodate talune relazioni che l’altro, invece, non riusciva neppure a scorgere. Ad esempio, la curiosa faccenda della superiorità e dell’inferiorità. Shevek sapeva che il concetto di superiorità, di altezza relativa, era importante per gli urrasiani; essi spesso usavano la parola «superiore» come sinonimo di «migliore» nei loro scritti, in punti in cui un anarresiano avrebbe detto «più centrale». Ma che aveva a vedere, il fatto di essere più alto, con il fatto di essere straniero? Era un enigma tra centinaia d’altri.

— Comprendo — disse ora, mentre un altro enigma si chiariva. — Voi non ammettete religioni al di fuori delle chiese, così come non ammettete moralità al di fuori delle leggi. Lei sa, non avevo capito neppure quello, nonostante tutte le mie letture di libri urrasiani.

— Be’, oggigiorno qualsiasi persona illuminata ammette…

— Il vocabolario rende tutto difficile — disse Shevek, portando avanti la propria scoperta. — In pravico, la parola religione è scarsa. No, come dite voi? … rara. Non usata frequentemente. Naturalmente si tratta di una delle Categorie: il Quarto Modello. Poche persone imparano a praticare tutti i Modelli. Ma i Modelli sono costituiti di naturali capacità della mente, e potreste voi credere seriamente che noi non abbiamo capacità per la religione? Che noi siamo capaci di conoscere la fisica ma siamo tagliati fuori dalla relazione più profonda che l’uomo abbia col cosmo?

— Oh, no, niente affatto…

— Allora, sì, saremmo davvero una pseudo specie!

— Una persona istruita riuscirebbe certamente a comprenderlo, ma questi ufficiali sono ignoranti.

— Soltanto ai fanatici, allora, si permette di uscire nel cosmo?

Tutte le loro conversazioni erano simili a questa: spossanti per il dottore, e poco soddisfacenti per Shevek, ma profondamente interessanti per entrambi. Erano l’unico modo per Shevek di esplorare il nuovo mondo che lo attendeva. La nave stessa, e la mente di Kimoe, erano il suo microcosmo. Non c’erano libri a bordo del Pensiero, gli ufficiali evitavano Shevek e gli uomini dell’equipaggio venivano tenuti rigorosamente lontani da lui. E per ciò che riguardava la mente del dottore, per quanto fosse intelligente e certamente bene intenzionata, era un guazzabuglio di artefatti intellettuali ancor più sconcertanti di tutti quegli aggeggi, accessori e servizi vari di cui l’astronave era piena. Questi ultimi parevano assai divertenti a Shevek; ogni cosa era data in tale abbondanza, era così elegante ed estrosa; ma Shevek non trovò altrettanto agevole l’arredamento interno della mente di Kimoe. Le idee di Kimoe non parevano mai capaci di procedere lungo un cammino rettilineo; ogni volta dovevano aggirare questo, evitare quello, e poi finivano a sbattere in pieno contro qualche muro. C’erano delle muraglie attorno a ciascuno dei suoi pensieri, ed egli pareva assolutamente inconsapevole della loro esistenza, anche se eternamente continuava a nascondersi dietro di esse. Solo una volta Shevek ne vide cadere una, in tutte le loro giornate di conversazione tra i mondi.

Gli aveva chiesto perché non c’erano donne sulla nave, e Kimoe aveva risposto che il funzionamento di una nave spaziale non era lavoro da donne. I corsi di storia seguiti, la conoscenza degli scritti di Odo, fornivano a Shevek un contesto entro cui collocare questa risposta tautologica, ed egli non aggiunse altro. Ma il dottore a sua volta gli rivolse una domanda a proposito di Anarres: — È vero, dottor Shevek, che le donne, nella vostra società, sono trattate esattamente come gli uomini?

— Sarebbe uno spreco di ottimo materiale — disse Shevek, ridendo; poi rise ancora quando si rese conto di quanto fossero ridicole le piene implicazioni di quell’idea.

Il dottore esitò, evidentemente occupato ad aggirare nel modo migliore uno degli ostacoli interni della sua mente, poi parve confuso e disse: — Oh, no, non intendevo riferirmi al lato sessuale… è chiaro che lei… che le donne… volevo dire, per quanto riguarda il loro stato sociale.

Stato ha ora il significato di classe?

Kimoe cercò di spiegare lo stato sociale, non ci riuscì e infine ritornò all’argomento di partenza. — Non c’è veramente distinzione tra il lavoro degli uomini e quello delle donne?

— Be’, no, mi parrebbe una base un po’ troppo meccanica per la divisione del lavoro, non dice? Una persona si sceglie il lavoro in base agli interessi, alla disposizione, alla robustezza… che c’entra il sesso con questo?

— Gli uomini sono fisicamente più forti — affermò il dottore, con sicurezza professionale.

— Sì, varie volte, e anche più grossi, ma che importanza ha, se si hanno macchine? E anche se non si hanno le macchine, se occorre scavare col badile o portare sacchi sulle spalle, gli uomini forse lavorano più in fretta… almeno, quelli più grossi… ma le donne lavorano più a lungo. Spesso mi sarebbe piaciuto avere la resistenza di una donna.

Kimoe lo fissò ad occhi sbarrati. Lo stupore gli aveva fatto perdere le buone maniere. — Ma la perdita di… di ogni cosa femminile… della delicatezza… e del rispetto di se stessi del maschio… Lei non pretenderà, certo, nel suo lavoro, che le donne siano uguali a lei? In fisica, in matematica, nel ragionamento? Lei non vorrà pretendere di abbassarsi continuamente al loro livello?

Shevek appoggiò la schiena alla poltrona imbottita, comoda, e si guardò intorno, nel quadrato ufficiali. Sullo schermo visivo, la curva brillante di Urras era sospesa nel vuoto, immobile contro il nero dello spazio, simile a una opale verdazzurra. Quella piacevole vista, e il quadrato, erano divenuti familiari a Shevek in quegli ultimi giorni, ma ora i colori luminosi, le poltrone curvilinee, l’illuminamento indiretto, i tavolini da gioco e gli schermi televisivi e i tappeti morbidi, ogni cosa gli pareva estranea come la prima volta in cui l’aveva vista.

— Non penso di pretendere molto, Kimoe — disse.

— Naturalmente, anch’io ho conosciuto donne molto intelligenti, donne che potevano pensare proprio come un uomo — si affrettò a dire il dottore, accorgendosi di avere quasi urlato… di avere, pensò Shevek, picchiato i pugni contro la porta chiusa a chiave e di avere urlato.

Shevek cambiò argomento, ma continuò a pensare alla cosa. La faccenda della superiorità e dell’inferiorità doveva essere una questione centrale nella vita sociale degli urrasiani. Se per rispettare se stesso Kimoe doveva considerare inferiore a sé metà della razza, come facevano le donne a rispettare se stesse? Consideravano gli uomini inferiori? E come si ripercuoteva tutto questo nella loro vita sessuale? Egli sapeva, dagli scritti di Odo, che duecento anni prima le principali istituzioni sessuali urrasiane erano state il «matrimonio», un’unione autorizzata e fatta rispettare mediante sanzioni legali ed economiche, e la «prostituzione», che pareva semplicemente un termine più vasto, copulazione secondo le modalità mercantili. Odo le aveva condannate entrambe, e tuttavia Odo era stata «sposata». Comunque, le istituzioni potevano avere subìto dei notevoli cambiamenti in duecento anni. Se egli contava di andare a vivere su Urras in mezzo agli urrasiani, avrebbe fatto meglio a informarsi sull’argomento.

Era strano che anche l’attività sessuale, che gli era stata fonte di tanto sollievo, delizia e gioia per così tanti anni, potesse divenire da un giorno all’altro un territorio sconosciuto, in cui si doveva muovere con attenzione, conscio della propria ignoranza; eppure era così. Gliene avevano dato l’avviso non soltanto la strana esplosione di collera e dispetto da parte di Kimoe, ma anche una vaga impressione avuta qualche tempo prima, e che ora veniva messa a fuoco dall’episodio. Appena giunto a bordo della nave, nelle lunghe ore di febbre e di disperazione, Shevek si era sentito distrarre, a volte in modo piacevole, a volte in modo irritante, da una sensazione smaccatamente semplice: la morbidezza del letto. Sebbene non fosse altro che una cuccetta, il materasso cedeva sotto il suo peso con una morbidezza voluttuosa. Si arrendeva a lui, con tanta insistenza che egli ne avvertiva sempre la presenza, quando era sul punto di addormentarsi. Tanto il piacere quanto l’irritazione prodotti in lui erano di natura decisamente erotica. E poi c’era lo strumento salvietta che soffiava aria calda da un orifizio: aveva lo stesso, identico effetto. Un solleticamento. E la linea dei mobili del quadrato ufficiali, le curve plastiche e lisce fatte assumere con la forza a legni e metalli robusti, la levigatezza e la delicatezza delle superfici dei materiali: non erano anche queste debolmente, insistentemente erotiche? Shevek si conosceva abbastanza bene da sapere che pochi giorni senza Takver, anche sotto quella tensione, bastavano ad accumulare in lui una carica tale da spingerlo a vedere una donna in ogni tavolino. A meno che la donna non vi fosse veramente dentro.

Che i mobilieri urrasiani fossero tutti celibi?

Rinunciò a queste speculazioni: l’avrebbe scoperto abbastanza presto, su Urras.

Poco prima che si legassero per la discesa, il dottore venne nella sua cabina per controllare il progresso delle varie immunizzazioni, l’ultima delle quali, un’inoculazione contro la peste, gli aveva fatto venire nausee e capogiri. Kimoe gli diede una nuova compressa. — Questa — gli disse, — la metterà in forma per l’atterraggio. — Stoicamente, Shevek la trangugiò. Il dottore cincischiò con la sua attrezzatura medica, poi d’improvviso attaccò a parlare rapidamente: — Dottor Shevek, non penso che potrò ancora attendere a lei, in futuro, anche se forse lo potrò, ma se non potrò desideravo dirle che è, che io, che è stato un grande privilegio per me. Non perché… ma perché… sono giunto a rispettare… ad apprezzare… che semplicemente come essere umano, la sua gentilezza, vera gentilezza…

Poiché il mal di capo gli impediva di trovare una risposta più adatta, Shevek tese la mano e strinse quella di Kimoe, dicendo: — Ma allora incontriamoci nuovamente, fratello! — Kimoe gli restituì una stretta di mano nervosa, alla maniera urrasiana, e uscì di fretta. Quando se ne fu andato, Shevek si accorse di avergli parlato in pravico, chiamandolo ammar, fratello, in una lingua che l’altro non poteva comprendere.

L’altoparlante della parete lanciava ordini. Legato alla cuccetta, Shevek li ascoltò con mente annebbiata e distaccata. Le sensazioni della discesa ispessirono la nebbia; fu conscio di poche cose, salvo della fonda speranza di non vomitare. Non si accorse che la nave era atterrata fino a quando Kimoe non giunse di corsa in cabina e lo trascinò fuori, nel quadrato ufficiali. Lo schermo visivo che per tanto tempo aveva mostrato l’immagine luminosa e velata di cordoni di nubi di Urras, era spento. La stanza era piena di gente. Da dove era venuta? Fu sorpreso e compiaciuto della propria capacità di stare in piedi, camminare, stringere mani. Si concentrò su queste azioni, e lasciò che il significato gli sfuggisse. Voci, sorrisi, mani, parole, nomi. Il suo nome, che continuava a essere ripetuto: dottor Shevek, dottor Shevek… Ora egli e tutti gli sconosciuti intorno a lui scendevano per una rampa tappezzata, le voci erano forti, le parole echeggiavano sulle pareti. Il rumore delle voci si assottigliò. Una strana aria gli sfiorò il viso.

Alzò gli occhi verso il cielo, e mentre muoveva il piede dall’ultimo scalino della rampa al terreno, inciampò e per poco non cadde. Pensò alla morte, in quell’intervallo di vuoto fra l’inizio di un passo e il suo termine, e alla fine del passo era su una nuova terra.

Una sera ampia e grigia lo circondava. Luci azzurre, velate dalla foschia, erano accese assai lontano, all’altro estremo di un campo nebbioso. L’aria che gli sfiorava il viso e le mani, che gli entrava nelle narici, nella gola e nei polmoni, era fredda, umida, carica di molti profumi indefinibili, dolce. Non la sentiva affatto straniera. Era l’aria del mondo da cui era giunta la sua razza, era l’aria di casa.

Qualcuno l’aveva preso per il braccio quando era incespicato. Lampi di luce lo colpirono. I fotografi stavano filmando la scena per i notiziari: «Il primo uomo dalla Luna»; una figura alta e fragile in mezzo a una folla di dignitari e professori e agenti di pubblica sicurezza, con la testa bella e irsuta molto eretta (in modo che i fotografi potessero coglierne ogni connotazione) come se cercasse di guardare al di sopra dei proiettori, nel cielo: il grande cielo di nebbia che nascondeva le stelle, la Luna, tutti gli altri mondi. I giornalisti cercarono di irrompere al di là degli anelli di poliziotti: «Volete farci una comunicazione, dottor Shevek, in questo momento storico?» Furono cacciati indietro, immediatamente. Gli uomini intorno a lui lo spinsero avanti. Venne portato all’automobile che lo attendeva, eminentemente fotografabile fino all’ultimo istante grazie alla statura, ai lunghi capelli e la strana espressione di dolore e di rimembranza che aveva sul volto.

Le torri della città s’innalzavano nella nebbia, simili a grandi e strette scale a pioli nella luce confusa. In alto passavano i treni, nastri luminosi e urlanti. Poderose muraglie di pietra e di vetro si affacciavano sulle strade, al di sopra della corsa di auto e di tram. Pietra, acciaio, vetro, luce elettrica. E nessun volto.

— Qui siamo a Nio Esseia, dottor Shevek. Ma è stato deciso che fosse meglio tenerla lontano dalla folla cittadina, per il momento. Ora ci rechiamo direttamente all’Università.

C’erano cinque uomini con lui nell’interno buio, morbidamente imbottito dell’auto. Gli indicarono dei punti importanti, ma nella nebbia non poté capire quale di quei grandi, vaghi, fuggevoli edifici fosse l’Alta Corte, quale il Museo Nazionale, il Direttorato e il Senato. Attraversarono un fiume, o un estuario; i milioni di luci di Nio Esseia, diffuse dalla nebbia, tremolarono sull’acqua scura, dietro di loro. La strada si fece più buia, la nebbia si fece più spessa, l’autista rallentò la velocità del veicolo. I fari illuminavano la nebbia come un muro che continuava a ritirarsi davanti a loro. Shevek si sporse leggermente in avanti, per osservare. I suoi occhi non erano a fuoco, e neppure la sua mente, ma il suo viso aveva un aspetto grave e distaccato, e gli altri parlavano piano, rispettosi del suo silenzio.

Che cos’era quell’oscurità più profonda che scorreva interminabilmente a fianco della strada? Alberi? Possibile che avessero viaggiato, fin da quando avevano lasciato la città, in mezzo ad alberi? Gli venne in mente la parola iotica: «foresta» Non si sarebbe aperto improvvisamente davanti a loro il deserto. Gli alberi continuavano senza fine, sul pendio davanti a loro e su quello che lo seguiva, e poi sul successivo, ritti nel dolce freddo della nebbia; senza fine, una foresta che copriva tutto il mondo, un rapporto reciproco di vite in lotta tra sé, un oscuro movimento di foglie nella notte. Poi, mentre Shevek ancora se ne meravigliava, mentre l’auto, uscendo dalla nebbiosa valle del fiume, entrava in un’atmosfera più chiara, apparve a fissarlo, dall’oscurità sotto le fronde affacciate sulla strada, per un solo istante, una faccia.

Non assomigliava ad alcuna faccia umana. Era lunga come il suo braccio, e bianca in modo spettrale. Il respiro usciva sotto forma di vapore da quelle che dovevano essere le nari, e terribile, inconfondibile, c’era un occhio. Un occhio grande, scuro, melanconico, forse cinico? che sparì nel lampo dei fari del veicolo.

— Che cos’era?

— Un asino, no?

— Un animale?

— Sì, un animale. Santo Dio, è vero! Non avete animali di grossa taglia su Anarres, no?

— Gli asini sono un po’ come i cavalli — spiegò un altro degli uomini, e un terzo, con voce ferma, da persona anziana: — Quello era davvero un cavallo. Non ci sono asini di quella taglia. — Avrebbero voluto parlare con lui, ma Shevek aveva nuovamente smesso di ascoltare. Pensava a Takver. Chiese ancora cosa avrebbe potuto dire a Takver quello sguardo profondo, asciutto, scuro, uscito dall’oscurità. Takver aveva sempre saputo che tutte le vite sono una comunità, gioito della propria consanguineità con i pesci delle vasche del suo laboratorio, cercato di conoscere, di sperimentare, le esistenze che giacciono al di là del confine umano. Takver avrebbe saputo come restituire lo sguardo a quell’occhio spuntato dall’oscurità sotto gli alberi.

— Ecco Ieu Eun, là davanti. C’è una vera folla in attesa di conoscerla, dottor Shevek; il Presidente, molti Direttori, e il Cancelliere, naturalmente, e ogni tipo di pezzi grossi. Ma se lei è stanco, cercheremo di ridurre i convenevoli al minimo possibile.

I convenevoli durarono parecchie ore. Egli, in seguito, non riuscì mai a ricordarli con chiarezza. Venne spinto fuori dalla piccola scatola nera della vettura, fino a una grossa scatola illuminata piena di gente: centinaia di persone, sotto un soffitto dorato da cui pendevano lampade di cristallo. Venne presentato a tutti. Ciascuno di loro era di statura inferiore alla sua, e calvo. Le poche donne presenti erano glabre perfino sulla testa; poi comprese che dovevano radersi tutto il corpo: radersi la peluria sottile, morbida, corta della sua razza, e anche i capelli. Ma li sostituivano con abiti meravigliosi, clamorosi nel taglio e nel colore: le donne in gonne lunghissime che spazzavano il suolo, il seno nudo, la vita il collo e il capo adorni di gioielli e pizzi e veli, gli uomini in calzoni e cappe o tuniche rosse, azzurre, viola, oro e verde, con maniche aperte e sbuffi di merletto, o lunghi gonnellini rossi, verde cupo o nero che si aprivano al ginocchio per mostrare calzini bianchi, dalle giarrettiere argentate. Un’altra parola iotica venne in mente a Shevek, una parola che non aveva mai saputo a cosa applicare, anche se il suono gli piaceva: «splendore». Ecco, questa gente aveva splendore. Vennero tenuti discorsi. Il Presidente del Senato della nazione di A-Io, un uomo dagli occhi strani, gelidi, propose un brindisi: «Alla nuova èra di fratellanza tra i Pianeti Gemelli, e al messaggero di questa nuova èra, il nostro eminente e graditissimo ospite, il dottor Shevek di Anarres!» Il Cancelliere dell’Università gli parlò in modo affascinante, il Primo Direttore della Nazione gli parlò in modo assai serio, venne presentato ad ambasciatori, astronauti, fisici, politici, decine di persone, ognuna delle quali aveva lunghe liste di titoli e onoreficenze sia prima che dopo il nome, ed esse gli parlarono, ed egli rispose loro, ma più tardi non ricordò nulla di quanto aveva detto ciascuno, e men che meno ciò che aveva detto lui. Molto tardi, quella notte, si trovò insieme con un piccolo gruppo di uomini che camminava sotto la pioggia tiepida in un grosso parco o in una piazza. Si sentiva sotto i piedi la cedevolezza elastica dell’erba verde; la riconobbe perché aveva camminato nel Parco Triangolare di Abbenay. Quel vivo ricordo e l’ampio, freddo tocco del vento notturno lo destarono. La sua anima uscì dal nascondiglio.

I suoi accompagnatori lo condussero a un edificio e una stanza che, come gli spiegarono, era «sua».

Era ampia, lunga circa dieci metri, ed evidentemente si trattava di una camerata comune, dato che non c’erano divisioni né predelle per dormire; evidentemente, i tre uomini rimasti con lui dovevano essere i suoi compagni di stanza. Era una bellissima camerata, con una parete composta interamente di una serie di finestre, divise tra loro mediante sottili colonne che si innalzavano, simili ad alberi, fino a formare un doppio arco, in cima. Il pavimento era ricoperto di un tappeto rosa, e all’altro estremo della stanza c’era un fuoco, in un focolare aperto. Shevek attraversò la stanza e si fermò davanti al fuoco. Non aveva mai visto bruciare del legno per riscaldarsi, ma ormai non si stupiva più di nulla. Tese le mani verso il piacevole tepore, e si sedette su una panca di marmo levigato, accanto al focolare.

Il più giovane dei suoi accompagnatori si sedette di fronte a lui. Gli altri due erano ancora intenti a parlare tra loro. Parlavano di fisica, ma Shevek non aveva tentato di ascoltare il loro discorso. Il giovane disse in tono tranquillo: — Mi chiedo come si possa sentire, dottor Shevek.

Shevek allungò le gambe e si piegò in avanti per sentire sul volto il tepore del fuoco. — Mi sento pesante.

— Pesante?

— Forse la gravità. O sono stanco.

Alzò lo sguardo sull’altro, ma tra loro c’era il bagliore del fuoco, e il volto del suo accompagnatore non si distingueva chiaramente: soltanto il luccichio di una catena d’oro e il rosso scuro e brillante della toga.

— Non conosco il suo nome.

— Saio Pae.

— Oh, Pae, già. Conosco i suoi articoli sul Paradosso.

Parlava con voce pesante, insonnolita.

— Ci dev’essere un bar, qui. Le stanze degli Anziani di Facoltà hanno sempre l’armadietto dei liquori. Desidera qualcosa da bere?

— Acqua, sì.

Il giovane riapparve con un bicchiere d’acqua mentre gli altri due si avvicinavano per unirsi a loro accanto al fuoco. Shevek bevve avidamente l’acqua e si mise a fissare il bicchiere che stringeva in mano: un oggetto fragile, delicatamente sagomato, che rifletteva il bagliore del fuoco sul bordo dorato. Si accorse della presenza dei tre uomini, del loro atteggiamento, mentre stavano accanto a lui, in piedi o seduti, protettivi, rispettosi, proprietari.

Sollevò lo sguardo su di loro, e osservò un volto dopo l’altro. Tutti lo fissarono, in attesa. — Bene, mi avete — egli disse. E sorrise. — Avete il vostro anarchico. Che cosa contate di farne?

Загрузка...