Erano fuori all’aperto, sui campi atletici del Parco Settentrionale di Abbenay, ed erano in sei, nel lungo color oro, nel calore e nella polvere della sera. Erano piacevolmente sazi, poiché il pasto era durato buona parte del pomeriggio: una festa in strada e cottura su fuochi all’aperto. Era la festa dell’estate, il Giorno dell’Insurrezione, che commemorava il primo grande sollevamento di Nio Esseia nell’anno urrasiano 740, circa due secoli prima. Cuochi e lavoratori delle mense venivano onorati come ospiti dal resto della comunità, quel giorno, poiché era stato un gruppo di cuochi e camerieri a dare inizio agli scioperi che avevano condotto all’insurrezione. C’erano varie altre feste e tradizioni di questo tipo su Anarres, alcune istituite dai Coloni, e altre, come la fine del raccolto e la Festa del Solstizio, sorte spontaneamente dai ritmi della vita sul pianeta e dal bisogno, di coloro che lavorano insieme, di fare festa insieme.
Stavano chiacchierando, tutti in modo piuttosto disordinato, eccetto Takver, che aveva danzato per ore, aveva mangiato spaventose quantità di pane fritto e sottaceti e si sentiva piena di brio. — Perché Kvigot è stato assegnato alle pescherie del Mare Kerano, dove dovrà ricominciare tutto da capo, mentre Turib gli subentra qui nel suo programma di ricerca? — stava dicendo. Il suo gruppo di ricerca era stato incorporato in un progetto controllato direttamente dal CDP, ed ella era divenuta una forte sostenitrice di alcune idee di Bedap. — Perché Kvigot è un buon biologo che non va d’accordo con le teorie antiquate di Simas, e Turib è una nullità che gratta la schiena a Simas nei bagni. E sai chi prenderà la direzione del programma quando Simas si ritirerà? La prenderà Turib, ci scommetto!
— Che cosa significa questa espressione? — chiese qualcuno che non si sentiva molto portato per la critica sociale.
Bedap, che aveva acquistato peso in cintola e affrontava seriamente il problema dell’esercizio fisico, stava trotterellando animatamente nel campo d’allenamento. Gli altri sedevano su un’aiola polverosa, sotto gli alberi, e facevano esercizio verbale.
— È un verbo iotico — disse Shevek. — Un gioco che gli urrasiani fanno con le probabilità. Colui che indovina riceve una proprietà dall’altro. — Già da tempo aveva smesso di rispettare il divieto di Sabul di parlare dei suoi studi di iotico.
— E come ha fatto a entrare nel pravico una delle loro parole?
— I Coloni — disse un altro. — Dovettero imparare il pravico da adulti; devono avere continuato a pensare nella vecchia lingua per molto tempo. Ho letto da qualche parte che la parola dannazione non esiste nel Dizionario Pravico… anch’essa è iotica. Farigv non ci ha fornito nessuna parola per imprecare, quando ha inventato il linguaggio, oppure i suoi calcolatori non ne hanno compreso la necessità.
— Che cos’è l’inferno, allora? — chiese Takver. — Una volta pensavo che significasse il deposito di letame della città dove sono cresciuta. «Vai all’inferno!» Il luogo peggiore dove andare.
Desar il matematico (che ora aveva un incarico permanente tra il personale dell’Istituto ma continuava a girare nell’orbita di Shevek), sebbene rivolgesse raramente la parola a Takver, disse, nel suo stile crittografico: — Significa Urras.
— Su Urras, significa il posto dove vai se sei dannato.
— Cioè un’assegnazione nel Sudovest in estate — disse Terrus, un’ecologa, vecchia amica di Takver.
— È nel modello religioso, in iotico.
— So che devi leggere lo iotico, Shevek, ma devi anche leggere la religione?
— Parte della vecchia fisica urrasiana è tutta nel modello religioso. Saltano fuori concetti come quello. «Inferno» significa il luogo del male assoluto.
— Il deposito del letame a Valle Rotonda — Takver disse. — Come dicevo.
Giunse Bedap, affannato, bianco di polvere, segnato di rivoletti di sudore. Si sedette accanto a Shevek e si mise a respirare pesantemente.
— Di’ qualcosa in iotico — chiese Richat, una studentessa dei corsi di Shevek. — Che effetto fa?
— Lo sai già: Va’ all’inferno! Dannazione!
— Piantala di ingiuriarmi — disse la ragazza, ridacchiando. — Pronuncia una frase completa.
Shevek pronunciò allegramente una frase in iotico. — In realtà non so come si pronunci — aggiunse. — È solo un tentativo.
— E cosa voleva dire?
— Se il passaggio del tempo è un aspetto della coscienza umana, passato e futuro sono funzioni della mente. Da un pre-Sequentista, Keremcho.
— Che strano, pensare a gente che parla senza che si possa capirla!
— Non riescono a capirsi neppure tra loro. Parlano centinaia di lingue diverse, tutti quei pazzi archisti della Luna…
— Acqua, acqua… — disse Bedap, ancora ansante.
— Non c’è acqua — disse Terrus. — Non piove da diciotto decadi. Per essere precisi, 183 giorni. Da quarant’anni non c’era una siccità così lunga ad Abbenay.
— Se continua, dovremo riciclare l’urina, come hanno fatto nell’anno 20. Un bicchiere di piscio, Shevek?
— Non scherzare — disse Terrus. — Camminiamo su un filo. Pioverà a sufficienza? Il raccolto di foglie degli Altipiani del Sud è già perduto. Laggiù non piove da trenta decadi.
Tutti levarono lo sguardo al cielo velato, color dell’oro. Le foglie dentellate degli alberi sotto cui sedevano, alte piante esotiche del Vecchio Pianeta, pendevano polverose dai rami, arricciate dalla siccità.
— Mai più una Grande Siccità — disse Desar. — Moderni impianti desalazione. Evitano.
— Potrebbero contribuire ad alleviarla — disse Terrus.
Quell’anno l’inverno giunse precocemente, freddo e asciutto, nell’emisfero settentrionale. Polvere gelida trasportata dal vento nelle basse, ampie strade di Abbenay. Acqua dei bagni strettamente razionata: sete e fame portavano in seconda posizione la pulizia. Il cibo e i vestiti dei venti milioni di abitanti di Anarres venivano dalle piante di holum, dalle loro foglie, semi, fibre, radici. C’era qualche riserva di tessuti nei magazzini e nei depositi, ma non c’erano mai state grandi riserve di cibo. L’acqua andava alla terra, per tenere vive le piante. Il cielo al di sopra della città era privo di nubi e sarebbe stato chiaro se non fosse stato ingiallito dalla polvere portata dal vento da zone più secche, a sud e ad ovest. A volte, quando il vento soffiava da nord, dai Ne Theras, la caligine gialla si schiariva e lasciava un cielo terso e brillante, di un colore azzurro cupo che s’induriva verso il viola allo zenit.
Takver era gravida. In prevalenza era sonnolenta e benevola. — Io sono un pesce — diceva, — un pesce nell’acqua. Sono all’interno del bambino che è dentro di me. — Ma a volte era sovraccarica di lavoro, o aveva fame a causa della leggera riduzione nella quantità di cibo dei pasti alla mensa. Le donne gravide, al pari dei bambini e dei vecchi, potevano consumare un pasto sovrannumerario al giorno, colazione alle undici, ma spesso Takver la perdeva perché l’orario del suo lavoro non glielo permetteva. Lei poteva perdere un pasto; i pesci delle vasche del suo laboratorio, no. Gli amici spesso le portavano qualcosa che avevano risparmiato dal proprio pasto o che era stato avanzato alla loro mensa, un panino imbottito o un frutto. Ella mangiava ogni cosa con piacere, ma continuava a desiderare dolci, e i dolci erano scarsi. Quando era stanca, era ansiosa e si agitava per un nonnulla; la sua collera si accendeva per una parola.
Verso la fine dell’autunno, Shevek terminò il manoscritto dei Principi della Simultaneità. Lo diede a Sabul per l’approvazione per la stampa. Sabul lo tenne per una decade, due, tre e non disse nulla riguardo ad esso. Shevek gli chiese notizie. Egli rispose che non aveva ancora trovato il tempo di leggerlo, aveva troppo da fare. Shevek attese. Era ormai pieno inverno. Il vento secco soffiava giorno dopo giorno; il terreno era gelato. Ogni cosa pareva giunta a un arresto, un arresto preoccupato, in attesa della pioggia, in attesa della nascita.
La stanza era buia. Le luci si erano appena accese nella città; parevano deboli sotto il cielo grigio, scuro, alto. Takver entrò, accese la lampada, si accoccolò con ancora il soprabito accanto alla grata del calore. — Oh che freddo! Spaventoso. Mi sento i piedi come se avessi camminato su un ghiacciaio, per poco non mi mettevo a piangere per la strada, tanto mi facevano male. Maledetti stivali profittatori! Perché non siamo buoni a fare un paio di stivali decenti? Come mai stai seduto al buio?
— Non so.
— Sei andato alla mensa? Io ho mangiato un boccone mentre tornavo a casa. Ho dovuto fermarmi, le uova di Kukuri si schiudevano, dovevamo togliere i piccoli dalla vasca prima che gli adulti li mangiassero. Hai mangiato?
— No.
— Non fare lo scontroso. Per favore non fare lo scontroso proprio questa sera! Se mi va storta ancora una cosa, mi metto a piangere. Sono stufa di piangere tutto il tempo. Maledetti stupidi ormoni! Vorrei poter avere i bambini come i pesci, deporre le uova, nuotare via, e tutto finisce lì. A meno di nuotare indietro per mangiarli… Non startene seduto come una statua. Non lo sopporto. — Stava già quasi piangendo, accovacciata accanto al soffio di aria calda della grata, mentre cercava di slacciarsi gli stivali con le dita intirizzite. Shevek non disse nulla. — Ma che cosa hai? Non puoi startene lì come un morto!
— Sabul mi ha convocato oggi. Non raccomanderà i Princìpi per la pubblicazione, e neppure per l’esportazione.
Takver smise di lottare con la stringa e si sedette. Guardò Shevek da dietro la spalla. Infine disse: — Che cosa ha detto, esattamente?
— Il commento che ha scritto è sul tavolo.
Takver si alzò, raggiunse il tavolo camminando su uno stivale solo, e lesse il biglietto, piegandosi sul tavolo, con le mani nelle tasche del soprabito.
— «Che la Fisica Sequenziale sia la strada maestra del pensiero cronosofico nella Società Odoniana è un principio mutuamente accettato fin dall’Insediamento d’i Annares. Le divagazioni egoistiche da questa solidarietà di princìpi possono dare come risultato soltanto la sterile tessitura di ipotesi impratiche, prive di utilità sociale organica, oppure la ripetizione delle speculazioni superstizioso-religiose degli scienziati irresponsabili e venduti degli Stati Profittatori di Urras…» Oh, lo sporco profittatore! Il meschino, invidioso, piccolo sputasentenze Odoniane! E manderà questo commento alle Edizioni?
— L’ha già mandato.
Takver si chinò per togliersi lo stivale. Alzò lo sguardo diverse volte in direzione di Shevek, ma non si recò accanto a lui né cercò di toccarlo, e per qualche tempo non disse nulla. Quando infine parlò, la sua voce non era forte e tesa come prima, e riaveva la sua naturale caratteristica robusta, vellutata. — Che cosa conti di fare, Shevek?
— Non c’è niente da fare.
— Stamperemo il libro. Formeremo un gruppo tipografico, impareremo a comporre, lo stamperemo.
— La carta è a razioni minime. Non si stampano cose inessenziali. Solo le pubblicazioni del CDP, finché non saranno salve le piantagioni di holum.
— Allora non puoi cambiare in qualche modo l’esposizione? Camuffare quello che scrivi. Decorarlo con fronzoli Sequenziali. In modo che lo accetti.
— Non puoi camuffare il nero da bianco.
Non gli chiese se fosse possibile aggirare Sabul o scavalcarlo. Nessuno, su Anarres, scavalcava un’altra persona. Non c’erano vie traverse da cui aggirare qualcuno. Se non potevi lavorare in solidarietà con i colleghi, allora lavoravi da solo.
— E se… — Ma subito s’interruppe. Si alzò e portò gli stivali accanto al soffio d’aria calda, ad asciugare. Si tolse il soprabito, andò ad appenderlo, e si mise uno scialle pesante, fatto a mano, sulle spalle. Si sedette sulla predella del letto, brontolando un poco negli ultimi centimetri. Poi alzò lo sguardo su Shevek, seduto di profilo, tra lei e le finestre.
— E se gli offrissi di firmare come co-autore? Come il primo articolo che hai scritto.
— Sabul non metterà mai il suo nome su delle «speculazioni superstizioso-religiose».
— Ne sei certo? Sei certo che non sia proprio ciò che desidera? Sabul sa cos’è, sa cos’hai fatto. Hai sempre detto che è astuto. Sa che ficcherà lui e tutta la sua scuola Sequenziale nel secchio della riciclazione. Ma se invece potesse condividere il credito? Tutto ciò che fa, è egoistico. Se potesse dire che è il suo libro…
Shevek disse con rancore: — Preferirei condividere te con lui, che quel libro.
— Non guardare la cosa sotto questo aspetto, Shevek. È il libro, che è importante… le idee. Ascolta. Noi desideriamo tenere con noi il bambino che nascerà, tenerlo fin dai primi giorni, noi vogliamo amarlo. Ma se per qualche ragione la sua permanenza presso di noi lo facesse morire, se potesse vivere soltanto nell’incubatrice, e noi non potessimo mai vederlo e conoscere il suo nome… se dovessimo fare questa scelta, come ci comporteremmo? Lo faremmo morire per tenerlo tra noi, oppure gli daremmo la vita?
— Non so — rispose lui. Appoggiò la testa fra le mani, strofinandosi dolorosamente la fronte. — Sì, certo. Sì. Ma questo… Ma io…
— Fratello, cuore caro — disse Takver. Serrò i pugni, poi li abbassò sul grembo, senza toccare Shevek. — Non ha importanza il nome scritto sul libro. La gente lo saprà ugualmente. La verità è il libro.
— Io sono quel libro — egli disse. Poi serrò le palpebre, e rimase a sedere immobile. Takver si avvicinò a lui, allora, timidamente, toccandolo con la delicatezza con cui avrebbe toccato una ferita.
All’inizio dell’anno 164, la prima versione, incompleta e drasticamente corretta, dei Princìpi della Simultaneità venne stampata ad Abbenay, con Sabul e Shevek come co-autori. Il CDP stampava soltanto documenti e direttive essenziali, ma Sabul aveva influenza alla divisione Stampa e Informazione del CDP e la aveva convinta del valore propagandistico del libro, su Urras. Urras, egli diceva, si rallegrava della siccità e della possibile carestia di Anarres; l’ultimo arrivo di giornali iotici era pieno di maligne profezie sull’imminente collasso dell’economia Odoniana. Quale confutazione migliore, diceva Sabul, che la pubblicazione di un’importante opera di pensiero puro, «un monumento della scienza», scrisse nel nuovo giudizio, «che s’innalza sulle avversità materiali per dimostrare l’insoffocabile vitalità della Società Odoniana e il suo trionfo sul proprietarismo archista in ogni area del pensiero umano».
Così l’opera venne stampata, e quindici delle trecento copie salirono a bordo del mercantile iotico Pensiero. Shevek non aprì mai una copia del libro stampato. Nel pacco per l’esportazione, tuttavia, egli infilò una copia del manoscritto completo, originale, ricopiata a mano. Una nota sulla copertina pregava di darla al dottor Atro del Collegio della Nobile Scienza dell’Università di Ieu Eun, con gli omaggi dell’autore. Era ovvio che Sabul, il quale doveva dare l’approvazione finale al pacco, avrebbe notato l’aggiunta. Se avrebbe tolto il manoscritto o se lo avrebbe lasciato, Shevek non lo sapeva. Sabul poteva confiscarlo per dispetto; oppure poteva lasciarlo, sapendo che l’edizione evirata da lui preparata non avrebbe avuto sui fisici urrasiani l’effetto desiderato. Non disse nulla del manoscritto a Shevek. Shevek non gliene parlò.
Shevek parlò poco con tutti, quella primavera. Prese un assegnamento volontario, lavoro di costruzione in un nuovo impianto di riciclazione dell’acqua, nel sud di Abbenay, e per la maggior parte del giorno fu occupato a insegnare o al nuovo lavoro. Ritornò ai suoi studi nel campo subatomico, e spesso passò la sera all’acceleratore dell’Istituto o nei laboratori con gli specialisti in particelle. Con Takver e gli amici era tranquillo, taciturno, gentile, e freddo.
Takver divenne molto grossa e cominciò a camminare come una persona che trasportasse un cesto di biancheria largo e pesante. Continuò a lavorare al laboratorio dei pesci finché non ebbe trovato e istruito un’adeguata sostituta, poi si recò a casa e le vennero le doglie, con più di dieci giorni di ritardo rispetto alla data prevista. Shevek arrivò a casa a metà del pomeriggio. — Vai a chiamare la levatrice — disse Takver. — Dille che le contrazioni avvengono a quattro o cinque minuti tra loro, ma non accelerano, e quindi non c’è molta fretta.
Ma egli si affrettò, e quando scoprì che la levatrice era uscita, cadde in preda al panico. Tanto la levatrice quanto il medico dell’isolato erano fuori, e nessuno dei due aveva lasciato un avviso sulla porta per dire dove lo si poteva trovare, come era abitudine. Il cuore di Shevek prese a battere all’impazzata, ed egli cominciò bruscamente a vedere le cose con una terribile chiarezza. Vide che questa mancanza di assistenza era un segno infausto. Egli si era ritirato da Takver a partire dall’inverno, a partire dalla decisione sul libro. Takver era stata sempre più tranquilla, passiva, paziente. Ed egli adesso capiva quella passività: era la preparazione della morte. Era stata lei a ritrarsi da lui, ed egli non aveva cercato di seguirla. Egli aveva osservato soltanto la propria amarezza di cuore, e non aveva mai visto la paura di Takver, o il suo coraggio. L’aveva lasciata sola perché voleva essere lasciato solo, ed ella aveva continuato ad allontanarsi, troppo lontano, sarebbe andata avanti da sola, per sempre.
Corse alla clinica dell’isolato, e vi giunse talmente trafelato e incerto sulle gambe che i medici pensarono che gli fosse venuto un attacco cardiaco. Poi spiegò. Essi inviarono una comunicazione a un’altra levatrice e gli dissero di andare a casa, la compagna avrebbe apprezzato la sua presenza. Tornò a casa, e ad ogni passo cresceva in lui il panico, il terrore, la certezza della perdita.
Ma una volta a casa non poté inginocchiarsi davanti a Takver, chiederle perdono, come avrebbe voluto disperatamente. Takver non aveva tempo per le scene emotive; aveva da fare. Aveva tolto ogni cosa dalla predella del letto, ad eccezione di un lenzuolo pulito, e stava dandosi da fare a partorire un figlio. Non urlava né si lamentava, poiché non provava dolore, ma quando una contrazione arrivava, si tratteneva con il controllo del respiro e dei muscoli, e poi lasciava andare un grande uff di respiro, come una persona che compie uno sforzo terribile per sollevare un grande peso. Shevek non aveva mai visto un lavoro che facesse appello come quello a tutta la forza del corpo.
Non poteva osservare un simile lavoro senza cercare di aiutare. Egli poteva servire come appoggio e come aiuto quando Takver doveva fare leva. Trovarono quasi subito la posizione con un paio di prove, e continuarono in quel modo anche dopo l’arrivo della levatrice. Takver partorì in posizione eretta, accovacciata, con la faccia premuta contro la coscia di Shevek, le mani strette alle sue braccia. — Ecco fatto — disse tranquillamente la levatrice, al di sotto dell’ansito pesante, simile a quello di un muratore, del respiro di Takver, e afferrò la creatura scivolosa, ma chiaramente umana, che era apparsa. Seguì un fiotto di sangue, e una massa amorfa di qualcosa che non era umano, che non era vivo. Il terrore dimenticato si riaffacciò nella mente di Shevek, raddoppiato. Era la morte, ciò che vedeva. Takver gli aveva lasciato le braccia e si era rannicchiata ai suoi piedi, esausta. Egli si chinò su di lei, rigido per l’orrore e il rimorso.
— Fatto — disse la levatrice. — Aiutala a spostarsi, in modo che io possa ripulire.
— Voglio lavarmi — disse Takver, debolmente.
— Aiutala, aiutala a lavarsi. Ci sono dei panni sterili… qui.
— Wew wew wew — disse un’altra voce.
La stanza parve piena di persone.
— Adesso — disse la levatrice, — senti, riportale il bambino, al seno, per aiutare a far cessare l’emorragia. Io voglio mettere questa placenta in frigorifero, alla clinica. Torno tra dieci minuti.
— Dov’è… dov’è…
— Nel lettino! — disse la levatrice, uscendo. Shevek trovò quel letto piccolissimo, che era pronto da quattro decadi in un angolo della stanza, e il bambino neonato che vi stava dentro. In qualche maniera, nell’estremo precipitare degli avvenimenti, la levatrice aveva trovato il tempo di ripulire il neonato e di mettergli perfino un abitino, cosicché pareva meno scivoloso, meno simile a un pesce, di quando lo aveva visto per la prima volta. Il pomeriggio si era rabbuiato con la solita rapidità, la solita assenza di un senso del passaggio del tempo. La lampada era accesa. Shevek sollevò il bambino per portarlo a Takver. Il suo viso era incredibilmente piccolo, con grandi palpebre chiuse, dall’aspetto fragile. — Portalo qui — diceva Takver, — oh, ma sbrigati, fai presto a darmelo.
Lo trasportò per la stanza e con molta cautela lo appoggiò sullo stomaco di Takver. — Ah! — disse lei, piano, con tono di puro trionfo.
— Che cos’è? — chiese dopo un poco, con voce assonnata.
Shevek era seduto al suo fianco, sul bordo della predella. Indagò con attenzione, leggermente sorpreso dalla lunghezza del vestitino in contrasto con l’estrema brevità delle gambe. — Una bambina.
Intanto era ritornata la levatrice, che si aggirava per la stanza mettendo a posto cose. — Avete fatto un ottimo lavoro — disse, a tutt’e due. Essi annuirono debolmente. — Verrò a vedere domattina — disse, uscendo. La bambina e Takver erano già addormentati. Shevek posò la testa accanto a quella di Takver. Era abituato al piacevole odore di muschio della sua pelle. Adesso era cambiato; era divenuto un profumo, pesante e vago, pesante di sonno. Molto delicatamente posò su di lei un braccio, mentre giaceva su un fianco con la bambina contro il petto. Poi, nella stanza pesante di vita, s’addormentò.
Un Odoniano intraprendeva la monogamia esattamente come intraprendere una qualsiasi attività in comune con altre persone, una produzione, un balletto, un lavoro manuale. Il rapporto tra due compagni era una unione liberamente istituita come ogni altra. Finché funzionava, funzionava; se non funzionava, cessava di sussistere. Non era un’istituzione, bensì una funzione. Non aveva altre sanzioni che quella della coscienza personale.
Questo era pienamente in accordo con la teoria sociale Odoniana. La validità delle promesse, anche delle promesse a scadenza indefinita, era profondamente intessuta nel pensiero di Odo; sebbene potesse parere che la sua insistenza sulla libertà di cambiamento invalidasse l’idea di voto o di promessa, in realtà era la libertà a rendere significativa la promessa. Una promessa è una direzione scelta, una auto-limitazione della scelta. Come Odo aveva fatto notare, se non si prende alcuna direzione, se non si va da nessuna parte, non avviene alcun cambiamento. La propria libertà di scegliere e di cambiare non verrà usata, esattamente come se si fosse in una prigione: una prigione di propria costruzione, un labirinto in cui nessuna direzione è migliore di un’altra. Così Odo giunse a vedere la promessa, il pegno, l’idea di fedeltà, come un elemento essenziale nella complessità della libertà.
Molte persone pensavano che questa idea di fedeltà non si applicasse correttamente alla vita sessuale. La femminilità di Odo l’aveva portata, dicevano queste persone, verso il rifiuto della vera libertà sessuale; qui, più che in altri punti, Odo non aveva scritto per gli uomini. E poiché questa obiezione veniva mossa tanto da uomini quanto da donne, si aveva l’impressione che Odo non avesse capito non tanto il mondo maschile, quanto piuttosto tutto un genere o parte dell’umanità, le persone per le quali la sperimentazione è il cuore del piacere sessuale.
Anche se poteva non averle capite, e se probabilmente le considerava deviazioni proprietaristiche dalla norma — dato che la specie umana è, se non una specie a coppie fisse, almeno una specie che trasmette le esperienze alle generazioni successive — Odo tuttavia provvide meglio alle persone dalle abitudini promiscue che non a coloro che tentavano il rapporto duraturo di compagni. Non c’erano leggi, limiti, pene, punizioni o disapprovazioni che riguardassero l’attività sessuale, di qualsiasi tipo essa fosse, ad eccezione della violenza carnale su un bambino o una donna, che probabilmente veniva vendicata sommariamente dai vicini dello stupratore se costui non si rifugiava più che in fretta tra braccia, assai più gentili, di un centro di cura. Ma le molestie sessuali erano estremamente rare in una società in cui la completa soddisfazione era la norma dalla pubertà in poi, e in cui l’unico limite sociale imposto alla vita sessuale era la debole pressione a favore dell’isolamento, una sorta di pudore imposto dalla comunalità della vita.
Dall’altra parte, invece, coloro che sceglievano di formare una coppia di compagni e di continuare tale forma di rapporto, sia omosessuale sia eterosessuale, incontravano problemi ignorati da coloro che si accontentavano dell’attività sessuale che trovavano. Dovevano affrontare non soltanto la gelosia, il possessivismo e le altre malattie della passione a cui l’unione monogamica fornisce un così buon terreno di crescita, ma anche le pressioni esterne dell’organizzazione sociale. Una coppia che sceglieva il rapporto di compagni, lo sceglieva pur sapendo che potevano venire separati in qualsiasi momento dalle esigenze della distribuzione del lavoro.
DivLab, l’amministrazione della divisione del lavoro, cercava di tenere unite le coppie, e di riunirle, a richiesta, non appena possibile; ma questo non sempre poteva essere fatto, specialmente quando c’erano degli incarichi urgenti, né la gente si aspettava che la Divisione del Lavoro mandasse all’aria intere liste e riprogrammasse calcolatori per cercare di farlo. Per la sopravvivenza, per la prosecuzione della vita, un anarresiano sapeva di dover essere pronto a recarsi dove c’era bisogno di lui, per svolgere il lavoro che doveva essere fatto. Cresceva con la conoscenza che la distribuzione del lavoro era un fattore importante della vita, un’immediata, permanente necessità sociale; mentre invece la coniugalità era una questione personale, una scelta che poteva venire fatta soltanto all’interno della scelta più importante.
Ma quando una direzione viene scelta liberamente e seguita con piena convinzione, può sembrare che ogni cosa contribuisca a rendere più agevole il cammino. Così, la possibilità della separazione, o la sua realtà, spesso avevano l’effetto di rafforzare la lealtà della coppia. Conservare una fedeltà spontanea e genuina in una società che non aveva sanzioni morali o legali nei riguardi dell’infedeltà, e conservarla nel corso di separazioni liberamente accettate che potevano giungere in qualsiasi momento e potevano durare anni, costituiva una sorta di sfida. Ma l’essere umano ama venire sfidato, cerca la libertà nell’avversità.
Nell’anno. 164, molte persone che non l’avevano mai cercato assaggiarono il sapore di questo tipo di libertà, e lo amarono, ne amarono il senso di cimento e di pericolo. La siccità iniziata nell’estate del 163 non trovò sollievo nell’inverno. Con l’estate del 164 cominciarono le privazioni, e la minaccia di disastro se la siccità fosse continuata.
Il razionamento era stretto; le chiamate lavorative erano indispensabili. La lotta per coltivare sufficiente cibo e distribuirlo divenne convulsa, disperata. Eppure la gente non era affatto disperata. Odo aveva scritto: «Un bambino libero dalla colpa della proprietà e dal fardello della competizione economica crescerà con il desiderio di fare ciò che deve essere fatto e la capacità di provare gioia nel farlo. È il lavoro inutile che rabbuia il cuore. La gioia della madre che allatta, dello studioso, del cacciatore fortunato, del buon cuoco, dell’artigiano abile, di chiunque compia un lavoro necessario e lo compia bene… questa gioia duratura è forse la fonte più profonda dell’affetto umano e della socialità intera.» Ci fu una sotterranea corrente di gioia, in tal senso, ad Abbenay quell’estate. Ci fu una felicità di lavorare nonostante la pesantezza del lavoro, una disponibilità a lasciare ogni preoccupazione non appena fosse stato fatto ciò che si poteva fare. La vecchia etichetta della «solidarietà» era ritornata in vita. Si prova esaltazione nello scoprire che il legame è più forte, in fin dei conti, di tutto ciò che lo mette alla prova.
All’inizio dell’estate, il CDP affisse manifesti che suggerivano di ridurre di un’ora la giornata lavorativa, poiché la distribuzione di proteine alle mense era adesso insufficiente per un normale dispendio di energia. L’attività esuberante delle strade cittadine cominciava già ad allentarsi. La gente, uscita presto dal lavoro, si attardava nelle piazze, giocava a bocce nei parchi asciutti, sedeva sulla soglia delle botteghe e attaccava conversazione con i passanti. La popolazione della città era visibilmente diminuita, poiché migliaia di persone si erano offerte volontarie per il lavoro agricolo di emergenza o vi erano state assegnate. Ma la fiducia reciproca alleviava la depressione e l’angoscia. — Ci aiuteremo reciprocamente a superare questo momento — dicevano, serenamente. E scorrevano grandi impulsi di vitalità, proprio sotto la superficie. Quando i pozzi della periferia settentrionale si prosciugarono, condotte temporanee collegate con altri distretti vennero posate da volontari che lavoravano nel loro tempo libero, gente esperta e no, adulti e adolescenti, e il lavoro venne fatto in trenta ore.
Verso la fine dell’estate, Shevek venne assegnato a una leva agricola di emergenza alla comunità di Fonti Rosse, negli altipiani del sud. Con la promessa di un po’ di pioggia caduta nella stagione equatoriale delle tempeste, si cercava di piantare un raccolto di grano di holum e di mieterlo prima che ritornasse la siccità.
Si era già aspettato una assegnazione di emergenza, poiché il suo lavoro di costruzione era finito, ed egli si era elencato come disponibile per le assegnazioni generali di lavoro. Per tutta l’estate non aveva fatto altro che tenere i suoi corsi, leggere, prestare assistenza ogni volta che c’era qualche lavoro volontario da svolgere nel loro isolato o in città, e poi tornare a casa da Takver e dalla bambina. Takver era tornata al laboratorio, soltanto la mattina, dopo cinque decadi. Come madre in allattamento aveva diritto a un supplemento di proteine e di carboidrati alla mensa, ed ogni volta ne approfittava; i loro amici non potevano più dividere con lei cibo fuori razione, non c’era più cibo fuori razione. Takver era magra, ma stava bene, e la bambina era piccola, ma robusta.
Shevek traeva molto piacere dalla bambina. Poiché era affidata a lui la mattina (la lasciavano al nido soltanto quando insegnava o svolgeva lavoro volontario), egli provava quel senso di essere necessario che è il fardello e la ricompensa della condizione di genitore. La bambina, attenta e sensibile, forniva a Shevek un perfetto uditorio per quelle fantasie verbali che egli tendeva sempre a frenare e che Takver sosteneva essere il suo lato folle. Si metteva la bimba sulle ginocchia e le dedicava scombussolate lezioni di cosmologia, spiegandole come il tempo in realtà fosse soltanto lo spazio girato su se stesso, e il cronone fosse l’intestino rovesciato del quanto, e la distanza una delle proprietà accidentali della luce. Dava alla bambina nomignoli stravaganti e sempre diversi, e le recitava ridicole filastrocche: Tempo è un vincolo, Tempo è tirannico, Supermeccanico, Superorganico — POP! — e al pop la bambina balzava di pochi centimetri nell’aria, strillando e agitando i pugni grassi. Entrambi ricevevano grandi soddisfazioni da questi esercizi. Quando ricevette l’assegnamento, fu come una lacerazione. Aveva sperato qualcosa nei pressi di Abbenay, non negli Altipiani del Sud, agli antipodi. Ma insieme con la spiacevole necessità di lasciare Takver e la bambina per sessanta giorni c’era la ferma sicurezza di tornare da loro. Finché l’avesse avuta, non si sarebbe lamentato.
La notte prima della partenza, Bedap venne a mangiare al refettorio dell’Istituto con loro, e tornarono tutti insieme alla stanza. Rimasero seduti a parlare nella notte calda, con la lampada spenta, le finestre aperte. Bedap, che mangiava a una piccola mensa dove i desideri speciali non rappresentavano un fastidio per i cuochi, aveva risparmiato per una decade le sue razioni di bevande speciali e le aveva prese tutte insieme sotto forma di una bottiglia da un litro di succo di frutta. La mostrò con orgoglio: una festa della partenza. Se la passarono in giro e la gustarono fastosamente, schioccando la lingua. — Ricordi — disse Takver, — tutto quel mangiare, la sera prima di lasciare l’Istituto? Ho mangiato nove di quelle frittelle.
— Portavi i capelli corti, allora — disse Shevek, sorpreso dal ricordo, che in precedenza non aveva mai associato a Takver. — Eri tu, no?
— E chi credevi che fosse?
— Accidenti, com’eri giovane a quell’epoca!
— E così tu, sono passati dieci anni da allora. Mi tagliavo i capelli per sembrare diversa e interessante. Mi è servito molto, davvero! — Rise con la sua risata forte e allegra, e subito la soffocò per non svegliare la bambina, addormentata nel lettino dietro il paravento. Nulla però sarebbe riuscito a destare la bimba, una volta addormentata. — Avrei voluto così tanto essere differente. Chissà perché?
— C’è un momento, verso i vent’anni — disse Bedap, — in cui devi scegliere se essere come tutti gli altri per il resto della vita, oppure rendere virtù le tue particolarità.
— O almeno accettarle con rassegnazione — disse Shevek.
— Shevek ha uno dei suoi attacchi di rassegnazione — disse Takver. — È la vecchiaia che incalza. Dev’essere terribile avere trent’anni.
— Non preoccuparti, tu non sarai rassegnata neppure a novanta — disse Bedap, dandole una pacca sulla schiena. — Ti sei rassegnata al nome della bambina, finalmente?
I nomi di cinque o sei lettere distribuiti dal calcolatore dell’anagrafe centrale, essendo univocamente caratteristici di ciascun essere umano vivente, prendevano il posto dei numeri che altrimenti una società computerizzata avrebbe dovuto attribuire ai suoi membri. Un anarresiano non aveva bisogno di altre identificazioni che del proprio nome. Il nome, pertanto, veniva sentito come una parte importante della propria persona, anche se una persona non poteva sceglierselo più di quanto non si potesse scegliere il naso o la statura. A Takver non piaceva il nome dato alla bambina, Sedik. — Suona come una manciata di sassi in bocca — disse, — non è adatto a lei.
— A me piace — disse Shevek. — Suona come una ragazza alta e sottile, dai capelli lunghi e neri.
— Ma è una ragazza piccola e grassa, con capelli invisibili — osservò Bedap.
— Dalle tempo, fratello! Ascoltate, devo fare un discorso.
— Discorso! Discorso!
— Shhh…
— Perché «shh»? Quella bambina non si sveglierebbe neppure per un cataclisma.
— Stai calmo. Sono emozionato. — Shevek alzò la tazzina di succo di frutta. — Io desidero dire… Desidero dire questo. Sono lieto che Sedik sia nata ora. In un anno duro, in un periodo duro, in cui ci occorre la fratellanza. Sono lieto che sia nata ora, e qui. Sono lieto che sia una di noi, un’Odoniana, nostra figlia e nostra sorella. Sono lieto che sia sorella di Bedap. Che sia sorella di Sabul, perfino di Sabul! Io bevo a questa speranza: che, finché vivrà, Sedik ami le sue sorelle e i suoi fratelli così gioiosamente, così fortemente, come io li amo questa sera. E che venga la pioggia…
Il CDP, il principale utente di radio, telefono e posta, coordinava i mezzi di comunicazione interurbani, così come coordinava i viaggi e le spedizioni tra le città. Non essendoci «affari» su Anarres, nel senso di ricerche di mercato, pubblicità, investimenti, speculazioni e così via, la posta era costituita principalmente di corrispondenza tra le varie federative industriali e professionali, delle loro direttive e i loro bollettini, di quelli del CDP, e di una piccola quantità di lettere private. Vivendo in una società dove ciascuno poteva trasferirsi dove voleva, in ogni momento, un anarresiano tendeva a cercare amici nel luogo in cui abitava, non in quello da cui era venuto via. I telefoni venivano usati raramente all’interno di una comunità: le comunità non erano così grandi. Perfino Abbenay manteneva lo schema regionale nei suoi «isolati», i quartieri semiautonomi entro cui si poteva raggiungere a piedi la persona o la cosa desiderata. Quindi la maggior parte delle telefonate erano interurbane, e passavano attraverso il CDP: le chiamate personali dovevano venire prenotate per posta, oppure non si trattava di vere conversazioni, ma semplicemente di messaggi lasciati ai centri del CDP. Le lettere viaggiavano aperte, non per legge, naturalmente, ma per abitudine. La comunicazione personale a lunga distanza è costosa in tempo e materiali, e poiché l’economia privata e quella pubblica erano la stessa cosa, c’era una certa antipatia nei riguardi delle lettere e delle telefonate inutili. Era un’abitudine frivola; puzzava di isolamento, di egoizzazione. Questo era probabilmente il motivo per il quale le lettere viaggiavano aperte: non avevate il diritto di chiedere a una persona di portare un messaggio che egli non potesse leggere. Una lettera viaggiava su un dirigibile postale del CDP se eravate fortunato, e su un treno di prodotti agricoli se non lo eravate. Alla fine arrivava alla stazione postale della città destinataria, e laggiù si fermava, poiché non c’erano postini, finché qualcuno non diceva al destinatario che c’era una lettera per lui, ed egli passava a prendersela.
Era l’individuo, comunque, a decidere ciò che era necessario e ciò che non lo era. Shevek e Takver si scrissero regolarmente, cirta una volta ogni decade. Egli scrisse:
Il viaggio non è stato male, tre giorni, un treno passeggeri senza soste. È un grosso assegnamento, tremila persone, dicono. Gli effetti della siccità sono molto peggiori, qui. Non però le carenze. Il cibo della mensa è la stessa razione di Abbenay, ma qui danno foglie di gara bollite a tutt’e due i pasti ogni giorno perché ce n’è un’eccedenza locale. Anche noi cominciamo a credere di averne un’eccedenza. Ma è il clima, qui, che è brutto. Qui siamo nella Polvere. L’aria è secca, e il vento soffia sempre. Ci sono brevi piogge, ma meno di un’ora dopo la fine della pioggia il terreno si sgretola e la polvere comincia ad alzarsi. Qui, in questa stagione, è piovuto meno della metà della media degli scorsi anni. Tutti al Progetto hanno le labbra screpolate, il naso che sanguina, gli occhi irritati e la tosse. Tra la gente che vive a Fonti Rosse c’è un mucchio di tosse da polvere. Per i bambini piccoli è particolarmente dura, ne vedo molti con la pelle e gli occhi infiammati. Mi domando se avrei notato la cosa mezzo anno fa. Si diventa più acuti quando si hanno dei figli. Il lavoro è lavoro, e tutti sono amici, ma il vento secco ti stanca. Ieri sera ho pensato ai Ne Theras, e nella sera il suono del vento era come il fruscio del ruscello. Non rimpiangerò questa separazione. Mi ha permesso di vedere che avevo cominciato a dare di meno, come se ti possedessi e tu possedessi me, e non ci fosse altro da fare. In realtà, non ha niente a che vedere con il possesso. La cosa che noi facciamo è affermare l’integrità del Tempo. Dimmi cosa fa Sedik. Nei giorni liberi tengo un corso a gente che me l’ha chiesto; una ragazza è un matematico naturale che raccomanderò all’Istituto. Tuo fratello, Shevek.
Takver gli scrisse:
Sono preoccupata da una cosa molto strana. Le lezioni del terzo trimestre sono state assegnate tre giorni fa, e sono andata a vedere i tuoi turni all’Istituto, ma non era segnata nessuna classe e nessuna aula per te. Pensavo che avessero lasciato fuori il tuo nome per un errore, così sono andata alla Federativa dei Membri e lì mi hanno detto che ti volevano dare la classe di Geometria. Sono allora andata all’ufficio di Coordinamento dell’Istituto da quella vecchia col nasone e lei non sapeva nulla, no, non so nulla, vai all’Ufficio Centrale delle Assegnazioni! Questa è un’assurdità, le ho detto, e sono andata da Sabul. Ma non era negli uffici di Fisica e io non l’ho ancora visto, anche se ci sono già passata altre due volte. Con Sedik che ha un bellissimo cappellino bianco che Tellus le ha fatto all’uncinetto con filo di recupero e ha un’aria spaventosamente seducente. Mi rifiuto di andare a caccia di Sabul nella stanza, o tana da vermi, o quel che è, in Cui abita. Magari è fuori città a fare lavoro volontario, ah, ah! Forse ti conviene telefonare all’Istituto per scoprire che razza di pasticcio abbiano combinato? In realtà sono poi andata all’Ufficio Centrale delle Assegnazioni della Divisione del Lavoro, e non c’erano nuovi posti per te. La gente laggiù era a posto, ma la vecchia col nasone è inefficiente e non dà una mano, e nessuno si interessa di nulla. Bedap ha ragione, abbiamo permesso che la burocrazia si insinuasse tra noi. Per favore, ritorna (con la ragazza genio matematico, se necessario), perché la separazione è istruttiva, d’accordo, ma la tua presenza è l’istruzione che io desidero. Prendo mezzo litro di succo di frutta con razione di calcio ogni giorno perché cominciava a mancarmi il latte e S. piangeva molto. I buoni dottori! Tutta, sempre, T.
Shevek non ricevette mai questa lettera. Aveva già lasciato l’Altipiano del Sud prima che la lettera arrivasse alla stazione postale di Fonti Rosse.
C’erano circa 4000 chilometri da Fonti Rosse ad Abbenay. Un singolo individuo che si fosse trasferito si sarebbe semplicemente limitato a farsi dare un passaggio, poiché tutti i veicoli per il trasporto merci erano disponibili come veicoli passeggeri per tutte le persone che potevano contenere; ma poiché c’erano da ridistribuire al loro regolare assegnamento nel Nordovest circa 450 persone, venne allestito un treno per loro. Era composto di carri passeggeri, o almeno di carri che venivano usati come carri passeggeri per l’occasione. Il meno richiesto era il carro coperto che aveva recentemente trasportato un carico di pesce affumicato. Dopo un anno di siccità, le normali linee di trasporto risultavano insufficienti, nonostante i notevoli sforzi dei lavoratori del trasporto per soddisfare alla domanda. Essi costituivano la più vasta federativa della società Odoniana: auto-organizzata, naturalmente, in gruppi regionali, coordinati da rappresentanti che si incontravano e lavoravano con i CDP locali e centrali. La rete della federativa dei trasporti era efficace in tempi normali e anche in limitate emergenze; era flessibile, adattabile alle circostanze, e gli Addetti ai Trasporti avevano un grande orgoglio professionale e di gruppo. Davano alle locomotive e ai dirigibili nomi come Indomabile, Resistente, Divora-Vento; avevano dei motti — Noi Arriviamo Sempre; Nulla È Troppo! — ma ora che intere regioni del pianeta erano minacciate di carestia immediata se non fosse stato portato cibo da altre regioni, e che occorreva trasportare grandi chiamate d’emergenza di lavoratori, il peso che gravava sui trasporti cominciava a essere troppo. Non c’erano veicoli sufficienti, non c’erano sufficienti persone per condurli. Ogni cosa che la federativa avesse su ruote o in volo venne messa in servizio, e apprendisti, lavoratori in ritiro, volontari e assegnati d’emergenza aiutarono a equipaggiare i furgoni, i treni, le navi, i porti, i cantieri.
Il treno che portava Shevek andava avanti a forza di brevi corse e lunghe attese, poiché tutti i treni che portavano vettovaglie avevano la precedenza su di esso. Poi si fermò totalmente per venti ore. Un ferroviere stanco o inesperto aveva fatto un errore in uno scambio, e c’era un guasto alla linea.
La piccola città dove il treno s’era fermato non aveva cibo fuori razione nelle mense o nei magazzini. Non era una comunità agricola, ma una cittadina industriale in cui si fabbricavano cemento e pomice artificiale, costruita sulla fortunata confluenza di un deposito di calcare e di un fiume navigabile. C’erano degli orti, ma era una città che dipendeva dal trasporto per le provviste alimentari. Se le quattrocentocinquanta persone del treno avessero mangiato, non avrebbero mangiato le cento e sessanta persone locali. Idealmente, avrebbero dovuto condividere tutti, e tutti mangiare a metà e digiunare a metà, insieme. Se ci fossero state sul treno cinquanta, o anche cento persone, la comunità avrebbe fatto loro almeno un’infornata di pane. Ma quattrocentocinquanta? Se ne avessero dato una razione a un numero così elevato di persone, ne sarebbero rimasti privi per giorni. E sarebbe ancora giunto il treno delle provviste, in giorni come quelli? E quanto grano avrebbe portato? Non diedero nulla.
I passeggeri, che quel giorno non avevano mangiato nulla a colazione, dovettero digiunare per sessanta ore. Non consumarono un pasto finché la linea non fu riparata e il loro treno non ebbe percorso altri duecentocinquanta chilometri, fino a una stazione con refettorio rifornito per passeggeri.
Fu la prima esperienza della fame per Shevek. A volte aveva saltato il pasto quando era al lavoro, perché non voleva perdere tempo a mangiare, ma due pasti completi al giorno erano sempre stati disponibili: costanti come l’alba e il tramonto del sole. Non gli era mai occorso di pensare a quel che si poteva provare essendo costretti a farne a meno. Nessuno della sua società, nessuno al mondo, doveva farne a meno.
Mentre diventava sempre più affamato, mentre il treno rimaneva immobile ora dopo ora sul binario laterale, tra una cava butterata e polverosa e un mulino chiuso, egli ebbe scuri pensieri sulla realtà della fame, e sulla possibile incapacità della sua società di superare una carestia senza perdere quella solidarietà che era la sua forza. Era facile dividere quando ce n’era sufficienza, magari il minimo sufficiente, per tutti. Ma quando non ce n’era abbastanza? Allora entravano in gioco la forza; la potenza divenuta diritto; il potere e il suo strumento, la violenza, e il suo alleato più devoto, l’occhio distolto per non vedere.
Il risentimento dei passeggeri nei riguardi degli abitanti della cittadina divenne molto amaro, ma era meno allarmante che non il comportamento degli abitanti stessi: il modo in cui si nascondevano dietro i «loro» muri con la «loro» proprietà, e ignoravano il treno, non gli rivolgevano neppure uno sguardo. Shevek non era l’unico passeggero depresso; una lunga conversazione serpeggiava a fianco dei vagoni fermi, con gente che vi entrava e ne usciva, obiettava e annuiva, tutta sullo stesso tema generale seguito dai suoi pensieri. Venne seriamente proposta una spedizione agli orti della cittadina, venne dibattuta con acrimonia, e sarebbe stata anche eseguita se il treno, finalmente, non avesse emesso il fischio della partenza.
Ma quando poi giunse alla stazione successiva, e tutti poterono consumare un pasto — una mezza forma di pane di holum e una scodella di minestra — la loro amarezza lasciò posto al sollievo. Quando arrivavate alla fine del piatto vi accorgevate che la minestra era molto rada, ma il primo assaggio, il primo assaggio era stato meraviglioso: valeva la pena di digiunare per esso. Tutti furono d’accordo su questo. Risalirono a bordo del treno ridendo e scherzando insieme. Aiutandosi reciprocamente, avevano superato l’avversità.
Un treno di vettovaglie accolse a Monte Equatoriale i passeggeri diretti ad Abbenay e li trasportò per gli ultimi ottocento chilometri. Giunsero in città tardi, in una notte ventosa di primo autunno; le strade erano vuote. Il vento passava in mezzo a loro come un fiume turbolento e secco. Al di sopra dei deboli lampioni, le stelle splendevano di una luce trepida e chiara. Le secche folate dell’autunno e della passione trasportarono Shevek lungo le strade, quasi correndo, per cinque chilometri fino al quartiere settentrionale, solo, nella città oscura. Fece d’un balzo i tre scalini dell’ingresso, corse per il corridoio, giunse alla porta, la aprì. La stanza era buia. Le stelle bruciavano nelle finestre buie. — Takver! — egli disse, e udì il silenzio. Prima di accendere la lampada, laggiù nell’oscurità, nel silenzio, d’improvviso, egli conobbe che cos’è la separazione.
Nulla mancava. Non c’era nulla che potesse mancare. Soltanto Sedik e Takver mancavano. Le Occupazioni di Spazi Inabitati giravano lentamente, luccicando piano, nella corrente d’aria che proveniva dalla porta aperta.
C’era una lettera sul tavolo. Due lettere. Una di Takver. Era concisa: aveva ricevuto un’assegnazione di emergenza al Laboratorio Sperimentale per lo Sviluppo delle Alghe Commestibili, nel Nordest, per un periodo indeterminato. Aveva scritto:
In coscienza non potevo rifiutare ora. Sono andata a parlare con loro, alla Divisione del Lavoro, e ho anche letto il progetto che hanno mandato al reparto Ecologia del CDP, ed è vero che hanno bisogno di me, poiché ho lavorato proprio su questo ciclo alga-ciliato-crostaceo-kukuri. Ho chiesto a DivLab che tu venissi assegnato a Rolny, ma naturalmente non faranno nulla se non lo chiederai anche tu, e se questo non sarà possibile a causa del lavoro all’Istituto, tu non lo farai. Dopotutto se andrà avanti troppo alle lunghe dirò loro di prendersi un altro genetista e tornerò indietro! Sedik sta molto bene e dice già le prime parole. Non durerà a lungo. Tutta, per la vita, la tua sorella, Takver. Oh ti prego vieni se puoi.
L’altra nota era scritta su un minuscolo pezzo di carta: «Shevek, ufficio Fisica al tuo ritorno. Sabul».
Shevek si aggirò infuriato per la stanza. La tempesta, l’impeto che lo aveva spinto lungo le strade, erano ancora in lui. Ma erano arrivati al muro. Non poteva andare più avanti, eppure doveva muoversi. Guardò nell’armadio. C’era soltanto il suo soprabito invernale e una camicia che Takver, che amava i lavori fini, gli aveva ricamato; i pochi abiti di Takver mancavano. Il paravento era ripiegato, e si vedeva il lettino vuoto. Il letto non era fatto, ma la coperta color arancione copriva le lenzuola e il materasso arrotolati. Shevek arrivò di nuovo contro il tavolo, lesse di nuovo la lettera di Takver. I suoi occhi si riempirono di lacrime di collera. Una rabbia di disappunto lo scuoteva, una collera, un presagio.
Non si poteva dare la colpa a nessuno. E questo era il lato peggiore di tutto l’accaduto. C’era bisogno di Takver, c’era bisogno di lei per lavorare contro la fame… la fame di lei, di lui, di Sedik. La società non era contro di loro. Era per loro; era con loro; erano loro.
Ma egli aveva rinunciato al suo libro, e al suo amore, e a sua figlia. A quante cose si può chiedere a un uomo di rinunciare?
— All’inferno! — disse forte. Il pravico non era una buona lingua per imprecare. È difficile imprecare quando il sesso non è una cosa impura e la bestemmia non esiste. — Oh, all’inferno! — ripeté. Accartocciò vendicativamente il piccolo sudicio messaggio di Sabul, e batté le nocche sull’orlo del tavolo, due, tre volte, cercando il dolore nella propria collera. Ma non c’era niente. Non c’era niente da fare, e nessun posto ove andare. Alla fine gli rimaneva soltanto il letto da preparare, e poi mettersi a letto da solo e cercare di dormire, con brutti sogni e senza conforto.
Come primo avvenimento del mattino successivo, Bunub bussò. Egli la accolse sulla porta e non si fece di lato per lasciarla entrare. Bunub era la loro vicina di corridoio; una donna di cinquant’anni, operaia nella fabbrica di Motori per Veicoli Aerei. Takver riusciva sempre a divertirsi di lei, ma Bunub aveva la capacità di fare andare in collera Shevek. Per prima cosa, desiderava la loro stanza. L’aveva chiesta la prima volta che si era resa libera, così diceva, ma l’inimicizia della contabile dell’isolato le aveva impedito di averla. La stanza in cui abitava non aveva la finestra d’angolo, oggetto della sua perenne invidia. Era una stanza doppia, tuttavia, ed ella vi abitava da sola, la qual cosa, considerata la carenza di alloggi, era egoistica; ma Shevek non avrebbe mai perso tempo a disapprovare la donna se non fosse stata lei stessa a costringerlo a forza di lagnanze. Quella donna spiegava, spiegava. Lei aveva un compagno, un compagno per la vita, «proprio come voi due», e qui un sorriso sciocco. Solo, dov’era il compagno? Chissà come, veniva sempre citato al passato. Intanto la doppia stanza era più che giustificata dalla successione di uomini che passavano per la porta di Bunub, un uomo diverso ogni notte, come se lei fosse una ruggente diciassettenne. Takver osservava la processione con ammirazione. Bunub arrivava e le raccontava ogni cosa di quegli uomini, e si lamentava, si lamentava. Il fatto di non avere la camera d’angolo era soltanto una delle sue innumerevoli afflizioni. Aveva una mente che era insieme insidiosa e invidiosa, capace di scoprire il male in ogni cosa e dargli direttamente voce. La fabbrica dove lavorava era una velenosa massa d’incompetenza, favoritismo e sabotaggio. Le riunioni del suo gruppo erano veri e propri manicomi, pieni di insinuazioni vergognose, tutte dirette contro di lei. L’intero organismo sociale si dedicava alla persecuzione di Bunub. Tutte queste cose facevano ridere Takver, a volte incontrollatamente, proprio in faccia a Bunub. — Oh, Bunub, mi fai così ridere! — diceva, e la donna, con i suoi capelli grigi, la bocca sottile e gli occhi bassi, sorrideva debolmente, senza dir nulla, senza per nulla offendersi, e continuava le sue mostruose recite. Shevek sapeva che Takver aveva ragione di ridere di lei, ma non gli riusciva di farlo.
— È terribile — disse la donna, scivolando dietro di lui e recandosi direttamente al tavolo per leggere la lettera di Takver. La prese; Shevek gliela tolse di mano con una rapidità e una calma che la donna non aveva previsto. — Perfettamente terribile. Neppure una decade di preavviso. Soltanto: «Vieni qui! Immediatamente!». E poi dicono che siamo un popolo libero, che dovremmo essere un popolo libero. Che beffa! Rompere una coppia felice in questo modo. Ed è proprio questa la ragione per cui l’hanno fatto, lo sai. Sono contro il legame di compagni, lo puoi vedere ad ogni piè sospinto, danno assegnazioni differenti a ciascuno dei due. È quello che è successo a me e Labeks, esattamente la stessa cosa. Non ritorneremo mai più insieme. No di certo, con tutta la Divisione del Lavoro schierata contro di noi. Oh, il piccolo lettino vuoto. Povera creaturina! Non ha smesso di piangere per queste quattro decadi, giorno e notte. Mi ha tenuto sveglia per ore. Sono le carenze, certo; Takver non aveva abbastanza latte. E poi, mandare una madre in allattamento a un incarico a centinaia di chilometri di distanza così, immagina solo! Non credo che riuscirai a raggiungerla dove l’hanno mandata; dov’è che l’hanno mandata?
— Nordest. Voglio uscire per la colazione, Bunub. Ho fame.
— È proprio tipico come l’hanno fatto mentre eri lontano.
— Che cosa hanno fatto, mentre ero lontano?
— L’hanno mandata via… hanno rotto la coppia. — Leggeva la nota di Sabul, che aveva ridisteso con cura. — Ah, loro sanno quando devono farsi sotto! Suppongo che lascerai questa stanza, ora, no? Non ti permetteranno di tenerne una doppia. Takver parlava di tornare indietro presto, ma era chiaro che cercava soltanto di tenersi su di morale. Libertà, dicono che siamo liberi. Bello scherzo! Sballottati qua e là…
— Oh, accidenti, Bunub, se Takver non avesse voluto l’assegnazione, l’avrebbe rifiutata. Sai anche tu che c’è la minaccia di carestia.
— Be’, mi sono chiesta se non fosse lei che desiderava cambiare. Succede spesso, dopo che arriva un bambino. Io lo pensavo già da tempo, avreste dovuto dare la bambina al nido. E come piangeva. I figli vengono tra compagni. Li tengono legati. È naturale, proprio come dici, che lei volesse cambiare, e che abbia approfittato della prima occasione.
— Non ho detto questo. Vado a colazione. — Uscì, vibrando ancora in cinque o sei punti sensibili che Bunub gli aveva accuratamente ferito. L’orrore di quella donna stava nel fatto che dava voce alle sue paure più meschine. Ora la donna rimase nella stanza, probabilmente per studiarvi il proprio trasferimento.
Aveva dormito troppo, e giunse alla mensa proprio mentre chiudevano le porte. Ancora affamato dopo il viaggio, prese una doppia razione, tanto di pane quanto di minestra. Il ragazzo dietro il banco lo guardò accigliato. In quei giorni nessuno prendeva doppie razioni. Shevek gli restituì lo sguardo accigliato e non disse nulla. Nelle ultime ottanta ore aveva mangiato due scodelle di minestra e un chilo di pane, e aveva il diritto di recuperare ciò che aveva perso: ma che gli venisse un accidente se era disposto a spiegarlo. L’esistenza è la sua stessa giustificazione, il bisogno è diritto. Egli era un Odoniano, il senso di colpa lo lasciava ai profittatori.
Si sedette a un tavolo da solo, ma Desar si unì immediatamente a lui, sorridendo e guardandolo, o meglio, guardando dei punti di fianco a lui con i suoi sconcertanti occhi strabici. — Stato via molto — disse Desar.
— Incarico agricolo. Sei decadi. Come sono andate le cose, qui?
— Magre.
— Diventeranno ancora più magre — disse Shevek, ma senza reale convinzione, poiché egli stava mangiando, e la minestra aveva un gusto straordinariamente buono. Frustrazione, ansia, carestia! dicevano i suoi lobi frontali, sede dell’intelletto; ma il talamo, l’impenitente selvaggio accovacciato nella profonda oscurità del suo cranio, diceva: Cibo ora! Cibo ora! Buono! Buono!
— Visto Sabul?
— No. Sono arrivato tardi ieri notte. — Alzò lo sguardo su Desar e disse, con finta indifferenza: — Takver ha avuto un’assegnazione da carestia; è dovuta partire quattro giorni fa.
Desar annuì, con indifferenza genuina. — Sentito dire. Sentito la riorganizzazione dell’Istituto?
— No. Che succede?
Il matematico allargò sulla tavola le mani lunghe e sottili, e abbassò lo sguardo su di esse. Era sempre stato impacciato nella parola, telegrafico nel parlare; in realtà, balbettava; ma se fosse un balbettio verbale o morale, Shevek non l’aveva mai capito. Come aveva sempre amato Desar senza sapere perché, così c’erano dei momenti in cui Desar gli era stato profondamente antipatico, anche allora senza sapere perché. Questo era uno di tali momenti. C’era doppiezza nell’espressione della bocca di Desar, nei suoi occhi bassi, come negli occhi bassi di Bunub.
— Scossone. Riducono al personale funzionale. Shipeg messo fuori. — Shipeg era un matematico notoriamente stupido che era sempre riuscito, adulando assiduamente gli studenti, a procurarsi un corso su richiesta degli studenti ogni anno. — Mandato via. Qualche istituto regionale.
— Farà meno danni zappando l’holum — disse Shevek. Ora che aveva mangiato, gli pareva che la siccità, in fin dei conti, potesse rendere un servizio all’organismo sociale. Le priorità stavano ritornando nuovamente chiare. Debolezze, punti delicati, punti malati sarebbero stati ripuliti, organi pigri riportati alla loro piena funzione, il grasso sarebbe stato eliminato dalla politica del corpo sociale.
— Ho messo una parola per te, alla riunione di Istituto — disse Desar, alzando lo sguardo, ma senza incontrare, poiché non poteva incontrare, gli occhi di Shevek. E mentre Desar lo diceva, Shevek, anche se non aveva ancora capito cosa intendesse dire, seppe che Desar mentiva. Lo seppe con certezza. Desar non aveva messo una parola per lui, bensì una parola contro di lui.
La spiegazione dei momenti in cui detestava Desar gli apparve chiara, ora: il riconoscimento, mai ammesso in precedenza, dell’elemento di pura malvagità presente nella personalità di Desar. Che Desar lo amasse e cercasse di ottenere potere su di lui era altrettanto chiaro, e, per Shevek, altrettanto detestabile. Le strade trasverse della possessività, i labirinti dell’amore/odio, non avevano significato per lui. Arrogante, intollerante, egli passava direttamente attraverso i loro muri. Non parlò più con il matematico; terminò la colazione e si avviò verso il lato opposto del quadrilatero, nel chiaro mattino del primo autunno, in direzione degli uffici di Fisica.
Si recò nella stanza posteriore che tutti chiamavano «ufficio di Sabul», la stanza dove s’erano incontrati la prima volta, dove Sabul gli aveva dato la grammatica e il dizionario iotici. Sabul guardò con diffidenza da dietro la scrivania, alzando la testa, poi la riabbassò, indaffarato con le sue carte, da scienziato distratto, che lavora duramente; poi permise alla coscienza della presenza di Shevek di filtrare nel suo cervello sovraccarico; infine divenne, per uno come lui, espansivo. Sembrava dimagrito e invecchiato; quando si alzò, zoppicò più del solito: un difetto di andatura che aveva un effetto pacificante. — Brutti tempi — disse. — Brutti tempi!
— E peggioreranno — disse Shevek, in tono leggero. — Come vanno le cose, qui?
— Male, male. — Shevek scosse la testa grigia. — È un brutto momento per la pura scienza, per l’intellettuale.
— Perché, c’è mai stato un momento buono?
Sabul emise una risata innaturale.
— È arrivato qualcosa per noi nelle spedizioni estive da Urras? — chiese Shevek, facendo spazio sulla panca per sedersi. Si sedette e incrociò le gambe. La sua pelle chiara si era abbronzata e la fine peluria che gli copriva la faccia si era schiarita fino a un colore bianco argenteo mentre lavorava nei campi del Sud. Aveva un aspetto frugale, robusto, e giovane, a confronto di quello di Sabul. Entrambi erano coscienti del contrasto.
— Niente d’interessante.
— Nessuna recensione dei Principi?
— No. — Il tono di Sabul era sgarbato, più adatto alla sua normale personalità.
— Nessuna lettera?
— No.
— Strano.
— Perché, che c’è di strano? Cosa ti aspettavi, un invito alla Università di Ieu Eun? il premio Seo Oen?
— Mi aspettavo recensioni e repliche. Il tempo c’è stato. — Disse questo mentre Sabul diceva: — Non è ancora passato abbastanza tempo per le recensioni.
Ci fu una pausa.
— Devi comprendere, Shevek, che la semplice convinzione di essere nel giusto non costituisce la propria giustificazione. Hai lavorato duramente sul libro, lo so. E anch’io ho lavorato duramente per correggerlo, cercando di rendere chiaro che non era soltanto un attacco irresponsabile contro la Sequenza, ma che aveva anche degli aspetti positivi. Ma se altri fisici non vedono alcun valore nel tuo lavoro, allora devi cominciare a esaminare i valori che sostieni, e a vedere dove sta la divergenza. Se non significa nulla per l’altra gente, a che cosa vale? Qual è la sua funzione?
— Io sono un fisico, non un analista di funzioni — disse Shevek, gentilmente.
— Ogni Odoniano deve essere un analista di funzioni. Hai trent’anni, no? Alla tua età un uomo dovrebbe sapere non soltanto la propria funzione cellulare, ma anche la sua funzione organica… quale sia il suo ruolo ottimale nell’organismo sociale. Forse non ti è occorso di pensarci tanto quanto altra gente…
— No. Fin da quando avevo dieci o dodici anni sapevo già il tipo di lavoro che dovevo fare.
— Quel che un ragazzo pensa gli piacerà fare non è sempre la cosa di cui la sua società ha bisogno da lui.
— Ho trent’anni, come hai detto anche tu. Un po’ grandicello, come ragazzo.
— Hai raggiunto questa età in un ambiente particolarmente difeso, protetto. Prima l’Istituto Regionale Settentrionale…
— E un progetto d’imboschimento, e progetti agricoli, e addestramento pratico, e comitati d’isolato, e lavoro volontario dall’inizio della siccità; la solita quota di kleggich necessario. Anzi, in realtà non mi dispiace. Ma faccio anche la fisica. Dove vuoi arrivare?
Poiché Sabul non gli rispondeva e si limitava a guardarlo e ad aggrottare le sopracciglia folte e untuose, Shevek aggiunse: — Potresti anche dirlo chiaro, visto che non ci puoi arrivare facendo appello alla mia coscienza sociale.
— Pensi che il lavoro da te compiuto all’Istituto sia funzionale?
— Sì. «Tanto più grande è l’ambito organizzato, tanto più centrale è l’organismo: la centralità qui implica il campo della funzione reale.» Tomar, Definizioni. Poiché la fisica temporale tenta di organizzare ogni cosa comprensibile alla mente umana, essa è per definizione una attività centralmente funzionale.
— Non mette pane in bocca alla gente.
— Ho appena terminato sei decadi di lavoro per contribuire a farlo. Quando sarò di nuovo chiamato a farlo, andrò di nuovo. Intanto resto fedele al mio lavoro. Se c’è della fisica da fare, rivendico il mio diritto a farla.
— La cosa di cui devi renderti conto, è il fatto che a questo punto non c’è fisica da fare. Non il tipo di fisica che fai tu. Dobbiamo limitarci alla praticità. — Sabul cambiò posizione sulla sedia. Aveva un aspetto scontroso e inquieto. — Abbiamo dovuto lasciare libere cinque persone per una nuova assegnazione. Mi spiace dirti che sei una di loro. Ecco come stanno le cose.
— Proprio come pensavo che stessero — disse Shevek, anche se in realtà non aveva compreso fino a quel momento che Sabul lo cacciava via dall’Istituto. Non appena udite quelle parole, però, gli parve che la notizia gli fosse già nota; e non era disposto a dare a Sabul la soddisfazione di vederlo sconvolto.
— Ciò che ha lavorato contro di te è stata una combinazione di cose. La natura astrusa, irrilevante, della ricerca da te compiuta in questi ultimi anni. Più una certa sensazione, non necessariamente giustificata, ma diffusa tra molti membri, insegnanti e studenti, dell’Istituto, che tanto il tuo insegnamento quanto il tuo comportamento riflettano una certa disaffezione, un grado di privatismo, di non altruismo. Così è stato detto in riunione. Io ho parlato a tuo favore, naturalmente. Ma io sono soltanto un membro tra tanti altri.
— Da quando in qua l’altruismo è una virtù Odoniana? — disse Shevek. — Bene, lasciamo perdere. Capisco cosa intendi dire. — Si alzò. Non riusciva più a stare seduto, ma per tutto il resto era pienamente in controllo di sé, e parlava con perfetta naturalezza. — Devo pensare che non mi hai raccomandato per un posto d’insegnamento altrove.
— A cosa sarebbe servito? — disse Sabul, quasi melodioso nella propria discolpa. — Nessuno vuole nuovi insegnanti. Insegnanti e studenti lavorano fianco a fianco, in lavori di prevenzione della carestia su tutto il pianeta. Ma, naturalmente, questa crisi non durerà. In un anno o giù di lì potremo guardarla dal di fuori, orgogliosi dei sacrifici da noi fatti e del lavoro da noi compiuto, l’uno a fianco dell’altro, ciascuno una parte uguale. Ma ora come ora…
In piedi, rilassato, Shevek fissava dalla finestra piccola e graffiata il cielo spoglio. C’era un prepotente desiderio, in lui, di dire a Sabul, definitivamente, di andare all’inferno. Ma fu un impulso diverso, più profondo, a trovare parole. — In realtà — disse, — hai probabilmente ragione. — Così detto, rivolse un cenno del capo a Sabul e uscì.
Prese un omnibus diretto verso il centro. Aveva ancora fretta, si sentiva incalzato. Seguiva lo schema delle cose, e desiderava giungerne alla fine, giungere al riposo. Si recò agli uffici Centrali d’Assegnazione della Divisione del Lavoro per richiedere un’assegnazione alla comunità dove era andata Takver.
DivLab, con i suoi calcolatori e il suo vasto compito di coordinazione, occupava un’intera piazza; i suoi edifici erano belli, imponenti per la norma anarresiana, con delle linee eleganti e spoglie. All’Interno, l’Assegnazione Centrale era simile a un granaio con un alto soffitto, era piena di gente e di attività, con le pareti ricoperte di avvisi di assegnazione e di informazioni riguardanti il banco o il dipartimento a cui chiedere questo o quello. Mentre Shevek attendeva in una delle code, ascoltò le persone che lo precedevano, un ragazzo di sedici anni e un uomo sulla sessantina. Il ragazzo si offriva volontario per un’assegnazione di prevenzione della carestia. Era pieno di nobili sentimenti, traboccava di fratellanza, desiderio d’avventura, speranza. Era felice di andarsene via da solo, lasciando dietro di sé l’infanzia. Parlava molto, come un bambino, con una voce non ancora abituata ai toni più profondi. Libertà, libertà! suonavano le sue frasi eccitate, ogni parola; e la voce del vecchio la contrastava con il suo brontolio e il suo rimbombo: lo stuzzicava senza però minacciare, lo prendeva in giro senza però disarmarlo. La libertà, la possibilità di andare in qualche luogo e di fare qualche cosa, la libertà era ciò che il vecchio apprezzava e amava nel giovane, anche mentre ne derideva la presunzione. Shevek li ascoltò con piacere. Ponevano fine alla teoria di figure grottesche da lui incontrata nel corso della mattinata.
Non appena Shevek spiegò dove desiderasse andare, l’impiegata fece la faccia preoccupata e si recò a prendere un atlante, che poi aprì sul banco in mezzo a loro. — Guarda qui — disse. Era una donna piccina e brutta con incisivi sporgenti; le sue mani sulle pagine colorate dell’atlante erano svelte e soffici. — Questa è Rolny, vedi, la penisola che sporge nel Nord Temeniano. È soltanto un grosso mucchio di sabbia. Non c’è niente su di essa, ad eccezione dei laboratori marini, laggiù in punta, capisci? Poi la costa è tutta paludi e acquitrini salmastri finché non fai tutto il giro e arrivi ad Armonia… mille chilometri. E ad ovest c’è solo il Montante Costiero. Il punto più vicino a Rolny che potresti raggiungere sono certe cittadine delle montagne. Ma laggiù non hanno chiesto nessuna assegnazione di emergenza; sono autosufficienti. Certo, potresti andarci lo stesso… — aggiunse, in un tono leggermente diverso.
— Troppo lontano da Rolny — disse, osservando la carta e notando nelle montagne del Nordest la piccola cittadina isolata dove Takver era cresciuta, Valle Rotonda. — E al laboratorio marino non hanno bisogno di un custode? Di uno statistico? Di qualcuno che dia da mangiare ai pesci?
— Vado a controllare.
La rete di archivi umani e computerizzati della Divisione del Lavoro era allestita con efficienza mirabile. In meno di cinque minuti l’impiegata trasse l’informazione desiderata dall’enorme massa di dati in ingresso e in uscita, riguardanti ogni lavoro svolto, ogni incarico desiderato, ogni lavoratore richiesto, e le priorità di ciascuno nell’economia generale della società mondiale. — Hanno appena riempito la quota di una chiamata d’emergenza… si tratta della compagna, vero? Hanno trovato tutti coloro che desideravano, quattro tecnici e un pescatore esperto. Personale completo.
Shevek appoggiò i gomiti sul banco e chinò il capo, grattandosi la fronte: un gesto di confusione e di sconfitta nascosto dall’imbarazzo. — Be’ — disse, — non so proprio cosa fare.
— Senti, fratello, quanto tempo dura l’incarico della compagna?
— Indefinito.
— Ma è un lavoro di prevenzione della carestia, no? Non continuerà ad andare avanti per sempre. Non può! Pioverà, quest’inverno.
Egli alzò lo sguardo sul viso onesto, simpatico, preoccupato della propria sorella. Sorrise debolmente, poiché non poteva lasciare senza risposta quel tentativo di dargli una speranza.
— Ritornerete uniti. E intanto…
— Sì. Intanto — egli disse.
La donna attese la sua decisione.
Doveva decidere lui, e le possibilità erano infinite. Poteva rimanere ad Abbenay, e organizzare corsi di fisica se avesse trovato studenti volontari. O recarsi nella Penisola di Rolny e vivere con Takver, sebbene privo di un qualsiasi posto nella stazione di ricerca. Oppure poteva recarsi in qualsiasi posto e non fare altro che muoversi due volte al giorno per andare alla mensa più vicina e farsi nutrire. Poteva fare ciò che gli piaceva.
L’identità delle parole «lavoro» e «gioco» in pravico aveva, naturalmente, un forte significato etico. Odo aveva visto il pericolo che sorgesse un rigido moralismo dall’uso della parola «lavoro» nel suo sistema analogico: le cellule devono lavorare insieme, il lavoro svolto da ciascun elemento e così via. Cooperazione e funzione, i due concetti fondamentali della Analogia, implicavano lavoro. Odo aveva visto la trappola morale. «Il santo non è mai troppo indaffarato» ella aveva detto, forse con una punta di tristezza.
Ma le scelte di un essere sociale non sono mai compiute da lui solo.
— Be’ — disse Shevek, — sono appena arrivato da un’assegnazione di prevenzione della carestia. C’è qualche altra cosa simile che occorra fare?
L’impiegata gli rivolse un’occhiata da sorella maggiore, d’incredulità e insieme di perdono. — Ci sono circa settecento chiamate Urgenti affisse in giro per la sala — disse. — Quale preferisci?
— Nessuna che richieda matematici?
— In prevalenza agricoltori e operai specializzati. Hai fatto studi di ingegneria?
— Poca roba.
— Be’, allora c’è la coordinazione del lavoro. Certamente ci vuole una testa abituata alle cifre. Ti va questo?
— D’accordo.
— È nel Sudovest; nella Polvere, lo sai.
— Sono già stato nella Polvere altre volte. E poi, come hai detto tu, un giorno pioverà…
Ella annuì, sorrise e batté a macchina sulla sua scheda Div-Lab: DA Abbenay, N.O., Ist. Centr. Scienze, A Gomito, S.O., coord. lav., fosfatificio N. 1: INCAR. EMGZA: 5.1.3.165-indefinito.