CAPITOLO 12

— Desidero presentare un progetto — disse Bedap, — del Gruppo dell’Iniziativa. Come sapete, siamo in contatto radio con Urras da una ventina di decadi…

— In opposizione ai suggerimenti di questo consiglio, alla Federativa della Difesa, e a un voto di maggioranza della Lista!

— Sì — disse Bedap, squadrando colui che aveva parlato, ma senza protestare per l’interruzione. Non c’erano regole di procedura parlamentare alle riunioni del CDP. A volte le interruzioni erano più frequenti delle affermazioni. Il procedimento, paragonato a una riunione amministrativa ben diretta, era come un pezzo di carne cruda paragonato con uno schema elettrico. Ma la carne cruda, tuttavia, funziona meglio di quanto non potrebbe funzionare uno schema elettrico, al suo posto… all’interno di un animale vivente.

Bedap conosceva tutti i suoi vecchi oppositori al Consiglio Importazione-Esportazione; da tre anni, ormai, veniva lì a combatterli. Ma colui che aveva parlato era nuovo: un giovane, probabilmente un nuovo assegnato dalla estrazione a sorte alla Lista del CDP. Bedap lo guardò con benevolenza e proseguì: — Non rimettiamoci a litigare i vecchi litigi, vero? Ora ne propongo uno nuovo. Abbiamo ricevuto una interessante comunicazione da un gruppo di Urras. È arrivata sulla lunghezza d’onda usata dai nostri corrispondenti iotici, ma è giunta fuori degli orari preventivati, e il segnale era debole. Pare provenga da una nazione chiamata Benbili, non dall’A-Io. Il gruppo dava a se stesso il nome «Società Odoniana». A quanto pare, si tratta di Odoniani post-Insediamento, che trovano modo di esistere, chissà come, in qualche scappatoia ancora permessa dalle leggi e dai governi di Urras. Il messaggio era diretto ai «fratelli di Anarres». Potete leggerlo sul bollettino del Gruppo, è interessante. Chiedono se potrebbero avere il permesso di inviare gente qui da noi.

— Inviare gente qui? Lasciar venire qui degli urrasiani? delle spie?

— No, verrebbero come coloni.

— Vorrebbero riaprire l’Insediamento, è così, Bedap?

— Dicono che il loro governo dà loro la caccia, e sperano che…

— Riaprire l’Insediamento! Ad ogni profittatore che si protesta Odoniano?

Riportare in ogni particolare un dibattito amministrativo anarresiano sarebbe difficile; si svolgeva molto rapidamente, spesso più persone parlavano tutte insieme, nessuno parlava a lungo, c’erano un mucchio di frasi sarcastiche, un mucchio di cose restavano inespresse; il tono era emotivo, spesso fieramente personale; si raggiungeva una fine, ma non c’era una conclusione. Era come una discussione tra fratelli, o tra i pensieri di una mente che non ha ancora preso la decisione.

— Se lasciassimo venire questi pretesi Odoniani, come penserebbero di raggiungerci?

Aveva parlato l’oppositore che Bedap temeva maggiormente, la donna fredda e intelligente chiamata Rulag. Per tutto l’anno era stata il suo oppositore più agguerrito e brillante. Bedap lanciò un’occhiata a Shevek, che per la prima volta era venuto ad assistere alla riunione del consiglio, per richiamare la sua attenzione sulla donna. Qualcuno aveva detto a Bedap che Rulag era un ingegnere, ed egli aveva trovato in lei la chiarezza e il pragmatismo mentali dell’ingegnere, e in più l’avversione dei meccanicisti verso la complessità e l’irregolarità. Avversava il Gruppo dell’Iniziativa su ogni punto, compreso quello del suo diritto all’esistenza. Le sue argomentazioni erano buone, e Bedap la rispettava. A volte, quando parlava della forza di Urras, e del pericolo di trattare con il forte da una posizione di debolezza, egli le credeva.

Infatti c’erano dei momenti in cui Bedap si chiedeva, in cuor suo, se egli stesso e Shevek, quando si erano riuniti nell’inverno del ’68 e avevano discusso i modi con cui un fisico frustrato avrebbe potuto stampare la propria opera e comunicarla ai fisici di Urras, non avessero dato il via a un’incontrollabile catena di eventi. E quando infine avevano stabilito contatto radio, gli urrasiani si erano rivelati più desiderosi di parlare, di Scambiare informazioni, di quanto non si fossero aspettati; e quando avevano stampato i rapporti delle loro comunicazioni, l’opposizione su Anarres era stata più virulenta di quanto avessero previsto. Su entrambi i pianeti, la gente prestava loro troppa attenzione perché si potessero sentire veramente tranquilli. Quando il nemico ti abbraccia con entusiasmo, e i tuoi compatrioti ti rifiutano amaramente, è difficile non chiederti se non sei, in effetti, un traditore.

— Penso che verrebbero con un mercantile — rispose. — Da buoni Odoniani, scroccherebbero il viaggio. Se il loro governo, o il Consiglio dei Governi Mondiali, desse loro il permesso. Ma glielo darebbero? Gli archisti farebbero un favore agli anarchici? Ecco il punto che mi piacerebbe scoprire. Se invitassimo un piccolo gruppo, sette o otto di quelle persone, che cosa succederebbe su Urras?

— Curiosità lodevole — disse Rulag. — Conosceremmo meglio il pericolo, certo, se conoscessimo meglio come vanno le cose su Urras. Ma il pericolo sta proprio nell’atto di scoprirlo. — Si alzò in piedi, per indicare che voleva tenere l’attenzione per più di una frase o due. Bedap fece una smorfia, e guardò di nuovo Shevek, seduto accanto a lui. — Attento a questa — mormorò. Shevek non rispose, ma Shevek era sempre timido e riservato alle riunioni, non valeva niente a meno che non venisse profondamente commosso da qualcosa, nel qual caso si rivelava un oratore sorprendentemente valido. Era seduto al suo posto e si fissava le mani. Ma mentre Rulag parlava, Bedap notò che la donna, sebbene parlasse a lui, continuava a lanciare occhiate verso Shevek.

— Il vostro Gruppo dell’Iniziativa — disse, sottolineando l’aggettivo «vostro», — ha proceduto a costruire un trasmettitore, a trasmettere a Urras e a ricevere da questo, e a pubblicare le comunicazioni. Tutto ciò è stato da voi compiuto contrariamente alle opinioni della maggioranza del CDP, e alle crescenti proteste di tutta la Fratellanza. Non ci sono state ancora rappresaglie contro la vostra attrezzatura o contro voi stessi, soprattutto, io credo, per il fatto che noi Odoniani ci siamo disabituati alla stessa idea che qualcuno adotti un corso d’azioni dannoso agli altri e persista in esso a dispetto degli avvisi e delle proteste. È un evento assai raro. In realtà, voi siete i primi di noi che si siano comportati nel modo sempre predetto dai critici archisti quando parlavano del comportamento dei membri di una società priva di leggi: con totale mancanza di responsabilità nei riguardi del bene della società. Non intendo ritornare sul danno da voi già compiuto, il passaggio di informazioni scientifiche a un nemico potente, la confessione della nostra debolezza rappresentata da ciascuna delle vostre trasmissioni a Urras. Ma ora, ritenendo che ci siamo già assuefatti a tutto questo, voi proponete qualcosa di assai peggiore. Che differenza ci può essere, voi direte, tra parlare con alcuni urrasiani sulle onde corte e parlare con alcuni di essi qui ad Abbenay? Qual è la differenza? Qual è la differenza tra una porta chiusa e una porta aperta? Apriamo la porta… ecco che cosa ci dite, voi lo sapete, ammari. Apriamo la porta, lasciamo venire gli urrasiani! Sette o otto pseudo Odoniani sul prossimo mercantile. Settanta o ottanta profittatori iotici su quello che verrà dopo, per esaminarci bene e vedere come ci possono suddividere come proprietà tra le nazioni di Urras. E col viaggio seguente verranno settecento o ottocento navi da guerra armate: cannoni, soldati, una forza d’occupazione. Fine di Anarres, fine della Promessa. La nostra speranza giace, da centosettant’anni, nei Termini dell’Insediamento: Nessun urrasiano scenderà dalle navi, eccetto i Coloni, né allora né mai. Nessuna mescolanza. Nessun contatto. Abbandonare quel principio ora, equivale a dire ai tiranni che un tempo abbiamo sconfitto: L’esperimento è fallito, venite di nuovo a renderci schiavi.

— Niente affatto — disse subito Bedap. — Il messaggio è chiaro: L’esperimento è riuscito, ora siamo abbastanza forti da affrontarvi come uguali.

La discussione continuò come prima, un rapido martellare di botta e risposta. Non durò a lungo. Non si fece una votazione, come al solito. Quasi tutti i presenti sostenevano fortemente il rispetto dei Termini dell’Insediamento, e non appena questo divenne chiaro, Bedap disse: — D’accordo, ritengo chiusa la questione. Nessuno verrà qui con il Forte di Kuieo o il Pensiero. Sulla questione di portare urrasiani su Anarres, l’intenzione del Gruppo deve chiaramente cedere all’opinione complessiva della società: abbiamo chiesto il vostro parere e lo seguiremo. Ma c’è un altro aspetto della stessa questione. Shevek?

— Be’, c’è la questione — disse Shevek, — di mandare un anarresiano su Urras.

Si alzarono esclamazioni e domande. Shevek non alzò la voce, che era poco più di un mormorio, e continuò: — Non farebbe alcun danno e non minaccerebbe nessuno che viva su Anarres. E mi pare che sia una questione di diritti individuali; una specie di prova di questi diritti, in effetti. I Termini dell’Insediamento non lo proibiscono. Proibirlo ora sarebbe un’assunzione di autorità da parte del CDP, una restrizione del diritto dell’individuo Odoniano di dare inizio ad azioni innocue per gli altri.

Rulag si sporse in avanti, senza alzarsi dalla sedia. Sorrideva un poco. — Ciascuno è libero di lasciare Anarres — disse. I suoi occhi chiari passarono da Shevek a Bedap e a Shevek. — Può andare dove vuole, se le navi dei proprietaristi sono disposte a prenderlo. Ma non può tornare indietro.

— Chi dice che non può? — chiese Bedap.

— I Termini della Chiusura dell’Insediamento. Nessuno potrà allontanarsi dalle navi mercantili al di là della cinta del Porto di Anarres.

— Su, via, nelle intenzioni, questo si doveva certamente riferire agli urrasiani, non agli anarresiani — disse un vecchio consigliere, Ferdaz, che amava tuffare nell’acqua il proprio remo anche se esso allontanava la barca dalla rotta da lui voluta.

— Urrasiano è chi viene da Urras — disse Rulag.

— Legalismi, legalismi! Cosa sono tutti questi cavilli? — disse una donna calma, pesante, chiamata Trepil.

— Cavilli! — gridò il nuovo membro, il giovane. Aveva l’accento degli Altipiani del Nord e una voce profonda, forte. — Se non ti piacciono i cavilli, senti questo. Se quaggiù ci sono delle persone a cui non piace Anarres, lasciatele andare. Darò una mano anch’io. Le porterò io stesso al Porto, ce le spingerò a calci! Ma se cercheranno di strisciare indietro, troveranno alcuni di noi, laggiù, ad aspettarle. Alcuni veri Odoniani. E non li troveranno sorridenti, a dire: «Benvenuti a casa, fratelli.» Si troveranno i denti cacciati in gola a pugni, le balle rincalcate in pancia a calci. Questo lo capite? È abbastanza chiaro per tutti?

— Chiaro, no; aperto, sì. Aperto come una scorreggia — disse Bedap. — La chiarezza è una funzione del pensiero. Dovresti imparare un po’ di Odonianesimo, prima di aprire la bocca qui dentro.

— Tu non sei degno di pronunciare il nome di Odo! — urlò il giovane. — Tu sei un traditore, tu e tutto il tuo Gruppo! Su tutta Anarres ci sono persone che vi sorvegliano. Tu pensi che noi non sappiamo che a Shevek è stato chiesto di andare su Urras, di andarci per vendere la scienza anarresiana ai profittatori? Credi che non sappiamo che tutti voi piagnoni vorreste andarci per vivere la vita dei ricchi e farvi battere manate sulle spalle dai proprietaristi? Potete andare! Grazie per averci liberati di voi! Ma se cercherete di ritornare nuovamente qui, farete l’incontro con la giustizia!

Si era alzato e si sporgeva sul tavolo, urlava direttamente in faccia a Bedap. Bedap alzò lo sguardo su di lui e disse: — Tu non vuoi dire giustizia, tu vuoi dire punizione. Credi che siano la stessa cosa?

— Vuol dire violenza — disse Rulag. — E se ci sarà violenza, l’avrete causata voi. Voi e il vostro Gruppo. E ve la sarete meritata.

Un uomo sottile, piccolo, di mezza età, vicino a Trepil, cominciò a parlare, dapprima così piano, con una voce resa roca dalla tosse da polvere, che pochi dei presenti lo udirono. Era un osservatore proveniente da un gruppo di minatori del Sudovest, e non ci si aspettava che prendesse la parola su quell’argomento. — … si meriti un uomo — stava dicendo. — Poiché ciascuno di noi merita ogni cosa, ogni lusso che fu mai accumulato nelle tombe dei defunti sovrani, e ciascuno di noi non merita nulla, neppure un boccone di pane quando ha fame. Non abbiamo noi forse mangiato mentre un altro moriva di fame? Ci punirete per questo? Ci premierete per la virtù di morire di fame mentre altri mangiava? Nessun uomo si merita una punizione, nessun uomo si merita un premio. Liberate la vostra mente dall’idea del meritare, e allora comincerete a essere capaci di pensare. — Si trattava, naturalmente, di parole di Odo tratte dalle Lettere dalla Prigione, ma così pronunciate, dalla voce debole, roca del minatore, facevano uno strano effetto, come se le concepisse egli stesso in quel momento, parola per parola: come se provenissero dal suo stesso cuore, lentamente, con difficoltà, così come l’acqua sgorga lentamente, lentissimamente, dalle sabbie del deserto.

Rulag ascoltò, con la testa eretta, il viso teso come quello di una persona che cerca di vincere un dolore. Di fronte a lei, dall’altro lato del tavolo, Shevek era ancora seduto, con la testa china. Le parole lasciarono dietro di sé un silenzio, ed egli alzò lo sguardo e parlò in quel silenzio.

— Vedete — disse, — la cosa che noi cerchiamo è di ricordare a noi stessi che non siamo venuti su Anarres per la sicurezza, ma per la libertà. Se dobbiamo essere tutti d’accordo, tutti lavorare insieme, allora non siamo migliori di una macchina. Se un individuo non può lavorare in solidarietà con i suoi colleghi, allora è suo dovere lavorare da solo. Suo dovere e suo diritto. Noi stiamo dicendo, sempre e sempre più spesso: tu devi lavorare con gli altri, tu devi accettare il comando della maggioranza. Ma ogni comando è tirannia. Il dovere dell’individuo è quello di non accettare nessun comando, di essere l’iniziatore dei propri atti, di essere responsabile. Soltanto se egli così farà, la società vivrà, e cambierà, e si adatterà, e sopravviverà. Noi non siamo i sudditi di uno Stato fondato sulla legge, bensì i membri di una società fondata sulla rivoluzione. La rivoluzione è il nostro obbligo: la nostra speranza di evoluzione. «La Rivoluzione è nello spirito individuale, oppure non è da nessuna parte. È per tutto, oppure non è niente. Se la si vede come qualcosa che abbia un fine preciso, una fine precisa, non avrà mai veramente inizio.» Noi non possiamo fermarci qui. Noi dobbiamo proseguire. Dobbiamo assumerci i rischi.

Rulag rispose, calma come lui, ma molto freddamente: — Non hai diritto di esporci tutti a un rischio che sei spinto ad assumerti per motivi personali.

— Nessuno che non sia disposto ad andare fino a dove voglio andare io ha diritto di impedirmi di andare — rispose Shevek. I loro occhi si incontrarono per un attimo; entrambi abbassarono lo sguardo.

— Il rischio di un viaggio su Urras non tocca altro che la persona che parte — disse Bedap. — Non cambia nulla dei Termini dell’Insediamento, e nulla del nostro rapporto con Urras, eccetto che, forse, moralmente… a nostro vantaggio. Ma non credo che siamo pronti, che nessuno di noi lo sia, per decidere su questo argomento. Per il momento ritiro la questione, se gli altri sono d’accordo.

Gli altri assentirono, ed egli e Shevek lasciarono la riunione.

— Devo andare all’Istituto — disse Shevek, quando uscirono dall’edificio del CDP. — Sabul mi ha mandato uno dei suoi ritagli delle unghie… il primo dopo anni. Che avrà in mente, mi chiedo?

— Che cosa avrà in mente quella Rulag, mi chiedo io! Quella donna ha del rancore personale nei tuoi riguardi. Invidia, credo. Non bisogna più mettere voi due alla stessa tavola, altrimenti non approderemo mai a niente. E anche quel giovane degli Altipiani del Nord è una brutta novità. Comando della maggioranza e la forza che diventa diritto! Riusciremo a far ascoltare il nostro messaggio, Shevek, o stiamo soltanto facendo irrigidire l’opposizione?

— Forse dovremmo davvero inviare qualcuno su Urras… dimostrare il nostro diritto per mezzo dell’azione, se le parole non basteranno.

— Forse. Purché non si tratti di me! Sono disposto a diventare viola a forza di parlare del nostro diritto di lasciare Anarres, ma se dovessi essere io a farlo, dannazione, mi taglierei la gola.

Shevek rise. — Io devo andare. Sarò a casa tra un’ora, più o meno. Vieni a mangiare con noi questa sera.

— Vado ad aspettarti alla stanza.

Shevek si avviò per la strada con la sua lunga falcata; Bedap rimase fermo davanti all’edificio del CDP, esitante. Si era a metà del pomeriggio, e la giornata primaverile era ventosa, soleggiata, fredda. Le strade di Abbenay erano chiare, terse, vive di luce e di persone. Bedap si sentiva insieme eccitato e abbattuto. Ogni cosa, comprese le sue emozioni, era promettente, ma insoddisfacente. Si avviò in direzione del domicilio dell’isolato Pekesh dove Shevek e Takver abitavano ora, e trovò, come aveva sperato, Takver in casa con la bambina.

Takver aveva abortito due volte e poi era giunta Pilun, tardi e un po’ inattesa, ma assai benvenuta. Era piccola alla nascita, ed ora, avvicinandosi ai due anni, era ancora piccola, con braccia e gambe minute, molto sottili. Quando Bedap la teneva, era sempre vagamente allarmato o respinto dal contatto di quelle braccia, così fragili ch’egli avrebbe potuto romperle con un semplice movimento della mano. Amava molto Pilun, era affascinato dai suoi occhi grigi e nebbiosi, conquistato dalla sua profonda fiducia, ma ogni volta che la toccava, capiva consciamente, come in precedenza non gli era mai occorso, quale sia l’attrazione della crudeltà, perché il forte tormenta il debole. E perciò — sebbene egli non fosse capace di spiegare le ragioni di quel «perciò» — capiva anche una cosa che non aveva mai avuto molto senso per lui, anzi che non l’aveva mai interessato affatto: il sentimento paterno. Provava un piacere straordinario quando Pilun lo chiamava tadde.

Si sedette sulla predella del letto sotto la finestra. Era una stanza di buone dimensioni, con due predelle. Sul pavimento c’era una stuoia; non c’era altro arredamento, né sedie né tavolo, soltanto un piccolo recinto mobile che delimitava uno spazio di gioco o proteggeva il letto di Pilun. Takver aveva aperto il cassetto lungo e largo dell’altra predella, e metteva a posto pile di fogli di carta in esso contenute. — Tienimi Pilun, caro Bedap! — disse con il suo largo sorriso, quando la bambina cominciò ad avviarsi verso di lui. — Mi ha pasticciato questi fogli almeno dieci volte, ogni volta che li ho messi a posto. Qui avrò finito tra un minuto… dieci, anzi.

— Non metterti fretta. Non ho voglia di parlare. Mi basta stare qui a sedere. Vieni qui, Pilun. Cammina… ecco, così si fa! Cammina da Tadde Bedap. Adesso ti ho preso!

Pilun si sedette contenta sulle sue ginocchia e cominciò a studiargli la mano. Bedap si vergognava delle sue unghie, che, anche se non se le rosicchiava più, erano ormai deformate, e dapprima chiuse la mano per nasconderle; poi si vergognò di averne vergogna, e aprì la mano. Pilun cominciò a battervi sopra.

— Questa è una bella stanza — disse. — Con la luce a nord. È sempre tranquillo, qui dentro.

— Sì. Zitto, sto contandoli.

Dopo un poco, Takver mise via le pile di fogli e chiuse il cassetto. — Fatto! Scusa, ma avevo detto a Shevek che avrei messo il numero a quelle pagine. Vuoi bere?

Il razionamento era ancora in forza per molti cibi, anche se era molto meno restrittivo di cinque anni prima. I frutteti degli Altipiani del Nord avevano sofferto meno la siccità, e si erano ripresi più in fretta, delle regioni coltivate a grano, e l’anno precedente la frutta secca e i succhi di frutta erano stati tolti dalla lista delle razioni. Takver aveva una bottiglia sul davanzale della finestra, dietro gli scuri. Ne versò a tutti e due, in tazzine di terracotta un po’ bitorzolute che Sedik aveva fatto a scuola. Si sedette di fronte a Bedap e lo guardò, sorridendo. — Be’, come va al CDP?

— Sempre lo stesso. Come va al laboratorio dei pesci?

Takver fissò la propria tazza, muovendola per guardare il riflesso della luce sulla superficie del liquido. — Non so. Pensavo di andarmene.

— Perché, Takver?

— Meglio andarsene che sentirsi dire di andarsene. Il guaio è che il lavoro mi piace, e che sono anche brava, nel mio campo. Ed è l’unico del suo tipo ad Abbenay. Ma non puoi essere un membro di una squadra di ricerca che ha deciso che non sei un suo membro.

— Se la prendono con te, eh?

— Ed è sempre peggio — disse lei, e lanciò un’occhiata alla porta, rapidamente e meccanicamente, come per assicurarsi che non ci fosse Shevek, ad ascoltare. — Alcuni di loro sono incredibili. Be’, tu sai com’è. Non serve a niente parlarne.

— No, ed è questo il motivo per cui sono lieto di averti trovato da sola. Io, in realtà, non so affatto com’è. Io, e Shevek, e Skovan, e Gezach, e tutti gli altri che passano la maggior parte del tempo alla stamperia o alla torre radio, non abbiamo assegnazioni di lavoro, e perciò non vediamo molta gente al di fuori del Gruppo dell’Iniziativa. Io passo un mucchio di tempo al CDP, ma lì si tratta di una situazione speciale, lì mi aspetto dell’opposizione perché me la creo apposta. Ma, tu, contro che cosa ti sei imbattuta?

— L’odio — disse Takver con la sua voce cupa, bassa. — Vero odio. Il direttore del mio progetto non mi parla più. Be’, non è una gran perdita. Non mi è mai stato simpatico. Ma alcuni degli altri mi dicono ciò che pensano… C’è una donna, non nel laboratorio dei pesci, ma qui nel domicilio. Io sono nel comitato di igiene dell’isolato, e dovevo parlare con lei di qualcosa. Non mi ha lasciato parlare. «Non cercare di entrare in questa stanza, vi conosco, io, voialtri maledetti traditori, voialtri intellettuali, egoizzatori» eccetera eccetera, e poi mi ha sbattuto la porta in faccia. Una scena grottesca. — Takver rise tristemente. Pilun, vedendola ridere, sorrise, raggomitolata nel cavo del braccio di Bedap, e poi sbadigliò. — Ma, sai, mi ha spaventato. Sono codarda, Bedap. Non mi piace la violenza. Non mi piace neppure la disapprovazione!

— Ovviamente no. L’unica sicurezza che abbiamo è l’approvazione dei nostri vicini. Un archista può infrangere una legge e sperare di farla franca, senza subire punizione, ma tu non puoi «infrangere» un costume; è la cornice della tua vita con l’altra gente. Noi stiamo appena cominciando a provare che cosa voglia dire essere dei rivoluzionari, per dirla con le parole usate da Shevek alla riunione di oggi. Non è una cosa comoda.

— Ma alcune persone capiscono — disse Takver, sforzandosi di essere ottimista. — Una donna sull’omnibus, ieri, non so dove l’ho incontrata, lavoro del decimo giorno da qualche parte, credo; mi ha detto: «Dev’essere bello vivere con un grande scienziato, dev’essere così interessante!» E io le ho risposto: «Sì, almeno c’è sempre qualcosa di cui parlare.» … Pilun, non ti addormentare, piccola! Shevek arriverà a casa tra poco e andremo a mensa. Dondolala un po’, Bedap. Be’, comunque, vedi, quella donna sapeva chi fosse Shevek, ma non mostrava né odio né disapprovazione, era molto gentile.

— La gente sa bene chi egli sia — disse Bedap. — È curioso, perché non possono capire il suo libro più di quanto possa capirlo io. Alcune centinaia di persone possono capirlo, pensa lui. Quegli studenti dell’Istituto Divisionale che cercano di organizzare corsi di Simultaneità. Io penso che venti, venticinque persone sia un numero più aderente alla realtà, per conto mio. Eppure la gente sa di lui, hanno la sensazione che sia qualcosa di cui andare fieri. Ecco una cosa che il Gruppo ha fatto, se non altro. Ha stampato i libri di Shevek. Può essere l’unica cosa saggia che abbiamo fatto.

— Oh, adesso! Devi avere avuto una seduta dura, oggi al CDP.

— L’abbiamo davvero avuta. Mi piacerebbe darti delle buone notizie, Takver, ma non posso proprio. Il Gruppo sta colpendo assai vicino al legame fondamentale societario, la paura dello straniero. C’era un giovanotto, oggi alla riunione, che minacciava apertamente delle rappresaglie. Be’, è una povera risposta, ma troverà altri pronti ad appoggiarla. E quella Rulag, maledizione, è una opponente formidabile!

— E sai chi è, Bedap?

— Chi è?

— Shevek non te l’ha mai detto? Be’, non ama parlarne. È la madre.

— La madre di Shevek?

Takver annuì. — L’ha lasciato quando aveva due anni. Il padre rimase con lui. Nulla d’inconsueto, naturalmente. Eccetto i sentimenti di Shevek. Egli sente di avere perduto qualcosa di essenziale… tanto lui quanto il padre. Non cerca di trarne qualche principio generale, che i genitori dovrebbero sempre tenere con sé i figli, o qualcosa di simile. Ma l’importanza che la fedeltà riveste per lui, io credo, va ricondotta a questo.

— Quel che è inconsueto — disse Bedap, forte, dimenticando la presenza di Pilun. che gli si era addormentata in braccio, — nettamente inconsueto, sono i sentimenti di Rulag verso di lui! Aspettava soltanto ch’egli si presentasse a una riunione dell’Importazione-Esportazione; la cosa era chiarissima, oggi. Sa che è l’anima del gruppo, e ci odia per causa sua. Perché? Sentimento di colpa? La Società Odoniana si è talmente corrotta che siamo oggi motivati dai sentimenti di colpa?Sai, adesso che mi hai detto questo, quei due si assomigliano. Soltanto che, in lei, è tutto indurito, duro come pietra… morto.

La porta si aprì mentre egli parlava. Entrarono Shevek e Sedik. Sedik aveva dieci anni, era alta per la sua età ed era sottile, tutta lunghe gambe, flessuosa e fragile, con una nube di capelli neri. Dietro di lei venne Shevek; e Bedap, osservandolo nella strana nuova luce della sua parentela con Rulag, lo vide come una persona può qualche volta vedere un amico di lunga, lunghissima data, con una nitidezza a cui contribuisce tutto il passato: la faccia splendida e reticente, piena di vita ma consumata, consumata fino all’osso. Era una faccia intensamente individuale, e tuttavia i connotati erano non soltanto simili a quelli di Rulag, ma anche a quelli di molti anarresiani, un popolo selezionato da una visione di libertà, e adattato a un mondo spoglio: un mondo di distanze, silenzi, solitudini.

Nella stanza, intanto: molta intimità, commozione, comunione; saluti, risa, Pilun che passava dall’uno all’altro, con poca soddisfazione dell’interessata, per venire coccolata, e la bottiglia che veniva passata dall’uno all’altro per bere; domande, conversazioni. Sedik, inizialmente, fu al centro dell’attenzione, poiché, di tutta la famiglia, era colei che veniva nella stanza con minore frequenza; poi il centro dell’attenzione passò su Shevek. — Che cosa voleva il vecchio sudicione?

— Sei stato all’Istituto? — chiese Takver, voltandosi verso di lui, che le si era seduto accanto.

— Ci sono andato adesso. Sabul mi aveva lasciato questa mattina un messaggio al Gruppo. — Shevek bevve il suo succo di frutta e abbassò la tazza, rivelando un curioso atteggiamento della sua bocca: una non-espressione. — Ha detto che la Federativa di Fisica ha libero un incarico a tempo pieno. Autonomo, permanente.

— Per te, vuoi dire? Laggiù? All’Istituto?

Egli annuì.

— Te l’ha detto Sabul?

— Cerca di arruolarti — disse Bedap.

— Sì, lo credo anch’io. Se non riesci a sradicarlo, addomesticalo, come dicevamo nell’Insediamento del Nord. — Shevek rise, bruscamente e spontaneamente. — E divertente, no? — disse.

— No — disse Takver. — Non è divertente. È disgustoso. Anzi, come hai potuto andare a parlare con lui? Dopo tutte le calunnie che ha diffuso sul tuo conto, le bugie sul fatto che i Princìpi erano stati rubati a lui, e il non averti detto che gli urrasiani ti avevano dato quel premio, e poi, l’anno scorso, quando ha fatto sciogliere quei ragazzi che avevano organizzato la serie di lezioni e li ha fatti allontanare a causa della tua «influenza cripto-autoritaristica» su di loro… proprio tu, un autoritarista! … è stato vomitevole, imperdonabile. Come puoi comportarti urbanamente con un uomo simile?

— Be’, non è soltanto Sabul, lo sai. Sabul è solo il portavoce.

— Lo so, ma a lui piace fare il portavoce. E si è comportato in modo schifoso per tanto tempo! Be’, cosa gli hai detto?

— Ho temporeggiato… come diresti tu — disse Shevek, e rise di nuovo. Takver lo osservò nuovamente, poiché adesso era certa che, nonostante il suo controllo, egli era in uno stato di tensione o di eccitazione estrema.

— Dunque, non gli hai detto un no deciso?

— Ho detto che alcuni anni fa mi ero ripromesso di non accettare alcuna assegnazione regolare di lavoro, per essere in grado di svolgere lavoro teorico. E così egli ha detto che, trattandosi di un incarico autonomo, sarei stato pienamente libero di portare avanti la ricerca che stavo facendo, e che lo scopo di dare a me l’incarico era quello di… sentite come l’ha messa lui… «facilitare l’accesso alla strumentazione sperimentale dell’Istituto, e ai regolari canali di pubblicazione e di diffusione.» Le edizioni del CDP, in altre parole.

— Be’, allora hai vinto — disse Takver, guardandolo con una strana espressione. — Hai vinto. Stamperanno ciò che tu scrivi. È quello che volevi quando siamo tornati qui cinque anni fa. I muri sono stati abbattuti.

— Ci sono dei muri dietro ai muri — disse Bedap.

— Avrò vinto soltanto se accetterò l’incarico. Sabul mi offre di… legalizzarmi. Di rendermi ufficiale. Allo scopo di separarmi dal Gruppo dell’Iniziativa. Non appare anche a te che sia questo il suo motivo, Bedap?

— Certo — disse Bedap. La sua faccia era cupa. — Dividi per indebolire.

— Ma riportare Shevek nell’Istituto, e stampare nelle edizioni del CDP ciò ch’egli scrive, è dare implicitamente un’approvazione a tutto il Gruppo, no?

— Potrebbe significare questo per molte persone — disse Shevek.

— No, non lo significherebbe affatto — disse Bedap. — Verrà spiegato. Il grande fisico è stato fuorviato da un gruppo di dissidenti, per un certo periodo. Gli intellettuali si lasciano sempre fuorviare, poiché essi pensano a cose irrilevanti come il tempo, lo spazio e la realtà, cose che non hanno niente a che vedere con la vita quotidiana, e così vengono facilmente ingannati dai cattivi deviazionisti. Ma i buoni Odoniani dell’Istituto gli hanno cortesemente spiegato i suoi errori, ed egli è ritornato sul sentiero della verità social-organica. Privando così il Gruppo dell’Iniziativa del suo unico concepibile elemento capace di richiamare seriamente l’attenzione di tutti gli abitanti di Urras e Anarres.

— Non intendo abbandonare il Gruppo, Bedap.

Bedap sollevò la testa e disse dopo un attimo: — No, so che non intendi farlo.

— Bene. Andiamo a pranzo. Ho la pancia che borbotta: la senti, Pilun? Rrowr, rrowr!

— Ohp! — disse Pilun, in tono di comando. Shevek la afferrò e poi si raddrizzò, portandola sulla propria spalla. Dietro la sua testa e quella della bambina, l’unica scultura mobile appesa nella stanza oscillò piano. Era una grossa scultura, fatta di fili appiattiti, che, di lato, quasi scomparivano alla vista; avevano forma ovale, e questi ovali, di tempo in tempo, sparivano; ugualmente sparivano, in certe condizioni di luce, le sottili e trasparenti bolle di vetro che si muovevano nell’interno dei fili ovali e che formavano orbite ellissoidali intorno al centro comune, senza mai incontrarsi completamente, senza mai totalmente separarsi. Takver la chiamava Abitazione del Tempo.

Si recarono alla mensa di Pekesh, e attesero che la tabella indicasse una rinuncia, in modo da poter portare Bedap come ospite. Bedap si registrò presso la mensa, e questo suo atto lo cancellò dalla mensa in cui mangiava di solito: il sistema era coordinato da un calcolatore, sull’intera città. Era uno dei «processi omeostatici» altamente meccanizzati favoriti dai primi Coloni e che persistevano soltanto ad Abbenay. Come vari altri metodi meno sofisticati che venivano usati altrove, esso non funzionava mai perfettamente; c’erano carenze, eccessi e frustrazioni, ma niente di grave. Le rinunce alla mensa di Pekesh erano rare, poiché la sua cucina godeva la fama di essere la migliore di Abbenay e aveva una tradizione di grandi cuochi. Infine apparve un’apertura, ed essi entrarono. Due giovani che Bedap conosceva di vista e che erano vicini di domicilio di Shevek e Takver si unirono a loro al tavolo. Altri non vennero… o non vollero venire? Qual era l’ipotesi corretta? Non parve importare. Mangiarono un buon pasto e passarono piacevolmente il tempo chiacchierando tra loro. Ma ogni tanto Bedap provò l’impressione che intorno a loro ci fosse un cerchio di silenzio.

— Non so che cosa inventeranno ancora gli urrasiani — disse, e sebbene stesse parlando senza impegno, scoprì, con fastidio, di avere abbassato la voce. — Hanno chiesto di venire qui, e hanno chiesto a Shevek di andare da loro; quale sarà la loro prossima mossa?

— Non sapevo che avessero chiesto a Shevek di andare da loro — disse Takver, corrugando leggermente la fronte.

— Sì, lo sapevi — disse Shevek. — Quando mi hanno detto di avermi dato il premio, sai, il Seo Oen, mi hanno chiesto se potevo andare, ricordi? Per prendere il denaro del premio! — Shevek sorrise, radioso. Anche se c’era un cerchio di silenzio intorno a loro, egli non se ne preoccupava: era sempre stato solo.

— Vero. Lo sapevo. Soltanto, non mi era parsa una possibilità concreta. Da decadi parlate di suggerire alla riunione del CDP che qualcuno si rechi su Urras, tanto per sconvolgerli.

— Ed è quanto abbiamo finalmente fatto, oggi pomeriggio. Bedap mi ha indotto a dirlo.

— E ne sono rimasti sconvolti?

— Gli si sono rizzati i capelli, usciti gli occhi dalle orbite…

Takver rise. Pilun sedeva su un seggiolone accanto a Shevek e si esercitava i denti su un pezzo di pane di holum e la voce facendo versi. — O manieri bateri — proclamò, — abberi abberi babberi dab! — Shevek, sempre versatile, le rispose nella stessa vena. La conversazione degli adulti continuò senza molta attenzione e con interruzioni. Bedap non se la prese; da tempo aveva imparato che occorreva accettare Shevek con tutte le sue complicazioni, oppure lasciarlo perdere. La più silenziosa di tutti era Sedik.

Bedap rimase con loro ancora per un’ora, dopo il pasto, nella camera comune del domicilio, ch’era bella e spaziosa, e quando Sedik si alzò per uscire, si offrì di accompagnarla al dormitorio della scuola, che era sulla sua strada. A queste parole, accadde qualcosa, uno di quegli eventi o di quei segnali che risultano chiari soltanto ai membri della stessa famiglia; l’unica cosa che Bedap capì, fu che Shevek, senza mostrare fastidio e senza dir nulla, li accompagnò. Takver doveva andare a dare da mangiare a Pilun, che diventava sempre più rumorosa. Takver diede il bacio del saluto a Bedap, che si allontanò con Sedik e Shevek, chiacchierando con luì. Parlavano fitto, e non si accorsero di avere superato il centro di apprendimento. Tornarono indietro, e trovarono Sedik ferma davanti all’entrata del dormitorio. Era immobile, dritta e sottile, con il viso teso, nella debole luce della lampada stradale. Shevek rimase altrettanto immobile per un momento, poi si avvicinò a lei. — Che cosa è successo, Sedik?

La bambina rispose: — Shevek, posso rimanere nella camera per la notte?

— Certamente. Ma cos’è successo?

Il viso lungo, delicato, di Sedik tremò e parve frammentarsi. — Non gli piaccio, a quelli del dormitorio — disse, con la voce stridula per la tensione, ma ancor più morbida di prima.

— Non gli piaci? Che intendi dire?

Non si erano ancora toccati. Sedik gli rispose con disperato coraggio. — Perché non gli piace… non gli piace il Gruppo, e Bedap, e… e tu. Vi chiamano… La sorella grande della stanza, ha detto che voi… che noi siamo tutti tra… Ha detto che siamo dei traditori — e nel pronunciare la parola, la bambina sobbalzò come se fosse stata colpita da un proiettile; Shevek la prese fra le braccia. Sedik si tenne a lui con tutta la sua forza, piangendo con grandi singhiozzi. Era troppo vecchia, troppo alta perché Shevek la prendesse in braccio. Rimase fermo ad abbracciarla, accarezzandole i capelli. Alzò gli occhi al di sopra della testa della bambina e guardò Bedap. Anche i suoi occhi erano pieni di lacrime. Disse: — Tutto a posto, Bedap, vai pure.

Bedap non poteva fare altro che lasciarli, l’uomo e la bambina, in quell’unica intimità ch’egli non poteva condividere, la più dura e la più profonda, l’intimità del dolore. Il fatto di andarsene non gli diede alcun senso di sollievo o di fuga; invece, si sentì inutile, sminuito. «Ho trentanove anni» pensò, mentre si dirigeva al proprio domicilio, la stanza da cinque uomini in cui viveva in perfetta indipendenza. «Quaranta tra poche decadi. Che cosa ho fatto? Che cosa continuo a fare? Nulla. Mettermi in mezzo. Mettermi in mezzo nella vita degli altri perché non ne ho una mia. Non me ne sono mai dato il tempo. E il tempo mi sfuggirà, tutto d’un tratto, e io non avrò mai avuto… quello.» Si guardò alle spalle, nella strada lunga e tranquilla, dove le lampade formavano morbide pozze di luce nell’oscurità di vento, ma ormai si era allontanato troppo per vedere ancora il padre e la figlia, oppure essi se n’erano andati. Non avrebbe saputo dire cosa intendesse con «quello», sebbene fosse bravo con le parole; eppure sentiva di comprenderlo chiaramente, sentiva che tutta la sua speranza stava in quella comprensione, e che se voleva salvarsi doveva cambiare vita.

Quando Sedik si fu calmata abbastanza per lasciarlo, Shevek la lasciò a sedere sul primo scalino del dormitorio, ed entrò a dire alla guardiana che la bambina sarebbe rimasta con i genitori per la notte. La guardiana gli parlò con freddezza. Gli adulti che lavoravano nei dormitori dei bambini avevano una naturale tendenza a disapprovare le visite domiciliari notturne, poiché le trovavano negative; Shevek si disse che probabilmente era sbagliato voler vedere nella guardiana qualcosa di diverso da questa disapprovazione. I corridoi del centro d’apprendimento erano fortemente illuminati ed echeggiavano di rumori, suoni di strumenti musicali, voci di bambini. Erano i vecchi suoni, odori, ombre, echi dell’infanzia che Shevek ricordava, e con essi ricordò anche le paure. Le paure si dimenticano.

Uscì e ritornò a casa con Sedik, tenendole il braccio sulla spalla sottile. La bambina taceva, era ancora agitata. Disse bruscamente, quando giunsero al loro ingresso, nel domicilio principale di Pekesh: — So che non siete molto contenti, tu e Takver, di avermi con voi per la notte.

— Come mai questa idea?

— Perché volete stare in intimità, le coppie adulte hanno bisogno d’intimità.

— C’è Pilun.

— Pilun non conta.

— E neppure tu.

Sedik tirò su col naso, cercando di sorridere.

Quando giunsero alla luce della stanza, però, la faccia bianca e chiazzata di rosso, gonfia, della bambina, sorprese Takver, che disse: — Che cosa è successo? … — e Pilun, interrotta nel pasto, tolta bruscamente al suo stato di gioia, cominciò a gemere, e questo fece di nuovo piangere Sedik, e per qualche tempo si ebbe l’impressione che tutti piangessero, e si confortassero reciprocamente, e rifiutassero il conforto. Il tutto terminò quasi bruscamente in un completo silenzio, con Pilun sulle ginocchia della madre, Sedik su quelle del padre.

Quando la bambina piccola fu sazia e venne messa a dormire, Takver disse, a voce bassa ma tesa: — Allora, che cosa c’è?

Anche Sedik s’era per metà addormentata, appoggiando la testa sul petto del padre. Egli la sentì raccogliersi per rispondere. Le accarezzò i capelli per tenerla tranquilla, e rispose per lei. — Alcune persone al centro di apprendimento non ci approvano.

— E che accidenti di diritto hanno di disapprovarci?

— Ssst, ssst. Il Gruppo.

— Oh — disse Takver, con uno strano timbro gutturale; nello sbottonarsi la tunica, strappò, senza volerlo, il bottone. Abbassò gli occhi sul bottone, allargando il palmo. Poi guardò Shevek e Sedik.

— Da quanto va avanti?

— Un mucchio di tempo — disse Sedik, senza alzare la testa.

— Giorni, decadi, tutto il trimestre?

— Oh, più ancora. Ma diventano… Sono peggio, nel dormitorio, adesso. La notte. Terzol non le ferma. — Sedik parlava come una sonnambula, e in tono molto sereno, come se la questione non la riguardasse.

— E che cosa fanno? — chiese Takver, anche se un’occhiata di Shevek la avvertì di non insistere.

— Be’… mi trattano male, tutto qui. Non mi fanno entrare nei giochi e in tutto il resto. Tip, la conoscete, era mia amica, veniva sempre a parlare con me, una volta spente le luci. Ma ha smesso di farlo. Adesso nel dormitorio la sorella grande è Terzol, e non le… e dice: «Shevek è… Shevek è un…»

Egli la interruppe, accorgendosi della crescente tensione nel corpo della bambina, della ritrosia e del modo in cui cercava di raccogliere il proprio coraggio, una combinazione insopportabile: — Le dice: «Shevek è un traditore, Sadik è una egoizzatrice»… Sai benissimo che cosa le dice, Takver! — I suoi occhi fiammeggiavano. Takver venne avanti e toccò la guancia della figlia, una volta soltanto, in modo piuttosto timido. Disse, a bassa voce: — Sì, lo so — e andò a sedere sull’altra predella, di fronte a loro.

La bambina piccola, messa a dormire accanto al muro, russava leggermente. Le persone della camera accanto ritornarono a casa dalla mensa, si udì sbattere una porta, qualcuno nella piazza diede la buona notte ed ebbe risposta da una finestra aperta. Il grosso domicilio, duecento stanze, era desto, tranquillamente vivo intorno a loro; come la loro esistenza entrava nella sua, così la sua esistenza entrava nella loro, una parte di una totalità. Infine Sedik scivolò via dalle ginocchia del padre e si sedette sulla predella, al suo fianco, accanto a lui. I suoi capelli neri erano arruffati e le scendevano davanti agli occhi.

— Non volevo dirvelo perché… — la voce della bambina suonava sottile e bassa. — Ma diventa sempre peggio. Una spinge l’altra.

— Allora non devi più tornarci — disse Shevek. La circondò col braccio, ma lei gli resistette, rimase a sedere eretta.

— Se andassi a parlare io… — disse Takver.

— Non serve a niente. Non cambiano idea.

— Ma contro che cosa ci siamo messi? — chiese Takver, stupita.

Shevek non rispose. Continuò a circondare Sedik con il braccio, ed ella infine cedette, appoggiando la testa contro il suo braccio, con stanchezza, con pesantezza. — Ci sono altri centri d’apprendimento — disse infine, senza molta sicurezza.

Takver si alzò. Non riusciva a starsene ferma, e voleva fare qualcosa, agire. Ma non c’era molto da fare. — Lascia che ti pettini, Sedik — disse a bassa voce.

Pettinò i capelli della bambina e li dispose a treccia; poi misero il paravento in mezzo alla stanza e infilarono Sedik accanto alla bambina piccola, che dormiva. Sedik stava quasi per scoppiare un’altra volta in lacrime nel dare loro la buona notte, ma in meno di un quarto d’ora compresero dal suo respiro che si era addormentata.

Shevek si era seduto ai piedi della loro predella con un quaderno per appunti e la lavagna che usava per calcolare.

— Ho messo le pagine al manoscritto — disse Takver.

— Quante pagine erano?

— Quarantuna, con le appendici.

Egli annuì. Takver si alzò in piedi, guardò dietro il paravento le due bambine addormentate, ritornò e si sedette sull’orlo della predella.

— Sapevo che c’era qualcosa che non andava. Ma non mi aveva detto niente. Non mi ha mai detto niente, è stoica. Non pensavo che fosse così. Pensavo che fosse soltanto un nostro problema, non mi è venute in mente che potessero prendersela con i nostri figli. — Takver parlava piano, con amarezza. — Aumenta, aumenta sempre più… Pensi che in un’altra scuola sarebbe differente?

— Non so. Se passerà molto tempo con noi, probabilmente no.

— Non vorrai mica dire che…

— No. Ho solo detto una realtà di fatto. Se scegliamo di dare alla bambina l’intensità dell’amore individuale, non possiamo evitarle ciò che gli si accompagna, il rischio del dolore. Dolore da noi, e attraverso di noi.

— Non è giusto che debba essere tormentata per ciò che facciamo noi. È così brava, così gentile, è come l’acqua chiara… — Takver tacque, soffocata da un breve accesso di lacrime, si asciugò gli occhi, strinse le labbra.

— Non è «ciò che facciamo noi». È ciò che faccio io. — Abbassò il quaderno. — Anche tu hai sofferto per questo.

— Non m’importa quello che pensano.

— Sul lavoro?

— Posso scegliere un altro posto.

— Non qui, non nel tuo campo.

— Be’, vuoi che vada da un’altra parte? I laboratori di Sorruba a Pace e Abbondanza mi prenderebbero. Ma tu dove andresti? — Lo fissò. — Resteresti qui, penso.

— Potrei venire con te. Skovan e gli altri studiano lo iotico, tra un po’ saranno in grado di occuparsi della radio, ed è questa attualmente la mia principale funzione al Gruppo. Posso occuparmi di fisica a Pace a Abbondanza come qui. Ma a meno che io non mi tolga direttamente dal Gruppo dell’Iniziativa, questo non risolve il problema, no? Il problema sono io. Sono io quello che dà origine ai fastidi.

— Darebbero peso alla cosa, in un piccolo paese come Pace e Abbondanza?

— Temo di sì.

— Shevek, quanto di questo odio hai già incontrato tu? Anche tu sei rimasto zitto, come Sedik?

— E come te. Be’, a volte. Quando sono andato a Concordia, la scorsa estate, le cose sono state un po’ peggiori di quanto non ti abbia detto. Hanno tirato pietre e c’è stata anche baruffa. Gli studenti che mi avevano chiesto di andare hanno dovuto fare a pugni per difendermi. Ma io me ne andai subito; li mettevo in pericolo. Be’, gli studenti amano il pericolo. E dopotutto abbiamo chiesto noi la rissa, abbiamo deliberatamente agitato la gente. E c’è un mucchio di gente con noi. Ma ora… ora comincio a chiedermi se non metto in pericolo te e i bambini, Takver. Rimanendo con voi.

— Tu non sei in pericolo, vero? — disse lei, con violenza.

— Io l’ho chiesto. Ma non avevo pensato che avrebbero esteso a voi il loro risentimento tribale. Il sentimento che provo verso il vostro pericolo non è come quello che provo verso il mio.

— Altruista!

— Forse. Non posso farci nulla. Mi sento responsabile, Takver. Senza di me, voi potreste andare dove volete, o rimanere qui. Tu hai lavorato per il Gruppo, ma la cosa che ti rimproverano è la tua fedeltà a me. Io sono il simbolo. Perciò non c’è nessun posto… dove potrei andare.

— Vai su Urras — disse Takver. La sua voce era così dura che Shevek arretrò come se avesse ricevuto uno schiaffo.

Takver non sostenne il suo sguardo, e ripeté, più piano: — Vai su Urras… Perché no? Laggiù ti vogliono. Qui non ti vogliono! Forse cominceranno a vedere cosa hanno perduto, quando te ne sarai andato. E tu hai voglia di andarci. Me ne sono accorta questa sera. Non ci avevo mai pensato, prima, ma quando abbiamo parlato del premio, a pranzo, me ne sono resa conto, dal modo in cui sorridevi.

— Io non ho bisogno di premi e compensi!

— No, ma hai bisogno di sentirti apprezzato, e di discutere, e di studenti… senza che ci sia attaccato nessun codicillo di tipo Sabul. E ascolta. Tu e Bedap parlate sempre di spaventare il CDP con l’idea che qualcuno vada su Urras per dimostrare il suo diritto all’auto-determinazione. Ma se ne parlate sempre e nessuno va, non fate altro che irrobustire la loro parte… dimostrate soltanto che il costume è infrangibile. Ora che avete portato la questione a una riunione del CDP, qualcuno dovrà andare. E quel qualcuno devi essere tu. Hanno chiesto che tu vada laggiù; hai una ragione per andare. Vai a prendere la tua ricompensa… il denaro che hanno messo da parte per te — terminò, con una risata improvvisa e genuina.

— Takver, io non ho voglia di andare su Urras!

— Sì, invece; so che l’hai, anche se non so bene perché.

— Be’, naturalmente mi piacerebbe conoscere alcuni dei fisici… e vedere i laboratori di Ieu Eun dove fanno esperimenti con la luce. — Pareva vergognoso di dirlo.

— È tuo diritto farlo — disse Takver, con fierezza e sicurezza. — Se è parte del tuo lavoro, dovresti andare.

— Contribuirebbe a tener viva la Rivoluzione… da entrambe le parti… non ti pare? — disse. — Che folle idea! Come nella commedia di Tirin, ma al contrario. Io che vado a sovvertire gli archisti… Be’, almeno dimostrerebbe loro che Anarres esiste. Parlano con noi alla radio, ma non penso che credano realmente in noi. In ciò che siamo.

— Se lo credessero, potrebbero spaventarsene. Potrebbero venire qui e cancellarci via dal cielo, se tu riuscissi davvero a convincerli.

— Non credo. Io potrei fare un’altra piccola rivoluzione nella loro fisica, ma non nelle loro idee. È qui, qui su Anarres, che io posso avere influenza sulla società, anche se qui non vogliono prestare attenzione alla mia fisica. Tu hai ragione. Ora che ne abbiamo parlato, dobbiamo farlo. — Ci fu una pausa. Poi disse: — Mi chiedo che tipo di fisica facciano le altre razze.

— Quali altre razze?

— Gli stranieri. Gente di Hain e di altri sistemi solari. Ci sono due ambasciate straniere su Urras: Hain e Terra. Sono stati gli Hainiti a inventare il motore interstellare che gli urrasiani usano oggi. Penso che lo darebbero anche a noi, se fossimo disposti a chiederlo. Sarebbe interessante… — Non terminò.

Dopo un’altra, lunga pausa, si voltò verso di lei e disse in tono diverso, sarcastico: — E tu, che cosa faresti mentre io andrei a visitare i proprietaristi?

— Andrei sulla costa di Sorruba con le bambine, a vivere una tranquilla vita di tecnico di laboratorio dei pesci. Fino al tuo ritorno.

— Ritorno? Non so se potrei ritornare.

Lei lo fissò negli occhi. — Che cosa te lo impedirebbe?

— Forse gli urrasiani. Potrebbero trattenermi. Laggiù nessuno è libero di andare e venire come gli pare, lo sai. O forse la nostra stessa gente. Potrebbero impedirmi di scendere. Alcuni, al CDP, hanno minacciato di farlo, oggi. Rulag era una di loro.

— Rulag lo farebbe. Rulag conosce soltanto la negazione. Soltanto come negare la possibilità del ritorno a casa.

— È perfettamente vero. La definisce completamente — disse lui, raddrizzando la schiena e fissando Takver con ammirazione. — Ma Rulag non è la sola, purtroppo. Per molte persone, chiunque andasse su Urras e cercasse di tornare indietro sarebbe semplicemente un traditore, una spia.

— E che cosa farebbero, concretamente?

— Be’, se convincessero la Difesa del pericolo, potrebbero abbattere la nave.

— E la Difesa sarebbe tanto stupida?

— Non credo. Ma chiunque, al di fuori della Difesa, potrebbe fare degli esplosivi con polvere da mina e far saltare la nave una volta atterrata. Oppure, com’è più probabile, assalirmi una volta che io sia sceso dalla nave. Credo che questa sia quasi una certezza. Dovrebbe venire inclusa in ogni progetto di viaggio di andata e ritorno nelle zone turistiche di Urras.

— E varrebbe la pena per te… affrontare il rischio?

Per un lungo istante, egli fissò nel vuoto. — Sì — disse. — In un certo senso varrebbe il rischio. Se potessi finire la teoria laggiù, e darla a loro… a noi, a loro, a tutti i mondi, capisci… mi piacerebbe farlo. Qui mi sento chiuso tra muri. Anchilosato. Mi è difficile lavorare, fare esperimenti, sono sempre senza strumenti, senza colleghi e senza studenti. E quando faccio il lavoro, non lo vogliono. Oppure, se lo vogliono, come Sabul, vogliono che io abbandoni l’iniziativa in cambio delle approvazioni. Useranno il lavoro che faccio, dopo che sarò morto: succede sempre così. Ma perché devo dare il lavoro di tutta la mia vita in regalo a Sabul, a tutti i Sabul, ai meschini, intriganti, avidi di un singolo pianeta? Io vorrei condividerlo. È un grande campo, quello in cui lavoro. Dovrebbe venire dato in giro, passato agli altri. Non c’è certamente il pericolo che si esaurisca!

— Allora, d’accordo — disse Takver. — Vale il rischio.

— Vale cosa?

— Il rischio. Di forse non poter tornare.

— Non poter tornare — egli ripeté. Fissò Takver con uno sguardo strano, profondo, eppure distratto.

— Penso che ci sia molta più gente dalla nostra parte, dalla parte del Gruppo, di quanto non pensiamo. Si tratta soltanto del fatto che finora non abbiamo ancora fatto molto… non abbiamo fatto nulla per raccoglierli… non abbiamo corso alcun rischio. Se tu corressi il rischio, credo che verrebbero ad aiutarti. Se tu aprissi la porta, fiuterebbero di nuovo l’aria pura, fiuterebbero la libertà.

— E potrebbero buttarsi di corsa a chiudere la porta.

— Se lo faranno, peccato per loro. Il Gruppo potrà difenderti quando atterrerai. E poi, se la gente sarà ancora così ostile e piena di odio, la manderemo all’inferno. Che vale una società anarchica che ha paura dell’anarchia? Andremo a vivere al Solitario, a Sedep Superiore, all’Infimo, andremo a vivere in solitudine sulle montagne, se occorrerà. C’è posto. Ci sarà gente che verrà con noi. Faremo una nuova comunità. Se la nostra società scivola verso la politica e la ricerca del potere, allora noi la lasceremo, faremo un’Anarres dopo Anarres, un nuovo inizio. Che ne dici?

— Bellissimo — disse lui, — bellissimo, cara. Ma io non andrò su Urras, lo sai.

— Oh, sì, invece. E tornerai — disse Takver. I suoi occhi erano molto scuri, un’oscurità morbida, come quella di una foresta nella notte. — Se decidi di farlo. Tu arrivi sempre dove ti proponi di andare. E torni sempre indietro.

— Non dire sciocchezze, Takver. Io non vado su Urras!

— Sono stanca — disse Takver, stirandosi e piegandosi per appoggiare la fronte contro il suo braccio. — Andiamo a dormire.

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