Quando Shevek si destò, dopo avere dormito senza interruzioni per tutta la sua prima mattina su Urras, aveva il naso intasato, la gola irritata e una tosse insistente. Ritenne di essersi preso un raffreddore — neppure l’igiene Odoniana era riuscita a evitare il raffreddore comune — ma il dottore che attendeva di eseguire su di lui un controllo medico completo, un uomo anziano e dall’aria solenne, gli disse che si trattava, molto probabilmente, di un attacco di febbre da fieno: una reazione allergica al pulviscolo e al polline di Urras, che non erano familiari al suo organismo. Gli prescrisse delle compresse e un’iniezione, che Shevek accolse con filosofia, e il vassoio della colazione, che Shevek accolse con appetito. Il dottore gli chiese ancora di non uscire dall’appartamento, poi se ne andò. Non appena ebbe terminata la colazione, Shevek si dedicò all’esplorazione di Urras, una stanza alla volta.
Il letto, un letto massiccio, montato su quattro piedini, con un materasso assai più soffice di quello della cuccetta della nave, con coperte complicate, alcune lisce e sottili, altre calde e spesse, e con un mucchio di cuscini che parevano nubi e cumuli, disponeva di un’intera stanza. Il pavimento era ricoperto di un tappeto cedevole ed elastico; c’erano una cassettiera di legno mirabilmente scolpito e lucidato, un ripostiglio abbastanza grande da accogliere gli abiti di un dormitorio per dieci persone. Poi c’era la grande stanza comune con il focolare, da lui già osservata la sera prima, e una terza stanza, che conteneva una vasca da bagno, un lavandino e un cesso complicatissimo. Questa stanza era destinata evidentemente al suo uso esclusivo, dato che la sua porta d’accesso dava sulla stanza da letto, e dato che conteneva soltanto una serie di oggetti da bagno, sebbene ciascuno di tali oggetti fosse lussuoso in un modo talmente sensuale da spingersi assai al di là del semplice erotismo e da costituire, secondo Shevek, qualcosa come l’insuperabile apoteosi dell’escrementale. Egli passò circa un’ora in questa terza stanza, occupato a usare ciascuno degli oggetti, a turno, e così raggiungendo, incidentalmente, un alto grado di pulizia personale. Lo spiegamento delle acque era meraviglioso. I rubinetti continuavano a versare finché non li si chiudeva; la vasca da bagno teneva sessanta litri; il cesso usava non meno di cinque litri d’acqua ogni volta. Ma in realtà la cosa non costituiva una sorpresa. La superficie di Urras era per cinque sesti composta d’acqua. Perfino i suoi deserti erano di ghiaccio, ai poli. Non c’era bisogno di economizzare; non c’era siccità… Ma dove finivano gli escrementi? Se lo chiese a lungo, inginocchiato accanto alla tazza del cesso, dopo aver studiato il meccanismo dello sciacquone. Probabilmente li filtravano in qualche impianto per la produzione di concime. Anche su Anarres c’erano delle comunità marine che usavano un simile sistema per il loro recupero. Si ripromise di chiedere informazioni su questo particolare, ma in seguito non se ne presentò mai l’occasione. C’erano molte domande ch’egli non fece mai, su Urras.
Nonostante la testa pesante, si sentiva abbastanza bene, e desideroso di attività. Le stanze erano talmente calde ch’egli rinunciò a vestirsi, e continuò a girare nudo per l’appartamento. Si recò alle finestre della camera più grande e rimase lì fermo, a guardare fuori. La stanza era molto in alto. La sua prima reazione fu di sorpresa: si tirò indietro, poiché non era abituato a edifici di altezza superiore a un piano. Era come guardare giù da un dirigibile; ci si sentiva distaccato dalla terra, dominante, non coinvolto in quanto vi accadeva. Le finestre si affacciavano sulle cime di un boschetto e, al di là di questo, si scorgeva un edificio bianco con una aggraziata torre di forma quadrata. Dietro all’edificio, il terreno digradava a formare un’ampia vallata. Tutta la superficie era coltivata, poiché le innumerevoli macchie di verde che la coloravano erano rettangolari. E anche dove il verde svaniva nella distanza azzurrina, si potevano distinguere le righe nere delle strade, delle siepi divisorie e dei filari d’alberi: una rete altrettanto fine quanto il sistema nervoso di un organismo vivente. E infine si innalzavano delle montagne, che facevano da limite alla valle, una piega blu dopo l’altra, morbide e scure sotto il grigio pallido, ininterrotto, del cielo.
Era il più bel panorama che Shevek avesse visto. La delicatezza e la vitalità dei colori, la mescolanza del disegno rettilineo umano con i margini robusti, proliferanti, della natura, la varietà e l’armonia degli elementi, davano un’impressione di complessa integrità quale egli non aveva mai visto, ad eccezione, forse, di quella adombrata in piccola scala su taluni volti umani sereni e pensosi.
Paragonata a questa, qualsiasi scena che Anarres potesse offrire, perfino la Piana di Abbenay, e i massicci dei Ne Theras, era poca cosa: appariva spoglia, arida, approssimativa. I deserti del Sudovest possedevano la bellezza nella loro vastità, ma era una bellezza ostile, senza tempo. Anche là dove Anarres era coltivata in modo più estensivo, il paesaggio pareva un abbozzo senz’arte, in gesso giallo, a paragone con questa piena magnificenza di vita, ricca sia di storia sia di stagioni a venire, inesauribile.
Ecco come dovrebbe essere un mondo, pensò Shevek.
E in qualche punto, là fuori, in quello splendore verde e azzurro, qualcosa stava cantando: una piccola voce acuta, che iniziava e poi cessava, incredibilmente dolce. Di che cosa si trattava? Una piccola voce, chiara e imprevedibile, una musica sospesa nell’aria.
Egli ascoltò, e il respiro gli si fermò nella gola.
Ci fu un bussare alla porta. Voltandosi incuriosito, nudo così come si trovava, e volgendo le spalle alla finestra, Shevek disse: — Venga avanti!
Entrò un uomo, portando sulle braccia vari pacchetti. Si arrestò non appena varcata la soglia. Shevek attraversò la stanza in direzione del nuovo venuto, e pronunciò il proprio nome, secondo il costume anarresiano; insieme, secondo il costume urrasiano, tese la mano.
L’uomo, che pareva sulla cinquantina e che aveva il volto solcato da rughe, consumato, disse una frase di cui Shevek non afferrò neppure una parola, e non strinse la mano che gli veniva offerta. Forse erano i pacchetti a impedirglielo, ma egli non fece mossa di spostarli per liberarsi la mano. Il suo viso aveva un’espressione estremamente seria. Era possibile che fosse in imbarazzo.
Shevek, che era certo di avere imparato i modi di salutare degli urrasiani, era sconcertato. — Venga avanti — ripeté, e quindi aggiunse, dato che gli urrasiani erano avvezzi a usare titoli ad ogni piè sospinto: — Signore!
L’uomo se ne uscì con un’altra delle sue frasi incomprensibili, e intanto scivolò verso la camera da letto. Questa volta Shevek riconobbe alcune parole iotiche, ma non riuscì a capire le altre che le accompagnavano. Non cercò di fermare l’uomo, dato che pareva intenzionato a recarsi in camera da letto. Forse si trattava di un compagno di stanza? Ma c’era un letto solo. Shevek lasciò perdere la cosa e tornò alla finestra, e l’uomo si affrettò a entrare nella stanza; Shevek lo sentì muoversi lì dentro ancora per alcuni minuti. Proprio mentre Shevek era giunto alla conclusione che si trattava di qualche lavoratore che faceva il turno di notte e che usava quella stanza durante il giorno, come a volte si faceva in caso di temporanei sovraffollamenti dei domicili, l’uomo riapparve dalla stanza. Disse qualche parola («Ecco fatto, signore», forse?) e piegò la testa in un modo alquanto bizzarro, come se credesse che Shevek, che distava da lui almeno cinque metri, stesse per dargli un pugno in faccia. Poi se ne andò. Shevek rimase fermo accanto alla finestra, intento a comprendere lentamente come per la prima volta qualcuno gli avesse rivolto un inchino.
Entrò nella camera da letto e scoprì che il letto era stato rifatto.
Lentamente, pensosamente, si rivestì. Si stava infilando le scarpe quando udì battere all’uscio una seconda volta.
Si trattava di un gruppo di persone, che entrarono in modo assai diverso dal precedente; entrarono in modo normale, pensò Shevek, come se avessero il diritto di trovarsi lì, o in qualsiasi altro posto in cui piacesse loro di andare. L’uomo con i pacchetti si era comportato in modo esitante, era entrato in modo quasi furtivo. E tuttavia il suo volto, le sue mani, i suoi abiti corrispondevano all’idea che Shevek aveva dell’aspetto di un normale essere umano: vi corrispondevano molto più che non l’aspetto dei nuovi venuti. L’uomo furtivo si era comportato in modo strano, ma era sembrato un anarresiano. I quattro che erano giunti ora si comportavano come anarresiani. ma il loro aspetto, con quel loro viso rasato e quei vestiti sgargianti, pareva quello di individui appartenenti a una specie diversa, di un altro mondo.
Shevek riuscì a riconoscere Pae in uno di essi; gli altri erano persone che erano rimaste accanto a lui per tutta la sera precedente. Spiegò di non avere afferrato bene i loro nomi, ed essi ripeterono le presentazioni, con un sorriso: dottor Chifoilisk, dottor Oiie e dottor Atro.
— Oh, accidenti! — esclamò Shevek. — Atro! Come sono lieto di incontrarti! — Posò le mani sulle spalle dell’uomo più anziano e gli baciò la guancia, prima che gli venisse in mente che quel saluto fraterno, comunissimo su Anarres, qui forse era inaccettabile.
Atro, invece, lo abbracciò a sua volta con trasporto, e lo fissò con occhi grigi e lucidi. Shevek si accorse che era quasi cieco. Mio caro Shevek — disse, — benvenuto in A-Io… benvenuto su Urras… benvenuto a casa!
— Per tanti anni ci siamo scritti soltanto delle lettere, distruggendoci reciprocamente le teorie!
— Tu sei sempre stato il miglior distruttore. Ecco, tieni, ti devo dare una cosa. — Il vecchio si frugò nelle tasche. Sotto la toga universitaria di velluto indossava una giacca, e sotto di essa un panciotto, poi, sotto ancora, una camicia, e probabilmente un altro strato di indumenti ancora. Ciascuno di questi, e anche i calzoni, aveva tasche. Shevek rimase a guardare, affascinato. Atro che esplorava in successione sei o sette tasche, ciascuna delle quali conteneva alcuni oggetti di sua proprietà, e poi tirava fuori un piccolo cubo di metallo giallo montato su un pezzo di legno levigato. — Ecco — disse, portandoselo davanti agli occhi. — Il tuo premio. Il premio Seo Oen, sai già. L’assegno ti è stato versato nel conto. Tieni. Nove anni di ritardo, ma è meglio tardi che mai. — Gli tremavano le mani mentre consegnava a Shevek l’oggetto.
Era pesante; il cubo giallo era d’oro massiccio. Shevek rimase immobile, con il premio in mano.
— Non so cosa vogliate fare voialtri giovanotti — disse Atro, — ma io adesso mi siedo. — Tutti si accomodarono nelle poltrone profonde e morbide; Shevek le aveva già esaminate in precedenza, ed era incuriosito dal materiale di cui erano coperte: un materiale marrone che non era un tessuto e che al tatto pareva pelle. — Quanti anni avevi, nove anni fa, Shevek?
Atro era il più importante fisico urrasiano vivente. Non c’era in lui soltanto la dignità degli anni, ma anche la schietta sicurezza delle persone abituate a venire rispettate. Non si trattava di una cosa nuova per Shevek. Atro aveva esattamente l’unico tipo di autorità che Shevek potesse ammettere. Inoltre gli piaceva, finalmente, che qualcuno si rivolgesse a lui parlandogli in modo tanto familiare.
— Avevo ventinove anni quando finii i Princìpi, Atro.
— Ventinove? Santo Dio. Sei quindi il più giovane Premio Seo Oen negli ultimi cento anni. Non si sono decisi a darmi il mio finché non ho avuto sessant’anni o giù di lì… Quanti anni avevi allora, quando mi hai scritto per la prima volta?
— Circa venti.
Atro sbuffò. — Ti avevo preso per un quarantenne, all’epoca! — disse.
— E Sabul? — domandò Oiie. Oiie aveva una statura ancora più bassa di quella media degli urrasiani, che parevano tutti piccini a Shevek; aveva volto pacioso e ovale, occhi neri come giaietto. — C’è stato un periodo di sei, sette anni in cui lei non ci ha scritto, e i contatti con noi venivano tenuti da Sabul; ma Sabul non ha mai parlato con noi mediante il ponte radio del vostro pianeta. Ci siamo spesso chiesti quale fosse il rapporto tra voi.
— Sabul è il membro anziano per la fisica all’Istituto di Abbenay — disse Shevek. — Io lavoravo con lui.
— Un rivale più anziano; geloso; ha messo le mani nei libri di Shevek; la cosa era abbastanza chiara. Non c’è bisogno di spiegazione, Oiie — disse il quarto del gruppo, Chifoilisk, con voce brusca. Era di mezza età: un uomo di carnagione più scura, robusto, con le mani curate della persona che lavora a tavolino. Era l’unico di loro che non si radesse completamente la faccia: si era lasciato la peluria sul mento, per equilibrare i capelli corti, color grigio ferro. — Non è il caso di pretendere che tutti voi fratelli odoniani siate pieni di amore fraterno — disse. — La natura umana è sempre quella.
L’assenza di una risposta da parte di Shevek sarebbe potuta parere assai significativa, ma egli venne salvato da una serie di starnuti. — Non ho un fazzoletto — si scusò, strofinandosi gli occhi.
— Prendi il mio — disse Atro, ed estrasse da una delle proprie tasche un fazzoletto, bianco come la neve. Shevek lo prese, e mentre così faceva, un ricordo importuno gli strinse il cuore. Ricordò la propria figlia Sedik, una bambina piccola, dagli occhi scuri, che gli diceva: — Puoi dividere con me il fazzoletto che uso. — Quel ricordo, che gli era molto caro, ora risultò insopportabilmente doloroso per lui. Per sfuggire a quel peso, sorrise a caso e disse: — Sono allergico al vostro pianeta. Così dice il dottore.
— Santo Dio, non continuerai eternamente a starnutire come adesso? — gli chiese il vecchio Atro, scrutandolo attentamente.
— Non è ancora arrivato il suo addetto? — disse Pae.
— Il mio addetto?
— Il cameriere. Doveva portarle alcune cose. Tra cui i fazzoletti. Quel che le può occorrere per i primi momenti, finché lei andrà a scegliersi quello che più le piace. Niente di lussuoso… anzi, temo che non si possa trovare nulla di lussuoso, tra la roba su misura, per un uomo della sua altezza!
Quando Shevek ebbe dipanato tutto questo discorso (Pae parlava rapidamente, senza pronunciare bene le parole: questo si adattava ai suoi lineamenti delicati e aggraziati), disse: — È stato un pensiero assai gentile. Mi sento… — Guardò Atro. — Io sono, devi sapere, il Mendicante — disse all’uomo più anziano, come già aveva detto al dottor Kimoe sulla nave. — Non ho potuto portare denaro, noi non ne usiamo. Non ho potuto portare doni, non usiamo nulla di cui voi abbiate bisogno. E così sono venuto, da buon Odoniano, «a mani vuote».
Atro e Pae gli assicurarono che era un ospite, che non si doveva assolutamente parlare di pagamento, che era per loro un onore. — E inoltre — intervenne Chifoilisk con la sua voce acida, — il Governo lotico paga il conto.
Pae gli rivolse un’occhiataccia, ma Chifoilisk, invece di restituirgliela, fissò negli occhi Shevek. Sul suo viso scuro compariva un’espressione ch’egli non cercò di nascondere in alcun modo, ma che Shevek non riuscì a interpretare: avvertimento, o complicità?
— Ha parlato il thuviano impenitente — disse il vecchio Atro, con il suo sbuffo abituale. — Ma cosa intendi dire, Shevek, che non hai portato nulla con te… nessuno scritto, nessun nuovo lavoro? Aspettavo con ansia un tuo libro. Una nuova rivoluzione nella fisica. Vedere mettere a posto questi giovanotti invadenti, come hai messo a posto me con i Princìpi. Su che cosa hai lavorato, negli ultimi tempi?
— Be’, ho letto l’articolo di Pae… del dottor Pae sull’universo-blocco, il Paradosso e la Relatività.
— Ottimo. Saio è il nostro divo del momento, non c’è dubbio. Soprattutto nella sua stessa mente, eh, Saio? Ma che cosa c’entra con i nostri affari? Dov’è la tua Teoria Temporale Generale?
— Qui, nella mia testa — disse Shevek con un sorriso ampio, allegro.
Ci fu una brevissima pausa.
Oiie gli chiese se avesse visto il lavoro sulla teoria della relatività scritto da un altro fisico, Ainsetain di Terra. Shevek non l’aveva visto. Tutti si interessavano animatamente dell’argomento, ad eccezione di Atro, che ormai si era lasciato alle spalle, con l’età, l’animazione. Pae corse alla propria stanza a prendere una copia della traduzione per Shevek. — Ha già alcune centinaia di anni, ma contiene delle idee freschissime per noi — disse.
— Può darsi — disse Atro. — Ma nessuno di questi forestieri riesce a seguire la nostra fisica. Gli Hainiti la chiamano materialismo, e i Terrestri la chiamano misticismo: a questo punto, entrambi lasciano perdere. Non lasciarti portare su un binario morto da queste mode per tutto ciò che è forestiero, Shevek. In esse non c’è niente per noi. Scavati da te le tue patate, come diceva sempre mio padre. — Ripeté il suo sbuffo senile e si alzò a forza di braccia dalla poltrona. — Vieni a fare un giro in giardino con me. Non c’è da stupirsi che tu abbia il naso chiuso, a stare in gabbia qui dentro.
— Il dottore dice che devo rimanere in questa stanza per tre giorni. Potrei essere… infettato? Infettivo?
— Non dare mai ascolto ai dottori, caro amico.
— Forse sì, in questo caso, dottor Atro — suggerì Pae, col suo tono tranquillo, conciliante.
— Dopo tutto, quel dottore viene dal Governo, no? — disse Chifoilisk, con chiara malignità.
— Il migliore che hanno potuto trovare, ne sono certo — disse Atro, senza sorridere, e se ne andò senza insistere con Shevek. Chifoilisk se ne andò con lui. I due uomini più giovani rimasero con Shevek, a parlare di fisica, per lungo tempo.
Con immenso piacere, e con il senso profondo di riconoscere qualcosa, di trovare che una cosa è esattamente come dovrebbe essere, Shevek scoprì per la prima volta nella sua vita la conversazione di persone uguali a lui.
Mitis, sebbene fosse stata una splendida insegnante, non era mai stata capace di seguirlo nelle nuove aree di teoria che egli, con l’incoraggiamento di lei, aveva cominciato a esplorare. Garab era l’unica persona da lui incontrata la cui istruzione e la cui abilità fossero paragonabili alla propria, ma egli e Garab si erano incontrati troppo tardi, quasi alla fine della vita di lei. Da allora Shevek aveva lavorato con molte persone di talento, ma poiché egli non era un membro a tempo pieno dell’Istituto di Abbenay, non era stato capace di portarle abbastanza avanti: esse rimanevano impantanate nei vecchi problemi, la classica fisica Sequenziale. Egli non aveva avuto uguali. Qui, nel regno dell’ineguaglianza, egli finalmente li incontrò.
Fu una rivelazione, una liberazione. Fisici, matematici, astronomi, logici, biologi, tutti erano all’Università, e si recavano da lui o lo accoglievano in visita, e parlavano con lui, e dalle loro parole nascevano mondi nuovi. È nella natura delle idee il fatto di essere comunicate: scritte, dette, fatte. L’idea è come l’erba. Brama la luce, ama le folle, s’irrobustisce con gli incroci, cresce più forte se la si calpesta.
Già in quel primo pomeriggio all’Università, con Oiie e Pae, egli seppe di avere trovato qualcosa che gli era mancato fin da quando, da ragazzi e su un livello da ragazzi, egli e Tirin e Bedap solevano parlare fino a tarda notte stuzzicandosi e sfidandosi reciprocamente a voli mentali sempre più temerari. Egli ricordava ancora vivacemente alcune di quelle serate. Gli parve di vedere Tirin; Tirin che diceva: «Se sapessimo com’è veramente Urras, forse qualcuno di noi desiderebbe andarci.» Ed egli era stato così sconvolto dall’idea, che era balzato addosso a Tirin, e Tirin si era immediatamente tirato indietro; si era tirato indietro ogni volta, povera anima inquieta, e aveva sempre avuto ragione.
La conversazione era cessata. Pae e Oiie stavano in silenzio.
— Mi spiace — egli disse. — La testa è pesante.
— Come va, con la gravità? — chiese Pae, con il sorriso affascinante di un uomo che, come un bambino intelligente, faccia affidamento sulle proprie attrattive.
— Non me ne accorgo — disse Shevek. — Solo nelle, come si dice?
— Ginocchia… articolazioni delle ginocchia.
— Sì, ginocchia. La funzione ne è diminuita. Ma mi abituerò. — Fissò Pae, quindi Oiie. — C’è una domanda. Ma non vorrei offendere.
— Non abbia paura, signore! — disse Pae.
Oiie disse: — Non credo che saprebbe come fare. — Oiie non era un tipo simpatico come Pae. Anche nel parlare di fisica, aveva un modo di fare evasivo, riservato. Eppure, al di sotto del modo di fare, c’era qualcosa, Shevek sentiva, di cui fidarsi; mentre invece sotto il fascino di Pae che cosa c’era? Bene, lasciamo perdere. Doveva avere fiducia in ciascuno di loro, e si ripromise di averla.
— Dove sono le donne?
Pae rise. Oiie sorrise e chiese: — In che senso?
— In tutti i sensi. Ho conosciuto donne al ricevimento, ieri sera… cinque, dieci… e centinaia di uomini. Nessuna di esse era uno scienziato, credo. Chi erano, allora?
— Mogli. Una di esse era mia moglie, anzi — disse Oiie, con il suo sorriso riservato.
— Dove sono le altre donne?
— Oh, nessuna difficoltà sotto questo aspetto, signore — si affrettò a dire Pae. — Basta che lei ci dica le sue preferenze, e non ci sarà difficoltà a procurargliele.
— Si sentono delle illazioni assai pittoresche sui costumi che regnano su Anarres, ma credo che possiamo trovare qualsiasi cosa lei abbia in mente — disse Oiie.
Shevek non aveva idea di cosa stessero dicendo. Si grattò la nuca. — Allora, tutti gli scienziati, qui, sono degli uomini?
— Scienziati? — disse Oiie, incredulo.
Pae tossichiò. — Scienziati. Oh, sì, certamente, sono tutti uomini. Ci sono alcune insegnanti nelle scuole femminili, com’è naturale. Ma non superano quasi mai il livello del diploma.
— Perché no?
— Non riescono a capire la matematica; non hanno testa per il pensiero astratto; non è roba loro. Lei sa com’è, quello che le donne chiamano «pensare» viene fatto con l’utero! E naturalmente ci sono sempre delle eccezioni. Donne con tanto di cervello, e con l’atrofia vaginale.
— Voi Odoniani, invece, fate studiare scienze alle donne? — domandò Oiie.
— Be’, se ne trovano nelle varie scienze, sì.
— Non molte, spero.
— Ecco, metà e metà.
— Ho sempre sostenuto — disse Pae, — che le assistenti non laureate, trattate adeguatamente, potrebbero togliere dalle spalle degli uomini una buona dose di lavoro, in tutte le situazioni di laboratorio. Sono effettivamente più abili e più svelte degli uomini nei lavori ripetitivi, e più docili… si annoiano meno facilmente. Potremmo rendere disponibili gli uomini molto prima perché svolgano lavori originali, se ci servissimo delle donne.
— Non certo nel mio laboratorio, però — disse Oiie. — Che se ne restino al loro posto.
— Lei ha incontrato qualche donna capace di lavoro intellettuale originale, dottor Shevek?
— Be’, è più esatto dire che sono state loro a trovare me. Mitis, nell’Insediamento del Nord, è stata mia insegnante. E così pure Garab; voi la conoscete, credo.
— Garab era una donna? — disse Pae, genuinamente sorpreso. Poi rise.
Oiie non parve convinto. Sembrava offeso, anzi. — Non si può mai capire dai vostri nomi, naturalmente — disse con freddezza. — Voi vi fate un punto d’onore, suppongo, di non fare distinzioni tra i sessi.
Shevek disse in tono blando: — Odo era una donna.
— Ecco la spiegazione — disse Oiie. Non alzò le spalle, ma parve quasi che stesse per farlo. Pae assunse un’aria quasi deferente, e annuì col capo, esattamente come faceva quando il vecchio Atro diceva qualcosa a vanvera.
Shevek si accorse di avere toccato in questi uomini una animosità impersonale che si spingeva fino a livelli molto profondi. Evidentemente anch’essi, come i tavolini dell’astronave, contenevano una donna: una donna rimossa, messa in silenzio, ridotta a una bestia; una furia ingabbiata. Egli non aveva il diritto di stuzzicarli. Essi non conoscevano altra relazione che il possesso. Erano posseduti.
— Una donna dolce e virtuosa — disse Pae, — è la migliore ispirazione… la cosa più preziosa che esista al mondo.
Shevek si sentiva estremamente a disagio. Si alzò e si recò alla finestra. — Il vostro mondo è bellissimo — disse. — Sarei lietissimo di conoscerlo meglio. Mentre dovrò restare chiuso qui dentro, mi potete dare dei libri?
— Ma certo, signore! Che libri?
— Storia, fotografie, racconti, qualsiasi cosa. Forse è meglio che siano libri per bambini. Vedete, io so pochissimo. Sì, ci insegnano qualcosa di Urras, ma si tratta quasi sempre di fatti risalenti all’epoca di Odo. E prima di lei ci sono stati ottomila e cinquecento anni! Inoltre, dall’epoca dell’Insediamento di Anarres è passato un secolo e mezzo; e dopo il giorno in cui l’ultima nave ha portato gli ultimi coloni… ignoranza completa. Noi vi ignoriamo; voi ci ignorate. Voi siete la nostra storia. Noi siamo forse il vostro futuro. E io desidero imparare, e non ignorare. È questa la ragione che mi ha spinto a venire. Dobbiamo conoscerci reciprocamente. Noi siamo dei primitivi. La nostra mentalità non è più quella tribale, non può esserlo. Una simile ignoranza è un torto, da cui possono nascere solamente altri torti. Così, sono venuto per imparare.
Aveva parlato con grande sincerità. Pae annuì, con calore. — Esattamente, signore! Tutti noi siamo perfettamente d’accordo con i suoi scopi!
Oiie lo sogguardò con quei suoi occhi neri, opachi, ovali, e disse: — Allora lei è giunto qui, sostanzialmente, come emissario della sua società?
Shevek tornò a sedere sulla panca di marmo, accanto al focolare: il luogo che egli sentiva già come la propria sede, il proprio territorio. Voleva un territorio. Sentiva l’urgenza che l’aveva portato a spingersi al di là dell’abisso inospitale che separava i due mondi: il bisogno di comunicare, il desiderio di abbattere i muri.
— Sono giunto — disse, facendo attenzione alle parole, — come membro del Gruppo dell’Iniziativa: il gruppo che ha parlato per radio con Urras negli scorsi due anni. Ma non sono, sappiate, l’ambasciatore di alcuna autorità, di alcuna istituzione. Spero che non mi abbiate richiesto qui in tale veste.
— No — disse Oiie. — Noi abbiamo chiesto lei… Shevek il fisico. Con l’approvazione del suo… — Esitò.
Shevek sorrise. — Del mio governo?
— Noi sappiamo che nominalmente non c’è alcun governo su Anarres. Tuttavia è palese che ci deve essere una qualche sorta di amministrazione. E ci pare di capire che coloro che l’hanno mandata, il suo Gruppo, sono una specie di partito o fazione; forse una fazione rivoluzionaria.
— Ogni persona su Anarres è un rivoluzionario, Oiie… La rete amministrativa e dirigenziale è chiamata CDP: Coordinamento della Distribuzione della Produzione. Costituisce un sistema di coordinazione per tutti i gruppi, le cooperative e gli individui che svolgono attività produttive. Non governa le persone: amministra la produzione. Non ha né l’autorità di sostenermi né quella di fermarmi. Può soltanto riferire al mio gruppo l’opinione pubblica nei nostri confonti… la nostra posizione nella coscienza sociale. È questo, ciò che desiderate sapere? Bene, allora: io e i miei amici incontriamo prevalentemente la disapprovazione. La maggior parte della gente di Anarres non vuole sapere nulla di Urras. Temono Urras, e non vogliono avere nulla a che spartire con i proprietaristi. E mi spiace se sono sgarbato! Ma la stessa cosa accade anche qui, per una parte della gente, no? Il disprezzo, la paura, il tribalismo. Bene: a causa di questo stato di cose, io sono venuto qui, per cominciare a cambiare la situazione.
— Totalmente per sua iniziativa personale — disse Oiie.
— È l’unica iniziativa che riconosco — disse Shevek, sorridendo, con la massima serietà.
Trascorse i successivi due giorni a parlare con gli scienziati che venivano a trovarlo, a leggere i libri che Pae gli aveva portato, e a volte, semplicemente, a starsene fermo a quelle finestre dal doppio arco, per osservare l’arrivo dell’estate nella grande valle, e per ascoltare le brevi, dolci conversazioni che si svolgevano all’aria aperta. Uccelli: ora conosceva il nome dei piccoli cantori, e il loro aspetto, grazie alle illustrazioni dei libri, ma ancora, ogni volta che udiva il canto o coglieva il frullo di un’ala tra due alberi, rimaneva immobile, meravigliato come un bimbo.
Aveva pensato che su Urras si sarebbe sentito strano, sperduto, estraneo, confuso: e invece non provava nulla di tutto ciò. Naturalmente c’erano infinite cose ch’egli non comprendeva. Aveva soltanto un avviso, ora, di quanto fosse grande il loro numero: l’intera società, incredibilmente complessa, con tutte le sue nazioni, classi, caste, culti, costumi, e la sua magnifica, stupefacente, interminabile storia. E ciascun individuo da lui incontrato era un enigma, pieno di sorprese. Ma non erano i grossolani, freddi egoisti che egli si aspettava: erano altrettanto complessi e diversificati quanto la loro cultura, quanto il paesaggio che li circondava; ed erano intelligenti; ed erano gentili. Lo trattavano come un fratello, e facevano tutto ciò che potevano per farlo sentire non uno sperduto, non un estraneo, ma un uomo che è a casa propria. Ed egli si sentiva davvero a casa. Non poté evitarlo. L’intero mondo, la morbidezza dell’aria, la luce solare che illuminava le montagne, l’attrazione stessa esercitata da quella gravitazione superiore, gli dicevano che questa era davvero la sua casa, il mondo della sua razza; ed ogni sua bellezza gli apparteneva per diritto di nascita.
Il silenzio, il profondo silenzio di Anarres: egli vi pensava la notte. Laggiù nessun uccello cantava. Laggiù non c’erano altre voci all’infuori di quelle umane. Il silenzio, e il terreno spoglio.
Il terzo giorno, il vecchio Atro gli portò una pila di quotidiani. Pae, che frequentemente teneva compagnia a Shevek, non disse nulla, ma quando l’uomo più anziano si allontanò, disse a Shevek: — Robaccia di nessun valore, questi giornali, signore. Divertenti, ma non creda a nulla di ciò che vi leggerà.
Shevek prese il giornale in cima alla pila. Era stampato malamente su carta ruvida: il primo oggetto malfatto che gli fosse venuto in mano su Urras. In verità sembrava il bollettino del CDP, o i rapporti regionali che su Anarres servivano da giornali, ma il suo stile era molto diverso dalle pubblicazioni anarresiane, seriose, pratiche, scarne. Il giornale urrasiano era pieno di fotografie e di punti esclamativi. C’era una foto di Shevek davanti all’astronave, con Pae che, corrucciato, lo teneva per il braccio. IL PRIMO UOMO DALLA LUNA! diceva la grossa scritta al di sopra della fotografia. Affascinato, Shevek continuò a leggere:
Il suo primo passo sulla terra! Il primo visitatore proveniente dall’Insediamento di Anarres da 170 anni, dott. Shevek, fotografato ieri al suo arrivo con la nave regolare della linea lunare, allo spazioporto di Pei. Il famoso scienziato, vincitore del premio Seo Oen per i servizi resi a tutte le nazioni mediante la sua scienza, ha accettato una cattedra di professore alla Università di Ieu Eun, un onore mai prima accordato a nessun extramondano. Richiesto di quali fossero le sue impressioni nel vedere per la prima volta Urras, l’imponente, celebre fisico ha risposto: «È un grande onore venire invitato sul vostro bellissimo pianeta. Spero che una nuova èra di amicizia pancetiana stia ora per cominciare, un’èra nella quale i Pianeti Gemelli procederanno uniti e affratellati.»
— Ma io non ho detto nemmeno una parola! — disse Shevek, rivolto a Pae.
— Naturalmente, no. Non abbiamo permesso che il mucchio di giornalisti le arrivasse vicino. Ma questo non è certo d’ostacolo per l’immaginazione di un giornalista scandalistico! Riferiranno sempre che avete detto ciò che a loro più garba, indipendentemente da quello che avrete, o non avrete, detto.
Shevek si mordicchiò il labbro. — Be’ — disse infine, — se avessi detto qualcosa, si sarebbe trattato di qualcosa di simile. Ma cosa vuol dire «pancetiano»?
— I Terrestri ci chiamano Cetiani. Dalla parola con cui indicano il nostro sole, mi pare. La stampa popolare ha raccolto questa parola negli ultimi tempi: è una sorta di moda del momento.
— Allora «pan-cetiano» significa Urras e Anarres insieme?
— Penso di sì — disse Pae, con ostentato disinteresse.
Shevek continuò la lettura del giornale. Lesse che era un uomo gigantesco, torreggiante, che non si radeva e che possedeva una «criniera», di qualunque cosa si trattasse, tendente al grigio, che aveva trentasette, quarantratré e cinquantasei anni; che aveva scritto una grande opera di fisica chiamata (il nome esatto variava a seconda dei giornali), Principali della Simultaneità o Princìpi di Simultenìa, che era un ambasciatore amichevole proveniente dal governo degli Odoniani, che era vegetariano, e che, come ogni altro Anarresiano, non beveva. A questo, interruppe la lettura e rise fino a provare dolore alle costole. — Accidenti, hanno davvero dell’immaginazione! Cosa credono, che viviamo di vapore acqueo, come il muschio?
— Intendono dire che lei non beve alcolici — rispose Pae, anch’egli ridendo. — L’unica cosa che tutti sanno, a proposito degli Odoniani, secondo me, è il fatto che non bevete alcolici. Anzi, è vero?
— Alcuni distillano alcool dalle radici fermentate di holum, per berlo. Dicono che dà libero gioco al loro inconscio, come l’addestramento delle onde cerebrali. Ma la maggior parte della gente preferisce quest’ultimo modo: è molto semplice e non causa la malattia. Qui è molto comune?
— Be’, bere alcolici è comune. Quanto alla malattia, non saprei. Come si chiama?
— Alcolismo, mi pare.
— Oh, comprendo… Ma come fanno i lavoratori, su Anarres, per avere un po’ di allegria, per sfuggire per una sera a tutte le sventure del mondo messe insieme?
Shevek parve sorpreso. — Be’, noi… Non so. Forse alle nostre sventure non si può sfuggire?
— Curioso — disse Pae, e sorrise in modo disarmante.
Shevek continuò a leggere. Uno dei giornali era scritto in una lingua ch’egli non conosceva, e uno addirittura in un altro alfabeto. Il primo veniva da Thu, spiegò Pae, e il secondo dal Benbili, una nazione dell’emisfero occidentale. Il giornale proveniente da Thu era ben stampato e aveva un aspetto assai sobrio; Pae spiegò che si trattava di una pubblicazione edita dal governo. — Qui in A-Io, vede, la gente istruita apprende le notizie per telefono, per radio e per televisione, e leggendo i settimanali. I giornali come questi vengono letti quasi esclusivamente dalle classi inferiori… sono scritti da semianalfabeti per semianalfabeti, come lei stesso ha potuto vedere. In A-Io c’è completa libertà di stampa, la qual cosa, inevitabilmente, comporta che si stampi un mucchio di robaccia. Il giornale thuviano è scritto molto meglio, ma riporta unicamente i fatti che il Presidio Centrale Thuviano desidera rendere noti. La censura è assoluta, in Thu. Lo stato è tutto, ed ogni cosa è per lo stato. Non è certamente il posto più adatto a un Odoniano, eh, signore?
— E questo giornale?
— Non ne ho idea. Il Benbili è una nazione arretrata. Laggiù c’è sempre qualche rivoluzione.
— Un gruppo di persone abitanti nel Benbili ci ha inviato un messaggio sulla lunghezza d’onda del nostro gruppo, poco prima che lasciassi Abbenay. Affermavano di essere Odoniani. Ci sono dei gruppi come quello, qui in A-Io?
— No, per quanto ne posso sapere io, dottor Shevek.
Il muro. Shevek ormai sapeva riconoscere il muro, quando arrivava vicino ad esso. Il muro era costituito dalla simpatia di questo giovanotto, dalla sua cortesia, dalla sua indifferenza.
— Ho l’impressione che lei abbia paura di me, Pae — disse d’improvviso, amichevolmente.
— Paura di lei, signore?
— Sì, poiché io sono, con la mia esistenza stessa, una testimonianza contro la necessità dello stato. Ma che c’è, di temibile? Io non le farò mai del male, Saio Pae, lei lo sa. Io, come persona, sono del tutto innocuo… anzi, senta, io non sono un dottore. Noi non usiamo titoli. Io mi chiamo Shevek, e basta.
— Lo so, mi scusi, signore. Ai nostri occhi, capisca, sembra una mancanza di rispetto. Non sembra giusto, ecco tutto… — Si scusava in modo accattivante, aspettandosi il perdono.
— Non può semplicemente accettarmi come un suo uguale? — chiese Shevek, guardandolo senza collera, ma anche senza mostrare di averlo perdonato.
Per una volta, Pae rimase imbarazzato. — Ma veramente, signore, lei è, lo sa, un uomo tanto importante…
— Non c’è allora motivo di cambiare le sue abitudini per me — disse Shevek. — Non importa. Pensavo che lei potesse essere lieto di liberarsi di una cosa non necessaria, tutto qui.
Dopo tre giorni di confino tra quattro mura, Shevek era carico di energie superflue, e quando ritornò libero sottopose a un notevole sforzo coloro che lo scortavano, nella sua sete iniziale di vedere tutto, e tutto insieme. Lo condussero a visitare l’Università, che era una città completa in se stessa, e la facoltà. Con i suoi dormitori, refettori, aule, sale di riunione, e così via, non era molto diversa da una qualsiasi comunità Odoniana, ad eccezione del fatto che era molto antica, esclusivamente maschile, incredibilmente lussuosa e non era organizzata federativamente, bensì gerarchicamente, dalla cima al fondo. Tuttavia, pensò, dava il senso di una comunità. Egli dovette ricordare a se stesso le differenze.
Venne condotto fuori in auto prese a nolo: macchine splendide, di un’eleganza bizzarra. Non ce n’erano molte per la strada: il noleggio era caro, e poche persone possedevano un’auto personale, poiché erano tassate pesantemente. Tutti quei lussi che, se fossero stati permessi liberamente al pubblico, avrebbero consumato risorse naturali insostituibili o avrebbero inquinato l’ambiente con prodotti di scarico, erano strettamente controllati per mezzo di leggi e di tasse. Le sue guide sottolinearono questi particolari, con un certo orgoglio. A-Io era da secoli all’avanguardia, gli dissero, nel controllo ecologico e nella preservazione delle risorse naturali. Gli eccessi del Nono Millennio erano storia antica, e il loro unico effetto duraturo era la scarsità di taluni metalli, che fortunatamente potevano essere importati dalla Luna.
Viaggiando in auto o in treno, egli vide paesi, case coloniche, cittadine; fortezze risalenti ai giorni del feudalesimo; le torri in rovina di Ae, antica capitale di un impero, vecchie di quarantaquattro secoli. Vide i campi coltivati, i laghi e le montagne della provincia AEana, cuore dell’A-Io, e, all’orizzonte settentrionale, le cime dei Monti Meitei, bianche e gigantesche. La bellezza della terra e il benessere dei suoi abitanti furono per lui una continua meraviglia. Le sue guide avevano ragione: gli urrasiani sapevano come usare il loro mondo. Gli era stato insegnato da bambino che Urras era una massa in suppurazione di ineguaglianza, iniquità e spreco. Ma tutta la gente che incontrava, e tutta la gente che vedeva, nei minimi paesini di campagna, era ben vestita, ben nutrita, e, contrariamente alle sue previsioni, assai industriosa. Non se ne stava ferma immobile, con lo sguardo torvo, in attesa che qualcuno le desse l’ordine di fare una certa cosa. Esattamente come gli anarresiani, si dava da fare, semplicemente, per fare ciò che andava fatto. La cosa lo rese perplesso. Egli aveva dato per certo che se aveste tolto a un essere umano il suo incentivo naturale verso il lavoro — la sua iniziativa, la sua spontanea energia creativa — e la aveste sostituita con una motivazione e una coercizione esterna, ne avreste fatto un lavoratore pigro e trascurato. Ma non erano certo dei lavoratori trascurati coloro che accudivano a quei bellissimi campi, o costruivano quelle auto superbe e quei treni comodissimi. Il richiamo e la pressione del profitto erano evidentemente, come sostituto dell’iniziativa naturale, assai più efficaci di quanto non avesse creduto.
Gli sarebbe piaciuto parlare con qualcuno di quei robusti, dignitosi individui ch’egli scorgeva nelle piccole città, per chiedere loro, per esempio, se ritenevano di essere poveri; poiché, se quelli erano i poveri, egli avrebbe dovuto cambiare il significato che aveva sempre attribuito alla parola. Ma pareva che non ce ne fosse mai il tempo, con tutto ciò che le sue guide desideravano mostrargli.
Le altre grandi città dell’A-Io erano troppo distanti per poterle raggiungere in una sola giornata di viaggio, ma egli venne condotto a Nio Esseia, a cinquanta chilometri dall’Università, varie volte. E laggiù venne tenuta in suo onore tutta una serie di ricevimenti. Egli non li apprezzò molto, poiché non corrispondevano affatto alla sua idea di una festa. Tutti erano molto educati e parlavano molto, ma non di cose interessanti; e sorridevano così tanto da parere ansiosi. Ma i loro abiti erano sgargianti, e in verità pareva che tutta la spensieratezza che mancava nel loro comportamento venisse messa nei vestiti, nel cibo, in tutte le diverse cose che bevevano, e nel mobilio e nella decorazione sovrabbondante dei palazzi, in cui si tenevano i ricevimenti.
Gli vennero mostrate le bellezze di Nio Esseia, città di cinque milioni di abitanti… un quarto della popolazione del suo pianeta natale. Lo portarono nella piazza del Campidoglio e gli mostrarono le alte porte bronzee del Direttorato, sede del Governo di A-Io; gli fu concesso di assistere a un dibattito nel Senato e a una riunione di un comitato di Direttori. Lo portarono allo Zoo, al Museo Nazionale, al Museo della Scienza e delle Industrie. Lo portarono in una scuola, dove affascinanti bambini in uniforme bianca e turchina cantarono per lui l’inno nazionale dell’A-Io. Gli fecero visitare una fabbrica di componenti elettroniche, un’acciaieria completamente automatizzata, e un impianto a fusione nucleare, in modo ch’egli potesse vedere con quale efficienza conduceva le proprie industrie energetiche e manufatturiere un’economia proprietaristica. Gli mostrarono un nuovo quartiere residenziale finanziato dal governo, in modo che egli potesse vedere come lo stato pensava al popolo. Lo accompagnarono in un viaggio su battello lungo l’estuario del Sua, affollato dei commerci marittimi di tutto il pianeta, fino al mare. Lo portarono all’Alta Corte di Giustizia, ed egli trascorse un’intera giornata ad ascoltare procedimenti civili e penali, esperienza che lo lasciò stupito e incredulo; ma gli altri ripetevano che doveva vedere ciò che era da vedere, e che doveva venire accompagnato dovunque chiedesse di andare. Quando chiese, con una certa diffidenza, se poteva vedere il luogo dove era sepolta Odo, lo portarono immediatamente al vecchio cimitero nel distretto Trans-Sua. Permisero perfino ad alcuni giornalisti dei quotidiani indecorosi di fotografarlo fermo nell’ombra dei grandi, antichi salici, intento a fissare la tomba disadorna e ben tenuta:
Venne portato a Rodarred, sede del Concilio dei Governi Mondiali, per rivolgere un indirizzo di saluto al consiglio plenario di quell’organismo. Egli aveva sperato di poter finalmente conoscere, o almeno vedere, laggiù gli stranieri, gli ambasciatori di Terra o di Hain, ma la lista degli incontri era già troppo fitta per permetterlo. Egli aveva lavorato con molto impegno al proprio discorso, una perorazione a favore della libera comunicazione e del mutuo riconoscimento tra il Nuovo e il Vecchio Pianeta. Il discorso venne raccolto da un’ovazione in piedi, durata dieci minuti. I rispettabili settimanali commentarono con approvazione il discorso, chiamandolo un «gesto morale disinteressato di umana fratellanza compiuto da un grande scienziato», ma non ne citarono alcun brano, né ne citarono i quotidiani popolari. In realtà, nonostante la lunga ovazione, Shevek aveva la curiosa impressione che nessuno l’avesse ascoltato.
Gli vennero fatti molti onori e venne condotto in molti luoghi: il Laboratorio di Ricerca sulle Onde Luminose, gli Archivi Nazionali, i Laboratori di Tecnologie Nucleari, la Libreria Nazionale di Nio, l’Acceleratore di Meafed, la Fondazione per le Ricerche Spaziali di Nio. Anche se tutto ciò che vedeva su Urras gli destava il desiderio di vedere ancora, alcune settimane di vita da turista erano sufficienti: ogni cosa era così affascinante, stupefacente, meravigliosa, da divenire, alla fine, quasi oppressiva. Shevek desiderava potersi sistemare all’Università per lavorare e ripensare a ciò che aveva visto. Ma come ultima cosa chiese di vedere la Fondazione per le Ricerche Spaziali. Pae sembrò molto compiaciuto quando gli rivolse la richiesta.
Molto di ciò che aveva visto negli ultimi tempi gli aveva ispirato un reverente timore poiché era così vecchio: vecchio di secoli, perfino di millenni. La Fondazione, invece, era nuovissima: costruita negli ultimi dieci anni, nello stile elegante, sovrabbondante del momento. Un’architettura spettacolare, in cui erano usate grandi macchie di colore e le altezze e le distanze erano esagerate. I laboratori erano chiari e spaziosi, le fabbriche e le officine che li servivano erano ospitate dietro splendidi porticati con archi e colonne in stile neo-setano. Le rimesse delle navi erano immense cupole multicolori, traslucide e fantastiche. Gli uomini che lavoravano nel loro interno, per contrasto, erano invece assai tranquilli e posati. Sottrassero Shevek alle attenzioni delle sue scorte abituali e gli mostrarono l’intera Fondazione, compreso ogni stadio del sistema sperimentale di propulsione interstellare su cui stavano lavorando, dai calcolatori elettronici e dai tavoli da disegno, fino a una nave per metà completa, che appariva enorme, surreale sotto le luci arancione, viola, gialle, all’interno della vasta cupola geodetica.
— Avete così tanto — disse Shevek all’ingegnere che lo accompagnava, un uomo chiamato Oegeo. — Avete così tanto con cui lavorare; e lavorate così bene. È tutto magnifico: la coordinazione, la cooperazione, la grandezza dell’impresa.
— Non potete fare niente su una scala come questa, eh, al suo paese? — disse l’ingegnere, sorridendo.
— Astronavi? La nostra flotta spaziale è costituita delle navi con cui i Coloni sono giunti da Urras… navi costruite qui su Urras, quasi duecento anni fa. Anche solo la costruzione di una nave che trasporti il grano da una riva all’altra, una chiatta, richiede una pianificazione di un anno, costituisce un grande sforzo per la nostra economia.
Oegeo annuì. — Be’, noi abbiamo i mezzi, certo. Ma lei sa, lei è la persona che ci può dire di fare rottame di tutta questa roba… di gettarla via.
— Gettarla via? Cosa intende dire?
— Il viaggio a una velocità superiore a quella della luce — disse Oegeo. — Trasmissione istantanea. La vecchia fisica dice che non è possibile. I terrestri dicono che non è possibile. Ma gli Hainiti, i quali, in fin dei conti, hanno inventato il sistema di propulsione che noi usiamo, dicono che è possibile, ma che loro non conoscono il modo di farlo, dato che soltanto adesso cominciano a imparare la fisica temporale da noi. Evidentemente, se c’è qualcuno che può fare questa scoperta, qualcuno che abiti sui mondi conosciuti, dottor Shevek, questa persona è lei.
Shevek gli rivolse uno sguardo dall’alto in basso. I suoi occhi erano duri e chiari. — Io sono un teorico, Oegeo. Non un progettista.
— Se lei fornirà la teoria, l’unificazione della Sequenza e della Simultaneità entro una teoria generale di campo del tempo, noi progetteremo le navi. E arriveremo su Terra, o su Hain, o sulla galassia accanto, nello stesso istante in cui lasciamo Urras! Questa tinozza — e guardò verso il fondo della rimessa, la gigantesca incastellatura della nave incompiuta che pareva nuotare fra lance di luce viola e arancione, — risulterà anacronistica come un carro a buoi.
— Lei sogna nella stessa dimensione su cui costruisce: superbamente — disse Shevek, chiuso e ritirato. Oegeo e gli altri avrebbero voluto mostrargli molte altre cose e continuare a discutere con lui, ma dopo breve tempo egli disse, con una semplicità che escludeva ogni interpretazione ironica: — Credo che fareste meglio a riportarmi ai miei guardiani.
Così fecero; si diedero l’addio con reciproco calore. Shevek salì sulla vettura, ma poi ne uscì nuovamente. — Dimenticavo — disse. — Abbiamo ancora tempo di vedere una cosa a Drio?
— Non c’è altro da vedere, a Drio — disse Pae, cortese come sempre, anche se non riusciva a nascondere completamente il fastidio procuratogli dalla scappata di cinque ore di Shevek fra gli ingegneri.
— Mi piacerebbe vedere il forte.
— Quale forte, signore?
— Un vecchio castello risalente ai tempi dei re, e che in seguito venne usato come prigione.
— Questo genere di cose è stato demolito, probabilmente. La Fondazione ha completamente ricostruito la città.
Quando furono all’interno della vettura e l’autista stava chiudendo le portiere, Chifoilisk (la cui presenza, molto probabilmente, era un’altra delle cause del malumore di Pae) chiese:
— Perché mai voleva vedere un altro vecchio castello, Shevek? Pensavo che ormai avesse fatto una scorpacciata di antiche rovine.
— Il Forte di Drio è il luogo dove Odo ha passato nove anni — Shevek rispose. Il suo viso si era indurito quando aveva parlato con Oegeo, e da allora non si era più rilassato. — Dopo l’Insurrezione del 747. Laggiù scrisse le Lettere dalla prigione, e anche l’Analogia.
— Mi spiace che sia stato demolito — disse Pae, addolorato.
— Drio era una città moribonda, e la Fondazione ha tolto tutto ed è partita da zero.
Shevek annuì. Ma quando la macchina corse parallela agli argini del fiume, diretta verso la strada che portava a Ieu Eun, e passarono davanti a un colle, in una curva del fiume Seisse, in alto, sulla cima del colle, apparve una costruzione massiccia, diroccata, implacabile, con torri sbreccate di pietra nera. Nulla sarebbe potuto essere più remoto dagli spettacolari, spensierati edifici della Fondazione per le Ricerche Spaziali, con le loro cupole vistose, le fabbriche luminose, i prati e i viali ben curati. Nulla avrebbe potuto meglio farli parere altrettanti pezzi di carta colorata.
— Quello, mi pare, è il Forte — osservò Chifoilisk, con il consueto piacere nel piazzare osservazioni prive di tatto là dove erano meno desiderate.
— Tutto una rovina — disse Pae. — Dev’essere vuoto.
— Desidera fermarsi a dargli un’occhiata, Shevek? — disse Chifoilisk, pronto a battere le nocche sul vetro che li divideva dall’abitacolo dell’autista.
— No — rispose Shevek.
Aveva visto ciò che desiderava vedere. C’era ancora un Forte a Drio. Non aveva bisogno di entrare, di cercare per corridoi in rovina la cella in cui Odo aveva passato nove anni. Egli sapeva già com’era fatta una cella di prigione.
Con il viso ancora rigido e freddo, alzò lo sguardo alle mura nere e pesanti che ora giganteggiavano sopra la vettura. Sono qui da un tempo immemorabile, diceva il forte, e qui resto.
Quando fu di nuovo nelle proprie stanze, dopo avere consumato il pasto serale nel Refettorio degli Anziani di Facoltà, si mise a sedere da solo, accanto al focolare non acceso. In A-Io era estate, e si appressavano i giorni più lunghi dell’anno: erano già passate le otto, ma non era ancora buio. Al di là degli archi delle finestre si vedeva ancora una traccia del colore diurno del cielo: un puro, tenero turchino. L’aria era tiepida, e sapeva di erba tagliata e di terra umida. C’era una luce nella cappella, al di là del prato, e una debole eco di musica nell’aria debolmente mossa. Non era il canto degli uccelli, bensì una musica umana. Shevek ascoltò. Qualcuno stava esercitandosi sulle Armonie Numeriche. Erano altrettanto familiari a Shevek quanto ad ogni urrasiano. Odo non aveva cercato di rinnovare le relazioni fondamentali della musica, quando aveva rinnovato le relazioni degli uomini. Ella aveva sempre rispettato ciò che era necessario. I Coloni di Anarres si erano lasciati alle spalle le leggi dell’uomo, ma avevano portato con sé quelle dell’armonia.
La stanza grande e tranquilla era silenziosa e si stava oscurando con l’avanzare della sera. Shevek si guardò intorno, fissando il perfetto doppio arco delle finestre, il pavimento di legno lucido che rifletteva debolmente il chiarore, la curva robusta e le ombre del caminetto di pietra, le pareti coperte di pannelli, ammirevoli per le loro proporzioni. Era una stanza bellissima e accogliente. Questa Casa degli Anziani di Facoltà, gli avevano detto, era stata costruita nell’anno 540, quattrocento anni fa, duecento e trenta anni prima dell’Insediamento di Anarres. Generazioni di studiosi erano vissute, avevano lavorato, parlato, pensato, dormito, erano morte in quella stanza prima ancora che fosse nata Odo. Le Armonie Numeriche erano dilagate sul prato, fra le scure foglie del boschetto, per secoli. Sono qui da un tempo immemorabile, diceva la stanza a Shevek, e qui resto. Ma tu, qui, che cosa fai?
Ed egli non aveva risposta. Egli non poteva vantare alcun diritto a tutta la grazia e l’abbondanza di quel pianeta: una grazia e un’abbondanza guadagnate e conservate dal lavoro, la devozione, la fedeltà del suo popolo. Il paradiso è per coloro che lo fabbricano. Egli non vi apparteneva. Egli era un uomo delle frontiere, apparteneva a una stirpe che aveva negato il proprio passato, la propria storia. I Coloni di Anarres avevano voltato la schiena al Vecchio Pianeta e al suo passato, avevano optato per il solo futuro. Ma, esattamente come il futuro diviene il passato, il passato diviene il futuro. Negare non è raggiungere, non è conseguire. Gli odoniani che avevano lasciato Urras erano in torto, in torto pur col loro disperato coraggio, nel negare la loro storia, nel rinunciare alla possibilità del ritorno. L’esploratore che non ritorna o che manda indietro le proprie navi a riferire la sua storia non è un esploratore, ma solamente un avventuriero, e i suoi figli sono partoriti nell’esilio.
Egli era venuto per amare Urras, ma a che valeva la sua sete di amore? Egli non ne faceva parte di Urras. Né faceva parte del mondo che gli aveva dato i natali.
La solitudine, la certezza dell’isolamento, che egli aveva sperimentato nella sua prima ora a bordo della nave spaziale, si gonfiarono ora in lui e si affermarono come la sua vera condizione: ignorata, rimossa, ma assoluta.
Egli era solo, su Urras, poiché veniva da una società che si era messa volontariamente in esilio. E sul proprio mondo era sempre stato solo perché si era esiliato dalla propria società. I Coloni avevano fatto un passo in avanti. Egli ne aveva fatti due. E faceva parte a sé, era solo, poiché aveva affrontato il rischio metafisico.
Ed era stato talmente sciocco da pensare di poter riunire due mondi ai quali non apparteneva.
Il blu del cielo notturno, dietro la finestra, richiamò i suoi occhi. Al di sopra della vaga oscurità delle fronde e della torre della cappella, al di sopra del vago profilo delle montagne, che sempre, di notte, parevano più piccole e remote, una luce si stava allargando: un’ampia, morbida radianza. Si alza la Luna, pensò, con un grato senso di familiarità. Non c’è frattura nell’integrità del tempo. Egli aveva visto sorgere la Luna da bimbo, dalle finestre del domicilio di Ampio Piano, insieme con Palat; l’aveva vista alzarsi sulle colline della sua adolescenza; sulle aride piane della Polvere; sui tetti di Abbenay, con Takver che la osservava accanto a lui.
Ma non questa Luna.
Le ombre si spostavano accanto a lui, ed egli rimase a sedere senza muoversi, mentre Anarres si innalzava al di sopra delle montagne straniere; Anarres piena, bigia maculata e bianco-azzurrina, splendente. La luce del suo mondo gli riempì le mani vuote.