Prima che lasciassero l’orbita, gli oblò erano pieni del turchese nebbioso di Urras, immenso e bellissimo. Ma la nave si voltò, e le stelle giunsero in vista, e Anarres tra queste, simile a una pietra rotonda e luminosa: in movimento eppure immota, scagliata da una mano che, descrivendo cerchi senza tempo, crea il tempo.
Mostrarono a Shevek tutta la nave: l’astronave interstellare Davenant. Era molto diversa dal mercantile Pensiero. Dall’esterno appariva bizzarra e fragile come una scultura di vetro e fil di ferro; non aveva l’aspetto di una nave, di un veicolo: non aveva neppure un’estremità anteriore e una posteriore, poiché non viaggiava mai in un’atmosfera che avesse consistenza maggiore di quella del vuoto interplanetario. All’interno era spaziosa e robusta come una casa. Le stanze erano grandi e intime, le pareti erano coperte di pannelli di legno o di tappezzerie in stoffa; i soffitti erano alti. Solamente, era una casa con gli scuri accostati, poiché poche cabine avevano oblò, ed era molto tranquilla. Anche il ponte e le sale motori avevano la stessa tranquillità, e le macchine e gli strumenti avevano la stessa semplicità e praticità di forma degli apparati di una nave a vela. Per la ricreazione c’era un giardino, la cui illuminazione aveva le caratteristiche della luce solare, e l’aria era dolce dell’odore del terreno e delle foglie; durante la notte della nave il giardino veniva oscurato, e i suoi oblò aperti sulle stelle.
Anche se i viaggi interstellari duravano soltanto alcune ore o alcuni giorni di nave, un’astronave a velocità prossima a quella della luce come questa poteva passare mesi ad esplorare un sistema solare, o anni in orbita intorno a un pianeta dove l’equipaggio fosse sceso a vivere o esplorare. Pertanto era fatta in modo spazioso, a misura umana, abitabile, per coloro che dovevano vivere a bordo. Il suo stile non aveva né l’opulenza di Urras né l’austerità di Anarres, ma toccava l’equilibrio tra i due, con quella grazia priva di sforzo che è caratteristica della lunga pratica. Si poteva immaginare di condurre quella vita ristretta senza irritarsi per le sue restrizioni, accontentandosi, meditando. Erano gente meditabonda, gli Hainiti dell’equipaggio: individui civili, controllati, piuttosto cupi. C’era poca spontaneità in loro. Il più giovane degli Hainiti a bordo pareva più vecchio di ciascuno dei Terrestri.
Ma Shevek non li osservò molto, Terrestri e Hainiti, nel corso dei tre giorni in cui il Davenant, viaggiando a propulsione chimica a velocità convenzionali, effettuò il tragitto da Urras ad Anarres. Replicava quando gli parlavano; rispondeva volentieri alle domande, ma ne rivolgeva poche. Quando parlava, parlava da un silenzio interiore. Le persone del Davenant, soprattutto le più giovani, erano attratte da lui, come se egli avesse qualcosa che a loro mancava o se fosse qualcosa che esse desideravano essere. Parlavano molto tra loro, ma erano timide con lui. Egli non se ne accorse. Non badava quasi a loro. Badava soltanto ad Anarres, davanti a sé. Badava alla speranza ingannata e alla promessa mantenuta; all’insuccesso; e alle sorgenti entro lo spirito, finalmente dissigillate, di gioia. Era un uomo liberato dalla prigione, che tornava a casa alla famiglia. Ogni cosa che un simile uomo vede lungo il proprio cammino, egli la vede soltanto come riflessi di luce.
Il secondo giorno di viaggio, egli si trovava in sala comunicazioni, e parlava con Anarres per radio, prima sulla lunghezza d’onda del CDP, ed ora su quella del Gruppo dell’Iniziativa. Sedeva chino in avanti, e ascoltava o rispondeva con un fiotto della lingua chiara ed espressiva che era la sua lingua madre; a volte gesticolava con la mano libera, come se il suo interlocutore potesse vederlo, a volte rideva. Il nostromo della Davenant, un Hainita chiamato Ketho, che si occupava del contatto radio, lo osservava con attenzione. Ketho aveva passato un’ora dopo il pranzo, la sera prima, con Shevek, insieme con il comandante e altri membri dell’equipaggio; gli aveva chiesto, in un modo tranquillo, privo di pretese, Hainita, un mucchio di cose su Anarres.
Shevek si voltò finalmente verso di lui. — D’accordo, finito. Il resto può attendere finché non sarò a casa. Domani si metteranno in contatto con lei per disporre le procedure di atterraggio.
Ketho annuì. — Ha avuto qualche buona notizia — disse.
— Sì, certo. Almeno, alcune, come dite?, notizie vivaci. — Dovevano parlarsi in iotico. Shevek lo conosceva meglio di Ketho, il quale lo parlava in modo molto corretto e rigido. — L’atterraggio sarà una cosa emozionante — continuò Shevek. — Un mucchio di nemici e un mucchio di amici si troveranno sul campo. La buona notizia sono gli amici… Pare che ce ne sia un numero maggiore di quello che c’era alla mia partenza.
— Questo pericolo di aggressione, quando lei atterrerà — disse Ketho. — Certo i funzionari del Porto di Anarres pensano di poter controllare i dissidenti? Non le diranno deliberatamente di scendere per venire ucciso?
— Be’, mi proteggeranno. Ma sono anch’io un dissidente, dopotutto. Ho chiesto di correre il rischio. È il mio privilegio, sa, di Odoniano. — Sorrise a Ketho. L’Hainita non gli restituì il sorriso. Aveva la faccia seria. Era un bell’uomo di una trentina d’anni, alto e chiaro di pelle come un Cetiano, ma quasi glabro come un Terrestre, con lineamenti forti, virili.
— Sono lieto di poterlo condividere con lei — disse. — Sarò io a portarla giù con il battello d’atterraggio.
— Ottimo — disse Shevek. — Non tutti amerebbero accettare i nostri privilegi!
— Più di quanti lei non creda, forse — disse Ketho. — Se permetteste loro di accettarli.
Shevek, la cui mente non aveva badato molto alla conversazione, stava per lasciare la stanza; le ultime parole lo fecero fermare. Fissò Ketho, e dopo un momento disse: — Vuol dire che le piacerebbe scendere con me?
L’Hainita rispose con uguale franchezza. — Sì, mi piacerebbe.
— Il comandante glielo permetterebbe?
— Sì. Come ufficiale di una nave esploratrice, anzi, fa parte del mio dovere esplorare e investigare un nuovo mondo quando è possibile. Io e il comandante abbiamo esaminato la possibilità. L’abbiamo discussa con i nostri ambasciatori prima di partire. La loro opinione è che non debba venire fatta una richiesta ufficiale, dato che la politica del suo popolo è impedire agli stranieri di atterrare.
— Uhm — disse Shevek, poco amichevole. Si avvicinò alla parete di fronte e rimase immobile per qualche momento davanti a un quadro, un paesaggio Hainita, molto semplice e sottile, un fiume scuro che scorreva fra le canne, sotto un cielo pesante. — I Termini della Chiusura dell’Insediamento di Anarres — disse, — non permettono agli urrasiani di scendere, eccetto che all’interno dei confini del Porto. Questi termini sono ancora accettati. Ma lei non è un urrasiano.
— Quando Anarres fu colonizzata, non c’erano altre razze conosciute. Per implicazione, quei termini comprendono tutti i forestieri.
— Così decisero i nostri amministratori, sessant’anni fa, quando il suo popolo giunse in questo sistema solare e cercò di parlare con noi. Ma io credo che si sbagliassero. Essi non fecero altro che costruire nuovi muri. — Si voltò e fissò, con le mani dietro la schiena, l’altro uomo. — Perché vuole scendere, Ketho?
— Desidero vedere Anarres — rispose l’Hainita. — Ancor prima che lei venisse su Urras, già m’incuriosiva. Cominciò quando lessi le opere di Odo. Divenni vivamente interessato. Ho anche… — esitò, come se provasse imbarazzo, ma continuò nel suo modo coscienzioso, represso: — Ho imparato un po’ di pravico. Non molto, però.
— Allora è un desiderio suo… una sua iniziativa?
— Totalmente mia.
— E si rende conto che potrebbe essere pericolosa?
— Sì.
— Le cose… sono un po’ uscite di controllo, su Anarres. È ciò che mi dicevano i miei amici per radio. È sempre stata nostra intenzione… il nostro Gruppo, questo mio viaggio… scuotere un po’ le cose, svegliare, infrangere certe abitudini, indurre la gente a porsi delle domande. Comportarsi da anarchici! E tutto ciò è continuato mentre io ero via. Così, lei capirà, nessuno sa bene che cosa accadrà. E se lei atterrerà con me, altre cose ancora voleranno in aria. Io non posso spingere troppo. Non posso portarla come rappresentante ufficiale di qualche governo straniero. Questo non servirebbe, su Anarres.
— Lo so.
— Una volta che lei sia sceso, una volta che abbia superato il muro con me, lei, come io vedo la cosa, sarà uno di noi. Noi siamo responsabili verso di lei e lei è responsabile verso di noi, lei diventa un anarresiano, con le stesse opzioni di tutti gli altri. Ma non sono opzioni sicure. La libertà non è mai molto sicura. — Si guardò attorno nella stanza tranquilla e ordinata, con i suoi semplici quadri di comando e i suoi delicati strumenti, il suo alto soffitto e le sue pareti senza finestre, e riportò lo sguardo su Ketho. — Lei si troverà molto solo — disse.
— La mia razza è molto antica — disse Ketho. — Siamo civili da mille millenni. Abbiamo storie di centinaia di questi millenni. Abbiamo provato ogni cosa. L’anarchia, con il resto. Ma io non l’ho provata. Dicono che non ci sia niente di nuovo sotto nessun sole. Ma se ogni vita non è nuova, ogni singola vita, allora perché nasciamo?
— Siamo i figli del tempo — disse Shevek, in pravico. L’uomo più giovane lo fissò per un momento, e poi ripeté le parole in iotico: — Siamo i figli del tempo.
— Giusto — disse Shevek, e rise. — Giusto, ammar! Faresti meglio a chiamare nuovamente Anarres sulla radio… prima il Gruppo… Ho detto a Keng, l’ambasciatrice, che non avevo nulla da dare in cambio di ciò che il suo popolo e il tuo hanno fatto per me; be’, forse posso darvi qualcosa in cambio. Un’idea, una promessa, un rischio…
— Parlerò al comandante — disse Ketho, serio come sempre, ma con un leggerissimo tremore di eccitazione, di speranza nella voce.
Molto tardi, la successiva notte della nave, Shevek era nel giardino del Davenant. Le luci erano spente, ed era illuminato soltanto dalla luce delle stelle. L’aria era fredda. Un fiore che sbocciava di notte, proveniente da qualche mondo inimmaginabile, si era aperto fra le foglie scure e diffondeva il proprio profumo con paziente e vana dolcezza per attirare qualche inimmaginabile falena, a trilioni di chilometri di distanza, nel giardino di un mondo che ruotava intorno a un’altra stella. Le luci solari sono differenti, ma c’è soltanto una oscurità. Shevek era fermo accanto all’alto, chiaro oblò, e osservava la parte notturna di Anarres, una curva oscura su metà delle stelle. Si chiedeva se Takver sarebbe stata presente laggiù, al Porto. Non era ancora arrivata ad Abbenay da Pace e Abbondanza l’ultima volta che aveva parlato con Bedap, cosicché egli aveva lasciato a Bedap l’incarico di discutere e di decidere con lei se sarebbe stato saggio recarsi al Porto. «E credi che potrei fermarla, se non lo fosse?» aveva detto Bedap. Si chiedeva anche che tipo di viaggio avesse fatto dalla costa di Sorruba; un dirigibile, si augurava, se aveva portato le bambine. Viaggiare col treno era duro, se si era accompagnati da bambini. Ricordava ancora i disagi del viaggio da Chakar ad Abbenay, nel ’68, quando Sedik aveva avuto il mal di treno per tre mortali giorni.
La porta della cabina giardino si aprì, aumentando la scarsa illuminazione. Il comandante della Davenant guardò dentro e disse il proprio nome; Shevek rispose; il comandante entrò, con Ketho.
— Abbiamo ricevuto dal vostro controllo lo schema di atterraggio per il nostro battello — disse il comandante. Era un Terrestre di bassa statura, color del ferro, freddo e pratico. — Se lei è pronto a venire, potremo cominciare le procedure del lancio.
— Certo.
Il comandante gli rivolse un cenno del capo e si allontanò. Ketho si accostò a Shevek davanti all’oblò.
— Sei sicuro di voler attraversare questo muro con me, Ketho? Sai, per me è facile. Qualsiasi cosa succeda, io torno a casa. Ma tu lasci la tua casa. «Vero viaggio è il ritorno…».
— Spero di tornare — disse Ketho con la sua voce pacata. — A suo tempo.
— Quando dobbiamo salire sul battello d’atterraggio?
— Tra circa venti minuti.
— Io sono pronto. Non ho bagagli da fare. — Shevek rise: una risata di chiara, incondizionata felicità. L’altro uomo lo guardò con gravità, come se non fosse sicuro di quel che fosse la felicità, eppure la riconoscesse o forse la ricordasse da un tempo lontano. Rimase fermo accanto a Shevek come se desiderasse chiedergli qualcosa. Ma non lo chiese. — Sarà mattina presto al Porto di Annares — disse infine, e si accommiatò per andare a prendere le sue cose prima di incontrarsi con Shevek al portello di lancio.
Rimasto solo, Shevek si voltò di nuovo verso l’oblò, e vide la curva abbagliante del levarsi del sole sul Temae, che proprio in quel momento si presentava alla vista.
— Riposerò su Anarres questa notte — egli pensò. — Riposerò accanto a Takver. Mi piacerebbe aver portato la fotografia, la piccola pecora, per darla a Pilun.
Ma non aveva portato nulla. Le sue mani erano vuote, come sempre.