CAPITOLO 10

Nel Sudovest, le linee ferroviarie correvano per la maggior parte su una massicciata alta un metro o più al di sopra dei piani. Su un binario elevato si depositava meno polvere, ed esso inoltre permetteva ai viaggiatori una bella vista del deserto.

Il Sudovest era l’unica delle otto Divisioni di Anarres che fosse priva di un grosso corso d’acqua. Paludi si formavano per lo scioglimento dei ghiacci polari all’estremo sud, in estate; verso l’Equatore c’erano soltanto laghi alcalini poco profondi in ampie depressioni salate. Non c’erano montagne; ogni cento chilometri circa, correva da nord a sud una catena di basse colline spoglie, screpolate, in cui le intemperie avevano scavato guglie e burroni. Avevano strisce viola e rosse, e, sulle facce dei burroni, il muschio, una pianta che viveva in qualsiasi estremo di calore, freddo, aridità e vento, cresceva in forma di decise macchie verticali color verde e grigio, formando una scacchiera con le striature dell’arenaria. L’unico ulteriore colore del paesaggio era il marrone sporco, che si sbiancava nei bassipiani salati semicoperti dalla sabbia. Rare nubi di tempesta sfilavano sui pianori, bianco vivo sul cielo violetto. Da esse non veniva pioggia, ma soltanto ombra. La massicciata e le rotaie luccicanti correvano dritte alle spalle del treno, a perdita d’occhio, e dritte davanti ad esso a perdita d’occhio.

— L’unica cosa che si può fare col Sudovest — disse il macchinista, — è arrivare alla sua fine.

L’uomo che era con lui non rispose, poiché s’era addormentato. La sua testa sobbalzava con le oscillazioni del motore. Le sue mani, indurite dal lavoro e annerite dal gelo, erano appoggiate alle cosce, il suo volto rilassato era segnato da rughe, triste. Era salito sul treno alla Montagna del Rame, e, non essendoci altri passeggeri, il macchinista gli aveva chiesto di viaggiare nella locomotiva per tenergli compagnia. Si era addormentato immediatamente. Il macchinista gli dava un’occhiata di tanto in tanto, con disappunto ma con simpatia. Aveva visto così tanta gente consumata dalla stanchezza, negli ultimi anni, che essa gli pareva la condizione normale.

Verso la fine del lungo pomeriggio l’uomo si destò, e dopo essersene rimasto a guardare il deserto per un lungo tempo, chiese: — Tu fai sempre da solo questo viaggio?

— Negli ultimi tre, quattro anni.

— S’è mai guastata la macchina, quaggiù?

— Un paio di volte. C’è un mucchio d’acqua e di razioni nell’armadietto. Hai fame, anzi?

— Non ancora.

— Mandano il carro attrezzi dal Solitario in un giorno o due.

— È la città più vicina?

— Sì. Millesettecento chilometri dalle Miniere di Sedap al Solitario. Il tragitto più lungo tra due città di Anarres. Io lo faccio da undici anni.

— E non sei stufo?

— No. Mi piace lavorare da solo.

Il passaggero annuì.

— E poi, è tranquillo. Mi piace un lavoro sempre uguale; ti lascia pensare. Quindici giorni di viaggio, quindici giorni di riposo con la compagna a Nuova Speranza. Con l’anno che viene, con l’anno che va; con la siccità, con la carestia, con quel che c’è. Niente cambia, c’è sempre la siccità, da queste parti. Amo questo percorso. Mi tiri fuori l’acqua, eh? È al fresco sotto l’armadio, in fondo.

Entrambi trassero una lunga sorsata dalla bottiglia. L’acqua aveva un sapore piatto, alcalino, ma era fresca. — Ah, com’è buona! — disse il passeggero, contento. Rimise a posto la bottiglia, e, tornato al suo sedile nella parte anteriore della cabina, sbadigliò e si stirò, premendo le mani contro il soffitto. — Allora hai un legame di compagni — disse. Nel modo in cui lo disse, c’era una semplicità che piacque al macchinista, il quale gli rispose: — Da diciotto anni.

— Sei appena agli inizi.

— Accidenti, sono d’accordo! Ora, è proprio la cosa che alcuni non capiscono. Ma come la vedo io, se vai molto in giro a copulare quando sei un ragazzo, è quello il periodo migliore, ma poi finisci per accorgerti che è sempre la stessa cosa. Una gran bella cosa, però! Comunque, ciò che è diverso non è la copula; è l’altra persona. E diciott’anni è appena l’inizio, giustissimo, se vuoi capire fino in fondo quella differenza. Almeno, se quella che vuoi capire è una donna. Una donna non ammetterà mai che un uomo sia altrettanto un problema, ma forse le donne fanno finta… Comunque, è proprio questo il piacere della cosa. Il problema, le finte e controfinte e così via. La varietà. Ma per avere la varietà non basta semplicemente andare in giro. Io giravo tutta Anarres, da giovane. Ho portato macchine in ogni Divisione. Avrò conosciuto cento ragazze in tante città diverse. E la cosa diventava noiosa. Allora sono tornato qui, e faccio questo percorso ogni tre decadi, anno dopo anno in. questo deserto, sempre lo stesso, dove non si distingue una collina di sabbia dall’altra ed è tutto uguale per tremila chilometri da qualunque parte uno guardi, e torno a casa dalla stessa compagna… e non mi annoio neppure una volta. Non è il cambiare sempre da un posto all’altro, che ti tiene interessato. È l’avere il tempo dalla tua. Lavorare con esso, non contro di esso.

— Proprio così — disse il passeggero.

— Dove hai la compagna?

— Nel Nordest. Da quattro anni, ormai.

— Così è un periodo troppo lungo — disse il macchinista. — Vi avrebbero dovuto assegnare insieme.

— Non dove ero io.

— Che sarebbe?

— Gomito, e poi Valle Grande.

— Ho sentito di Valle Grande. — Ora fissò il passeggero con il rispetto che si tributa a un superstite. Vide l’aspetto asciutto della sua pelle abbronzata, una sorta di stagionatura che giungeva fino alle ossa: l’aveva già visto in altri che avevano passato nella Polvere gli anni della carestia. — Non avremmo dovuto cercare di tenere in funzione quelle cave.

— Occorrevano i fosfati.

— Ma dicono che quando il treno delle provviste è stato bloccato a Portale, hanno continuato a tenere in funzione le cave, e la gente moriva di fame sul lavoro. Si metteva un po’ più in là, si stendeva in terra e moriva. È stato proprio così?

L’uomo annuì. Non disse nulla. Il macchinista non chiese altro; disse, dopo un po’: — Mi chiedevo che cosa avrei fatto se il mio treno fosse stato assalito.

— Non lo è mai stato?

— No. Sai, io non porto vettovaglie; tutt’al più un carico per Sedep Superiore. Questo è un percorso minerario. Ma se fossi su un percorso delle vettovaglie, e se mi fermassero, che cosa farei? Metterli sotto e portare il cibo dove deve andare? Ma, all’inferno, investire dei bambini, dei vecchi? Sì, fanno una cosa non giusta, ma tu vuoi ucciderli per quello? Non so cosa dire!

I binari dritti e lucenti scorrevano sotte le ruote. Ad ovest le nubi tessevano grandi miraggi trepidi sul piano: l’ombra del sogno di laghi prosciugati da dieci milioni d’anni.

— Un collega, un amico che conosco da anni, ha fatto proprio così, su a nord, nel ’66. Volevano staccargli dal treno un carro di grano. Lui ha fatto andare indietro il treno, ne ha ucciso un paio prima che lasciassero liberi i binari; erano come vermi sulla carne marcia, fitti, diceva. Diceva: ci sono ottocento persone che aspettano quel grano, e quanti di loro moriranno se non lo riceveranno? Più di due, molti di più. E così sembra che avesse ragione. Ma dannazione! Io non riesco a fare conti di quel tipo. Non so se sia giusto contare le persone come si contano i numeri. Però, come fare? Quali decidi di uccidere?

— Il secondo anno che lavoravo a Gomito… laggiù tenevo le liste dei turni… la federativa delle cave ridusse le razioni. La gente che faceva sei ore di lavoro nella fabbrica aveva razione intera… giusto il minimo sufficiente per quel tipo di lavoro. La gente che faceva orario ridotto aveva tre quarti di razione. Se erano malati o troppo deboli per lavorare, metà. Con metà razione non potevi guarire. Non potevi ritornare al lavoro. Tutt’al più potevi rimanere vivo. E io avrei dovuto mettere della gente a mezza razione, gente che era già malata. Io lavoravo a tempo pieno, otto, a volte dieci ore, a tavolino, e così avevo razione intera: me la guadagnavo. Me la guadagnavo facendo elenchi di persone che sarebbero morte di fame. — Gli occhi chiari del passeggero fissarono avanti, nella luce asciutta. — Come hai detto tu. Dovevo contare le persone.

— Te ne sei andato?

— Sì, me ne sono andato. Sono andato a Valle Grande. Ma qualcun altro si incaricò degli elenchi, alle fabbriche di Gomito. C’è sempre qualcuno disposto a fare elenchi.

— E questo è sbagliato — disse il macchinista, aggrottando la fronte al riverbero del deserto. Aveva volto bruno e testa calva, non gli restavano capelli tra le guance e l’occipite, anche se non doveva avere più di quarantacinque anni. Era un volto robusto, duro e innocente. — È sbagliato marcio. Avrebbero dovuto chiudere le cave. Non puoi chiedere a un uomo di fare quel genere di cose. Non siamo forse Odoniani? Un uomo può perdere la ragione, certo. È ciò che è successo alla gente che ha assalito i treni. Aveva fame, i bambini avevano fame, erano affamati da troppo tempo, c’è del cibo che ti passa davanti e non è per te, e allora perdi la ragione e cerchi di prenderlo. E lo stesso è successo al mio amico: quella gente faceva a pezzi il treno che gli era stato affidato, lui ha perso la ragione e ha innestato la retromarcia. Ma non si è messo a contare le teste. Non sul momento! Più tardi, magari. Perché ha avuto la nausea quando ha visto ciò che aveva fatto. Ma quello che ti volevano far fare… dire: «Questo qui vive e quello là muore…» non è un lavoro che una persona abbia il diritto di fare, o di chiedere a un altro di fare.

— Sono stati tempi duri, fratello — disse il passeggero, con gentilezza, osservando il pianoro abbacinante dove l’ombra dell’acqua ondeggiava e si allontanava spinta dal vento.


Il vecchio dirigibile da trasporto dondolò un’ultima volta sulla montagna e attraccò all’aeroporto di Monte Rene. Ne scesero tre passeggeri. Proprio mentre l’ultimo dei tre toccava terra, il suolo si raccolse e sgroppò. — Terremoto — disse; era di quelle parti, e tornava a casa. — Maledizione, guarda che polvere! Un giorno scenderemo qui e non troveremo più il Monte.

Due dei passeggeri attesero che venisse fatto il carico sui furgoni, poi vi salirono anch’essi. Shevek preferì camminare, poiché l’uomo di quelle parti gli aveva detto che Chakar distava solamente sei chilometri, a valle.

La strada scendeva con una serie di lunghe curve, con una piccola salita alla fine di ciascuna curva. Le pendici in salita, a sinistra della strada, e le pendici in discesa, a destra, erano coperte di cespugli di holum; filari di alti alberi di holum, distanziati così bene da parere piantati dalla mano dell’uomo, seguivano vene di acqua corrente lungo i fianchi della montagna. Dalla cima di un’altura, Shevek vide il chiaro colore dorato del tramonto al di sopra delle montagne scure e molteplicemente ripiegate. L’unico segno dell’uomo intorno a lui era la strada stessa, che scendeva fra le ombre. Quando cominciò a scendere, l’aria brontolò un poco ed egli provò una sensazione di stranezza: non una scossa, non un tremito, ma uno spostamento, una convinzione che ci fosse qualcosa di sbagliato. Terminò il passo, e il terreno era lì a incontrare il suo piede. Andò avanti; la strada continuò a rimanere distesa. Non aveva corso pericoli, ma mai, in nessun pericolo, egli si era sentito così vicino alla morte. La morte era in lui, sotto di lui; la terra stessa era incerta, inattendibile. Il sicuro, l’attendibile, è una promessa fatta dalla mente umana. Shevek sentì la fredda, pulita aria nella bocca e i polmoni. Ascoltò. Lontano, un torrente di montagna scrosciava sotto di lui, da qualche parte, nell’ombra.

Giunse a Chakar nel tardo crepuscolo. Il cielo era viola scuro al di sopra delle montagne nere. I lampioni splendevano, luminosi e solitari. Le facciate delle case parevano incompiute, abbozzate nella luce artificiale, le zone disabitate erano scure dietro di esse. C’erano molti terreni incolti, molte case singole: una vecchia città, una città di frontiera, isolata, dispersa. Una passante indicò a Shevek il Domicilio Otto: — Da quella parte, fratello, dopo l’ospedale, alla fine della strada. — La strada si tuffava nel buio ai piedi della montagna e terminava davanti alla porta di un basso edificio. Egli entrò e trovò un atrio da domicilio di città di campagna che lo riportò alla sua fanciullezza, ai luoghi di Libertà, Monte Tamburo, Piano Grande, dove aveva abitato insieme con il padre: la luce scarsa, le stuoie rappezzate; un volantino che descriveva un gruppo locale di addestramento per meccanici, l’annuncio delle riunioni di una federativa, e il volantino per la recita di un dramma, tre decadi prima, affisso alla bacheca degli avvisi; un dipinto dilettantesco, con cornice, di Odo in prigione, sopra il sofà della stanza comune; un armonium fatto in casa; la lista dei residenti e l’avviso delle ore di distribuzione dell’acqua calda ai bagni cittadini, affisso a fianco della porta.

Sherut, Takver, N. 3.

Bussò, osservando i riflessi della lampada del corridoio sulla superficie scura della porta, che non era perfettamente in quadro negli stipiti. Una donna disse: — Entra! — Egli aprì la porta.

La lampada della stanza era dietro di lei. Non poté vedere abbastanza bene, per qualche istante, ed essere sicuro che fosse Takver. Ella gli stava di fronte. Alzò il braccio, come per allontanarlo o per afferrarlo: un gesto incerto, non terminato. Egli le prese la mano, e poi si abbracciarono, si unirono e rimasero fermi, stretti, sull’inattendibile terra.

— Entra — disse Takver, — oh, entra, entra.

Shevek aprì gli occhi. In mezzo alla stanza, che ancora gli appariva luminosissima, egli scorse il viso serio, attento di una bambina piccola.

— Sedik, questo è Shevek.

La bambina si avvicinò a Takver, si tenne alla sua gamba, e scoppiò in pianto.

— Ma non piangere, perché piangi, animuccia?

— E perché piangi tu? — bisbigliò la bambina.

— Perché sono felice! Solo perché sono felice. Siediti sulle mie ginocchia. Ma Shevek, Shevek! La tua lettera è arrivata soltanto ieri. Intendevo andare al telefono portando Sedik a dormire. Dicevi che avresti chiamato questa sera. Non che saresti venuto questa sera! Oh, non piangere, Sedik, guarda, io non piango più, no?

— Anche l’uomo piangeva.

— Certo che piangevo.

Sedik lo guardò con curiosità e diffidenza. Aveva quattro anni. Aveva la testa rotonda, la faccia tonda, era tonda, scura, ricciolina, morbida.

L’unico mobilio della stanza erano le due predelle dei letti. Takver si sedette su una con Sedik sulle ginocchia, Shevek si sedette sull’altra e allungò le gambe. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano e mostrò le nocche a Sedik. — Vedi — le disse, — sono umide. E mi cola il naso. Hai un fazzoletto?

— Sì. Perché, tu no?

— Io lo avevo, ma si è perso in una lavanderia.

— Puoi dividere con me il fazzoletto che uso — disse Sedik, dopo una pausa.

— Non so dove sia — le disse Takver.

Sedik scese dalle ginocchia della madre e andò a prendere un fazzoletto nell’armadio a muro. Lo diede poi a Takver, che lo passò a Shevek. — È pulito — disse Takver, con il suo largo sorriso. Sedik osservò attentamente mentre Shevek si soffiava il naso.

— C’è stato un terremoto, poco tempo fa? — chiese.

— Trema sempre, alla fine non te ne accorgi più — disse Takver, ma Sedik, felice di dispensare informazioni, disse con la sua voce, acuta ma un po’ rauca: — Sì, ce n’è stato uno grosso, prima di pranzo. Quando c’è un terremoto le finestre grattano e il pavimento dondola, e devi andare alla porta o fuori di casa.

Shevek guardò Takver; lei gli restituì lo sguardo. Pareva invecchiata più di quattro anni. Non aveva mai avuto i denti molto a posto, ed ora gliene mancavano due, quelli dietro i canini superiori, e si vedevano i buchi quando sorrideva. La sua pelle non aveva più la levigatezza tesa della gioventù, e i capelli, ben pettinati all’indietro, erano opachi.

Shevek vide chiaramente che Takver aveva perso la propria grazia giovanile, e aveva l’aspetto di una donna ordinaria, stanca, vicina alla metà della vita. Lo vide più chiaramente di quanto lo avrebbe potuto vedere chiunque altro. Vide ogni cosa di Takver in un modo in cui nessun altro la avrebbe potuto vedere, la vide dalla posizione in cui lo mettevano gli anni di intimità e gli anni d’attesa. La vide come era.

I loro occhi si incontrarono.

— Come… come è andata qui? — egli chiese, arrossendo tutto d’un tratto e ovviamente dicendo la frase a caso. Ella sentì l’onda tangibile, l’impeto del suo desiderio. Anch’ella arrossì leggermente, e sorrise. Disse con la sua voce roca: — Oh, come quando ci siamo parlati al telefono.

— Ma è stato sei decadi fa!

— Le cose non cambiano molto, quaggiù.

— È molto bello, qui… le montagne. — Vide negli occhi di Takver l’oscurità delle valli montane. L’acutezza del suo desiderio sessuale aumentò bruscamente, ed egli per un istante ne fu stordito, poi riuscì momentaneamente a superare la crisi e cercò di comandare alla propria erezione di placarsi. — Pensi di voler rimanere qui? — disse.

— Non ne ho voglia — disse lei, con la sua voce strana, scura, roca.

— Il naso ti gocciola ancora — osservò Sedik, con precisione, ma senza particolari connotati emotivi.

— Ringrazia che non c’è altro — disse Shevek. Takver disse: — Sta’ zitta, Sedik, non egoizzare! — Entrambi gli adulti scoppiarono a ridere. Sedik continuò a studiare Shevek.

— La cittadina mi piace, Shevek. La gente è simpatica… sono delle sagome. Ma il lavoro non è gran cosa. È soltanto lavoro di laboratorio all’ospedale. La mancanza di tecnici è quasi superata, e io, presto, potrò andarmene via senza lasciarli nei pasticci. Mi piacerebbe ritornare ad Abbenay, se questa è la cosa a cui pensi. Ti sei fatto dare un nuovo assegnamento?

— Non l’ho chiesto e non ho controllato. Sono stato per la strada per una decade.

— E cosa facevi per la strada?

— Ci viaggiavo sopra, Sedik.

— Ha fatto il giro di mezzo mondo, dal sud, dal deserto, per venire da noi — disse Takver. La bambina sorrise, si sedette più comodamente sulle sue ginocchia, e sbadigliò.

— Hai mangiato, Shevek? Sei stanco? Devo accompagnare a dormire la bambina, stavamo giusto per partire quando hai bussato.

— Dorme già nel dormitorio?

— Fin dall’inizio di questa stagione.

— Avevo già quattro anni — affermò Sedik.

— Devi dire: ho già quattro anni — disse Takver, posandola gentilmente a terra per prendere il cappotto dall’armadio. Sedik rimase ferma, di profilo rispetto a Shevek; era estremamente attenta a lui, e dirigeva a lui le sue osservazioni. — Ma io avevo quattro anni; adesso ne ho più di quattro.

— Una temporalista, come il padre!

— Non puoi avere quattro anni e più di quattro anni nello stesso tempo, vero? — chiese la bambina, avvertendo l’approvazione, e parlando, ora, direttamente a Shevek.

— Oh, sì, certo. E puoi avere quattro anni e quasi cinque nello stesso tempo, anche. — Seduto sulla bassa predella, Shevek poteva tenere la testa allo stesso livello di quella della bambina, in modo ch’ella non dovesse alzare lo sguardo. — Ma dimenticavo che hai quasi cinque anni, vedi. L’ultima volta che ti ho vista, eri poco più di niente.

— Davvero? — Il tono della bambina era civettuolo, Shevek ne era certo.

— Sì. Eri lunga più o meno così. — Allargò le mani, non molto.

— E sapevo già parlare?

— Dicevi wee, e qualche altra cosa.

— Svegliavo tutti nel domicilio, come il bambino di Cheben? — domandò lei, con un sorriso largo, allegro.

— Certamente.

— E quando ho imparato davvero a parlare?

— A circa mezzo anno — disse Takver, — e da allora non hai più chiuso la bocca. Dov’è il cappello, Sedik?

— A scuola. Non mi piace il cappello che porto — informò Shevek.

Accompagnarono la bambina lungo le strade battute dal vento, fino al dormitorio del centro d’apprendimento, e la condussero nella sala comune. Anche questa era un luogo piccolo, sciupato, ma rallegrato da disegni dei bambini, vari bei modellini di bronzo di motori, una scatola di casette giocattolo e di figure di legno dipinte. Sedik diede alla madre il bacio della buona notte, poi si voltò verso Shevek e alzò le braccia; egli si chinò verso di lei; lei lo baciò in modo prosaico ma fermo, e disse: — Buona notte! — Poi si allontanò con la custode notturna, sbadigliando. Udirono ancora la sua voce, e la voce pacata della custode che le diceva di tacere.

— È bellissima, Takver. Bellissima, intelligente, robusta.

— È rovinata, temo.

— No, no. Hai fatto bene, fantasticamente bene… in tempi come questi…

— Non è stata tanto dura, qui, non come nel sud — disse, guardandolo in viso mentre lasciavano il dormitorio. — I bambini avevano da mangiare, qui. Non molto bene, ma abbastanza. Questa comunità può coltivarsi il cibo. E se non c’è niente, ci sono sempre gli arbusti di holum. Puoi raccogliere semi di holum selvatico e pestarli. Nessuno è morto di fame, qui. Ma io ho davvero rovinato Sedik. L’ho allattata fino a tre anni, naturalmente: perché no, visto che non c’era niente di buono con cui svezzarla! Ma lo disapprovavano, alla stazione di ricerca di Rolny. Volevano che la mettessi nel nido a giornata piena. Dicevano che mi comportavo da proprietarista nei riguardi della bambina e non contribuivo con tutte le mie forze allo sforzo sociale in un momento di crisi. E avevano ragione, in realtà. Ma erano così moralisti! Nessuno di loro capiva cosa vuol dire essere soli. Facevano tutti un gruppo, nessuno di loro faceva a sé. Erano le donne a punzecchiarmi perché allattavo ancora. Vere speculatrici del corpo. Rimanevo là perché il cibo era buono… ad assaggiare le alghe per vedere se hanno gusto gradevole, a volte arrivavi a superare una razione normale, anche se avevano gusto di colla… finché non trovarono da sostituirmi con qualcuno più adatto al posto. Allora passai a Nuova Partenza per circa dieci decadi. Era in inverno, due anni fa, quel lungo periodo in cui la posta non arrivò, quando le cose erano così gravi laggiù dove eri tu. A Nuova Partenza ho visto che cercavano qualcuno per una assegnazione qui, e sono venuta. Sedik è rimasta con me nel domicilio fino a questo autunno. Continuo a sentire la sua mancanza. La stanza è così silenziosa.

— Non hai una compagna di stanza?

— Sherut; è molto gentile, ma lavora al turno di notte all’ospedale. Era ora che Sedik se ne andasse, le fa bene abitare con gli altri bambini. Cominciava a diventare timida. È stata molto brava, quando si è trattato di andare laggiù, molto stoica. I bambini sono stoici Piangono se cascano in terra, ma prendono le grandi cose così come vengono, non piagnucolano come tanti adulti.

Si avviarono per la strada a fianco a fianco. Le stelle del cielo autunnale erano comparse: incredibili come numero e come fulgore, tremolanti e quasi ammiccanti a causa della polvere sollevata dal terremoto e dal vento, cosicché l’intero cielo pareva tremare: uno scotimento di schegge di diamante, una scintillazione di luce solare su un mare nero. Sotto quell’inquieto splendore, le montagne erano scure e solide, i tetti spigolosi, la luce delle lampade stradali lieve.

— Quattro anni fa — disse Shevek. — Quattro anni fa, giunsi ad Abbenay, da quel posto degli Altipiani del Sud, come si chiamava? Fonti Rosse. Era una notte come questa, ventosa, con le stelle. L’ho fatta di corsa: ho fatto di corsa tutta la strada da Via dei Piani al domicilio. E tu non c’eri, te n’eri andata. Quattro anni!

— Nel momento stesso in cui ho lasciato Abbenay ho capito di essere stupida ad andare. Carestia o non carestia. Avrei dovuto rifiutare l’assegnazione.

— Non avrebbe fatto molta differenza. Sabul mi aspettava Per dirmi che avevo finito all’Istituto.

— Se ci fossi stata io, non saresti andato a finire nella Polvere.

— Forse no, ma non saremmo riusciti ad avere gli assegnamenti insieme. Per qualche tempo è parso che nulla stesse insieme, vero? Le città del Sudovest… non c’era nessun bambino. E ancora non ce ne sono. Li mandarono al nord, in regioni dove c’era cibo locale, o qualche possibilità di averlo. E gli adulti rimasero per mandare avanti le cave e le fabbriche. È una meraviglia essere riusciti a farcela, tutti noi, no?… Ma, dannazione, adesso voglio fare il mio lavoro per un po’ di tempo!

Lei gli strinse il braccio. Egli si arrestò bruscamente, come se il suo tocco l’avesse fulminato con una scossa elettrica, lì sul posto. Lei lo spinse, sorridendo. — Non hai mangiato, vero?

— No. Oh Takver, sono stato male dal desiderio di te, sono stato male!

Giunsero insieme, stringendosi fieramente, al tratto di strada buio e privo di lampade, sotto le stelle. Si staccarono bruscamente, e Shevek indietreggiò fino alla parete più vicina. — Farei meglio a mangiare qualcosa — disse, e Takver rispose: — Sì, altrimenti cascherai in terra! Andiamo. — Percorsero un isolato fino alla mensa, l’edificio più grande di Chakar. Il pranzo regolare era terminato, ma i cuochi stavano mangiando, e diedero al viaggiatore un piatto di minestra e tutto il pane che voleva. Sedettero tutti alla tavola più vicina alla cucina. Le altre tavole erano già state ripulite e apparecchiate per l’indomani mattina. La grande sala era cavernosa, il soffitto s’innalzava nelle ombre, e l’altra estremità, di fronte a loro, era oscura, ad eccezione dei punti dove un piatto o una tazza luccicava su una tavola scura, riflettendo la luce. I cuochi e i servitori erano una squadra tranquilla, stanca dopo la giornata di lavoro; mangiavano in fretta, senza molto parlare, senza prestare molta attenzione a Takver e allo straniero. A uno a uno, essi terminarono e si alzarono per portare i piatti a coloro che li lavavano in cucina. Una vecchia donna disse, alzandosi: — Non abbiate fretta, ammari, hanno ancora un’ora di roba da lavare. — Aveva il volto severo e pareva dura, non materna, non benevola; ma parlava con compassione, con la carità degli uguali. Per loro non poteva fare di più che dire: «Non abbiate fretta», e guardarli per un istante con lo sguardo dell’amore fraterno.

Ed essi non potevano fare di più per lei, e poco di più l’uno per l’altro.

Ritornarono al Domicilio Otto, Stanza 3, e laggiù il loro lungo desiderio venne esaudito. Non accesero neppure la lampada; ad entrambi piaceva fare l’amore al buio. La prima volta entrambi vennero quando Shevek entrò in lei, la seconda volta lottarono e piansero in una rabbia di gioia, prolungando il loro culmine come procrastinare il momento della morte, la terza volta erano entrambi semiaddormentati, e girarono attorno al centro d’infinito piacere, attorno al reciproco essere, come pianeti che girassero ciecamente, tranquillamente, nella marea della luce solare, intorno al centro comune di gravità, oscillando, circolando interminabilmente.

Takver si destò all’alba. Si appoggiò sul gomito e guardò al di là di Shevek al rettangolo grigio della finestra, e poi a lui. Egli era sdraiato sulla schiena, e respirava così tranquillamente che il suo petto non pareva neppure muoversi; il suo volto era un po’ tirato all’indietro, e appariva remoto e austero nella luce sottile. Siamo venuti, pensò Takver, da una grande distanza, l’uno incontro all’altro. Abbiamo sempre fatto così. Superando grandi distanze, superando gli anni, superando abissi di fortuna. Ed è perché egli viene da tanto lontano, è per questo che niente ci può separare. Niente, nessuna distanza, nessun intervallo di tempo può essere più grande della distanza che c’è già tra noi, la distanza del nostro sesso, la differenza del nostro essere, della nostra mente; lo iato, l’abisso che scavalchiamo con un’occhiata, con un tocco, con una parola, la cosa più facile al mondo. Guarda quanto è lontano, quando è addormentato. Ma ritorna, ritorna, ritorna…


Takver diede notizia della partenza all’ospedale di Chakar, ma rimase finché non poterono sostituirla in laboratorio. Lavorava otto ore al suo turno: nel terzo trimestre dell’anno 168 molte persone continuavano con i lunghi turni lavorativi delle assegnazioni di emergenza, poiché, sebbene la siccità fosse terminata nell’inverno del 167, l’economia non era affatto ritornata alla normalità. «Turno lungo e mensa corta» era ancora la regola per le persone che svolgevano lavori specializzati, ma ora il cibo era adeguato al lavoro della giornata, cosa che non era stata vera un anno e due anni prima.

Shevek non fece quasi nulla per un certo periodo. Non si considerava malato; dopo i quattro anni di carestia, ciascuno era così abituato agli effetti della fatica e della denutrizione che li prendeva come la norma. Aveva quella tosse da polvere che era endemica nelle comunità meridionali del deserto, un’irritazione cronica dei bronchi simile alla silicosi e alle altre malattie dei minatori, ma anche questa era una cosa che si dava per scontata nei posti dove era stato. Egli si limitava a gioire del fatto che, anche se si fosse sentito di fare qualcosa, non ci sarebbe stato nulla ch’egli avrebbe potuto fare.

Per alcuni giorni egli e Sherut condivisero la stanza durante la giornata, entrambi dormendo fino al tardo pomeriggio, poi Sherut, una placida donna sulla quarantina, si trasferì con un’altra donna che faceva il turno di notte, e Shevek e Takver ebbero tutta la stanza a disposizione per le quattro decadi che passarono ancora a Chakar. Quando Takver era al lavoro, egli dormiva, o usciva a camminare nei campi o sulle montagne asciutte e nude che dominavano sulla città. Si recava al centro d’apprendimento nel tardo pomeriggio, e osservava Sedik e gli altri bambini sul campo dei giochi, si lasciava attirare, come spesso capitava agli adulti, in uno dei progetti dei bambini: un gruppo di falegnamini pazzi di sette anni, o un paio di serissimi geometri dodicenni che avevano dei guai con la triangolazione. Poi tornava con Sedik alla camera; andavano a prendere Takver quando usciva dal lavoro e andavano tutti insieme ai bagni e alla mensa. Un’ora o due dopo il pranzo, egli e Takver riportavano la bambina al dormitorio e ritornavano alla stanza. I giorni erano pieni di pace, nella luce autunnale, nel silenzio delle montagne. Era per Shevek un tempo fuori del tempo, a lato del suo flusso, irreale, durevole, incantato. A volte egli e Takver parlavano fino a tardi; altre volte andavano a letto non più tardi del buio e dormivano nove ore, dieci, nel profondo, cristallino silenzio della notte montana.

Egli era giunto con del bagaglio: una logora valigetta di cartone, con il suo nome scritto a grandi lettere in inchiostro nero; ogni anarresiano portava con sé delle carte, dei ricordi, un paio di stivali di ricambio, nello stesso tipo di valigia da viaggio, di cartone color arancio, pieno di graffi e ammaccata. La sua conteneva una camicia nuova ch’egli aveva preso mentre passava da Abbenay, un paio di libri e alcuni appunti, e un curioso oggetto, che, dentro la valigia, sembrava fatto di una serie di anelli piatti di fil di ferro e di alcune perline di vetro. Egli lo rivelò, con molto mistero, a Sedik, la seconda sera dopo il suo arrivo.

— È una collana — disse la bambina, con soggezione. La gente, nelle piccole città, portava un mucchio di gioielli. Nella sofisticata Abbenay il senso del contrasto tra il principio di non proprietà e l’impulso ad ornarsi era più forte, e un anello o una spilla erano il limite del buon gusto. Ma negli altri luoghi il profondo legame tra l’estetico e l’acquisitivo veniva semplicemente lasciato perdere; la gente si riempiva di gioielli senza vergogna. Molti distretti avevano un gioielliere di professione che svolgeva il suo lavoro per amore e per fama, oltre che le botteghe d’arte, dove potevate assecondare il vostro gusto con i modesti materiali disponibili: rame, argento, perline, spinello, e i granati e i diamanti paglierini degli Altipiani del Sud. Sedik non aveva visto molte cose lucenti e delicate, ma sapeva cos’erano le collane, e l’aveva riconosciuta.

— No; guarda — disse il padre, e con solennità e abilità alzò l’oggetto per mezzo del filo che univa i numerosi anelli. Sospeso alla sua mano, esso si animò, gli anelli ruotarono liberamente, descrivendo aeree sfere l’uno entro l’altro, le perline rifletterono la luce della lampada.

— Oh, che bello! — disse la bambina. — Che cos’è?

— Bisogna appenderlo al soffitto; c’è un chiodo? Il portamantello potrà andare bene, finché non avrò preso un chiodo ai Rifornimenti. Sai chi l’ha fatto, Sedik?

— No… L’hai fatto tu.

— L’ha fatto lei. La madre. Lei. — Si voltò verso Takver. — È il mio favorito, quello che stava sopra la scrivania. Ho dato gli altri a Bedap. Non li avrei certamente lasciati lì per la vecchia, come si chiama, Mamma Invidia, la nostra vicina di corridoio.

— Oh… Bunub! Da anni non pensavo più a lei! — Takver rise, con un fremito. Guardò la scultura mobile come se ne avesse paura.

Sedik fissava attentamente la scultura che ruotava senza far rumore alla ricerca del proprio equilibrio. — Mi piacerebbe — disse infine, facendo attenzione alle parole, — poterla condividere per una notte, sopra il letto dove dormo in dormitorio.

— Te ne farò una, cara. Per tutte le notti.

— Sei davvero capace di farle, Takver?

— Be’, una volta ero capace. Penso di essere ancora capace di farne una per te. — Le lacrime erano ora pienamente visibili negli occhi di Takver. Shevek l’abbracciò. Entrambi erano ancora nervosi, tesi. Sedik li osservò per un istante mentre erano abbracciati, con uno sguardo calmo, curioso, poi ritornò a guardare la Occupazione di uno Spazio Disabitato.

Quando erano soli, la sera, Sedik era spesso l’oggetto dei loro discorsi. Takver era per alcuni aspetti eccessivamente attenta alla bambina, per mancanza di altri rapporti, e il suo forte buon senso era oscurato da ambizioni e ansie materne. Questo non era naturale per lei; né la competitività né la protettività erano forti motivazioni nella vita degli anarresiani. Ella era lieta di dar voce alle proprie preoccupazioni e di sbarazzarsi di esse, cosa che le era finalmente permessa dalla presenza di Shevek. Le prime sere fu quasi sempre lei a parlare, ed egli la ascoltò come avrebbe potuto ascoltare della musica o il suono dell’acqua corrente, senza cercare di rispondere. Negli ultimi quattro anni, Shevek non aveva parlato molto; aveva perso l’abitudine della conversazione. Lei lo liberò da quel silenzio, come aveva sempre fatto. Più tardi fu quasi sempre lui a parlare, anche se continuò a dipendere da lei per le risposte.

— Ricordi Tirin? — le chiese una notte. Faceva freddo, era arrivato l’inverno, e la stanza, la più lontana dal bruciatore del domicilio, non si riscaldava mai bene, neppure con tutta la grata aperta. Avevano preso i materassi delle due predelle e stavano entrambi, ben infagottati, sulla predella più vicina alla grata. Shevek indossava una camicia molto vecchia, stinta, per riscaldarsi il petto, poiché amava rimanere seduto sul letto. Takver, che non aveva niente addosso, era infilata sotto le coperte fino alle orecchie. — Che ne è della coperta arancione? — lei chiese.

— Che proprietarista! L’ho lasciata.

— A Mamma Invidia? Peccato. Non sono una proprietarista. Sono soltanto sentimentale. È stata la prima coperta sotto la quale abbiamo dormito insieme.

— No, non è stata quella. Mi pare che abbiamo usato una coperta anche sui Ne Theras.

— Se l’abbiamo usata, non la ricordo — disse Takver, ridendo. — Di chi mi chiedevi?

— Tirin.

— Non ricordo.

— All’Istituto Regionale. Un ragazzo bruno, dal naso camuso…

— Oh, Tirin! Certamente. Pensavo ad Abbenay.

— L’ho visto, nel Sudovest.

— Hai visto Tirin? Come stava?

Per un certo tempo, Shevek non disse nulla, limitandosi a passare il dito sulle cuciture della coperta. — Ricordi cosa Bedap ci disse di lui?

— Che continuava a ricevere assegnazioni kleggich, e ad essere trasferito, e che alla fine è andato all’Isola Segvina, no? E lì Bedap perse traccia di lui.

— Hai visto il dramma che ha messo in scena, quello che l’ha messo nei guai?

— Alla Festa dell’Estate, dopo che tu partisti? Oh, sì. Non ricordo bene, è passato tanto tempo. Era una sciocchezza. Spiritosa, però… Tirin era spiritoso. Ma era una sciocchezza. Parlava di un urrasiano, già. Questo urrasiano si nasconde in una vasca idroponica sul mercantile della Luna, e respira con una cannuccia e mangia le radici delle piante. Te l’ho detto, era una stupidaggine! E così, riesce ad arrivare clandestinamente su Anarres. E allora gira da tutte le parti, cercando di comprare cose ai depositi e di venderle alla gente, e mettendo da parte pepite d’oro finché ne ha così tante che non riesce neppure a muoversi. Così deve rimanere seduto dove si trova, e costruisce un palazzo e si fa chiamare il Padrone di Anarres. E c’era una scena divertentissima dove lui e una donna vogliono copulare, e lei è aperta e pronta, ma lui non riesce a fare niente se prima non le dà le pepite d’oro, per pagarla. E lei non le vuole accettare. Faceva proprio ridere, con lei per terra che agita le gambe e lui che si lancia su di lei, e poi salta indietro come se l’avesse morsicato, dicendo: «Non devo! Non è morale! Non è un buon commercio!». Povero Tirin, era così simpatico, così pieno di vita.

— Ha fatto lui la parte dell’urrasiano?

— Sì. Ed era meraviglioso.

— Mi ha fatto vedere il dramma, varie volte.

— Dove l’hai incontrato, a Valle Grande?

— No, prima, a Gomito. Era lo spazzino della fabbrica.

— E aveva scelto lui quell’incarico?

— Non credo che Tirin avesse ancora la facoltà di scegliere, ormai… Bedap ha sempre pensato che sia stato forzato ad andare a Segvina, che gli abbiano fatto richiedere le cure psicologiche mediante pressioni e minacce. Io non lo so. Quando l’ho visto, vari anni dopo le cure, era un uomo distrutto.

— Pensi che a Segvina gli abbiano fatto qualcosa che…

— Non lo so. Penso che il Manicomio cerchi davvero di offrire un riparo, un rifugio. A giudicare dalle loro pubblicazioni, devono essere degli altruisti, come minimo. Non credo che abbiano spinto Tirin nel baratro.

— Ma che cos’è stato, allora, a spezzarlo? Semplicemente il fatto di non trovare un’assegnazione che gli piacesse?

— È stata la sua commedia a spezzarlo.

— La commedia? Il chiasso che quei vecchi stronzi hanno fatto per colpa sua? Oh, ma senti, per diventare pazzo a causa di quelle prediche moralistiche, devi già essere pazzo in partenza. Bastava che le ignorasse.

— Tirin era già pazzo in partenza. Per il metro della nostra società.

— Cosa vuoi dire?

— Be’, penso che Tirin sia un artista nato. Non un artigiano: un creatore. Un inventore-distruttore, il tipo che deve prendere ogni cosa e girarla al contrario, rovesciarla. Un autore di satire, un uomo che giudica con la rabbia.

— Era davvero così buono, il suo dramma? — chiese Takver, ingenuamente, tirando fuori di un paio di centimetri la testa dalle coperte e studiando il profilo di Shevek.

— No, non credo. Dev’essere stato divertente, sulla scena. E aveva soltanto vent’anni, in fin dei conti, quando l’ha scritto. Continua sempre a riscriverlo. Non ha mai scritto altro.

— Continua a scrivere la stessa commedia?

— Continua a scrivere la stessa commedia.

— Uhg — disse Takver, con pietà e disgusto.

— Ogni due decadi veniva da me e me la faceva leggere. E io la leggevo o facevo finta di leggerla e cercavo di parlarne con lui. Egli desiderava disperatamente parlarne, ma non riusciva a farlo. Aveva troppa paura.

— Paura di che? Non capisco.

— Di me. Di tutti. Dell’organismo sociale, della razza umana, della fratellanza che lo aveva rifiutato. Quando un uomo si sente solo contro tutto il resto, ha ben ragione di essere spaventato.

— Vuol dire che soltanto perché alcune persone hanno definito immorale la sua commedia e hanno detto che non bisognava dargli un incarico di insegnamento, egli ha ritenuto che tutti fossero contro di lui? Mi pare un po’ una sciocchezza!

— Ma chi c’era a tenere le sue parti?

— C’erano Bedap… tutti i suoi amici.

— Ma egli li perse. Venne assegnato in un’altra zona.

— E perché non rifiutò l’assegnazione, allora?

— Ascolta, Takver. Anch’io mi sono detto la stessa cosa, esattamente. È la cosa che diciamo tutti. Tu che l’hai detta ora, avresti dovuto rifiutare l’assegnazione a Rolny. E io stesso, non appena giunto a Gomito, mi dissi: Sono un uomo libero, non avrei dovuto venire qui! … Noi lo pensiamo sempre, e lo diciamo sempre, ma non lo facciamo mai. Teniamo la nostra iniziativa ben nascosta all’interno della nostra mente, la teniamo di riserva, come una stanza dove possiamo recarci per dire: «Io non devo fare nulla, io faccio da solo le mie scelte, io sono libero.» E poi usciamo dalla piccola stanza della nostra mente, e andiamo dove il CDP ci assegna, e ci rimaniamo finché non ci dà un assegnamento nuovo.

— Oh, Shevek, non è vero. Questo succede soltanto dalla siccità in poi. Prima di quella, non c’era neppure la metà di tutte queste assegnazioni. La gente lavorava dove voleva lavorare, e si univa a una federativa o ne fondava una nuova, e poi si registrava presso DivLab. DivLab si occupava soprattutto di dare assegnazioni a coloro che preferivano rimanere nella Manodopera Generale non Qualificata. E adesso ritornerà a essere così.

— Non so. Dovrebbe ritornare così, naturalmente. Ma già prima della carestia, le cose non stavano andando in quella direzione, bensì nella direzione opposta. Bedap aveva ragione: ogni emergenza, perfino ogni leva di lavoro, tende a lasciare dietro di sé un aumento dei meccanismi burocratici all’interno del CDP, e una sorta di rigidità: questo è il modo in cui si faceva una cosa, questo è il modo in cui la si fa, questo è il modo in cui la si deve fare… C’era già una forte dose di questi ragionamenti, prima della siccità. Cinque anni di stretto controllo possono avere fissato permanentemente la tendenza. Non fare una faccia così scettica! Ascolta, dimmi quanta gente conosci che si è rifiutata di accettare un’assegnazione… anche prima della carestia?

Takver considerò la domanda. — Lasciando fuori i nuchnibi?

— No, no. I nuchnibi sono importanti.

— Be’, diversi amici di Bedap… quel simpatico compositore, Salas, e anche alcuni dei suoi amici disordinati. E i veri nuchnibi: passavano spesso da Valle Rotonda quando ero bambina. Ma ho sempre pensato che fossero degli imbroglioni. Raccontavano delle storie e delle bugie così belle, e leggevano la fortuna; tutti erano lieti di vederli e di tenerli con noi e di dar loro da mangiare per tutto il tempo che si fermavano. Non si fermavano mai per molto tempo. Ma c’era anche gente che si limitava a far fagotto e ad andarsene dalla città; di solito si trattava di ragazzi, alcuni di essi odiavano il lavoro dei campi, lasciavano il loro posto e se ne andavano. La gente lo fa dappertutto, ha sempre fatto così. Si trasferiscono, cercano qualcosa di meglio. Non puoi dire che questo sia rifiutare un’assegnazione!

— E perché non potrei?

— Dove vuoi arrivare? — brontolò Takver, ritirandosi sotto le coperte.

— A questo. Al fatto che ci vergogniamo di dire di avere rifiutato un’assegnazione. Al fatto che la coscienza sociale domina completamente sulla coscienza individuale, invece di raggiungere l’equilibrio con essa. Noi non cooperiamo: noi obbediamo. Abbiamo paura di venire messi fuori dal gruppo, di sentirci dire che siamo pigri, che siamo disfunzionali, che egoizziamo. Abbiamo timore dell’opinione dei nostri vicini più di quanto non rispettiamo la nostra libertà di scelta. Tu non mi credi, Takver, ma prova, prova soltanto a scavalcare la linea, soltanto nell’immaginazione, e guarda cosa provi. Comprenderai allora che cosa è Tirin, e perché è un rottame, un’anima perduta. È un criminale! Abbiamo creato il crimine, esattamente come lo crearono i proprietaristi. Noi costringiamo un uomo a uscire dalla sfera della nostra approvazione, e poi lo condanniamo per il fatto di essere uscito. Abbiamo fatto delle leggi, leggi di comportamento convenzionale, innalzato muri tutt’intorno a noi stessi, e non li possiamo vedere, poiché sono parte del nostro modo di pensare. Tirin non ha mai fatto questo. Lo conosco da quando avevamo dieci anni. Egli non l’ha mai fatto, non è mai stato capace di innalzare muri. Egli era un ribelle naturale. Era un Odoniano naturale… uno vero! Era un uomo libero, e il resto di noi, suoi fratelli, l’ha fatto impazzire come punizione per il suo primo atto di libertà!

— Non credo — disse Takver, con la voce attutita dalle coperte, in tono difensivo, — che Tirin fosse una personalità molto forte.

— No, era estremamente vulnerabile.

Cadde un lungo silenzio.

— Non mi stupisco che ti atterrisca — disse lei. — La sua commedia. Il tuo libro.

— Ma io sono più fortunato. Uno scienziato può fingere che il suo lavoro non sia lui stesso, sia soltanto la verità impersonale. Un artista non può nascondersi dietro la verità. Non può nascondersi da nessuna parte.

Takver lo studiò dall’angolo dell’occhio per qualche tempo, poi si rigirò e si mise a sedere, tirandosi la coperta fin sulle spalle. — Brr! Che freddo… Ho sbagliato, vero, riguardo al libro. A lasciare che Sabul lo facesse a pezzi e ci mettesse il proprio nome. Mi sembrava giusto. Mi sembrava di mettere il lavoro davanti all’autore, l’orgoglio davanti alla vanità, la comunità davanti all’Io individuale, e così via. Ma non si trattava di niente di simile, vero? Si trattava di una capitolazione. Una resa all’autoritarismo di Sabul.

— Non so. Ottenne il risultato di far stampare il libro.

— Il fine giusto, ma i mezzi sbagliati! Ho pensato a lungo a questo, a Rolny, Shevek. Ora ti dico che cosa c’era di sbagliato. Le donne gravide non conoscono etica. Soltanto il genere più primitivo di impulso al sacrificio. Al diavolo il libro, il legame di compagni, e la verità, se minacciano il prezioso feto! È un impulso alla preservazione razziale, ma può operare direttamente in contrasto con la comunità: è un impulso biologico, non sociale. Un uomo dovrebbe essere lieto del fatto che non cade mai in preda ad esso. Ma farebbe meglio a comprendere come una donna possa cadervi, e a mantenere la vigilanza. Penso che sia questo il motivo per cui il vecchio archismo usava le donne come proprietà. Perché le donne lo permettevano? Perché erano sempre gravide… perché erano già possedute, schiave!

— Giusto, forse, ma la nostra società, qui, è una vera comunità dove incorpora veramente le idee di Odo. È stata una donna a fare la Promessa! Che cosa fai? Ti lasci andare a sentimenti di colpa? sguazzi nel fango? — La frase da lui usata non fu «sguazzare nel fango», non essendoci su Anarres animali che potessero sguazzare nel fango; fu un composto, che significava alla lettera «ricoprire in continuità con uno spesso strato di escrementi». La flessibilità e la precisione del pravico si prestavano alla creazione di vivaci metafore assolutamente impreviste dai suoi inventori.

— Be’, no. È stato bello avere Sedik! Ma mi sono davvero sbagliata sul libro.

— Ci siamo sbagliati entrambi. I nostri sbagli li facciamo sempre insieme. Non crederai davvero di avermi fatto prendere tu la decisione?

— In questo caso penso di sì.

— No, il fatto è che nessuno di noi decise. Nessuno di noi fece la scelta. Lasciammo che Sabul decidesse per noi. Il nostro Sabul personale, interiorizzato… le convenzioni, il moralismo, la paura dell’ostracismo sociale, la paura di essere differenti, la paura di essere liberi! Be’, mai più. Io imparo lentamente, ma imparo.

— Che cosa conti di fare? — chiese Takver, con un tremito di calore e di eccitazione nella voce.

— Andare ad Abbenay con te e fondare un gruppo, un gruppo di edizioni. Stampare i Princìpi, integrali. E ogni altra cosa che ci piace. Abbozzo di un’istruzione aperta nelle scienze, di Bedap, che il CDP non farebbe circolare. E la commedia di Tirin. È per me un dovere. È stato lui a insegnarmi cosa sono le prigioni, e chi le costruisce. Coloro che costruiscono i muri sono prigionieri di se stessi. Intendo andare a svolgere la funzione che mi spetta nell’organismo sociale. Intendo andare ad abbattere i muri.

— Finirà col circolare un mucchio di vento — disse Takver, raggomitolata sotto le coperte. Si appoggiò a lui, ed egli le circondò le spalle con il braccio. — Prevedo di sì — egli rispose.


Per lungo tempo dopo che Takver si fu addormentata, Shevek rimase desto, con le mani sotto la nuca, a fissare nell’oscurità e ad ascoltare il silenzio. Pensò al lungo viaggio che l’aveva portato via dalla Polvere, ricordando i livelli e i miraggi del deserto, il macchinista dalla testa calva e abbronzata e gli occhi candidi, il quale aveva detto che si doveva lavorare con il tempo e non contro di esso.

Shevek aveva imparato qualcosa sulla propria volontà, in quegli ultimi quattro anni. Nella frustrazione della sua volontà ne aveva imparato la forza. Nessun imperativo sociale o morale la uguagliava. Neppure la fame poteva allontanarla. Tanto meno egli aveva, tanto più assoluto diveniva il suo bisogno di essere.

Egli riconobbe quel bisogno, in termini Odoniani, come la sua «funzione cellulare», il termine analogico per l’individualità dell’individuo, il lavoro ch’egli può meglio compiere, e pertanto il suo contributo ottimale alla società. La società gli doveva lasciar esercitare liberamente quella sua funzione ottimale, e doveva trovare la propria libertà e la propria forza nella coordinazione di tutte quelle funzioni. Era questa un’idea centrale della Analogia di Odo. Il fatto che la società Odoniana di Anarres non avesse raggiunto l’ideale non poteva, agli occhi di Shevek, diminuire le sue responsabilità verso di essa; anzi, era vero il contrario. Eliminato il mito dello Stato, la reale mutualità e reciprocità della società e dell’individuo diveniva chiara. Poteva venire richiesto agli individui il sacrificio, ma non il compromesso: poiché sebbene soltanto la società potesse dare sicurezza e stabilità, soltanto l’individuo, la persona, aveva il potere della scelta morale: il potere di cambiare, la funzione essenziale della vita. La società Odoniana era concepita come una rivoluzione permanente, e la rivoluzione comincia nella mente che pensa.

Tutto questo Shevek aveva pensato, e in questi termini, poiché la sua coscienza era totalmente Odoniana.

Egli era pertanto certo, a questo punto, che la sua volontà incondizionata e radicale di creare era, in termini Odoniani, la giustificazione di se stessa. Il suo senso di primaria responsabilità verso il proprio lavoro non lo isolava dai suoi simili, dalla sua società, come aveva creduto. Lo impegnava con essi in modo assoluto.

Sentiva anche come un uomo che avesse questo senso di responsabilità verso una cosa, fosse obbligato a portarlo avanti fino in fondo in tutte le cose. Era un errore vedersi come il suo veicolo e niente altro, sacrificare ad essa ogni altro obbligo.

Questa disposizione a sacrificare era ciò che Takver aveva riconosciuto in se stessa quando era in gestazione: ne aveva parlato con una punta di orrore, di vergogna, poiché anch’ella era Odoniana, anche per lei la separazione dei fini dai mezzi era falsa. Tanto per lei quanto per lui non c’era fine. C’era il processo: il processo era tutto. Potevi andare in una direzione promettente o potevi sbagliare, ma non partivi con la previsione di fermarti in qualche punto, mai. Ogni responsabilità, ogni impegno così assunti acquistavano sostanza e durata.

Così il suo reciproco impegno con Takver, la loro relazione, era rimasta pienamente viva nel corso dei loro quattro anni di separazione. Entrambi avevano sofferto a causa della separazione, e sofferto molto, ma a nessuno di loro era venuto in mente di sfuggire alla sofferenza negando l’impegno.

Perché dopotutto, egli ora pensò, giacendo nel calore del sonno di Takver, la cosa che entrambi cercavano era la gioia: la completezza dell’essere. Se sfuggi alla sofferenza, sfuggi anche alla possibilità della gioia. Puoi ottenere il piacere, o i piaceri, ma non sarai mai appagato, esaudito. Non conoscerai mai il ritorno a casa.

Takver sospirò piano nel sonno, come per dire che era d’accordo con lui, e si voltò dall’altra parte, seguendo qualche suo tranquillo sogno.

L’esaudimento, pensò Shevek, è una funzione del tempo. La ricerca del piacere è circolare, ripetitiva, atemporale. La ricerca di varietà dello spettatore, del cacciatore di emozioni, di colui che pratica la promiscuità sessuale, termina sempre nello stesso punto. Ha una fine. Giunge alla fine e deve ricominciare. Non è un viaggio di andata e ritorno, ma un ciclo chiuso, una stanza chiusa a chiave, una cella.

Al di fuori della stanza chiusa a chiave c’è il passaggio del tempo, in cui lo spirito può, con la fortuna e il coraggio, costruire le fragili, improvvisate, improbabili strade e città della fedeltà: un paesaggio abitabile dagli esseri umani.

Soltanto quando un atto si svolge entro il paesaggio del passato e del futuro esso è un atto umano. La fedeltà, che asserisce la continuità di passato e futuro, e collega il tempo in un tutto unico, è la radice della forza umana; non c’è alcun bene che si possa compiere senza di essa.

Così, guardando indietro a quei quattro anni, Shevek li vide non come anni sprecati, ma come una parte dell’edificio che egli e Takver stavano costruendo con le loro vite. Il valore del lavorare con il tempo, invece che contro di esso, egli pensò, è che così non è sprecato. Anche il dolore conta.

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