EPILOGO

Il Console sì svegliò al suono di una balalaika suonata così piano da fargli pensare che fosse un’eco segreta del suo sogno.

Si alzò, rabbrividì nell’aria gelida, si avvolse nella coperta e uscì sulla lunga balconata. Non era ancora l’alba. Il cielo ardeva ancora delle luci della battaglia.

— Mi spiace — disse Lenar Hoyt, alzando lo sguardo dallo strumento musicale. Il prete era infagottato nel mantello.

— Niente, niente — disse il Console. — Stavo per svegliarmi. — Era vero. Da un pezzo non si sentiva così riposato. — Continui, prego. — Le note erano nette e chiare, ma si udivano appena, nel rumore del vento. Sembrava quasi che Hoyt suonasse un duetto con il gelido vento dei picchi sovrastanti. Per il Console, la chiarezza di quel suono era quasi dolorosa.

Brawne Lamia e il colonnello Kassad uscirono sul balcone. Un minuto dopo, Sol Weintraub si unì a loro. Nelle sue braccia, Rachel si dimenò e allungò la manina verso il cielo notturno come se potesse afferrare i vividi colori che vi fiorivano.

Hoyt continuò a suonare. Il vento si alzava nell’ora precedente l’alba e i doccioni e le scarpate fungevano da canne alla gelida cornamusa del Castello.

Spuntò Martin Sileno, che si stringeva la testa. — Nessun merdoso rispetto per i postumi d’una sbronza — disse. Si appoggiò al largo parapetto. — Se rimetto da questa altezza, passerà un’ora prima che il vomito tocchi terra.

Padre Hoyt non sollevò lo sguardo. Le sue dita volavano sulle corde del piccolo strumento. Il vento di nordest crebbe d’intensità e diventò più freddo, mentre la balalaika gli faceva da contrappunto, con note calde e vive. Il Console e gli altri si strinsero nelle coperte e nei mantelli, mentre la brezza diventava un torrente e la musica senza nome ne teneva il passo. Era la sinfonia più bizzarra e bella che il Console avesse mai ascoltato.

Il vento soffiò a raffica, ruggì, raggiunse l’apice, morì. Hoyt terminò la musica.

Brawne Lamia si guardò intorno. — È quasi l’alba.

— Manca un’ora — disse il colonnello Kassad.

Lamia scrollò le spalle. — Perché aspettare?

— Sì, perché? — disse Sol Weintraub. Guardò a oriente, dove l’unico accenno del sorgere del sole era il debolissimo impallidire delle costellazioni. — Sembra proprio che avremo una bella giornata.

— Prepariamoci — disse Hoyt. — Ci occorrono, i bagagli?

Si scambiarono tutti un’occhiata.

— No, non credo — disse il Console. — Il colonnello porterà il comlog con il trasmettitore astrotel. Prendiamo solo il necessario per l’udienza con lo Shrike. Lasciamo qui il resto.

— D’accordo — disse Brawne Lamia, girandosi e facendo un gesto agli altri. — Muoviamoci.


C’erano seicento e sessantuno scalini, dal portone di nordest del Castello alla brughiera sottostante. E niente ringhiera. I sei scesero con prudenza nella luce incerta, badando a dove posavano i piedi.

Raggiunta la vallata, guardarono l’affioramento roccioso in alto. Castel Crono sembrava parte della montagna: le balconate e le scale esterne erano semplici squarci nella roccia. Di tanto in tanto un’esplosione più vivida illuminava una finestra o gettava un’ombra demoniaca; a parte questo, era proprio come se il Castello fosse svanito alle loro spalle.

Attraversarono le basse alture ai piedi del Castello, tenendosi sull’erba ed evitando la sterpaglia da cui spuntavano spine simili ad artigli. In dieci minuti arrivarono alla sabbia e iniziarono la discesa delle basse dune, in direzione della valle.

Brawne Lamia procedeva in testa al gruppetto. Indossava il suo mantello migliore e un abito di seta rossa con l’orlo nero. Il comlog le luccicava al polso. Dietro di lei veniva il colonnello Kassad. Era in tenuta da combattimento, ma il polimero mimetico non era ancora attivato per cui la tuta sembrava di un nero opaco e assorbiva anche la luce proveniente dall’alto. Kassad impugnava un fucile d’assalto della FORCE. Il visore dell’elmetto brillava come uno specchio nero.

Padre Hoyt indossava il mantello nero, l’abito nero e il colletto da pastore. Teneva fra le braccia la balalaika come se fosse un bambino. Avanzava con prudenza, come se ogni passo gli causasse dolore.

Poi veniva il Console. Indossava l’abito da cerimonia dei diplomatici: camicia inamidata, calzoni neri, giacchino, mantella di velluto, e il tricorno dorato che aveva indossato il primo giorno sulla nave-albero. Doveva tenerlo con una mano per via del vento che si era di nuovo alzato, gli scagliava in faccia granelli di sabbia, scivolava come un serpente sulla cima delle dune. Martin Sileno seguiva subito dopo, avvolto nel cappotto di pelliccia arruffata dal vento.

Sol Weintraub era l’ultimo della fila. Rachel era nel porta-neonati, annidata contro il petto del padre sotto il mantello e la giacca. Weintraub le canticchiava una bassa melodia che si perdeva nel vento.

Quaranta minuti all’aperto, ed entrarono nella città morta. Marmo e granito risplendevano nella luce violenta. Le vette brillavano alle loro spalle, il Castello non si distingueva dalle altre pareti montuose. Attraversarono una valletta di sabbia, risalirono una bassa duna e all’improvviso riuscirono a distinguere l’imboccatura della valle con le Tombe del Tempo per la prima volta. Il Console intravide la spinta delle ali della Sfinge e lo splendore della giada.

Lontano, alle loro spalle, si udirono un rombo e uno schianto. Il Console si girò, sorpreso, con il cuore che gli batteva all’impazzata.

— Comincia? — chiese Lamia. — Il bombardamento?

— No, guardate! — disse Kassad. Indicò un punto al di sopra delle vette, dove una macchia nera cancellava le stelle. Dei fulmini esplodevano lungo il falso orizzonte, illuminavano campi di neve e ghiacciai. — È solo una tempesta.

Ripresero il cammino fra la sabbia vermiglia. Il Console, aguzzata la vista, scorse una sagoma accanto alle Tombe o all’imboccatura della valle. Era certo al di là di ogni certezza che qualcosa li aspettava lì… che lui aspettava.

— Guardate là — disse Brawne Lamia, in un mormorio che quasi andò perso nel vento.

Le Tombe del Tempo risplendevano. Quella che il Console sulle prime aveva scambiato per una luce riflessa dall’alto, proveniva invece dalle Tombe. Ognuna splendeva di una tonalità diversa ed era adesso chiaramente visibile, mentre il bagliore aumentava e le Tombe si allontanavano nel buio della valle. L’aria odorava di ozono.

— È un fenomeno normale? — domandò padre Hoyt, con voce flebile.

Il Console scosse la testa. — Non ne ho mai sentito parlare.

— Non era mai stato segnalato, quando Rachel venne qui a studiare le Tombe — disse Sol Weintraub. Iniziò a canticchiare a bocca chiusa il motivetto di prima, mentre tutti riprendevano il cammino fra le sabbie che si spostavano.

Si fermarono all’imboccatura della valle. Le dune cedevoli lasciavano il posto alla roccia e a ombre nere come inchiostro, nella depressione che portava alle Tombe risplendenti. Nessuno si mise alla guida. Nessuno parlò. Il Console sentì che il cuore gli batteva come impazzito. Peggio della paura o della consapevolezza di quello che c’era più avanti, era il buio dell’anima che sembrava averlo raggiunto col vento, che lo gelava e gli faceva desiderare di mettersi a correre urlando verso le montagne da cui erano venuti.

Il Console si rivolse a Sol Weintraub. — Cos’è quel motivo che sta canticchiando a Rachel?

Lo studioso si costrinse a sorridere e si grattò la barbetta. — Il tema d’un antico film bi-di. Pre-Egira. Diamine, pre-tutto.

— Sentiamolo — disse Brawne Lamia, che aveva capito le intenzioni del Console. Era pallidissima in viso.

Weintraub lo cantò, con una voce flebile, all’inizio appena percettibile. Ma il motivo era vigoroso e bizzarramente irresistibile. Padre Hoyt prese la balalaika e lo accompagnò, mentre le note si facevano più decise.

Brawne Lamia scoppiò a ridere. Con stupore reverenziale, Martin Sileno disse: — Oddio, lo cantavo da bambino. È antichissimo.

— Ma chi è il mago? — domandò il colonnello Kassad. La voce amplificata dall’elmetto risuonò bizzarra e divertente, in quel contesto.

— E cos’è Oz? — domandò Lamia.

— E chi va a trovare questo mago? — chiese il Console, sentendo diminuire il panico che aveva dentro.

Sol Weintraub s’interruppe e cercò di rispondere alle domande, spiegando la trama d’un film bi-di che da secoli era polvere.

— Lasci perdere — disse Brawne Lamia. — Ce lo racconterà dopo. Riprenda a cantare.

Dietro di loro, l’oscurità aveva ingoiato le montagne, mentre la tempesta scivolava verso di loro sulla brughiera. Il cielo continuava a sanguinare luce, ma ora l’orizzonte orientale era un po’ più pallido del resto. A sinistra, la città morta risplendeva come denti di pietra.

Brawne Lamia riprese a guidare il gruppo. Sol Weintraub cantò a voce più alta, mentre Rachel si dimenava di piacere. Lenar Hoyt si gettò sulle spalle il mantello per suonare meglio la balalaika. Martin Sileno scagliò fra le dune la bottiglia vuota e si unì al canto, con voce profonda e forte, piacevole, sopra il rumore del vento.

Fedmahn Kassad alzò il visore e si mise in spalla il fucile e si unì al coro. Il Console iniziò a cantare, pensò all’assurdità delle parole, scoppiò a ridere, riprese a cantare.

Proprio dove iniziava l’oscurità, il sentiero diventava più largo. Il Console si spostò a destra, Kassad gli si accostò, Sol Weintraub riempì lo spazio vuoto: anziché in processione, i sei avanzarono gomito a gomito. Brawne Lamia prese nella sua la mano di Sileno, con l’altra strinse quella di Sol.

Continuando a cantare a voce alta, procedendo di pari passo, senza guardarsi indietro, scesero nella valle.


FINE
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