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A Keats, capitale di Hyperion, la giornata era stata calda e piovosa; cessata la pioggia, era rimasta una coltre di nuvole che si muovevano lentamente e pesantemente sulla città e l’aria era impregnata del profumo salmastro dell’oceano lontano venti chilometri a ovest. Verso sera, mentre la grigia luce del giorno svaniva nel crepuscolo grigio, un doppio bang sonico scosse la città e poi echeggiò contro la vetta scolpita della montagna isolata, a sud. Le nubi brillarono di una luce biancazzurra. Mezzo minuto dopo, un’astronave color ebano squarciò il cielo nuvoloso e scese cautamente sulla coda di fiamma, mentre le luci di navigazione palpitavano, rosse e verdi, contro il grigiore.

A mille metri, i fari d’atterraggio del vascello spaziale si accesero; tre raggi di luce coerente color rubino emessi dallo spazioporto a nord della città circondarono la nave in un triplice abbraccio di benvenuto. L’astronave rimase sospesa a trecento metri d’altezza, scivolò orizzontalmente con la stessa scioltezza d’un boccale su un bancone bagnato, poi si adagiò priva di peso in un pozzo di scarico in attesa.

Getti d’acqua ad alta pressione bagnarono il pozzo e la base dell’astronave, provocando nuvole di vapore che si mescolarono alle cortine d’acquerugiola spinte dal vento sulla piana asfaltata dello spazioporto. Quando i getti d’acqua cessarono, gli unici rumori furono il mormorio della pioggia e i rari ticchettii o scricchiolii prodotti dalla nave che si raffreddava.

Venti metri sopra il pozzo, dalla paratia dell’astronave venne fuori una loggia. Ne uscirono cinque figure.

— Grazie per il passaggio, signore — disse al Console il colonnello Kassad.

Il Console rispose con un cenno, si appoggiò alla ringhiera e inalò a pieni polmoni l’aria fresca. Goccioline di pioggia gli imperlarono le spalle e le sopracciglia.

Sol Weintraub tolse dal porta-neonati la figlioletta. Qualcosa… un cambiamento nella pressione o nella temperatura, odori, movimento, rumori, o tutto insieme… l’aveva svegliata; la piccina cominciò a piangere forte. Weintraub la cullò e la coccolò, ma lei continuò a strillare.

— Un commento appropriato al nostro arrivo — disse Martin Sileno. Il poeta indossava un lungo mantello viola e un berretto rosso inclinato sulla spalla destra. Bevve un sorso dal bicchiere di vino che si era portato dalla saletta bar. — Cristo in croce! Questo posto sembra tutto diverso.

Il Console, che mancava da lì soltanto da otto anni locali, fu costretto a convenirne. Durante la sua permanenza a Keats, l’astroporto si trovava a nove chilometri buoni dalla città; ora il perimetro del campo d’atterraggio era circondato da baracche, tende e stradine fangose. Ai tempi del Console, nel piccolo spazioporto non scendeva più di una nave a settimana; adesso ce n’erano venti e passa. La palazzina con gli uffici amministrativi e doganali era stata sostituita da un enorme edificio prefabbricato; una decina di nuovi pozzi di scarico e di griglie per le navette era stata aggiunta nella zona ovest, occupata per ampliare frettolosamente il campo, il cui perimetro adesso era ingombro di ventine di moduli a copertura mimetica, adatti a qualsiasi cosa, dalle stazioni di controllo a terra ai baraccamenti. Una foresta di bizzarre antenne si alzava verso il cielo da un altro gruppo di scatoloni identici nella zona più lontana del campo d’atterraggio.

— Progresso — mormorò il Console.

— Guerra — disse il colonnello Kassad.

— Ma quelle sono persone! — disse Brawne Lamia, indicando i cancelli del terminal principale, sul lato sud del campo. Un’onda di colori smorti sbatteva come frangenti silenziosi contro la barriera esterna e il campo di contenimento viola.

— Dio mio — disse il Console. — Ha ragione.

Kassad estrasse il binocolo e a turno fissarono le migliaia di figure che premevano contro il recinto e il campo respingente.

— Perché sono qui? — domandò Lamia. — Cosa vogliono?

Anche da mezzo chilometro di distanza, l’irrazionale volontà della folla intimidiva. Sagome scure, i marine della FORCE, pattugliavano l’interno del perimetro. La striscia di terra spoglia fra il filo spinato, il campo di contenimento e i marine indicava quasi certamente che la zona era minata, o percorsa da raggi della morte, o tutt’e due.

— Cosa vogliono? — ripeté Lamia.

— Andarsene — rispose Kassad.

Ma il Console aveva già capito che i baraccamenti intorno allo spazioporto e la folla ai cancelli erano inevitabili: la popolazione di Hyperion era pronta ad andarsene. A ogni atterraggio d’astronave, si disse, si verificava certo un’analoga pressione silenziosa contro i cancelli.

— Be’, laggiù c’è qualcuno che rimarrà — disse Martin Sileno indicando la bassa montagna al di là del fiume, verso sud. — Il Vecchio Piagnone William Rex, che Dio abbia in gloria la sua anima peccatrice. — La faccia scolpita di re Billy il Triste era appena visibile fra la pioggia sottile nell’oscurità incipiente. — Io lo conobbi, Horatio — declamò il poeta, ubriaco. — Uomo di scherzi infiniti. Non uno dei quali divertente. Una vera testa di cazzo, Horatio.

Sol Weintraub si era fermato appena dentro il vano, per riparare dalla pioggia la piccina e impedire al suo pianto di disturbare la conversazione. Indicò due veicoli in movimento. — Abbiamo visite — disse.

Un automezzo di terra, con il polimero mimetico spento, e un VEM militare modificato con alcuni ventagli sospesi per adeguarlo al debole campo magnetico di Hyperion stavano attraversando la distesa bagnata.

Martin Sileno non staccò lo sguardo dal viso tetro di re Billy il Triste. A voce tanto bassa che si sentiva appena, declamò:

Nella profonda tristezza ombrosa d’una valle

sprofondata lontano dal salutare alito del mattino,

dall’infocato mezzodì e dall’unica stella della sera,

sedeva il brizzolato Saturno, quieto come pietra,

muto come il silenzio intorno al suo covo;

foreste e foreste gli pendevano sul capo

come nuvole su nuvole…

Padre Hoyt uscì sulla loggia e si strofinò il viso. Gli occhi spalancati e confusi gli davano l’aspetto d’un bambino che si era appena svegliato. — Siamo arrivati? — chiese.

— Cazzo che sì — esclamò Martin Sileno. Restituì al colonnello il binocolo. — Scendiamo a salutare i gendarmi.


Il giovane tenente dei marine non sembrò impressionato, dopo che ebbe esaminato la scheda d’autorizzazione del comandante dell’unità operativa trasmessagli da Het Masteen. Controllò con calma i chip dei visti, lasciando che i nuovi venuti aspettassero Sotto la pioggia; ogni tanto faceva un commento, con l’indolente arroganza comune ai nessuno del suo stampo appena ottengono un briciolo d’autorità. Arrivato al chip di Fedmahn Kassad, alzò gli occhi con l’espressione di una volpe sorpresa. — Colonnello Kassad! — disse.

— In pensione.

— Mi scusi, signore — disse il tenente, inciampando nelle parole, mentre restituiva i visti. — Non sapevo che si trovasse in questo gruppo, signore. Cioè… il capitano ha appena detto… voglio dire… mio zio era con lei su Bressia, signore. Ah, mi spiace… qualsiasi cosa io e i miei uomini possiamo fare per lei…

— Tranquillo, tenente — disse Kassad. — È possibile trovare un mezzo di trasporto per la città?

— Ah… be’, signore… — Il giovane marine alzò la mano per strofinarsi il mento, poi ricordò d’avere il casco. — Sissignore. Ma il guaio è, signore, che la folla può diventare molto pericolosa e… be’, i maledetti VEM non funzionano una merda su questo… uh, scusi, signore. Vede, i trasporti via terra sono limitati alle merci e non abbiamo skimmer liberi di lasciare la base prima delle 22; ma sarei lieto di includere il suo gruppo nell’elenco per…

— Un momento — intervenne il Console. Un ammaccato skimmer passeggeri, dalla tipica forma a cappello a tesa larga, con la curva geodetica d’oro dell’Egemonia dipinta su una falda, era atterrato a dieci metri di distanza. Ne uscì un uomo alto e magro. — Theo! — esclamò il Console.

I due si andarono incontro, fecero per stringersi la mano, poi invece si abbracciarono. -Accidenti!- esclamò il Console. — Sembri in ottima forma, Theo. — Era vero. Il suo ex aiutante di campo era invecchiato di dodici anni rispetto al Console, ma conservava il sorriso giovanile, il viso magro e i folti capelli rossi che avevano attirato ogni ragazza da marito, e non poche donne sposate, del personale del Consolato. La timidezza che aveva contribuito a rendere tanto vulnerabile Theo Lane non era scomparsa, come tradiva il modo in cui, senza alcun bisogno, si aggiustò gli antiquati occhiali dalla montatura di corno… unica posa del giovane diplomatico.

— Mi fa piacere che lei sia tornato — disse Theo.

Il Console si girò per presentare l’amico, ma si bloccò. — Oddio — disse — ora sei tu il console. Scusami, Theo, non ci avevo pensato.

Theo Lane sorrise e si aggiustò gli occhiali. — Niente, niente — rispose. — In realtà, non sono più console. Negli ultimi mesi ho avuto l’incarico di Governator Generale. Finalmente il Consiglio Autonomo ha chiesto, e ottenuto, lo stato di colonia. Benvenuto sul nuovo pianeta dell’Egemonia.

Il Console lo fissò per un secondo, poi abbracciò di nuovo il protégé d’un tempo. — Congratulazioni, Eccellenza.

Theo sorrise e guardò il cielo. — Fra poco pioverà a catinelle. Faccia salire il suo gruppo a bordo dello skimmer: vi porterò in città. — Il neo Governator Generale sorrise al giovane marine. - Tenente?

— Ah… sì, signore? — Il giovane ufficiale era scattato sull’attenti.

— Per favore, può dire ai suoi uomini di caricare sul mio skimmer i bagagli di queste persone? Preferiremmo tutti toglierci da sotto la pioggia.


Lo skimmer volò verso sud, mantenendosi a sessanta metri al di sopra della strada maestra. Il Console occupava il sedile passeggeri anteriore; gli altri si erano accomodati dietro, sui reclinabili di flussoschiuma. Martin Sileno e padre Hoyt sembravano appisolati. La bimba di Weintraub aveva smesso di piangere e poppava sintolatte materno da una bottiglia biodegradabile.

— Le cose sono cambiate — disse il Console. Appoggiò la guancia contro la calotta schizzata di pioggia e guardò il caos sottostante.

Migliaia di baracche e di capanne a una falda ricoprivano i pendii e i canaloni lungo i tre chilometri fra spazioporto e sobborghi. Sotto i teloni umidi la gente accendeva dei fuochi e figure color fango si muovevano tra baracche color fango. Alti recinti di fortuna erano stati innalzati intorno alla vecchia strada dello spazioporto; la strada stessa era stata ampliata e livellata di nuovo. Una doppia fila di veicoli a ruote o a cuscinetto d’aria, in gran parte automezzi militari con il polimero mimetico spento, si muoveva pigramente nei due sensi di marcia. Più avanti, le luci di Keats sembravano essersi moltiplicate e sparse in una nuova zona della vallata del fiume e delle alture.

— Tre milioni — disse Theo, come se avesse letto il pensiero del suo ex capo. — Almeno tre milioni di persone. E il numero cresce ogni giorno.

Il Console lo fissò. — Alla mia partenza, c’erano solo quattro milioni e mezzo di persone in tutto il pianeta!

— E sono sempre quelle — disse il neo Governator Generale. — Tutti vogliono venire a Keats, salire a bordo di una nave e filarsela. Alcuni aspettano la costruzione del teleporter, ma molti non credono che sarà ultimato in tempo. Hanno paura.

— Degli Ouster?

— Di loro, anche. Ma soprattutto dello Shrike.

Il Console staccò il viso dalla calotta fresca. — Vuoi dire che è arrivato a sud della Briglia?

Theo rise storto. — È arrivato dappertutto. O meglio, sono arrivati dappertutto. Molta gente è convinta che ormai ci siano decine o centinaia di quelle cose. Le cronache riportano decessi a opera dello Shrike in tutt’e tre i continenti. Dovunque, eccetto Keats, alcuni tratti dì costa lungo la Criniera e qualcuna delle città più estese, come Endymion.

— Quante perdite? — Ma il Console non ci teneva molto a saperlo.

— Almeno ventimila, fra morti e dispersi — disse Theo. — Oltre a un mucchio di feriti; ma in questo caso non è colpa dello Shrike, vero? — Di nuovo il sorriso storto. — Lo Shrike non si limita a ferire la gente. Ah-hah, la gente si spara accidentalmente, cade dalle scale o salta dalla finestra per il panico, è calpestata dalla folla. Un maledetto casino.

In undici anni di lavoro con Theo Lane, il Console non l’aveva mai sentito imprecare. — La FORCE è d’aiuto? — domandò. — Sono i soldati che tengono lo Shrike lontano dalle città principali?

Theo scosse la testa. — La FORCE non ha fatto un bel niente, a parte tenere a bada la folla. Oh, i marine si danno un gran daffare per tenere aperto lo spazioporto e garantire la sicurezza della zona d’atterraggio a Port Romance, ma non hanno nemmeno provato ad affrontare lo Shrike. Aspettano di combattere contro gli Ouster.

— E la FAD? — chiese il Console, già sapendo che la Forza d’Autodifesa, quasi priva d’addestramento, sarebbe stata di scarsa utilità.

Theo sbuffò. — Almeno ottomila vittime sono della FAD. Il generale Braxton ha portato il “Terzo Combattenti” su per la River Road per “colpire lo Shrike nel suo covo” e non ha dato più notizie.

— Vuoi scherzare — disse il Console, ma gli bastò uno sguardo al viso dell’amico per capire che non scherzava affatto. — Theo, come hai fatto ad avere il tempo di venirci incontro allo spazioporto?

— Non l’avevo — disse il Governator Generale. Lanciò un’occhiata ai sedili posteriori. Gli altri dormivano o guardavano stancamente dai finestrini. — Ma dovevo parlarle — disse. — Per convincerla a non andare.

Il Console cominciò a scuotere la testa, ma Theo lo prese per un braccio e strinse forte. — Maledizione, ascolti quel che ho da dirle. So quanto le è costato venire qui dopo… dopo quello che è successo, ma non ha senso, maledizione, buttare via tutto senza motivo. Lasci perdere questo stupido pellegrinaggio. Resti a Keats.

— Non posso… — iniziò il Console.

— Mi stia a sentire — replicò Theo. — Uno: lei è il miglior diplomatico che conosca, è in grado di risolvere qualsiasi crisi, e noi abbiamo bisogno delle sue qualità.

— Non…

— Stia zitto un minuto. Due: lei e gli altri non arriverete nemmeno a due chilometri dalle Tombe. Non siamo ai vecchi tempi, quando lei stava qui, e quei maledetti suicidi potevano salire lassù e starsene seduti per una settimana e perfino cambiare idea e tornare a casa. Lo Shrike è in movimento. Sembra una pestilenza.

— Lo capisco, però…

— Tre: io ho bisogno di lei. Ho supplicato Tau Ceti Centro perché mandasse qualcuno. Quando ho scoperto che lei sarebbe venuto… bene, che diavolo, ho aspettato per due anni!

Il Console scosse la testa, senza capire.

Theo iniziò la curva verso il centro della città, poi si fermò a mezz’aria e staccò lo sguardo dai comandi per guardare negli occhi il Console. — Voglio che lei assuma la carica di Governator Generale. Il Senato non interferirà… escluso forse il PFE; ma quando Gladstone lo scoprirà, sarà troppo tardi.

Il Console si sentì come se qualcuno l’avesse colpito sotto la terza costola. Distolse lo sguardo e lo posò sul labirinto di viuzze e di edifici sbilenchi che formava Jacktown, la Città Vecchia. Quando ritrovò la voce, disse: — Theo, non posso.

— Senta, se lei…

— No. Voglio dire proprio che non posso. Accettare non risolverebbe niente, ma la verità è semplicemente questa: non posso. Devo partecipare al pellegrinaggio.

Theo si raddrizzò gli occhiali e guardò davanti a sé.

— Senti, Theo, sei il più competente professionista del Foreign Office con cui abbia mai lavorato. Sono rimasto in disparte per otto anni. Ritengo…

Theo annuì e lo interruppe. — Immagino che lei voglia andare al Tempio Shrike.

— Sì.

Lo skimmer eseguì un mezzo giro e si posò. Il Console fissava il vuoto, pensieroso, quando la portiera laterale dello skimmer si alzò e si ripiegò. Sol Weintraub disse: — Dio santo!

Il gruppetto uscì dal velivolo e fissò le macerie carbonizzate di quello che era stato il Tempio Shrike. Da quando, una ventina d’anni locali prima, le Tombe del Tempo erano state chiuse perché troppo pericolose, il Tempio Shrike era diventato l’attrazione turistica più nota di Hyperion. Il Tempio Centrale della Chiesa Shrike si estendeva per tre isolati cittadini e innalzava per più di centocinquanta metri l’appuntita guglia centrale: era in parte una cattedrale che ispirava timore e reverenza; in parte uno scherzo gotico, per via dei contrafforti ricurvi permasaldati allo scheletro in fibrolega; in parte una stampa di Escher, per i trucchi di prospettiva e gli angoli assurdi; in parte un incubo di Bosch, per via degli ingressi a tunnel, delle stanze segrete, dei giardini tenebrosi, delle sezioni proibite. E, più d’ogni altra cosa, era parte del passato di Hyperion.

Ora non esisteva più. Alti cumuli di pietre annerite erano il solo indizio della precedente maestosità dell’edificio. Travi di fibrolega fusa spuntavano tra le pietre come costole d’una carcassa gigantesca. Gran parte delle macerie era sprofondata in pozzi, scantinati, passaggi nascosti sotto quella pietra miliare vecchia di tre secoli. Il Console si accostò al bordo d’un pozzo e si chiese se quella profonda voragine fosse davvero in comunicazione, come sosteneva la leggenda, con i labirinti del pianeta.

— Sembra che qui abbiano usato una frustalaser — disse Martin Sileno, usando il termine arcaico per indicare il laser megaenergetico. Il poeta sembrava tornato sobrio di colpo, mentre si avvicinava al Console sull’orlo del pozzo. — Ricordo quando il Tempio e alcune parti della Città Vecchia erano i soli edifici di questa zona — disse. — Dopo il disastro nei pressi delle Tombe, Billy decise di spostare qui Jacktown perché c’era il Tempio. E ora non esiste più, Cristo!

— No — disse Kassad.

Gli altri lo fissarono.

Il colonnello si tirò su dal punto in cui aveva esaminato le macerie. — Non hanno usato frustelaser — disse. — Cariche di plasma, sagomate. Parecchie.

— Vuole ancora stare qui e continuare l’inutile pellegrinaggio? — domandò Theo. — Torni con me al Consolato. — Parlava al Console, ma l’invito era esteso a tutti.

Il Console girò le spalle al pozzo, fissò il suo aiutante d’un tempo e, per la prima volta, vide in lui il Governator Generale d’un mondo dell’Egemonia assediato. — Non possiamo, Eccellenza — disse. — Almeno, io non posso. Ma non voglio rispondere anche per gli altri.

I quattro uomini e la donna scossero la testa. Sileno e Kassad iniziarono a scaricare i bagagli. La pioggia riprese sotto forma di una nebbiolina leggera che cadeva dalle tenebre. In quell’istante il Console notò due skimmer d’assalto della FORCE librati al di sopra dei tetti vicini. Il buio e gli scafi di polimero camaleonte li avevano nascosti bene, ma ora la pioggia rivelava il loro profilo. “Ma certo” pensò. “Il Governator Generale non viaggia senza scorta…”

— I preti si sono salvati? Ci sono stati dei sopravvissuti, quando hanno distrutto il Tempio? — domandò Brawne Lamia.

— Sì — rispose Theo. Il dittatore de facto di cinque milioni d’anime già condannate si tolse gli occhiali e li asciugò nel lembo della camicia. — Tutti i preti e gli accoliti del culto Shrike sono scampati grazie ai tunnel. Da mesi la marmaglia circondava il Tempio. I capi, una certa Cammon giunta da un punto imprecisato a est del mar d’Erba, ha dato agli occupanti del Tempio un sacco di avvertimenti, prima di far esplodere le DL-20.

— Dov’era la polizia? — domandò il Console. — E la FAD? La FORCE?

Theo Lane sorrise e in quel momento sembrò alcuni decenni più vecchio del giovanotto che il Console aveva conosciuto. — Voi siete stati in viaggio per tre anni — disse. — L’universo è cambiato. I fedeli dello Shrike vengono messi al rogo e picchiati, nella Rete. Immaginate qui. La polizia di Keats è stata assorbita dalla legge marziale da me dichiarata quattordici mesi fa. Poliziotti e FAD sono rimasti a guardare, mentre la plebaglia dava fuoco al Tempio. E io pure. Stanotte qui c’è mezzo milione di persone.

Sol Weintraub si avvicinò. — Sanno della nostra presenza? Di questo pellegrinaggio finale?

— Se lo sapessero, nessuno di voi sarebbe vivo. Sembra che accettino volentieri qualsiasi cosa possa placare lo Shrike, ma la folla vedrebbe solo che siete stati scelti dalla Chiesa Shrike. A dire il vero, ho dovuto respingere il parere del mio stesso Comitato di Consiglieri: suggeriva di distruggere la vostra nave prima che entrasse nell’atmosfera.

— Perché? — domandò il Console. — Voglio dire, perché hai respinto il loro parere?

Theo sospirò e si aggiustò gli occhiali. — Hyperion ha ancora bisogno dell’Egemonia e Gladstone ha sempre il voto di fiducia della Totalità, se non del Senato. E io, Console, ho sempre bisogno delle sue capacità diplomatiche.

Il Console guardò le macerie del Tempio Shrike.

— Questo pellegrinaggio è finito prima del vostro arrivo sul pianeta — riprese il Governator Generale Theo Lane. — Vuole tornare con me al Consolato… almeno in veste di consigliere?

— Mi spiace — disse il Console. — Non posso.

Theo si girò senza una parola, entrò nello skimmer e decollò. La scorta militare, sagoma indistinta nella pioggia, lo seguì.

Ora pioveva a dirotto. I sei si strinsero in gruppo nell’oscurità sempre più fitta. Weintraub aveva fatto un cappuccio di fortuna per riparare la piccola Rachel e il rumore della pioggia sulla plastica aveva spaventato la piccina, che era messa a piangere.

— E ora? — disse il Console, guardandosi intorno nella notte e scrutando le viuzze. I bagagli erano ammucchiati in una pila bagnata. Il mondo puzzava di cenere.

Martin Sileno sogghignò. — Conosco un bar — disse.


Risultò che anche il Console conosceva quel bar: per gran parte degli undici anni del suo incarico su Hyperion ci aveva quasi vissuto, da Cicero.

A differenza della maggior parte delle cose di Keats, su Hyperion, il bar Cicero non doveva il nome a qualche trascurabile riferimento letterario pre-Egira. Si diceva che derivasse da un quartiere di una città della Vecchia Terra (alcuni dicevano Chicago, in America; altri erano sicuri che fosse Calcutta, in India) ma solo Stan Leweski, proprietario e pronipote del fondatore, ne sapeva con certezza l’origine e non aveva mai rivelato il segreto. Il bar in sé, nel suo secolo e mezzo d’esistenza, era passato dal sottotetto senza ascensore di uno degli edifici più vecchi e cadenti di Jacktown sul fiume Hoolie, a un locale di nove piani ricavato da quattro vecchi edifici, sempre sull’Hoolie. Gli unici elementi decorativi di Cicero rimasti costanti nell’arco dei decenni erano il soffitto basso, il fumo denso e il continuo chiacchierio di sottofondo che offriva un senso d’intimità in mezzo al frastuono.

Non c’era intimità, quella notte. Il Console e gli altri esitarono, mentre portavano all’interno i bagagli dall’ingresso di Marsh Lane.

— Gesù lacrimoso — mormorò Martin Sileno.

Sembrava che orde di barbari avessero invaso il Cicero. Ogni sedia era occupata, ogni tavolo era pieno… di uomini, soprattutto. Il pavimento era coperto di zaini, armi, sacchi a pelo, trasmettitori antiquati, scatole di razioni e di tutte le cianfrusaglie tipiche di un esercito di profughi… o di un esercito in fuga. L’aria densa del Cicero, un tempo piena di un misto di odori (bistecche alla griglia, vino, stimolanti, birra, tabacco esente d’imposta), era adesso carica di un lezzo di corpi non lavati, urina, disperazione.

In quel momento, la sagoma enorme di Stan Leweski si materializzò dal buio. Le braccia del proprietario erano grosse e muscolose come sempre, ma i capelli neri e arruffati si erano ritirati di qualche centimetro sulla fronte e intorno agli occhi scuri le rughe erano molto più numerose di quanto il Console ricordasse. I suoi occhi si spalancarono, quando vide il Console. — Un fantasma! — esclamò.

— No.

— Non sei morto?

— No.

— Accidenti! — esclamò Stan Leweski. Afferrò per le braccia il Console e lo sollevò con la facilità con cui un uomo alzerebbe in aria un bambino di cinque anni. — Accidenti! No che non sei morto. Cosa ci fai, qui?

— Controllo la tua licenza di spaccio degli alcolici — disse il Console. — Rimettimi giù.

Leweski lo posò gentilmente a terra, gli diede una pacca sulle spalle e sogghignò. Guardò Martin Sileno e il sogghigno si trasformò in una smorfia. — Non hai una faccia nuova, ma non ti ho mai visto.

— Conoscevo il padre di tuo nonno — disse Sileno. — Ora che mi ricordo, ti è rimasta un po’ di quella birra chiara, pre-Egira? Quella roba inglese, tiepida, che sa di piscio d’alce riciclato? Non ne ho mai avuta abbastanza.

— Non è rimasto niente — rispose Leweski. Indicò il poeta. — Maledizione! Il baule di nonno Jiri! La vecchia olografia del satiro nella vecchia Jacktown. È possibile? — Fissò prima Sileno, poi il Console e li toccò cautamente con l’indice massiccio. — Due fantasmi!

— Sei persone morte di stanchezza — disse il Console. La piccina riprese a piangere. — Sette. Hai posto per noi?

Leweski tracciò un semicerchio con le mani allargate, i palmi in su. — È tutto così. Niente spazio. Niente cibo. Niente vino. — Guardò a occhi socchiusi Martin Sileno. — Niente birra. Siamo diventati un grande albergo senza letti. I bastardi della FAD stanno qui senza pagare, bevono il loro torcibudella fatto nell’entroterra e aspettano la fine del mondo. Che verrà presto, penso.

Il gruppetto era fermo in quello che un tempo era stato il mezzanino d’ingresso. I loro bagagli accatastati si univano al caos di equipaggiamenti che già ingombrava il pavimento. Gruppetti di uomini si aprivano a spallate la strada fra la folla e lanciavano occhiate di valutazione ai nuovi venuti… in particolare a Brawne Lamia. La donna restituì le occhiate con uno sguardo fisso, gelido.

Stan Leweski guardò un attimo il Console. — Ho un tavolo sulla terrazza. Cinque tipi delle Squadre della Morte FAD parcheggiano lì da una settimana e non fanno che ripetere a tutti e a se stessi come spazzeranno via a mani nude le legioni degli Ouster. Se volete il tavolo, sbatto fuori quei poppanti.

— Va bene — disse il Console.

Leweski si era già girato per uscire, quando Brawne Lamia lo bloccò rimettendogli una mano sul braccio. — Ti andrebbe un po’ d’aiuto? — gli chiese.

Stan Leweski scrollò le spalle e sogghignò. — Non ne ho bisogno, ma potrebbe piacermi. Vieni.

Sparirono fra la folla.


La terrazza del secondo piano aveva spazio appena sufficiente per il tavolo scheggiato e sei sedie. Nonostante la ressa pazzesca dei piani principali, sulle scale e sui pianerottoli, nessuno ebbe a ridire per il fatto che loro si appropriassero di quello spazio, dopo che Leweski e Lamia, nonostante le proteste, avevano buttato dalla ringhiera, giù nel fiume nove metri più in basso, i membri delle Squadre della Morte. In qualche modo Leweski era riuscito a mandare su un boccale di birra, un cesto di pane e delle fette d’arrosto freddo.

Il gruppo mangiò in silenzio: evidentemente risentiva più del normale della fame, della fatica e della depressione che seguono un periodo di crio-fuga. Il buio della terrazza era mitigato solo dalla fioca luce riflessa dall’interno del Cicero e dalle lanterne delle chiatte di passaggio sul fiume. Molti edifici lungo l’Hoolie erano bui, ma le nuvole basse riflettevano altre luci della città. Il Console riuscì a distinguere le macerie del Tempio Shrike, mezzo chilometro a monte del fiume.

— Bene — disse padre Hoyt. Ormai si era ripreso dalla pesante dose di ultramorfina, ma era in bilico fra dolore e sedativo. — E ora cosa facciamo?

Nessuno rispose. Il Console chiuse gli occhi. Non voleva assumersi l’onere di fare da guida, in niente. Seduti sulla terrazza di Cicero, era fin troppo facile ricadere nei ritmi d’una vita precedente: avrebbe bevuto fino alle prime ore del mattino, guardato la pioggia di meteore mentre le nuvole si schiarivano prima dell’alba, per poi trascinarsi con passo malfermo nel suo appartamento vuoto vicino al mercato, andare quattro ore dopo al Consolato, lavato, sbarbato e con aspetto umano, a parte gli occhi iniettati di sangue e una tremenda emicrania. Confidando che Theo — il taciturno, efficiente Theo — lo aiutasse a passare la mattinata. Confidando che la fortuna lo aiutasse a passare la giornata. Confidando che le bevute da Cicero lo aiutassero a passare la notte. Confidando che l’incarico privo d’importanza lo aiutasse a passare la vita.

— Siete pronti a iniziare il pellegrinaggio?

Il Console aprì di scatto gli occhi. Nel vano della porta c’era una figura incappucciata. Per un istante pensò che fosse Het Masteen, ma poi notò che quell’uomo era molto più basso e non parlava con la cadenza artefatta dei Templari.

— Se siete pronti, dobbiamo andare — disse la figura scura.

— Chi sei? — domandò Brawne Lamia.

— Sbrigatevi — fu la risposta dell’ombra.

Fedmahn Kassad si alzò, tenendosi piegato per non urtare con la testa il soffitto; afferrò la figura dalla veste lunga e con un rapido movimento della sinistra gli scostò il cappuccio.

— Un androide! — esclamò Lenar Hoyt, fissando la pelle azzurrastra e gli occhi azzurri.

Il Console fu meno sorpreso. Da più d’un secolo nell’Egemonia era illegale possedere androidi e da allora non ne erano stati bioprodotti di nuovi, ma in zone remote di mondi arretrati dove esisteva una sola colonia… come Hyperion, si continuava a usarli. Il Tempio Shrike ne aveva fatto largo uso, in accordo con la dottrina della Chiesa Shrike secondo la quale gli androidi erano privi del peccato originale e perciò superiori agli esseri umani e — incidentalmente — esenti dal terribile e inevitabile castigo dello Shrike.

— Dovete sbrigarvi — disse sottovoce l’androide, rimettendosi a posto il cappuccio.

— Sei del Tempio? — domandò Lamia.

— Silenzio! — intimò brusco l’androide. Lanciò un’occhiata nel corridoio, si girò e annuì. — Dobbiamo affrettarci. Seguitemi, prego.

Si alzarono tutti, poi esitarono. Il Console notò che Kassad si sbottonava con noncuranza il lungo giubbotto di pelle e scorse per un attimo la neuroverga infilata nella cintola. In altri momenti il Console sarebbe rimasto atterrito al solo pensiero che nei pressi ci fosse una neuroverga (bastava sfiorarla per errore, perché ogni sinapsi della terrazza fosse ridotta in poltiglia), ma in quell’occasione si sentì stranamente rassicurato.

— I nostri bagagli… — cominciò Weintraub.

— È già stato provveduto — sussurrò l’incappucciato. — Svelti, ora.

Il gruppetto seguì l’androide, giù per le scale e nella notte, con movimenti stanchi e passivi come un sospiro.


Il Console dormì fino a tardi. Mezz’ora dopo il sorgere del sole, un rettangolo di luce trovò un varco fra gli scuri dell’oblò e cadde sul cuscino. Il Console cambiò posizione ma non si svegliò. Un’ora dopo, un rumoroso acciottolio indicò che si provvedeva a staccare e a sostituire con animali freschi le mante stanche che avevano trainato la chiatta per tutta la notte. Il Console continuò a dormire. Nell’ora seguente, i passi e le grida dell’equipaggio, sul ponte all’esterno della cabina di lusso, diventarono più forti e persistenti e, alla fine, il Console fu svegliato dal clacson d’avvertimento sotto le chiuse di Karla.

Muovendosi lentamente nel languore simile agli effetti della droga dovuto ai postumi della crio-fuga, il Console si lavò alla meglio, disponendo solo di bacinella e pompa; indossò ampi calzoni di cotone, una vecchia camicia di tela, scarpe da passeggio con suola di flussoschiuma, e trovò la via per il ponte intermedio.

La colazione era stata preparata sopra una lunga credenza accanto al vecchio tavolo retraibile nell’assito del ponte. Una tenda riparava la zona pranzo; la stoffa color cremisi e oro sbatteva nella brezza. Era una bella giornata, serena a luminosa: il sole di Hyperion recuperava in ferocia quello che gli mancava in grandezza.

Weintraub, Lamia, Kassad e Sileno erano già in piedi. Lenar Hoyt e Het Masteen si unirono al gruppo poco dopo l’arrivo del Console.

Dal buffet il Console prese crostini di pesce, frutta e succo d’arancia e si accostò alla murata. In quel punto il fiume era molto largo, almeno un chilometro da riva a riva, e la lucentezza verde e azzurra dell’acqua rispecchiava quella del cielo. Alla prima occhiata non riconobbe la zona ai lati del fiume. A est, colture di riso a chicco periscopico si estendevano nella nebbiolina dove il sole sorgente si rifletteva su mille superfici allagate. Alle intersezioni degli argini si vedeva qualche capanna d’indigeni, con le pareti ad angolo in legno di weir scolorito o in mezzaquercia dorata. A ovest, il terreno lungo il fiume era coperto di bassi cespugli di gissen, radici di piegrovia e di un tipo sgargiante di felce rossa che il Console non riconobbe. Tutte quelle piante circondavano marcite fangose e lagune in miniatura che si estendevano per circa un chilometro, fino alle scogliere alte e ripide, dove stenti arbusti di semprazzurri si abbarbicavano a ogni interstizio fra le lastre di granito.

Per un istante il Console si sentì disorientato, smarrito in un mondo che pensava di conoscere bene; ma poi ricordò il clacson alle Chiuse di Karla e capì che si erano inoltrati in un tratto assai poco utilizzato dell’Hoolie, a nord della Ceppaia di Doukhobor. Non aveva mai visto questa parte del fiume perché aveva sempre navigato, o sorvolato, il Regio Canale di Trasporto, che si trovava a ovest delle scogliere. Sospettava che situazioni di pericolo, o disordini lungo la via principale per il mar d’Erba, li avessero costretti a seguire tratti dell’Hoolie che di solito venivano aggirati. Calcolò di trovarsi a circa centottanta chilometri a nordest di Keats.

— Di giorno sembra diversa, vero? — disse padre Hoyt.

Il Console guardò di nuovo la riva: non sapeva bene a cosa si riferiva Hoyt, poi capì che il prete parlava della chiatta.

Era stata un’esperienza singolare, seguire sotto la pioggia l’androide messaggero, salire a bordo della vecchia chiatta, farsi strada attraverso un labirinto di stanze decorate con mosaici a scacchiera e di corridoi, fermarsi alle rovine del Tempio per far salire Het Masteen e guardare poi le luci di Keats allontanarsi a poppa.

Il Console ricordò queste ore prima e dopo la mezzanotte come se si trattasse d’un sogno reso confuso dalla stanchezza, e pensò che anche gli altri dovevano essere esausti e disorientati quanto lui. Ricordava vagamente la sua sorpresa nel vedere che l’equipaggio della chiatta era composto di soli androidi, ma soprattutto il sollievo di poter chiudere finalmente la porta della cabina e trascinarsi a letto.

— Stamattina parlavo con A. Bettik — disse Weintraub, riferendosi all’androide che aveva fatto loro da guida. — Questo vecchio barcone ha una lunga storia.

Martin Sileno andò alla credenza, si versò dell’altro succo di pomodoro e aggiunse un goccio di liquido dalla fiaschetta che aveva con sé. — Chiaramente ha girato parecchio — disse. — Le murate sono lucide per l’uso, gli scalini sono consumati, i soffitti sono neri per la fuliggine delle lampade, i letti hanno un incavo dovuto a generazioni di scopate. Direi che la chiatta ha qualche secolo. Gli intagli e le finiture rococò sono una meraviglia. Avete notato che, sotto ogni altro odore, gli intagli profumano ancora di legno di sandalo? Non sarei sorpreso se quest’affare venisse dalla Vecchia Terra.

— Infatti — disse Sol Weintraub. La bambina, Rachel, gli dormiva in braccio e nel sonno formava bollicine di saliva. — Siamo a bordo dell’orgogliosa Benares, che porta il nome della città della Vecchia Terra dove è stata costruita.

— Non ricordo d’avere sentito che una città della Vecchia Terra si chiamasse così — disse il Console.

Brawne Lamia alzò lo sguardo dai resti della colazione. — Benares, nota anche come Varanasi o Gandhipur, Stato Libero d’India. Membro della Seconda Sfera Asiatica di Co-prosperità dopo la terza guerra cino-nipponica. Distrutta nello Scambio Limitato con la Repubblica Musulmana indo-sovietica.

— Sì — disse Weintraub. — La Benares è stata costruita un bel po’ prima del Grande Errore. A metà del ventiduesimo secolo, direi. A. Bettik m’ha detto che in origine era una chiatta a levitazione…

— Qui sotto ci sono ancora i generatori elettromagnetici? — lo interruppe il colonnello Kassad.

— Credo di sì — rispose Weintraub. — Accanto al salone principale del ponte inferiore. Il pavimento del salone è di cristallo lunare trasparente. Bello, se navigassimo a duemila metri d’altezza… ma del tutto inutile, ora.

— Benares — rifletté Martin Sileno. Passò amorevolmente la mano sulla murata scurita dal tempo. — Una volta mi hanno derubato, lì.

Brawne Lamia posò la tazza di caffè. — Vecchio, vorresti farci credere d’essere tanto anziano da ricordare la Vecchia Terra? Non siamo degli stupidi, sai.

— Mia cara bambina — s’illuminò Martin Sileno — non voglio farvi credere nulla. Pensavo solo che sarebbe divertente… oltre che edificante e illuminante… se a un certo punto ci scambiassimo un elenco di tutte le località in cui abbiamo rubato o siamo stati derubati. Dal momento che hai l’iniquo vantaggio d’essere stata figlia d’un senatore, sono sicuro che il tuo elenco sarebbe il più importante… e anche il più lungo.

Lamia aprì la bocca per ribattere, corrugò la fronte e restò zitta.

— Chissà come ha fatto, questa imbarcazione, a finire su Hyperion — mormorò padre Hoyt. — Perché portare una chiatta a levitazione in un pianeta dove le apparecchiature elettromagnetiche non funzionano?

— Ma potrebbero funzionare — disse il colonnello Kassad. — Anche Hyperion possiede un campo magnetico, per quanto debole. Solo, che non è abbastanza affidabile, per sostenere un mezzo di trasporto aereo.

Padre Hoyt inarcò un sopracciglio: era evidente che non capiva la distinzione.

— Ehi! — chiamò il poeta dalla murata. — La combriccola è tutta qui!

— E allora? — replicò Brawne Lamia. Le sue labbra sparivano in una linea sottile, ogni volta che si rivolgeva a Sileno.

— Allora ci siamo tutti. Continuiamo con le storie.

— Mi sembrava che si fosse deciso di raccontarle dopo cena — disse Het Masteen.

Martin Sileno scrollò le spalle. — Colazione, cena, chi se ne fotte? Siamo tutti insieme. Ci vogliono sei o sette giorni per arrivare alle Tombe del Tempo, no?

Il Console rifletté. Meno di due giorni per completare il tratto via fiume. Altri due giorni — anche meno, se i venti erano favorevoli — sul mar d’Erba. Certo non più d’un giorno per attraversare le montagne. — No — disse. — Meno di sei giorni.

— Benissimo — replicò Sileno. — Allora riprendiamo a raccontare. E poi, non è detto che lo Shrike non venga a farci visita prima che bussiamo noi alla sua porta. Se queste storie da capezzale possono in qualche modo favorire le nostre possibilità di sopravvivenza, è meglio che ascoltiamo tutti prima che qualcuno venga fatto a pezzi e trasformato in dadi da quel ciboprocessore ambulante a cui siamo tanto ansiosi di fare visita.

— Sei disgustoso — disse Brawne Lamia.

— Ah, mia cara — sorrise Sileno — sono le stesse parole che hai mormorato ieri notte dopo il secondo orgasmo.

Lamia guardò dall’altra parte. Padre Hoyt si schiarì la gola. — A chi tocca? — disse. — Raccontare la storia, intendo. — Il silenzio si protrasse.

— A me — disse infine Fedmahn Kassad. Dalla tasca della veste bianca tirò fuori una strisciolina di carta e mostrò il grosso 2.

— Le spiace iniziare subito? — gli chiese Sol Weintraub.

Kassad mostrò un accenno di sorriso. — Non ero per niente favorevole all’idea — disse. — Ma se proprio si deve, meglio farlo in fretta.

— Ehi! — esclamò Sileno. — Costui conosce i drammaturghi pre-Egira.

— Shakespeare? — chiese padre Hoyt.

— No — rispose Sileno. — Lerner e quel merdoso di Lowe. Quel culo di Neil Simon. Quel fottuto di Hamel Posten.

— Colonnello — disse formalmente Sol Weintraub — la giornata è magnifica, nessuno di noi ha impegni urgenti per le prossime ore, quindi le saremmo grati se ci facesse conoscere la storia che l’ha portata su Hyperion per l’ultimo pellegrinaggio allo Shrike.

Kassad annuì. La giornata diventava più calda, mentre la tenda schioccava, i ponti scricchiolavano e la chiatta a levitazione Benares risaliva il fiume a velocità costante, verso le montagne, le brughiere e lo Shrike.

IL RACCONTO DEL SOLDATO Gli amanti di guerra

Fu durante la battaglia di Agincourt che Fedmahn Kassad incontrò la donna alla ricerca della quale avrebbe dedicato il resto della vita.

Era un mattino umido e gelido di tardo ottobre, nell’Anno del Signore 1415. Kassad era stato arruolato come arciere nell’esercito di Enrico V d’Inghilterra. Dal 14 agosto l’esercito inglese era sul suolo di Francia e dall’8 ottobre si ritirava davanti alle superiori forze francesi. Enrico V aveva convinto il Consiglio di guerra che l’esercito, con una marcia forzata, avrebbe potuto sfuggire ai francesi e raggiungere la salvezza a Calais. Era stato un fiasco. Ora, mentre spuntava, freddo e piovigginoso, il 25 ottobre, settemila inglesi, per la maggior parte arcieri, affrontavano ventottomila armigeri francesi in un chilometro di campo fangoso.

Kassad era infreddolito, stanco, nauseato e atterrito. Nell’ultima settimana di marcia, lui e gli altri arcieri si erano nutriti quasi solo di bacche racimolate qua e là, e quella mattina quasi tutti gli uomini della colonna soffrivano di diarrea. La temperatura era scesa a soli dieci gradi e Kassad aveva trascorso la lunga notte cercando di dormire sul terreno bagnato. Era impressionato dall’incredibile realismo dell’esperienza (la Scuola Comando Olympus, Rete Tattica Storica, era superiore ai normali stimolosimulatori quanto un ologramma nei confronti di una fotografia), ma le sensazioni fisiche erano così convincenti, così reali, che non gli andava l’idea di riportare delle ferite. C’erano storie di cadetti che avevano ricevuto ferite mortali nel simulatore SCO-RTS ed erano stati estratti privi di vita dalle culle d’immersione.

Per gran parte della mattinata Kassad e gli altri arcieri sul fianco destro di Enrico V si erano limitati a guardare il numeroso esercito francese, ma quando gli stendardi ondeggiarono e l’equivalente del XV secolo dei sergenti iniziò a sbraitare, ubbidirono all’ordine del re e marciarono contro il nemico. La disordinata linea inglese, che si estendeva per circa settecento metri nel campo, da filare d’alberi a filare, consisteva in gruppi di arcieri come quello di Kassad alternati a manipoli di armigeri. Gli inglesi non avevano una vera e propria cavalleria: molti dei cavalli che Kassad vedeva nella sua parte di campo portavano uomini riuniti intorno al gruppo di comando del re, trecento metri verso il centro, o ammassati attorno alla posizione del Duca di York, più vicino al punto in cui Kassad e gli altri arcieri proteggevano il fianco destro. Quei gruppi comando ricordarono a Kassad il quartier generale mobile della FORCE:terra; solo che qui, a rivelare la posizione, anziché l’inevitabile foresta d’antenne per le trasmissioni c’erano bandiere e stendardi colorati che pendevano inerti dalle picche. Un ovvio bersaglio per l’artiglieria, pensò Kassad; poi ricordò che questa particolare sfumatura dell’arte militare ancora non esisteva.

I francesi, notò, avevano cavalli in quantità. Sei o settecento soldati a cavallo si disposero in ranghi serrati ai lati dello schieramento, mentre una lunga linea di cavalleria si piazzava alle spalle del fronte di battaglia. Kassad non amava i cavalli. Aveva visto ologrammi e fotografie di questi animali, ovviamente, ma non li aveva mai incontrati di persona, prima di quell’esercitazione; e la loro mole, la puzza, i nitriti, tendevano a snervarlo… soprattutto quando i maledetti quadrupedi erano corazzati al petto e alla testa, ferrati in acciaio, addestrati a portare in groppa uomini in armatura che impugnavano lance di quattro metri.

L’avanzata inglese s’arrestò. Kassad stimò che il fronte di battaglia si trovasse a circa duecentocinquanta metri dai francesi. Sapeva, per l’esperienza della settimana precedente, che il nemico era a portata d’arco; ma sapeva anche di dover tirare indietro il braccio fin quasi a slogarlo perché il tiro risultasse efficace.

I francesi gridavano parole che Kassad ritenne insulti. Non vi badò, mentre con i suoi compagni avanzava in silenzio fino al punto dove avevano piantato nel terreno soffice le lunghe frecce e conficcato i pali che si portavano dietro da una settimana, pesanti, lunghi quasi un metro e mezzo, appuntiti alle estremità. Quando, nel cuore dei boschi appena al di là della Somme, agli arcieri era arrivato l’ordine di trovare degli alberelli e ricavarne pali, Kassad si era domandato a che cosa servissero. Adesso lo sapeva.

Un arciere ogni tre portava un pesante mazzuolo. Ora facevano a turno per piantare i pali nel terreno, con la giusta angolazione. Kassad estrasse il lungo coltello, appunti di nuovo l’estremità di un palo che, anche inclinato, gli arrivava quasi al petto, e si allontanò dagli acuminati cavalli di Frisia per attendere la carica dei francesi.

I francesi non caricarono.

Kassad attese insieme agli altri. Aveva agganciato all’arco la corda, aveva piantato davanti a sé due gruppi di quarantotto frecce e teneva i piedi nella corretta posizione.

I francesi non caricarono.

La pioggia era cessata, ma ora soffiava una brezza gelida che portava via rapidamente quel po’ di calore generato dalla breve marcia e dallo sforzo fisico per conficcare i pali. Si sentiva solo uno scalpiccio metallico di uomini e cavalli, qualche brontolio o risatina nervosa, e il tonfo più sordo degli zoccoli della cavalleria francese che riformava le righe dello schieramento ma non veniva alla carica.

«Merda» disse un sottufficiale brizzolato, a qualche passo da Kassad. «Quei bastardi ci hanno fatto sprecare tutta la porca mattinata. O pisciano, o lasciano libero il cesso.»

Kassad annuì. Non sapeva con certezza se capiva l’inglese medievale, o se la frase era in semplice inglese standard: l’arciere brizzolato poteva essere un altro cadetto della Scuola Comando, un istruttore, o semplicemente un prodotto del simulatore. Se ne fregava. Il cuore gli batteva forte, aveva le mani sudate. Se le asciugò nel farsetto.

Come se re Enrico fosse stato imbeccato dal brontolio dell’anziano arciere, all’improvviso le bandiere di comando sventolarono in alto e i sergenti gridarono gli ordini; file e file di arcieri inglesi alzarono l’arco, incoccarono a comando, scagliarono la freccia e attesero l’ordine successivo.

Quattro ondate di più di seimila frecce lunghe un metro e acuminate come bulini si alzarono, sembrarono esitare in una nuvola a trenta metri d’altezza, poi caddero sui francesi.

Risuonarono dei nitriti e un frastuono simile a quello di mille bambini idioti che battessero diecimila pentole di stagno, quando gli armigeri francesi si chinarono sotto la pioggia di frecce in modo che gli elmetti e la corazza ricevessero il grosso del rovescio. Kassad sapeva che il danno provocato era irrisorio dal punto di vista militare, ma la cosa non consolava gli sfortunati francesi che si erano beccati in un occhio dieci centimetri di freccia o le decine di cavalli che saltavano, rotolavano e si urtavano l’un l’altro mentre i cavalieri si affannavano a estrarre le aste di legno dalla groppa o dai fianchi degli animali.

I francesi non caricarono.

Risuonarono altri ordini. Kassad si alzò, si preparò, scagliò la freccia. E ancora. E ancora. Ogni dieci secondi il cielo si oscurava. Kassad aveva male al braccio e alla schiena, per quel ritmo micidiale. Non provava esultanza né rabbia. Eseguiva il suo lavoro. Aveva l’avambraccio scorticato. Le frecce volarono di nuovo. E ancora. Aveva scagliato quindici frecce del primo dei due mucchietti di ventiquattro, quando lungo il fronte inglese serpeggiò un grido. Kassad trovò il tempo di dare un’occhiata.

I francesi caricavano.


La carica di cavalleria trascendeva l’esperienza di Kassad. Guardare milleduecento cavalli corazzati lanciarsi dritto su di lui gli creò un intimo senso di disagio. La carica durò meno di quaranta secondi, ma bastarono ampiamente a fargli venire la bocca secca, a procurargli difficoltà di respirazione, a fargli ritrarre i testicoli. Se anche il resto del corpo avesse potuto trovare un nascondiglio altrettanto efficace, Kassad avrebbe preso in seria considerazione la possibilità di ficcarcisi dentro.

All’atto pratico, era troppo impegnato per scappare.

Gli arcieri scagliarono a comando cinque salve piene contro i cavalieri all’assalto, poi ciascuno riuscì a scagliare di propria iniziativa un’altra freccia e arretrò di cinque passi.

I cavalli, risultò, erano troppo intelligenti per andare a impalarsi spontaneamente… per quanta insistenza i cavalieri umani mettessero nell’implorarli; ma la seconda e la terza ondata di cavalleria non si fermarono di colpo come la prima: in un unico istante di follia, i cavalli finirono a terra fra urla e nitriti, i cavalieri furono sbalzati di sella, e Kassad era allo scoperto e gridava, assaliva ogni francese disarcionato che vedeva, lo colpiva col mazzuolo se poteva e, se non aveva spazio per vibrare i colpi, conficcava il lungo coltello nelle aperture della corazza. Ben presto lui, l’arciere brizzolato e un ragazzo che aveva perduto il copricapo, diventarono un’efficiente squadra della morte che si avvicinava da tre lati ai cavalieri disarcionati: Kassad usava il mazzuolo per mandare lungo disteso l’implorante cavaliere, poi tutt’e tre mettevano in azione le lame.

Solo un cavaliere si rimise in piedi e alzò la spada per affrontarli. Il francese sollevò la visiera e chiese chiaramente l’onore del duello. Il vecchio e il giovane gli girarono intorno, come lupi; Kassad andò a prendere l’arco e da dieci passi gli conficcò una freccia nell’occhio sinistro.

La battaglia proseguì nella fatale vena eroicomica comune, sulla Vecchia Terra, a ogni genere di scontro armato fin dai primi duelli con pietra e osso. La cavalleria francese riuscì a girarsi e fuggire, proprio mentre la prima ondata di diecimila armigeri caricava a piedi il centro dello schieramento inglese. La mischia ruppe il ritmo dell’attacco: quando i francesi ripresero l’iniziativa, gli armigeri di Enrico V si erano piazzati in modo da tenerli a distanza di picca, mentre Kassad e alcune migliaia di arcieri scagliavano sulla fanteria salve di frecce da distanza ravvicinata.

Tutto questo non pose termine alla battaglia. Non è neppure detto che sia stato il momento decisivo. Il momento cruciale, quando venne, andò perduto come sempre succede nella polvere e nei turbini di mille scontri individuali, dove fanti affrontavano fanti separati solo dalla lunghezza della propria arma. Prima che tutto terminasse, tre ore più tardi, ci sarebbero state variazioni minori di temi ripetuti, inefficaci colpi di punta, goffe risposte, e momenti men che onorevoli in cui Enrico V avrebbe ordinato di uccidere i prigionieri, piuttosto che lasciarli alla retroguardia, se c’era da affrontare una minaccia nuova. Ma in seguito araldi e storici avrebbero concordato nel dire che l’esito dipese da un momento imprecisato nella confusione della prima carica della fanteria francese. I francesi morirono a migliaia. Il dominio inglese su quella parte del continente sarebbe continuato per qualche tempo. I giorni degli armigeri con la corazza, dei cavalieri e della cavalleria erano terminati… inchiodati nella bara della storia da una marmaglia di qualche migliaio di contadini armati di un arco da guerra. L’insulto finale ai morti francesi di sangue nobile, ammesso che sia possibile insultare ancora i morti, consisteva nel fatto che gli arcieri inglesi erano non solo persone comuni, nel senso più basso e pidocchioso della parola, ma anche soldati di leva. Fanti. Soldati semplici. Marmittoni. Coscritti. Carne da cannone.

Ma tutto questo era nella lezione che in teoria Kassad avrebbe dovuto imparare durante l’esercitazione SCO-RTS. Kassad non imparò niente: era troppo preso dall’incontro che gli avrebbe cambiato la vita.


L’armigero francese cadde oltre la testa del cavallo abbattuto, rotolò una volta, si rialzò e fuggì nei boschi prima che gli schizzi di fango ricadessero. Kassad lo seguì. Arrivò a metà strada dalla linea degli alberi, prima di accorgersi che il brizzolato e il giovane non erano più con lui. Non importava. Sentiva scorrere dentro di sé l’adrenalina, era completamente in preda alla sete di sangue.

L’armigero, appena disarcionato da un cavallo al galoppo e impacciato nei movimenti da trenta chili d’armatura, rappresentava in teoria una facile preda. La realtà fu diversa. Il francese si lanciò alle spalle una sola occhiata, vide Kassad che arrivava di corsa con il mazzuolo in mano e lo sguardo deciso, aumentò l’andatura e raggiunse la linea degli alberi con quindici metri di vantaggio sul suo inseguitore.

Kassad era già nel cuore dei boschi, quando si fermò, si appoggiò al mazzuolo, ansimò per riprendere fiato e considerò la situazione. Alle sue spalle, la distanza e gli arbusti attutivano i colpi, le urla e gli schianti del campo di battaglia. Gli alberi, quasi spogli, gocciolavano ancora per il temporale della notte precedente. Uno spesso strato di foglie morte e un groviglio d’arbusti e di rovi ricoprivano il terreno. L’armigero aveva lasciato una pista di rametti spezzati e di orme, più o meno per una ventina di metri, ma poi le piste dei cervi e i sentieri coperti d’erbacce rendevano difficile individuare i segni del suo passaggio.

Kassad s’inoltrò lentamente nel bosco, con le orecchie tese a sentire qualche rumore al di sopra dei suoi stessi ansiti e del folle battito del suo cuore. Dal punto di vista tattico, rifletté, la sua non era una mossa brillante: quand’era scomparso nel sottobosco, l’armigero indossava l’armatura completa e impugnava la spada. In qualsiasi momento il francese poteva riprendersi dalla paura, pentirsi per la temporanea perdita dell’onore e ricordare gli anni d’addestramento militare. Anche Kassad era stato addestrato. Si guardò la camicia di stoffa e la veste di pelle. Reggeva ancora il mazzuolo e nell’alta cintura aveva il coltello. Ed era addestrato nell’uso di armi ad alta energia, con portata variabile da alcuni metri a migliaia di chilometri. Aveva ottenuto un buon punteggio nell’uso di granate a plasma, frustelaser, carabine a flechettes, armi soniche, armi senza rinculo a gravità zero, neuroverghe, del fucile cinetico d’assalto e dei guanti a raggi; e ora aveva una conoscenza sperimentale dell’arco da guerra inglese. In quel momento, però, non aveva con sé nessuna di queste armi… arco da guerra incluso.

«Ah, merda» mormorò il sottotenente Kassad.

L’armigero uscì dal sottobosco come un orso che carica: braccia alzate, gambe aperte, spada che scendeva in un arco inteso a sbudellare Kassad. Il cadetto della SCO cercò di balzare indietro e di alzare contemporaneamente il mazzuolo. Non ebbe un gran successo in nessuna delle due mosse. La spada del francese gli fece volar via il mazzuolo e lacerò cuoio, camicia e pelle.

Kassad gridò e barcollò all’indietro, estraendo il coltello. Con il tacco destro inciampò nel ramo d’un albero caduto e finì a gambe levate, imprecando, impigliandosi nell’intrico dei rami, mentre l’armigero avanzava rumorosamente e con la pesante spada tranciava i rami come se avesse in mano un machete fuori misura. Kassad aveva già estratto il pugnale, quando l’armigero si aprì la strada fra i rami morti; ma quella lama di venticinque centimetri era ben poca cosa contro un’armatura, a meno che il cavaliere non fosse inerme. E quel cavaliere non lo era. Kassad capì che non sarebbe mai riuscito a eludere la guardia di quella spada. Poteva solo sperare nella fuga, ma il grosso tronco dell’albero alle sue spalle e la sterpaglia più in là eliminavano questa possibilità. Kassad non voleva farsi colpire da dietro, mentre si girava. Né dal basso mentre s’arrampicava. Non voleva farsi colpire da nessuna angolazione.

Assunse la posizione acquattata per il combattimento con il coltello — cosa che non faceva dai giorni in cui si azzuffava nei vicoli dei bassifondi di Tharsis — e si chiese come la simulazione avrebbe trattato la sua morte.

La figura comparve dietro l’armigero come un’ombra improvvisa. Il rumore del mazzuolo di Kassad che colpiva la spalla corazzata del cavaliere sembrò proprio quello prodotto da qualcuno che martellasse con un maglio il cofano di un VEM.

Il francese barcollò, si girò per affrontare la nuova minaccia e si prese in pieno petto un secondo colpo. Il salvatore di Kassad era piccolino. L’armigero non cadde. Stava alzando sopra la testa la spada, quando Kassad lo colpì da dietro, con una spallata sotto le ginocchia.

In un rumore di rami schiantati, il francese cadde per terra. Il piccolo assalitore gli salì a cavalcioni, bloccò con un piede il braccio destro dell’uomo in armatura e gli calò ripetutamente la mazza sull’elmo e sulla visiera. Kassad si districò da gambe e rami, si sedette sulle ginocchia dell’uomo steso a terra e cominciò a menare fendenti contro i punti non protetti dall’armatura: inguine, fianchi, ascelle. Il salvatore di Kassad balzò di lato per piantare i piedi sul polso del cavaliere. Kassad strisciò avanti, vibrò alcune pugnalate nella giunzione fra elmo e pettorale e alla fine conficcò la lama nella fessura della visiera.

Il cavaliere urlò, quando il mazzuolo si abbatté per l’ultima volta, rischiando di colpire anche la mano di Kassad, per piantare la lama come se fosse stato un paletto da tenda. L’armigero s’inarcò: nel violento spasmo finale sollevò da terra Kassad e trenta chili d’armatura, poi ricadde inerte.

Kassad rotolò su un fianco. Il suo salvatore si lasciò cadere accanto a lui. Tutt’e due erano madidi di sudore e schizzati del sangue del morto. Kassad guardò lo sconosciuto: una donna alta, che indossava indumenti non dissimili dai suoi. Per qualche istante rimasero distesi ad ansimare.

«Stai… bene?» riuscì infine a dire Kassad. All’improvviso fu colpito dall’aspetto della donna. Capelli castani, troppo corti rispetto alla moda corrente dei Mondi della Rete, lisci e tagliati in modo che le ciocche più lunghe, ai lati della scriminatura spostate di qualche centimetro a sinistra rispetto al centro della fronte, ricadessero appena sopra l’orecchio destro: un taglio da ragazzo di qualche epoca dimenticata. Ma lei non era un ragazzo. Probabilmente, pensò Kassad, era la donna più bella che avesse mai visto: struttura ossea così perfetta che mento e zigomi risaltavano pur senza essere troppo appuntiti; occhi grandi che brillavano di vita e d’intelligenza; bocca dolce, con un morbido labbro inferiore. Disteso al suo fianco, Kassad capì che la donna era alta… non quanto lui, ma chiaramente più di una donna del XV secolo. L’ampia veste e i calzoni a sbuffo non nascondevano la morbida curva dei fianchi e del seno. Sembrava di qualche anno più anziana di lui, forse tra i venticinque e i trenta, ma Kassad se ne accorse appena, perché la donna continuava a fissarlo con quegli occhi dolci, seducenti, infinitamente profondi.

«Stai bene?» ripeté Kassad, con un tono che perfino a lui sembrò strano.

La donna non rispose. O meglio, rispose passando sul petto di Kassad le lunghe dita e sciogliendo le cordicelle che tenevano legata la sua rozza veste. Le mani trovarono la camicia. Era inzuppata di sangue e mezzo strappata sul davanti. La donna la strappò del tutto. Ora si muoveva accanto a lui, dita e labbra sul suo petto, fianchi già in movimento. Con la destra trovò il legaccio sul davanti dei calzoni e lo strappò.

Kassad si lasciò spogliare del tutto, aiutandola; poi, con tre facili mosse, le tolse i vestiti. La donna non portava niente, sotto la camicia e i calzoni di stoffa grezza. Kassad fece scivolare la mano fra le sue cosce, dietro di lei; le strinse le natiche, l’attirò a sé, andò fra i peli ispidi e umidi. Lei gli si aprì, chiuse le labbra sulle sue. In qualche modo, nonostante i movimenti per svestirsi, il loro corpo restò sempre a contatto. Kassad sentì la propria erezione strusciare contro la cuspide del suo ventre.

Allora lei rotolò su di lui e gli strinse i fianchi fra le cosce senza smettere di fissarlo. Kassad non era mai stato così eccitato. Ansimò e chiuse gli occhi, quando lei si portò alle spalle la mano, lo trovò e lo guidò dentro di sé. Riaprì gli occhi: lei si muoveva lentamente, la testa all’indietro, gli occhi chiusi. Kassad mosse le mani a stringerle i seni perfetti. I capezzoli s’indurirono.

Fecero l’amore. Kassad, a ventitré anni standard, era stato innamorato una sola volta e aveva goduto del sesso molte volte. Credeva di sapere il perché e il percome. Non c’era niente, nella sua esperienza fino a quel momento, che non avrebbe saputo descrivere con una frase e una risata ai suoi compagni di squadra nella stiva d’un trasporto truppe. Con la freddezza e il cinismo d’un veterano ventitreenne, era certo che non avrebbe mai sperimentato niente che non potesse essere descritto in quel modo, liquidato in quel modo. Si sbagliava. Non avrebbe più potuto condividere adeguatamente con altri il senso dei minuti che seguirono. Non ci avrebbe nemmeno mai provato.

Fecero l’amore in un improvviso raggio di luce di tardo ottobre, sopra un tappeto di foglie e indumenti, mentre un velo di sangue e di sudore lubrificava il dolce attrito fra i loro corpi. Gli occhi verdi di lei fissavano Kassad: si dilatarono leggermente quando lui cominciò a muoversi più in fretta; si chiusero nello stesso istante in cui lui chiuse i suoi.

Poi si mossero insieme nell’improvvisa marea di sensazioni antica e inevitabile come il moto dei mondi: pulsazioni rapide, un ulteriore, comune sollevamento finale, il mondo che si ritraeva nel nulla… e poi, ancora uniti dal contatto, dal battito del cuore e dal brivido della passione che s’affievoliva, lasciare che la consapevolezza tornasse a poco a poco a separare la carne, mentre il mondo rifluiva attraverso sensi dimenticati.

Rimasero distesi l’uno accanto all’altra. L’armatura del morto era fredda, contro il braccio sinistro di Kassad; il fianco di lei tiepido contro la sua gamba destra. La luce del sole era una benedizione. Colori nascosti risalirono alla superficie delle cose. Kassad girò la testa a guardarla, mentre lei gli posava sulla spalla la fronte. Le guance le brillavano di rossore e di luce d’autunno, i capelli erano fili di rame sul braccio di Kassad. La sconosciuta piegò la gamba sulla coscia di Kassad e lui sentì il rinnovarsi della passione. Il sole era caldo, sul suo viso. Kassad chiuse gli occhi.

Quando si risvegliò, lei era scomparsa. Era sicuro che fossero trascorsi solo alcuni secondi… non più d’un minuto, certamente; ma la luce del sole era svanita, i colori avevano abbandonato la foresta, una fresca brezza serale muoveva i rami spogli.

Kassad si rivestì con gli indumenti laceri, induriti dal sangue. L’armigero francese giaceva immobile e rigido nell’atteggiamento disinvolto della morte. Sembrava già inanimato, parte della foresta. Non c’era il minimo segnò della donna.

Zoppicando, Fedmahn Kassad attraversò di nuovo il bosco, nel buio della sera e nell’improvvisa pioggerella gelida.

Sul campo di battaglia c’era ancora gente, viva e morta. I morti giacevano ammucchiati come i soldatini di ferro con cui Kassad giocava da bambino. I feriti si muovevano lentamente, con l’aiuto di amici. Qua e là, sagome furtive si aggiravano fra i morti; vicino alla fila opposta di alberi, un brioso gruppo di araldi, francesi e inglesi, teneva consiglio con grandi gesti e conversazioni animate. Kassad sapeva che dovevano dare un nome alla battaglia, in modo che le rispettive registrazioni concordassero. Sapeva anche che si sarebbero accordati sul nome del castello più vicino, Agincourt, anche se non aveva avuto parte nella strategia e nella battaglia vera e propria.

Kassad stava cominciando a credere che non si trattasse di simulazione, che la sua vita nella Rete dei Mondi fosse il sogno, e la vera realtà quel giorno grigio, quando all’improvviso l’intera scena si congelò in una serie di profili di figure umane e di cavalli, e la foresta sempre più buia diventò trasparente come un ologramma in dissolvenza. Subito dopo fu aiutato a uscire dalla culla di simulazione della Scuola Comando Olympus; gli altri cadetti e gli istruttori si alzavano, discutevano, ridevano fra loro… tutti inconsapevoli, sembrava, del fatto che il mondo era cambiato per sempre.


Per settimane Kassad trascorse ogni ora libera a vagare nella zona della Scuola Comando, a guardare dai bastioni le ombre serali di Mons Olympus che coprivano prima la foresta sull’altopiano, poi le terre alte ricche d’insediamenti, poi tutto il mondo. E, in ogni istante, pensava a quello che era successo. Pensava a lei.

Nessun altro aveva notato qualcosa d’insolito nella simulazione. Nessun altro aveva lasciato il campo di battaglia. Un istruttore spiegò che in quel particolare segmento della simulazione non esisteva nulla, se non il campo di battaglia. Nessuno aveva notato la mancanza di Kassad. Come se l’incidente nella foresta, donna compresa, non fosse mai accaduto.

Kassad la sapeva più lunga. Seguì i corsi di storia militare e di matematica. Trascorse nel poligono di tiro e nella palestra le ore libere. Provò le baracche di punizione nel Quadrilatero Caldera, anche se non di frequente. Tutto sommato, il giovane Kassad divenne un allievo ufficiale migliore di quanto già non fosse. E nel frattempo attese.

E lei torno.


Accadde di nuovo nelle ore conclusive di una simulazione SCO-RTS. A quel tempo Kassad aveva imparato che le esercitazioni erano qualcosa di più che semplici simulazioni. La SCO-RTS faceva parte della Totalità della Rete dei Mondi, il sistema in tempo reale che governava la politica dell’Egemonia, forniva informazioni a decine di miliardi di cittadini affamati di dati, e aveva sviluppato una forma di autonomia e consapevolezza proprie. Più di centocinquanta sfere dati planetarie mescolavano le proprie risorse all’interno dell’intelaiatura creata da seimila Intelligenze Artificiali classe omega, per consentire il funzionamento della SCO-RTS.

«La roba della RTS non simula» si lamentò il cadetto Radinski, il miglior esperto di IA che Kassad fosse riuscito a trovare e a corrompere per avere spiegazioni. «Sogna! Sogna con la migliore accuratezza storica della Rete… molto superiore alla somma delle parti, poiché si collega a intuizioni olistiche, oltre che a fatti. E quando sogna, fa sognare anche noi.»

Kassad non aveva capito, ma ci aveva creduto. E poi lei tornò.

Nella prima guerra Usa-Vietnam, fecero l’amore nei minuti successivi a un’imboscata, nel buio e nel terrore di una pattuglia notturna. Kassad indossava una ruvida tuta mimetica (senza biancheria intima, per via di certe irritazioni all’inguine dovute alla giungla) e un elmetto d’acciaio non molto più progredito di quelli in uso ad Agincourt. Lei portava pigiama nero e sandali, la divisa universale del contadino del sudest asiatico. E dei vietcong. Poi, nudi, fecero l’amore in piedi nella notte, la schiena di lei contro un albero, le gambe avvinghiate intorno a lui, mentre il mondo esplodeva col bagliore verde dei razzi perimetrali e lo schiocco, simile a colpo di tosse, delle mine Claymore.

Lei venne a lui nel secondo giorno della battaglia di Gettysburg e ancora in quella di Borodino, dove le nuovole di fumo provocate dalla polvere da sparo restavano sospese sopra le cataste di cadaveri come vapore congelato di anime dipartite.

Fecero l’amore nella carcassa di un veicolo corazzato per il trasporto delle truppe, nel Bacino Hellas, mentre la battaglia di hovertank infuriava ancora e la polvere rossa del simun in arrivo graffiava rumorosamente lo scafo di titanio. «Dimmi come ti chiami» le aveva mormorato in standard. Lei aveva scosso la testa. «Sei reale… fuori della simulazione?» le aveva domandato, nell’anglo-giapponese di quell’era. Lei aveva annuito e si era piegata per baciarlo.

Giacquero insieme in un posto riparato fra le macerie di Brasilia, mentre i raggi della morte dei VEM cinesi giocavano come riflettori azzurrastri sulle pareti sgretolate di ceramica. Durante una battaglia senza nome, dopo l’assedio di una dimenticata cittadella nelle steppe russe, lui la tirò dentro la stanza diroccata in cui avevano fatto l’amore e le sussurrò: «Voglio restare con te». Lei gli sfiorò col dito le labbra e scosse la testa. Dopo l’evacuazione di New Chicago, mentre erano distesi sulla terrazza del centesimo piano dove Kassad aveva sistemato il suo nido di cecchino per la disperata azione di retroguardia dell’ultimo presidente degli Stati Uniti, le posò la mano sulla carne tiepida fra i seni e le disse: «Non potrai mai unirti a me… fuori di qui?» Con il palmo lei gli toccò la guancia e sorrise.

Durante l’ultimo anno alla Scuola Comando, ci furono solo cinque simulazioni SCO-RTS e l’addestramento dei cadetti passò alle esercitazioni campali dal vivo. A volte, come quando era legato alla poltrona di comando tattico, nel corso di un lancio a livello di battaglione su Cerere, Kassad chiudeva gli occhi, guardava fra le configurazioni a colori primari della matrice tattica/terreno generata corticalmente e percepiva la presenza di… di qualcuno? Di lei? Non ne era sicuro.

E poi lei non venne più. Non venne durante i mesi conclusivi di lavoro. Non venne durante la simulazione finale della grande battaglia del Sacco di Carbone, dove fu sedato l’ammutinamento del generale Horace Glennon-Height. Non venne durante le parate e i festeggiamenti per la nomina a ufficiale, né quando la classe sfilò nella rassegna conclusiva di fronte al PFE dell’Egemonia, che salutava dal ponte levitazionale illuminato di rosso.

E non ci fu tempo nemmeno per sognare, quando i giovani ufficiali si teleportarono sulla Luna per la cerimonia Masada, tornarono su Tau Ceti Centro per il giuramento formale d’ingresso nella FORCE, e poi conclusero l’addestramento.

L’allievo ufficiale Kassad divenne il tenente Kassad, trascorse nella Rete la licenza di tre settimane standard grazie alla carta universale emessa dalla FORCE che gli permetteva di teleportarsi dovunque ogni volta che voleva; poi fu trasferito su Lusus, alla scuola di addestramento del Sevizio Coloniale dell’Egemonia, per la preparazione al servizio attivo fuori della Rete. Era sicuro che non l’avrebbe rivista mai più.

Si sbagliava.


Fedmahn Kassad era cresciuto in un ambiente di povertà e di morte improvvisa. Come appartenenti alla minoranza etnica che ancora conservava il nome di Palestinesi, lui e la sua famiglia avevano vissuto nei bassifondi di Tharsis, testimonianza umana dell’amaro lascito dei diseredati allo stadio terminale. Ogni palestinese della Rete dei Mondi e dei pianeti esterni portava in sé la memoria culturale di un secolo di lotte concluse con un mese di trionfo nazionalistico prima che la jihad nucleare del 2038 spazzasse via ogni cosa. Poi ci fu la loro seconda Diaspora, che durò cinque secoli e portò al vicolo cieco di mondi desertici come Marte, e il loro sogno scese nella tomba con la morte della Vecchia Terra.

Kassad, come gli altri ragazzi del Campo di Ricollocamento Tharsis Sud, o si univa alle bande giovanili, o rischiava di cadere preda di quelli che si erano autoproclamati predatori dei campi. Scelse di unirsi a una banda. A sedici anni standard, aveva già ucciso un altro giovane.

Se Marte aveva una certa notorietà nella Rete dei Mondi, lo doveva alla caccia nella Vallis Marineris, al Massiccio Zen di Schrauder nel Bacino Hellas, e alla Scuola Comando Olympus. Kassad non aveva dovuto andare nella Vallis Marineris, per imparare a cacciare e a essere cacciato, non si era interessato allo gnosticismo Zen, e da ragazzo non aveva provato altro che disprezzo per i cadetti in uniforme che arrivavano da ogni parte della Rete per addestrarsi ed entrare nella FORCE. Si era unito ai suoi pari nell’irridere il Neo-Bushido, definendolo un codice per finocchi, ma nell’animo del giovane Kassad era sempre risuonata segretamente un’antica vena d’onore, al pensiero della classe dei samurai, la cui vita e il cui lavoro ruotava intorno al dovere, all’autorispetto e al valore finale della propria parola.

Quando Kassad aveva diciotto anni, un giudice superiore della provincia di Tharsis gli offrì la scelta fra un anno marziano in un campo di lavoro polare e l’iscrizione volontaria alla Brigata John Carter, che si costituiva in quel periodo per aiutare la FORCE a sconfiggere la rinnovata ribellione Glennon-Height nelle colonie dì classe tre. Kassad si offrì volontario e scoprì che la disciplina e la pulizia della vita militare gli piacevano, anche se la Brigata John Carter ebbe solo compiti di guarnigione all’interno della Rete e fu disciolta poco dopo la morte del nipote clonato di Glennon-Height, su Rinascimento. Due giorni dopo il diciannovesimo compleanno, Kassad presentò domanda per entrare nella FORCE:terra e non fu accettato. Si prese una sbronza di nove giorni, si risvegliò in uno dei più profondi tunnel alveare di Lusus, scoprì che gli avevano rubato il comlog che gli era stato innestato durante il servizio militare (il ladro aveva evidentemente seguito un corso per corrispondenza in chirurgia), che gli avevano revocato la carta universale e l’accesso al teleporter, e che la sua testa esplorava nuove frontiere del dolore.

Per un anno standard Kassad lavorò su Lusus, mise da parte più di seimila marchi e sfruttò la fatica fisica a gravità 1,3 per irrobustire il fragile fisico marziano. Quando spese i risparmi per il viaggio a Patto-Maui, su un antico mercantile a vela solare munito di motori Hawking di fortuna, Kassad era ancora alto e magro, secondo gli standard della Rete, ma i suoi pochi muscoli lavoravano magnificamente secondo qualunque standard.

Arrivò a Patto-Maui tre giorni prima che scoppiasse la rabbiosa e impopolare guerra delle Isole; e alla fine il comandante della FORCE:congiunta di stanza a Primosito si stufò talmente di vedere il giovane Kassad in attesa nell’anticamera, che gli permise di arruolarsi nel 23 Reggimento Sussistenza come aiuto conducente di idrolamina. Undici mesi standard dopo, il caporale Fedmahn Kassad del 12° Fanteria Mobile aveva ricevuto due decorazioni per servizio onorevole, una commenda senatoriale al valore per la campagna nell’Arcipelago Equatoriale, e due medaglie al valore per ferite in combattimento. Fu anche scelto per andare alla scuola comando della FORCE, e rimandato nella Rete dei Mondi con il primo convoglio.


Kassad sognò spesso di lei. Non aveva mai saputo il suo nome, lei non aveva mai parlato, ma Kassad avrebbe riconosciuto il suo tocco e il suo profumo anche nel buio più totale, fra migliaia di altre persone. Tra sé la chiamava Mistero.

Mentre i giovani ufficiali andavano a puttane o si cercavano un’amichetta fra la popolazione indigena, Kassad restava alla base e faceva lunghe camminate attraverso città sconosciute. Tenne segreta la sua ossessione per Mistero, ben sapendo che figura avrebbe fatto se fosse stata riportata sul suo profilo psicologico. A volte, durante i bivacchi sotto molteplici lune o nella stiva a zero-g, simile a un grembo materno, dei trasporti truppe, Kassad capiva quanto fosse folle la sua relazione amorosa con un fantasma. Ma poi ricordava il piccolo neo sotto il seno sinistro che una notte aveva baciato, sentendo sotto le labbra il battito del cuore, mentre la terra vibrava per le cannonate dell’artiglieria pesante nei pressi di Verdun. Ricordava il gesto d’impazienza con cui lei si tirava indietro i capelli neri, mentre la sua guancia riposava sulla sua coscia. E i giovani ufficiali andavano in città o nelle baracche vicino alla base, e Fedmahn Kassad leggeva un altro libro di storia, o passeggiava a passo svelto lungo il perimetro, o provava sul comlog strategie tattiche.

Non passò molto tempo, prima che Kassad attirasse l’attenzione dei superiori.

Durante la guerra non dichiarata con i Liberi Minatori nei territori Lambert Ring, su Peregrine fu il tenente Kassad a guidare i fanti sopravvissuti e le guardie marine nella traversata del pozzo di trivellazione del vecchio asteroide, per far evacuare il personale del consolato e i cittadini dell’Egemonia.

Ma fu durante il breve regno del Nuovo Profeta, su Qom-Riyadh, che il capitano Fedmahn Kassad attirò l’attenzione dell’intera Rete.

Il capitano della FORCE:spazio al comando dell’unica astronave dell’Egemonia nel raggio di due anni-balzo dal pianeta coloniale stava facendo una visita di cortesia, quando il Nuovo Profeta decise di guidare trenta milioni di Sciiti del Nuovo Ordine contro due continenti di negozianti Suni e novantamila residenti infedeli dell’Egemonia. Il comandante dell’astronave e cinque suoi ufficiali furono fatti prigionieri. Messaggi urgenti via astrotel, provenienti da Tau Ceti Centro, ordinarono che l’ufficiale più alto in grado a bordo della AE Denieve ferma in orbita riportasse la normalità su Qom-Riyadh, liberasse tutti gli ostaggi e deponesse il Nuovo Profeta… senza ricorrere all’uso di armi nucleari nell’ambito atmosferico del pianeta. La Denieve era una vedetta difensiva orbitale di tipo superato. Non aveva armi nucleari utilizzabili nell’atmosfera. L’ufficiale di grado più elevato a bordo era il capitano della FORCExongiunta Fedmahn Kassad.

Il terzo giorno dall’inizio della rivolta, Kassad fece atterrare nel cortile principale della Grande Moschea di Mashhad l’unica navetta d’assalto della Denieve. Lui e altri trentaquattro soldati della FORCE guardarono la folla crescere fino a trecentomila militanti, trattenuti solo dal campo di contenimento della navetta e dalla mancanza di un ordine d’attacco da parte del Nuovo Profeta. Il Profeta stesso non era più nella Grande Moschea: era volato nell’emisfero settentrionale di Riyadh, dove avrebbe presenziato alle celebrazioni per la vittoria.

Due ore dopo l’atterraggio, il capitano Kassad uscì dalla navetta e diffuse un breve comunicato. Disse d’essere stato allevato nella fede musulmana. Annunciò anche che l’interpretazione del Corano aveva mostrato con certezza, dai giorni della nave coloniale degli Sciiti, che il Dio dell’Isiam non avrebbe perdonato né permesso il massacro di innocenti, per quante jihad fossero proclamate da eretici dalle corna di latta come il Nuovo Profeta. Il capitano Kassad diede ai capi dei trenta milioni di fanatici tre ore di tempo per liberare gli ostaggi e tornare alla propria casa, nel continente desertico di Qom.

Nei primi tre giorni della rivolta, gli eserciti del Nuovo Profeta avevano occupato la maggior parte delle città su due continenti e catturato più di ventisettemila ostaggi dell’Egemonia. Plotoni d’esecuzione erano impegnati giorno e notte a sistemare antiche dispute teologiche; si stimava che almeno duecentocinquantamila Suni fossero stati massacrati nei primi due giorni d’occupazione. In risposta all’ultimatum di Kassad, il Nuovo Profeta annunciò che tutti gli infedeli sarebbero stati messi a morte subito dopo il suo discorso per televisione di quella sera. E ordinò anche di attaccare la navetta di Kassad.

Evitando l’uso di esplosivi ad alto potenziale per non rovinare la Grande Moschea, la Guardia Rivoluzionaria si servì di armi automatiche, di rozzi cannoni a energia, di cariche al plasma e di onde d’assalto umane. Il campo di contenimento resistette.

Il discorso televisivo del Nuovo Profeta iniziò quindici minuti prima della scadenza dell’ultimatum di Kassad. Il Nuovo Profeta si disse d’accordo con la dichiarazione di Kassad, ossia che Allah avrebbe inflitto terribili castighi agli eretici, ma annunciò che il castigo sarebbe ricaduto sugli infedeli dell’Egemonia. Fu l’unica volta in cui si vide il Nuovo Profeta perdere l’autocontrollo davanti alle telecamere. Fra grida e schizzi di saliva, ordinò di rinnovare le ondate umane d’assalto contro la navetta. Annunciò che in quel momento una decina di bombe a fissione era stata assiemata nei locali del reattore Energia per la Pace, ad Alì, che con esse gli eserciti di Allah sarebbero arrivati nello spazio stesso. La prima bomba a fissione, spiegò il Profeta, sarebbe stata usata proprio quel pomeriggio, contro la satanica navetta dell’infedele Kassad. Il Nuovo Profeta cominciò allora a illustrare con dovizia di particolari come gli ostaggi dell’Egemonia sarebbero stati messi a morte; ma in quel momento l’ultimatum di Kassad arrivò alla scadenza.

Qom-Riyadh era, per sua scelta e per l’accidentalità della remota locazione, un mondo tecnicamente primitivo. Ma gli abitanti non erano tanto primitivi da non possedere una sfera dati attiva. E i mullah rivoluzionari alla testa dell’invasione non erano neppure così contrari al “Grande Satana della Scienza dell’Egemonia” da rifiutare di collegarsi con il loro comlog personale alla rete globale dati.

La AE Denieve aveva disseminato un numero sufficiente di satelliti spia: alle 17,29, ora centrale di Qom-Riyadh, intercettando la sfera dati l’astronave dell’Egemonia aveva già identificato 16.830 mullah rivoluzionari mediante il loro codice d’accesso. Alle 17,29 e 30 secondi, i satelliti spia iniziarono a trasmettere in tempo reale i dati bersaglio ai ventun satelliti perimetrali di difesa che la navetta di Kassad aveva lasciato in orbita bassa. Queste armi orbitali di difesa erano talmente antiquate, che lo scopo della missione della Denieve era riportarle alla Rete perché fossero demolite in piena sicurezza. Kassad aveva suggerito di farne un altro uso.

Alle 17,30,esatte, diciannove piccoli satelliti fecero esplodere il loro nucleo di fusione. Nei nanosecondi che precedettero la loro distruzione, i raggi X risultanti furono focalizzati, puntati e rilasciati sotto forma di 16.830 raggi invisibili ma assolutamente coerenti. Gli antiquati satelliti difensivi non erano progettati per l’uso nell’atmosfera e avevano un diametro inferiore al millimetro. Per fortuna, era sufficiente. Non tutti i raggi bersaglio attraversarono quel che c’era fra i mullah e il cielo. Ma 15.784 ci riuscirono.

L’effetto fu immediato e spettacolare. In ciascun caso, il cervello e i fluidi cerebrali del bersaglio bollirono, si trasformarono in vapore e fecero esplodere il cranio della vittima. Il Nuovo Profeta era nel mezzo della trasmissione dal vivo all’intero pianeta (per l’esattezza, nel mezzo della pronuncia della parola “eretici”), quando scoccarono le 17,30.

Per quasi due minuti, in tutto il pianeta schermi e pareti TV trasmisero l’immagine del corpo privo di testa del Nuovo Profeta accasciato sul microfono. Poi Fedmahn Kassad s’intromise su tutti i canali per annunciare che l’ultimatum seguente sarebbe scaduto entro un’ora e che a ogni azione contro gli ostaggi sarebbe seguita la dimostrazione ancora più spettacolare del dispiacere di Allah.

Non ci furono ritorsioni.

Quella notte, in orbita attorno a Qom-Riyadh, Mistero visitò Kassad per la prima volta dall’epoca in cui lui era cadetto. Kassad era addormentato ma la visita fu un po’ più d’un sogno e un po’ meno della realtà alternativa dei simulatori SCO-RTS. La donna e Kassad erano distesi insieme sotto una leggera coperta, in un edificio scoperchiato. La pelle di lei era calda ed elettrica; il viso, poco più d’un pallido profilo contro il buio della notte. In alto le stelle cominciavano a impallidire nella falsa luce che precede l’alba. Kassad capì che lei cercava di parlargli: le morbide labbra formavano parole che erano appena al di sotto della soglia uditiva. Kassad si scostò un istante per guardarla meglio in viso, ma quel movimento gli fece perdere il contatto. Si svegliò nella membrana letto con tracce d’umido sulle guance e la sensazione che il ronzio delle apparecchiature della nave gli fosse estraneo quanto il respiro d’un animale sveglio solo in parte.


Nove settimane-nave standard più tardi, su Freeholm, Kassad fu sottoposto all’inchiesta della corte marziale. Quando, su Qom-Riyadh, aveva preso la decisione, sapeva che i suoi superiori non avrebbero avuto scelta: l’avrebbero crocifisso, o l’avrebbero promosso.


La FORCE si vantava d’essere pronta a tutte le evenienze possibili, nella Rete o nelle regioni coloniali; ma niente l’aveva adeguatamente preparata alla battaglia di Bressia Sud e alle sue implicazioni per il Neo-Bushido.

Il Codice Neo-Bushido, che regolava la vita di Kassad, si era evoluto dalla necessità di sopravvivenza della classe militare. Dopo le turpitudini avvenute sulla Vecchia Terra, alla fine del ventesimo e all’inizio del Ventunesimo secolo, quando i leader militari avevano impegnato le loro nazioni in strategie in cui l’intera popolazione civile diventava legittimo bersaglio, mentre i boia in uniforme se ne stavano al sicuro in bunker autosufficienti, cinquanta metri sottoterra, la ripugnanza dei civili sopravvissuti fu così grande che per più di un secolo la parola “militare” diventò un invito al linciaggio.

Nel suo evolversi, il Codice Neo-Bushido combinò concetti vecchi di secoli, riguardanti l’onore e il coraggio individuale, con la necessità di risparmiare i civili ogni volta che era possibile. Vedeva anche la saggezza di tornare ai concetti pre-napoleonici di guerre piccole, “non totali”, con mete ben definite e senza eccessi. Il Codice esigeva la rinuncia alle armi nucleari e alle campagne di bombardamenti strategici, se non in casi estremi; ma, più ancora, esigeva il ritorno ai concetti medievali della Vecchia Terra, di battaglie fra piccoli eserciti di professionisti, in un tempo e in uno spazio preventivamente stabiliti di comune accordo, dove la distruzione di proprietà private e pubbliche sarebbe stata contenuta al minimo.

Questo Codice funzionò molto bene per i primi quattro secoli d’espansione post-Egira. Il fatto che alcune tecnologie essenziali rimanessero in pratica bloccate per tre secoli giocò a favore dell’Egemonia: per esempio, le guadagnò il monopolio nell’uso dei teleporter che permettevano di impiegare le modeste risorse della FORCE nel posto giusto e nel tempo richiesto. Separati dagli inevitabili anni-balzo di debito temporale, colonie e mondi indipendenti non potevano sperare di eguagliare il potere dell’Egemonia. Incidenti come la rivolta politica su Patto-Maui, con la sua tecnica unica di guerriglia, o come la follia religiosa su Qom-Riyadh, furono risolti con rapidità e fermezza; ogni eccesso nelle campagne militari non fece che mettere in evidenza l’importanza di tornare allo stretto Codice Neo-Bushido. Ma nonostante tutti i calcoli e preparativi della FORCE, nessuno aveva adeguatamente previsto l’inevitabile confronto con gli Ouster.

Gli Ouster erano stati l’unica minaccia esterna all’Egemonia, nei quattro secoli da quando gli antenati delle orde barbariche avevano lasciato il sistema solare nella loro rozza flotta di scalcinate città O’Neill, di asteroidi traballanti e di gruppi di fattorie cometarie sperimentali. Anche quando gli Ouster si procurarono il motore Hawking, la politica dell’Egemonia rimase que.Ha di ignorarli finché i loro sciami si mantenevano nelle tenebre interstellari, e le loro razzie nei sistemi solari si limitavano a piccole quantità di idrogeno sulle giganti gassose e di ghiaccio sulle lune disabitate.

Le prime scaramucce di frontiera, come quella del pianeta di Bent e della GHC 2990, furono considerate aberrazioni, episodi di scarso interesse per l’Egemonia. Anche la battaglia campale per Lee Tre fu trattata come un problema che riguardava il servizio coloniale: quando, sei anni locali dopo l’attacco e cinque dopo la partenza degli Ouster, i reparti operativi della FORCE arrivarono sul posto, le atrocità furono convenientemente dimenticate, con la scusa che le incursioni dei barbari non si sarebbero più ripetute dopo che l’Egemonia avesse deciso di mostrare i muscoli.

Nei decenni che seguirono l’episodio di Lee Tre, la FORCE e l’esercito spaziale degli Ouster si affrontarono in piccole scaramucce in un centinaio di zone di frontiera; ma, a parte qualche incursione di marine in ambienti privi d’aria e di Reso, non ci furono scontri di fanteria. Nella Rete dei Mondi le dicerie proliferarono: gli Ouster si erano evoluti in qualcosa di più, o di meno, che umano. Non avevano la tecnologia del teleporter, non l’avrebbero mai avuta e non avrebbero quindi mai rappresentato una minaccia per l’Egemonia. Poi si verificò l’incidente di Bressia.

Bressia era uno di quei mondi soddisfatti e indipendenti che si compiacevano del comodo accesso alla Rete e del fatto di esserne separati solo da otto mesi-balzo. Si arricchivano con l’esportazione di diamanti, di radici di lappola e del loro ineguagliabile caffè, rifiutando evasivamente di diventare un pianeta colonia, anche se dipendeva sempre dal Protettorato dell’Egemonia e dal Mercato Comune per raggiungere mete economiche sempre più alte. Come nel caso di parecchi mondi del genere, Bressia era orgogliosa del proprio esercito di difesa: dodici navi-torcia, un portanavette d’assalto riattato che un secolo prima la FORCE:spazio aveva privato dell’armamento, una quarantina di piccoli e veloci vedette orbitali da pattuglia, un esercito fisso di novantamila volontari, un rispettabile naviglio oceanico e una scorta di armi nucleari mantenuta a puro scopo simbolico.

Le stazioni di sorveglianza dell’Egemonia avevano rilevato la scia dei motori Hawking degli Ouster, ma l’avevano considerata un’altra migrazione di massa che non sarebbe passata a meno di mezzo anno-luce dal sistema bressiano. Invece, con una singola correzione di rotta che non fu rilevata finché lo sciame non fu all’interno della nube di Oòrt, gli Ouster piombarono su Bressia come una delle piaghe del Vecchio Testamento. Un minimo di sette mesi standard separava Bressia da ogni soccorso o reazione dell’Egemonia.

Nelle prime venti ore di combattimento, le forze spaziali di Bressia furono cancellate. Lo sciame di Ouster sistemò nello spazio cislunare bressiano più di tremila navi e iniziò a distruggere sistematicamente tutte le difese planetarie.

Il pianeta era stato colonizzato, nella prima ondata dell’Egira, da profughi dell’Europa centrale che senza molta fantasia avevano dato ai due continenti i nomi prosaici di Bressia Nord e Bressia Sud. Bressia Nord comprendeva deserti, tundre e sei città principali che ospitavano in gran parte raccoglitori di radici di lappola e tecnici petroliferi; Bressia Sud, grazie alla migliore configurazione geografica e al clima più temperato, ospitava la maggioranza dei quattrocento milioni di abitanti del pianeta e le smisurate piantagioni di caffè.

Quasi volessero dimostrare l’antica natura della guerra, gli Ouster ripulirono Bressia Nord… prima con varie centinaia di testate nucleari “pulite” e di bombe tattiche al plasma, poi con raggi della morte e infine con virus modificati. Solo una manciata dei quattordici milioni di residenti sfuggì alla distruzione. Bressia Sud non fu bombardato, ma furono distrutti obiettivi di specifico carattere militare, aeroporti e il grande porto marittimo di Solno.

Secondo la teoria della FORCE, dall’orbita di un pianeta era possibile effettuare la distruzione di un mondo industrializzato, ma non un’invasione militare vera e propria: le difficoltà connesse alla logistica degli atterraggi, l’immensa area da occupare, l’esagerato numero di soldati erano considerati argomenti definitivi contro un’invasione.

Chiaramente gli Ouster non avevano letto i manuali della FORCE. Nel ventitreesimo giorno dall’attacco, più di duemila navette e mezzi d’assalto scesero su Bressia Sud. I resti delle forze aeree bressiane furono annientati nelle prime ore dell’invasione. A dire il vero, i bressiani riuscirono a far esplodere contro le zone di parcheggio degli Ouster due ordigni nucleari, ma il primo fu respinto dai campi d’energia e il secondo distrusse una singola vedetta, probabilmente usata come esca.

Nel corso di tre secoli, si scoprì, fisicamente gli Ouster erano molto cambiati: si erano adattati agli ambienti a gravità zero. Ma gli esoscheletri elettronici della fanteria mobile funzionavano davvero bene e fu solo questione di giorni, prima che i soldati Ouster dagli arti anormalmente allungati, in divisa nera, sciamassero nelle città di Bressia Sud come un’invasione di ragni giganteschi.

Il diciannovesimo giorno crollò l’ultima resistenza organizzata. Buckminster, la capitale, cadde quel giorno stesso. L’ultimo messaggio astrotel di Bressia all’Egemonia s’interruppe a metà trasmissione, un’ora dopo l’ingresso degli Ouster nella città.


Il colonnello Fedmahn Kassad arrivò con la Flotta 1 della FORCE, ventinove settimane standard più tardi. Trenta navi-torcia, che scortavano una singola balzonave attrezzata di teleporter, entrarono ad alta velocità nel sistema planetario. Tre ore dopo, spento il sistema spin, fu attivata la sfera d’anomalia; al termine di altre dieci ore, nel sistema planetario erano presenti quattrocento navi della FORCE.

Questi furono i dati numerici dei primi minuti della battaglia di Bressia. Per Kassad, il ricordo di quei giorni non conteneva numeri, ma solo la terribile bellezza del combattimento. Era la prima volta che si impiegavano balzonavi in un’operazione militare al di sopra del livello divisione e c’era la confusione che ci si aspettava. Kassad si teleportò da cinque minuti-luce di distanza e cadde su una superficie coperta di ghiaia e polvere giallastra, perché il vano teleporter della navetta d’assalto dava su una ripida scarpata resa scivolosa dal fango e dal sangue dei primi plotoni. Disteso nella fanghiglia, guardò il folle spettacolo che si svolgeva lungo il pendio. Dieci delle diciassette navi d’assalto con teleporter erano state abbattute e bruciavano, disseminate fra le alture e le piantagioni come giocattoli rotti. I campi di contenimento delle navette superstiti si restringevano sotto un diluvio di missili e di fuoco che trasformava in cupole di fiamme arancione le zone d’atterraggio. Il display tattico di Kassad era una rovina: il visore mostrava un intrico d’impossibili vettori di fuoco, tremolanti fosfori rossi dove i soldati della FORCE giacevano privi di vita, sovrapposizioni di disturbi radio prodotti dagli Ouster. Qualcuno gridava: «Oh, maledizione! Maledizione! Oh, maledizione!» sul circuito primario e gli innesti registravano un vuoto dove avrebbero dovuto esserci i dati del Gruppo Comando.

Un soldato semplice aiutò Kassad a tirarsi in piedi. Kassad scrollò via il fango dal bastone di comando e si tolse dai piedi del plotone successivo che si materializzava attraverso il teleporter. La guerra continuò.

Fin dai primi minuti a Bressia Sud, Kassad capì che il Codice Neo-Bushido era morto. Ottantamila uomini della FORCE:terra, superbamente armati e addestrati, avanzarono dalle basi provvisorie e cercarono battaglia in una zona spopolata. Le forze degli Ouster si ritirarono dietro una linea di terra bruciata, lasciando solo trappole esplosive e cadaveri di civili. La FORCE usò i teleporter per superare in astuzia il nemico, per costringerlo a combattere. Gli Ouster risposero con uno sbarramento di armi nucleari e a plasma, intrappolando sotto campi di forza le truppe di fanteria, mentre i loro fanti si ritiravano per preparare difese intorno alle città e alle basi provvisorie delle navette.

Non ci furono rapide vittorie nello spazio a modificare l’equilibrio in Bressia Sud. Nonostante le finte e, a volte, qualche scontro feroce, gli Ouster mantennero il controllo completo di tutto, nel raggio di tre unità astronomiche da Bressia. I reparti della FORCE: spazio si ritirarono e si concentrarono nel mantenere la flotta a portata di teleporter e a difendere la balzonave primaria.

La prevista battaglia di due giorni ne durò trenta, poi sessanta. Le tattiche di guerra tornarono a essere quelle del Ventesimo o Ventunesimo secolo: lunghi e feroci scontri tra la polvere di mattone delle città e sopra i cadaveri dei civili. Agli originari ottantamila uomini della FORCE si aggiunse il rinforzo di altri centomila, che vennero a loro volta decimati quando altri duecentomila furono chiamati alle armi. Solo il fiero proposito di Meina Gladstone e di una decina d’altri senatori ben decisi mantenne viva la guerra e morenti le truppe, mentre miliardi di voci della Totalità e della Commissione di Consulenza IA chiedevano il disimpegno.

Kassad capì quasi subito il cambiamento di tattica. I suoi istinti di guerrigliero urbano erano tornati a galla ancora prima che gran parte della sua divisione fosse spazzata via nella battaglia di Stoneheap. Mentre gli altri comandanti della FORCE restavano quasi bloccati, indecisi per via della violazione del Codice Neo-Bushido, Kassad (al comando del suo reggimento e al comando temporaneo della divisione, dopo il bombardamento atomico del Gruppo Comando Delta) perdeva uomini per guadagnare tempo e chiedeva di usare le armi a fusione per favorire il contrattacco. Quando gli Ouster si ritirarono, novantasette giorni dopo che la FORCE “salvò” Bressia, Kassad si era guadagnato un nomignolo a doppio taglio: Macellaio di Bressia Sud. Correva voce che i suoi stessi soldati avessero terrore di lui.

E Kassad sognò lei, in sogni che erano qualcosa di più, e qualcosa di meno di sogni.

L’ultima notte della battaglia di Stoneheap, nel labirinto di tunnel tenebrosi in cui Kassad e i suoi gruppi di cacciatori-killer usavano armi soniche e gas T-5 per snidare i resti dei commando Ouster, il colonnello s’addormentò tra fiamme e grida e, nel sonno, sentì sulla guancia il tocco delle dita affusolate e sul petto la morbida pressione dei seni della sconosciuta.

La mattina dopo il bombardamento spaziale richiesto da Kassad, quando i soldati entrarono in Nuova Vienna seguendo i solchi lisci come il vetro e larghi venti metri che portavano nella città bombardata, Kassad aveva fissato senza battere ciglio le file di teste umane allineate sui marciapiedi, come a dare con il loro sguardo accusatore il benvenuto alle truppe di soccorso della FORCE. Kassad era tornato al suo VEM di comando e aveva chiuso i portelli; rannicchiato nella tiepida oscurità odorosa di gomma, di plastica surriscaldata e di ioni attivi, aveva sentito il mormorio di lei sopra la confusione dei canali C-3 e degli innesti di codifica.

La notte precedente la ritirata degli Ouster, Kassad lasciò la conferenza comando a bordo della AE Brazil, si teleportò al suo quartier generale fra i monti Indelebili a nord della valle Hyne e condusse sulla cima la vettura comando per assistere al bombardamento finale. L’atomica tattica più vicina cadde a quarantacinque chilometri da lui. Le bombe al plasma sbocciarono formando una griglia regolare di fiori arancione e rosso sangue. Kassad contò più di duecento colonne danzanti di luce verde, mentre le lance di frustalaser riducevano a brandelli il vasto altopiano. E anche prima d’addormentarsi, mentre se ne stava nel paravampa del VEM e si scuoteva dagli occhi le pallide postimmagini, lei arrivò. Indossava un abito celestino e camminava con passo lieve fra le morte piante di lappola, sul fianco della collina. La brezza sollevava l’orlo della stoffa leggera. Viso e braccia erano pallidi, quasi diafani. Lei lo chiamò per nome — Kassad quasi udì le parole — e poi la seconda ondata di bombardamenti rotolò nella piana più in basso e ogni cosa si perse nel frastuono e nelle fiammate.


Come spesso accade in un universo che sembra regolato dall’ironia, Fedmahn Kassad superò senza un graffio i novantasette giorni della guerra più sanguinosa che l’Egemonia avesse mai visto, per essere ferito due giorni dopo che gli ultimi Ouster si erano ritirati nelle navi-sciame in fuga. Si trovava nel palazzo del Centro Civico di Buckminster, uno dei tre edifici ancora in piedi, e stava rispondendo seccamente alle sciocche domande di un robocronista della Rete dei Mondi, quando una trappola esplosiva al plasma, poco più grande d’un microinterruttore, esplose quindici piani più su, scagliò in strada da una griglia d’areazione il giornalista e due aiutanti militari e seppellì lui sotto le macerie.

Kassad fu ricoverato nell’infermeria del quartier generale e poi teleportato nella balzonave in orbita intorno alla seconda luna di Bressia. Qui fu resuscitato e messo nell’apparecchiatura di ripristino totale, mentre i pezzi grossi militari e i politici dell’Egemonia decidevano quali provvedimenti prendere nei suoi confronti.

A causa del collegamento teleporter e dei servizi giornalistici in tempo reale, il colonnello Fedmahn Kassad divenne una sorta di cause célèbre. Chi era rimasto atterrito per la ferocia senza precedenti della campagna di Bressia Sud, sarebbe stato contento di vederlo davanti alla corte marziale e saperlo sotto processo per crimini di guerra. Ma il PFE Gladstone e molti altri ritenevano invece di dovere la salvezza a Kassad e agli altri comandanti della FORCE.

Alla fine, Kassad fu preso a bordo di una spin-nave ospedale per il lento ritorno nella Rete. Dal momento che la maggior parte delle cure fisiche sarebbe comunque avvenuta in crio-fuga, era sensato lasciare che le antiquate navi ospedale badassero ai feriti gravi e ai morti risuscitabili. Quando Kassad e gli altri pazienti avessero raggiunto i mondi della Rete, sarebbero stati pronti per riprendere il servizio attivo. Fatto ancora più importante, Kassad avrebbe accumulato un debito temporale di almeno diciotto mesi standard: a quel punto, era facile che eventuali controversie su di lui fossero già finite nel dimenticatoio.


Kassad si svegliò e scorse la sagoma scura di una donna china su di lui. Per un secondo fu sicuro che si trattasse di lei, ma poi si rese conto che era un medico della FORCE.

«Sono morto?» mormorò Kassad.

«Lo era» rispose la dottoressa. «Ora è a bordo della AE Merrick. È stato sottoposto alcune volte ai procedimenti di risurrezione e di rinnovamento fisiologico, ma di sicuro non se ne ricorda, per via dei postumi della crio-fuga. Siamo pronti a iniziare il prossimo passo di fisioterapia. Se la sente di provare a camminare?»

Kassad alzò il braccio e si coprì gli occhi. Anche se era ancora disorientato per il periodo in crio-fuga, ora ricordava le dolorose sedute terapeutiche, le lunghe ore nei bagni virali RNA, le operazioni chirurgiche. Soprattutto le operazioni. «Quale rotta seguiamo?» chiese, continuando a schermarsi gli occhi. «Non ricordo come torniamo alla Rete.»

La dottoressa sorrise, come se lui le avesse rivolto quella stessa domanda ogni volta che riemergeva dalla crio-fuga. E forse era davvero così. «Faremo scalo su Hyperion e su Garden» rispose la donna. «In questo momento entriamo nell’orbita di…»

Fu interrotta dal frastuono della fine del mondo: squilli di grandi trombe d’ottone, clangori di metallo, grida delle furie. Kassad rotolò giù dal letto e si avvolse nel materasso, mentre cadeva in gravità 1,6 g. Turbini d’uragano lo scagliarono attraverso il ponte e lo colpirono con brocche, vassoi, lenzuola, libri, corpi umani, strumenti metallici e un numero incalcolabile d’oggetti disparati. Uomini e donne urlavano, con voci che diventavano stridule mentre l’aria fuggiva dal reparto. Kassad sentì che il materasso sbatteva contro la parete e guardò fra le dita strette a pugno.

A un metro da lui, un ragno grosso quanto un pallone da calcio muoveva pazzamente le zampe e cercava d’infilarsi a forza nello squarcio comparso all’improvviso nella paratia. Le zampe filiformi sembravano dare colpi di scacciamosche ai fogli e ai detriti che roteavano intorno. Il ragno girò su se stesso e Kassad si rese conto che si trattava di una testa umana: quella della dottoressa, decapitata nell’esplosione iniziale. I lunghi capelli si protesero verso il viso di Kassad. Poi lo sguarcio si allargò fino alla grossezza d’un pugno, la testa lo attraversò e scomparve.

Kassad si tirò in piedi proprio quando il braccio della nave smise di ruotare e l’alto cessò d’esistere. Adesso erano in gioco solo i venti d’uragano che scagliavano verso le fessure e gli squarci della paratia ogni oggetto del reparto, e gli sbandamenti della nave che davano la nausea. Kassad nuotò contro corrente e si tirò verso la porta del corridoio del braccio, sfruttando ogni appiglio che gli riusciva di trovare e dandosi una spinta a colpi di tallone per superare gli ultimi cinque metri. Un vassoio di metallo lo colpì sopra l’occhio; un cadavere con gli occhi iniettati di sangue rischiò di farlo rotolare di nuovo nel reparto medico. I battenti della porta stagna d’emergenza sbattevano inutilmente contro il corpo privo di vita d’un marine in tuta spaziale che ne impediva la chiusura. Kassad rotolò nel pozzo del braccio e si tirò dietro il cadavere del marine. La porta si chiuse, ma anche il pozzo era privo d’aria come il padiglione medico. Da qualche parte, il gemito di una sirena diventò tanto acuto da passare negli ultrasuoni.

Anche Kassad emise un gemito intenso, nel tentativo di alleviare la pressione in modo che timpani e polmoni non scoppiassero. Il braccio della nave perdeva ancora aria: Kassad e il cadavere del marine furono risucchiati per i centotrenta metri che portavano nel corpo principale del veicolo spaziale: a furia di piroette, in un macabro balletto, risalirono il pozzo.

Kassad impiegò venti secondi per aprire i ganci d’emergenza della tuta del marine e un altro minuto per tirar fuori il cadavere e prenderne il posto. Era di almeno dieci centimetri più alto del morto e, anche se la tuta era progettata in modo da avere una certa elasticità, lo stringeva dolorosamente al collo, ai polsi e alle ginocchia. Il casco gli serrava la fronte come una morsa imbottita. Goccioline di sangue e di un materiale biancastro e umido macchiavano l’interno del visore. La scheggia di shrapnel che aveva ucciso il marine aveva lasciato il foro d’entrata e d’uscita, ma la tuta aveva provveduto per quanto possibile ad autosigillarsi. Gran parte delle spie luminose pettorali erano rosse; la tuta non rispose, quando Kassad chiese un rapporto situazionale, ma il respiratore funzionava, anche se con uno stridio preoccupante.

Kassad provò la radio incorporata. Non ricevette niente, nemmeno disturbi di statica. Trovò il collegamento del comlog, lo infilò in una presa dello scafo. Niente. A quel punto la nave sbandò ancora, mentre il metallo echeggiava di colpi in successione, e lui finì contro la parete del pozzo. Una gabbia di vettura gli rotolò vicino: i cavi spezzati frustavano il vuoto come i tentacoli di un anemone marino infuriato. Nella gabbia c’erano alcuni cadaveri; altri erano impigliati lungo i segmenti della scala a chiocciola ancora intatta della parete del pozzo. A colpi di tallone Kassad percorse la distanza che lo separava dal fondo del pozzo: scoprì che le porte stagne erano chiuse e che il braccio era bloccato, ma nella paratia primaria c’erano squarci tanto larghi da far passare un VEM commerciale.

La nave sbandò di nuovo e cominciò a ruzzolare pazzamente, imprimendo su Kassad e su ogni altro oggetto nuove e complesse forze di Coriolis. Kassad si aggrappò a uno spuntone metallico e s’infilò in uno squarcio dello scafo triplo della AE Merrick.

Scoppiò quasi a ridere, quando vide l’interno. Chiunque avesse colpito la vecchia nave ospedale, lo aveva fatto nel modo giusto, tagliando e perforando con i CPB lo scafo finché i sigilli di pressione avevano ceduto, le unità autosigillanti si erano guastate, i telecomandi di riparazione danni si erano sovraccaricati, le paratie interne erano crollate. Poi la nave nemica aveva lanciato nelle viscere dello scafo missili con quel tipo di testata che la gente della FORCE:spazio chiamava pittorescamente “a mitraglia”. Il risultato era stato molto simile a quello dell’esplosione di una granata antiuomo in un affollato labirinto di topi.

Da un migliaio di fori entrava della luce che si trasformava qua e là in raggi colorati, dove trovava una base colloidale nella nebbiolina di polvere, di sangue, d’olio lubrificante. Dal punto a cui era aggrappato, seguendo le sbandate e i capitomboli della nave, Kassad scorgeva una ventina di corpi nudi e maciullati, ciascuno dei quali si muoveva con l’ingannevole grazia da balletto sottomarino dei morti a gravità zero. Gran parte dei cadaveri fluttuava all’interno del proprio sistema solare di sangue e di brandelli di carne. Alcune vittime fissavano Kassad con uno sguardo da personaggi di cartone animato, dovuto agli occhi dilatati dalla decompressione: sembravano invitarlo ad accostarsi con languidi e casuali movimenti delle braccia e delle mani.

Sempre a colpi di tallone, Kassad attraversò le macerie per raggiungere il pozzo principale che portava al nucleo di comando. Non aveva visto armi (sembrava che nessuno, a parte il marine, fosse riuscito a indossare la tuta), ma sapeva che c’era una piccola armeria nel nucleo di comando o negli alloggiamenti dei marine, a poppa.

Si fermò all’ultima porta stagna divelta e rimase a guardare. Questa volta scoppiò a ridere. Da lì in avanti non c’era né pozzo principale, né sezione poppiera: non c’era più nave e basta. Quella sezione (un modulo a braccio con un padiglione medico, frammento rovinato dello scafo) era stato strappato dal corpo della nave con la stessa facilità con cui Beowulf aveva strappato il braccio a Grendel. L’ultima porta del pozzo, divelta, dava sullo spazio aperto. A qualche chilometro di distanza si vedevano decine di parti rovinate della AE Merrick che ruzzolavano nel bagliore ardente del sole. Un pianeta verde e azzurro incombeva a così breve distanza che Kassad ebbe un attacco d’acrofobia e si aggrappò con forza maggiore all’intelaiatura della porta. In quel momento, una stella si mosse sopra il limbo del pianeta: le armi laser palpitarono del loro morse color rubino e una sezione sventrata di nave, a mezzo chilometro di distanza nell’abisso vuoto dello spazio, scoppiò di nuovo in schizzi di metallo vaporizzato, di materie volatili congelate, di neri puntini roteanti che erano corpi umani.

Kassad si ritirò al riparo dell’intrico di relitti e meditò sulla situazione. La tuta del marine non sarebbe durata più di un’altra ora (già si sentiva il puzzo di uova marce dovuto al cattivo funzionamento del riciclo-respiratore) e durante il faticoso tragitto fra i rottami non aveva visto compartimenti o contenitori a tenuta stagna. Ma se anche avesse trovato uno stanzino o una camera stagna in cui rifugiarsi, cos’avrebbe fatto? Non sapeva se il pianeta sotto di lui fosse Hyperion o Garden, ma era sicuro che la FORCE non era presente su nessuno di quei due mondi. E che le difese locali non avrebbero sfidato una nave da guerra Ouster. Sarebbero trascorsi giorni interi, prima che una pattuglia venisse a indagare sul disastro. Era molto probabile che, prima dell’arrivo di una squadra di controllo, l’orbita del traballante pezzo d’immondizia nel quale lui ora si trovava decadesse, e che migliaia di tonnellate di metallo contorto precipitassero bruciando nell’atmosfera. Ai locali non sarebbe piaciuto; ma, dal loro punto di vista, forse era preferibile che cadesse un pezzetto di cielo, anziché affrontare gli Ouster. Se il pianeta possedeva primitive difese orbitali o missili CPB con base a terra, pensò Kassad con un sorriso torvo, i suoi abitanti avrebbero fatto meglio a far saltare in aria il relitto, anziché aprire il fuoco contro la nave degli Ouster.

Per lui non avrebbe fatto differenza. Se non avesse escogitato in fretta qualcosa, sarebbe stato morto da tempo, prima che i resti della nave medica entrassero nell’atmosfera o che i locali intervenissero.

Lo shrapnel aveva crepato lo schermo amplificatore del marine, ma Kassad calò sul visore i resti della piastra display. Le spie brillavano di luce rossa, ma la tuta aveva ancora energia sufficiente a mostrare tra la ragnatela di crepe il chiaro bagliore verdastro della vista amplificata. Kassad guardò la nave-torcia degli Ouster, ferma a un centinaio di chilometri, con gli schermi difensivi che rendevano confuse le stelle sullo sfondo, lanciare alcuni oggetti. Per un istante fu sicuro che fossero missili per il colpo di grazia, e sogghignò amaramente al pensiero d’avere solo alcuni secondi di vita. Poi notò che gli oggetti avanzavano a bassa velocità e aumentò di qualche tacca il grado d’amplificazione. Le luci spia diventarono rosse e l’amplificatore cessò di funzionare, ma Kassad aveva avuto il tempo di notare le affusolate sagome ovoidali, chiazzate di propulsori a reazione e di abitacoli a torretta, che si trascinavano dietro una coda di sei bracci snodati di manipolazione: le “seppie”, come la FORCE:spazio chiamava il naviglio d’assalto degli Ouster.

Kassad si ritirò maggiormente al riparo nel relitto. Aveva ancora qualche minuto, prima che una o più seppie raggiungessero la sezione di nave su cui si trovava. Quanti Ouster portava, una di quelle seppie? Dieci? Venti? Kassad era sicuro che non fossero meno di dieci. Ben armati e provvisti di rivelatori di calore corporeo e di eventuali movimenti. L’equivalente elitario Ouster dei Marine Spaziali dell’Egemonia: commando non solo addestrati a combattere in caduta libera, ma nati e cresciuti in ambienti a gravità zero. Gli arti allungati, i piedi prensili e la coda protesica conferivano loro altri vantaggi in quell’ambiente, anche se, secondo lui, di assi nella manica in quel momento ne avevano già a sufficienza.

Iniziò a ritirarsi con cautela nel labirinto di metallo contorto, cercando di dominare l’afflusso di adrenalina provocato dalla paura, che lo spingeva a fuggire gridando nel buio. “Che cosa volevano?” Prigionieri. Questo avrebbe risolto il problema immediato: per sopravvivere bastava arrendersi. C’era un’unica difficoltà: Kassad aveva visto le olografie della FORCE:informazioni riguardanti la nave Ouster catturata intorno a Bressia. L’area di magazzinaggio della nave aveva ospitato più di duecento prigionieri. E gli Ouster avevano ovviamente molte domande da porre, ai cittadini dell’Egemonia. Forse avevano trovato scomodo nutrire e tenere sotto custodia tante persone, o forse era quella la loro normale politica per gli interrogatori; fatto sta che i prigionieri, civili bressiani e militari della FORCE, erano stati scorticati e fissati a lastre d’acciaio, come rane in un laboratorio di biologia, con gli organi a bagno in liquidi nutritivi, le braccia e le gambe efficientemente amputate, gli occhi rimossi, il cervello pronto per le domande grazie a rozze sonde corticali computerizzate e a spinotti di derivazione infilati in fori di tre centimetri praticati nel cranio.

Kassad continuò a ritirarsi, galleggiando fra i detriti e l’intrico di cablaggi della nave. Non aveva la minima voglia d’arrendersi. Lo scafo traballante vibrò, poi si stabilizzò, quando almeno una seppia si agganciò alle paratie. “Pensa” ordinò Kassad a se stesso. Gli serviva un’arma, più che un nascondiglio. Mentre strisciava fra i detriti, aveva visto qualcosa che potesse aiutarlo a sopravvivere?

Smise di muoversi e si aggrappò a un tratto scoperto di cavo a fibre ottiche, per riflettere. Il padiglione medico in cui si era svegliato. Letti, serbatoi per crio-fuga, strumenti per cure intensive erano quasi tutti fuoriusciti dagli squarci nello scafo del modulo spin. Pozzo del braccio, gabbia d’ascensore, cadaveri sulla scala a chiocciola. Niente armi. L’esplosione delle mitragliatrici o l’improvvisa decompressione avevano spogliato completamente gran parte dei cadaveri. I cavi dell’ascensore? No, troppo lunghi, impossibili da tagliare senza utensili. Utensili? Non ne aveva visti. Gli uffici medici sventrati lungo i corridoi più in là del pozzo principale. Sale per esami medici, vasche MRI e scomparti CPD spalancati come sarcofagi saccheggiati. Almeno una sala operatoria intatta, ma ridotta a un labirinto di strumenti sparpagliati e di cavi galleggianti. Il solarium, svuotato completamente dall’esplosione delle vetrate. Salette per i pazienti. Salette per i medici. Locali per il lavaggio antisettico, corridoi, stanzini d’uso non identificabile. I cadaveri.

Kassad rimase lì ancora un secondo, si orientò nel traballante labirinto di luci e ombre, poi con un colpo di tallone si diede la spinta.

Sperava d’avere dieci minuti di tempo: gliene furono concessi otto. Sapeva che gli Ouster erano metodici ed efficienti, ma aveva sottovalutato con quanta efficienza si muovevano in ambienti a gravità zero. Si giocò la vita sull’ipotesi che ogni squadra d’ispezione comprendesse almeno due individui… procedura tipica dei marine spaziali, analoga a quella delle teste di cuoio della FORCE: terra che nella guerriglia urbana andavano di porta in porta: uno entrava di sorpresa e l’altro forniva il fuoco di copertura. Se gli Ouster erano più di due, se per esempio operavano in squadre di quattro, Kassad poteva considerarsi spacciato.

Galleggiava a mezz’aria, nel centro della Sala Operatoria 3, quando l’Ouster si precipitò dentro. Il riciclo-respiratore si era quasi esaurito e Kassad boccheggiava nell’aria viziata: il commando Ouster entrò, balzò di lato e puntò le armi sulla figura disarmata nella malconcia tuta da marine.

Kassad aveva immaginato che l’aspetto orribile della tuta e del visore gli avrebbe fatto guadagnare un secondo, forse due. Dietro la piastra macchiata di sangue i suoi occhi rimasero fissi verso l’alto, mentre la luce pettorale dell’Ouster lo illuminava. Il commando aveva due armi: in mano, uno storditore sonico e, fra le lunghe dita del “piede” sinistro, una pistola a raggio ristretto molto più letale. Alzò lo storditore. Kassad ebbe il tempo di notare la micidiale punta della coda protesica, poi azionò il mouse del guanto destro.

Aveva impiegato gran parte degli otto minuti a collegare ai circuiti della sala operatoria il generatore d’emergenza. Non tutti i laser chirurgici erano rimasti intatti, ma sei funzionavano ancora. Aveva sistemato i quattro più piccoli in modo da coprire l’area subito a sinistra del vano della porta e aveva puntato contro lo spazio a destra i due laser per tagliare le ossa. L’Ouster era andato a destra.

La tuta dell’Ouster esplose. I laser continuarono a tagliare secondo il movimento rotatorio programmato, mentre Kassad si dava una spinta in avanti e si chinava sotto i raggi azzurri che ora roteavano in una nebbiolina sempre più larga d’inutile sigillante per tuta e di sangue ribollente. Strappò al cadavere lo storditore sonico appena un attimo prima che il secondo Ouster entrasse nella sala, agile come una scimmia della Vecchia Terra.

Kassad premette contro il casco dell’uomo lo storditore e sparò. La figura in tuta si accasciò, inerte. La coda protesica si agitò un paio di volte, mossa da impulsi nervosi casuali. Azionare lo storditore a così breve distanza non era il modo migliore per prendere prigionieri: la scarica riduceva il cervello umano a qualcosa di simile a una poltiglia di farina d’avena. Ma Kassad non voleva prendere prigionieri.

Si liberò dell’avversario, si afferrò a una trave maestra e sventagliò con una scarica sonica il vano della porta. Nessun altro entrò. Venti secondi dopo, un controllo gli disse che il corridoio era vuoto.

Kassad ignorò il primo cadavere e denudò il secondo, quello con la tuta intatta. Sotto, il commando non indossava niente: risultò che non era un uomo, ma una donna coi capelli biondi tagliati corti, i seni piccoli, un tatuaggio appena più in alto dei peli pubici. Era molto pallida; intorno al viso galleggiavano goccioline di sangue uscito dal naso, dalle orecchie, dagli occhi. Kassad prese un appunto mentale: gli Ouster impiegavano anche le donne, nei marine. Su Bressia, tutti i cadaveri erano stati di Ouster maschi.

Tenne il casco e il respiratore, allontanò con un calcio il cadavere e indossò la tuta poco familiare. L’esposizione al vuoto gli fece esplodere alcuni vasi sanguigni a fior di pelle. Kassad fu attanagliato da un gelo intenso, mentre cercava di aprire ganci e chiusure insolite. Alto com’era, era comunque troppo basso per la tuta della donna. Tirandoli, poteva far funzionare i guanti per le mani, ma quelli per i piedi e le connessioni caudali erano inutilizzabili. Li lasciò perdere, e si tolse il casco per infilarsi a fatica quello della donna Ouster.

Le luci del diskey intorno al collo brillarono d’ambra e di viola. Kassad sentì l’aria precipitarsi nei timpani doloranti e quasi soffocò, quando fu assalito da un puzzo intenso e greve. Immaginò che per un Ouster fosse il dolce profumo di casa. Le chiazze auricolari del casco mormorarono comandi in codice, in una lingua che sembrava un nastro audio d’Inglese Antico fatto andare a rovescio e ad alta velocità. Kassad giocava di nuovo d’azzardo, puntando stavolta sul fatto che su Bressia le unità a terra degli Ouster agivano come squadre semi-autonome, collegate tramite radio vocali e semplici apparecchiature per la trasmissione dati, anziché mediante una rete tattica impiantata come avveniva per la FORCE:terra. Se lì si comportavano allo stesso modo, allora forse il capo del commando sapeva già che due dei suoi, o delle sue, mancavano; forse aveva anche a disposizione i dati medici dei due, ma non sapeva esattamente dove si trovavano.

Kassad decise che era il momento di lasciar perdere le ipotesi e darsi da fare. Programmò il mouse in modo che i laser chirurgici colpissero qualsiasi cosa entrasse nella sala operatoria; poi percorse il corridoio, a urti e spinte. Muoversi dentro una di quelle maledette tute, pensò, era come camminare in un campo gravitazionale pestandosi i calzoni. Aveva preso con sé tutt’e due le pistole a energia e, non trovando una cintura, né anelli, ganci, cuscinetti velcro, giberne o tasche dove tenerli, procedeva galleggiando come un pirata ubriaco uscito da un film tri-di, un’arma per mano, rimbalzando da parete a parete. Di malavoglia, si lasciò alle spalle una pistola per avanzare agganciandosi almeno con una mano. La maledetta coda dondolava, sbatteva contro l’elmetto a bolla e gli tormentava le natiche.

Due volte Kassad si rannicchiò al riparo, scorgendo alcune luci lontane. Ora si trovava proprio sopra l’apertura del ponte da dove aveva osservato l’arrivo della seppia; girò l’angolo e andò quasi a sbattere contro tre commando Ouster.

Il fatto d’indossare una tuta spaziale identica alla loro gli diede almeno due secondi di vantaggio. Sparò a bruciapelo al primo e lo colpì al casco. Il secondo — o la seconda — rispose con una scarica sonica a casaccio che passò sopra la spalla sinistra di Kassad, un attimo prima che quest’ultimo lo centrasse con tre colpi alla piastra toracica. Il terzo commando agitò le braccia per muoversi a ritroso, trovò tre appigli per i piedi e scomparve dietro una paratia squarciata prima che Kassad potesse prenderlo di mira. Nel casco di Kassad risuonarono imprecazioni, ordini, domande. Kassad inseguì in silenzio l’Ouster.

Il commando si sarebbe salvato, se non avesse ricordato dell’onore e non si fosse girato per combattere. Kassad provò un inesplicabile senso di déjà vu, quando da cinque metri lo centrò con una scarica all’occhio sinistro.

Il cadavere rotolò all’indietro nella luce del sole. Kassad si tirò fino all’apertura e guardò la seppia attraccare a meno di venti metri. Era, si disse, il primo vero colpo di fortuna degli ultimi tempi.

Con una spinta di talloni superò il varco, sapendo di non poter fare niente, se qualcuno, dalla seppia o dal relitto, intendeva sparargli. Provò quel raggrinzimento dello scroto che provava sempre quando era un chiaro bersaglio. Ma non sentì colpi. Ordini e domande gli risuonarono nelle orecchie. Kassad non capiva, non sapeva da dove provenivano e, tutto sommato, riteneva fosse meglio non partecipare alla conversazione.

Per la difficoltà a usare la tuta, a momenti fallì l’aggancio con la seppia. Per un attimo pensò che una fine così stupida, proprio nel momento culminante, sarebbe stata l’opportuno verdetto dell’universo sulle sue pretese marziali: l’eroico guerriero che galleggiava via lungo un’orbita planetaria, senza apparecchiature di manovra, senza propellente, senza massa di reazione di qualsiasi genere… perfino la pistola era del tipo senza rinculo. Avrebbe terminato di vivere, con la stessa inutilità e innocuità d’un palloncino sfuggito a un bimbo.

Kassad si allungò fin quasi a slogarsi le giunture, afferrò un’antenna e si tirò, una mano dopo l’altra, fino allo scafo della seppia.

Dove diavolo era il portello? Per essere lo scafo di un veicolo spaziale, era relativamente liscio, ma decorato con una quantità di disegni, decalcomanie e pannelli che proclamavano quello che Kassad presumeva fosse l’equivalente Ouster di: INGRESSO VIETATO e PERICOLO: PORTELLO DI PROPULSORE. Non si vedevano aperture. Immaginò che a bordo ci fossero degli Ouster, un pilota almeno, e che si chiedessero perché il loro commando di ritorno strisciasse intorno allo scafo, come un granchio con lo spavenio, anziché dirigersi al portello della camera di decompressione. Ma forse sapevano il vero motivo e lo aspettavano a pistole sguainate. Comunque, era chiaro che nessuno gli avrebbe aperto il portello.

“Al diavolo” si disse Kassad. Sparò contro una torretta d’osservazione.

Gli Ouster avevano una nave ordinata. Dallo squarcio, con l’aria della nave, fuoruscì poco più dell’equivalente di una manciata di fermagli smarriti e di monetine. Kassad aspettò che il getto si esaurisse, poi s’infilò nel varco.

Si trovò nella sezione adibita al trasporto truppe: un locale imbottito assai simile a quelli dei reparti assaltatori delle navette o dei veicoli corazzati di trasporto. Kassad prese l’appunto mentale che una seppia conteneva probabilmente una ventina di commando Ouster in tenuta da combattimento nello spazio. In quel momento era vuota. Un portello aperto immetteva nella cabina di pilotaggio.

A bordo era rimasto solo il pilota: stava concludendo le operazioni di sganciamento, quando Kassad gli sparò. Kassad spinse nella sezione trasporto truppe il cadavere e si agganciò in quella che si augurò fosse la poltroncina di guida.

Dalla torretta gli arrivò la tiepida luce del sole. Monitor video e console olografiche mostravano inquadrature riprese da prua, da poppa, e dalle telecamere a spalla dei commando impegnati nella perquisizione del relitto. Kassad ebbe una rapida visione del cadavere nudo nella Sala Operatoria 3 e di alcune sagome impegnate in uno scambio a fuoco contro i laser chirurgici.

Nei film tri-di che Fedmahn Kassad guardava da bambino sembrava che, in caso di bisogno, l’eroe sapesse sempre come guidare skimmer, veicoli spaziali, esotici VEM e altre macchine bizzarre. Kassad era stato addestrato a cavarsela con automezzi militari, carri armati di modello semplice e veicoli corazzati per il trasporto truppe, nonché, in casi limite, con mezzi d’assalto e navette. Se, per quanto remota fosse la possibilità, si fosse trovato su un veicolo spaziale della FORCE impazzito, sarebbe riuscito a mettere le mani nel nucleo di comando quanto bastava a comunicare con il computer primario o a inviare una chiamata di soccorso via radio o astrotel. Legato al sedile di guida di una seppia Ouster, Kassad non aveva il minimo indizio.

Non proprio: riconobbe subito le feritoie per i tentacoli di manipolazione della seppia; se avesse avuto un paio d’ore per riflettere e fare prove, forse sarebbe riuscito a capire l’uso di altri comandi. Ma il tempo gli mancava. Lo schermo di prua mostrava tre sagome in tuta che spiccavano il balzo verso la seppia, sparando. La testa pallida e bizzarramente aliena d’un commando Ouster si materializzò all’improvviso sulla console olografica. Negli auricolari del casco risuonarono delle grida.

Kassad aveva davanti agli occhi goccioline di sudore che rigavano l’interno del casco. Le scrollò via meglio che poteva, fissò i quadri di comando, premette alcuni pulsanti che sembravano attendibili. Se c’erano circuiti azionati a voce, comandi con precedenza o un computer di bordo sospettoso, era fregato. Ci aveva anche pensato, un secondo prima di sparare al pilota; ma non aveva modo di costringere il nemico a guidare la seppia per lui, né poteva fidarsi. No, doveva cavarsela così, pensò Kassad, e continuò a premere pulsanti.

Un propulsore sputò delle fiamme.

La seppia tirò e strappò gli attracchi. Kassad rimbalzò qua e là nella rete di protezione. «Merda» mormorò: era la prima parola che diceva da quando aveva chiesto alla dottoressa della FORCE dov’era diretta la nave. Si allungò quanto bastava a infilare le dita guantate nelle feritoie di presa. Quattro dei sei manipolatori si sganciarono. Uno si spezzò. L’ultimo staccò alla AE Merrick un pezzo di paratia.

La seppia si sganciò. Le videocamere mostrarono che due delle tre figure in tuta avevano sbagliato il balzo, mentre la terza si era aggrappata alla stessa antenna che aveva salvato Kassad. Sapendo ormai grosso modo dov’erano i comandi del propulsore, Kassad lo azionò freneticamente. Si accese la luce generale. Tutti gli oloproiettori si spensero. La seppia iniziò una manovra che comprendeva tutte le versioni più violente della sbandata, del rullio e dell’imbardata. Kassad vide la figura in tuta rotolare al di là della torretta superiore, comparire brevemente sullo schermo di prua e trasformarsi in un puntino luminoso su quello di poppa. Quando fu troppo piccolo per essere visibile, l’Ouster, lui o lei che fosse, lanciava ancora scariche d’energia.

Kassad lottò per non perdere conoscenza, mentre il violento rollio continuava. Diversi allarmi vocali e visivi richiedevano la sua attenzione. Premette i comandi del propulsore, lo considerò un successo e, quando si sentì tirare in due sole direzioni anziché in cinque, tolse le mani.

Un’inquadratura casuale gli mostrò che la nave-torcia s’allontanava. Bene. Kassad non aveva dubbi che la nave da guerra Ouster potesse distruggerlo da un momento all’altro e che l’avrebbe fatto, se lui si fosse avvicinato o l’avesse minacciata. Non sapeva se la seppia fosse armata, personalmente non credeva che portasse qualcosa di più grosso di armi personali, ma sapeva al di là di ogni dubbio che nessun comandante di nave-torcia avrebbe permesso a una navetta impazzita di avvicinarsi. Kassad immaginò che ormai tutti gli Ouster sapessero che la seppia era caduta in mano al nemico. Non sarebbe rimasto sorpreso — deluso sì, ma non sorpreso — se da un istante all’altro la nave-torcia lo avesse vaporizzato; ma faceva assegnamento su due emozioni eminentemente umane, se non proprio Ouster: la curiosità e il desiderio di vendetta.

Nei momenti di tensione era facile mettere da parte la curiosità; ma una società militaristica e quasi feudale come quella degli Ouster non poteva trascurare la vendetta. A parità di condizioni, senza alcuna possibilità di far danno agli Ouster e quasi nessuna di fuggire, sembrava proprio che il colonnello Fedmahn Kassad fosse diventato un candidato di prima scelta per una delle loro vasche di dissezione. Lui se lo augurava.

Guardò lo schermo di prua, corrugò la fronte e allentò la bardatura quanto bastava a guardare dalla torretta superiore. La nave traballava, ma con minor violenza. Il pianeta sembrava più vicino — un emisfero riempiva lo schermo “sopra” di lui — ma Kassad non aveva la minima idea di quanto la seppia fosse vicina all’atmosfera. Non capiva i dati degli schermi. Poteva solo intuire quale fosse stata la velocità orbitale e quanto sarebbe stato violento l’urto di rientro nell’atmosfera. L’unica, lunga occhiata dal relitto della Merrick gli aveva dato l’impressione che la nave fosse molto vicina al pianeta, forse a soli cinquecento chilometri dalla superficie, in quel tipo d’orbita di parcheggio che precede il lancio delle navette.

Kassad cercò di asciugarsi il viso e corrugò la fronte, quando le grosse dita guantate toccarono il visore. Era stanco. Diavolo, solo qualche ora prima era ancora in crio-fuga e, poche settimane-nave prima, clinicamente morto.

Si domandò se quel pianeta era Hyperion oppure Garden; non era stato su nessuno dei due, ma sapeva che Garden era più colonizzato e prossimo a diventare una colonia dell’Egemonia. Si augurò che fosse Garden.

La nave-torcia lanciò tre scialuppe d’assalto. Kassad le vide chiaramente, prima che la telecamera poppiera fosse fuori portata. Premette i comandi del propulsore finché non gli sembrò che il veicolo corresse più in fretta verso il muro che il pianeta formava sopra di lui. Non poteva fare nient’altro.


La seppia entrò nell’atmosfera prima di essere raggiunta dalle tre navette d’assalto. Indubbiamente le navette erano armate e a portata di tiro; ma di sicuro qualcuno, nel circuito di comando, era curioso. O furibondo.

La seppia era tutt’altro che aerodinamica. Come nel caso dei veicoli spaziali nave-nave, poteva entrare negli strati superiori dell’atmosfera, ma se si inoltrava troppo nel pozzo gravitazionale planetario, era condannata. La spia del rientro diventò rossa, gli ioni accrebbero le scariche nei canali radio accesi… e all’improvviso Kassad si domandò se la sua idea fosse furba davvero.

L’attrito atmosferico stabilizzò la seppia. Kassad sentì la prima, esitante attrazione della forza di gravità, mentre esplorava la console e i braccioli di comando in cerca del circuito di controllo augurandosi che fosse nella solita posizione. Uno schermo pieno di statiche gli mostrò che a una navetta era spuntata una coda di plasma azzurrino, dovuta alla decelerazione. L’illusione fu simile a quella che ha un paracadutista quando guarda un collega aprire il paracadute o attivare il meccanismo di sospensione: tutt’a un tratto la navetta d’assalto sembrò arrampicarsi nel cielo.

Kassad aveva ben altro a cui pensare. Nella seppia, a quanto pareva, non c’erano comandi per il lancio col paracadute, né meccanismi di espulsione. Ogni navetta della FORCE:spazio era dotata di una sorta di apparecchiatura per l’uscita nell’atmosfera… un’usanza vecchia di almeno otto secoli, dell’epoca in cui il volo spaziale consisteva in semplici escursioni sperimentali appena al di là dell’atmosfera della Vecchia Terra. Era piuttosto raro che uno shuttle nave-nave avesse bisogno d’un meccanismo d’espulsione; ma paure vecchie di secoli, scritte in antichi regolamenti, erano dure a morire.

Così almeno diceva la teoria. Kassad non trovò niente. La navetta adesso vibrava, ruotava, cominciava a scaldarsi seriamente. Kassad si sganciò dalla poltroncina comando e si diresse nel retro della seppia. Non sapeva neppure lui che cosa cercava. Un’attrezzatura di sospensione? Un paracadute? Un paio d’ali?

Nella sezione trasporto truppe c’erano solo il cadavere del pilota e alcuni scomparti di deposito poco più grandi di cestini da viaggio. Kassad li frugò, ma non trovò niente di più grande di un medikit. Nessuna apparecchiatura miracolosa.

Sentiva già le vibrazioni della seppia e le prime avvisaglie della disintegrazione; si aggrappò a un anello imperniato e si vide costretto ad accettare il fatto che, per le loro seppie, gli Ouster non sprecavano soldi e spazio in attrezzature per salvataggi a bassa probabilità. Perché avrebbero dovuto? Gli Ouster trascorrevano la vita nelle tenebre fra i sistemi stellari; il loro concetto d’atmosfera era il tubo pressurizzato di otto chilometri che costituiva una città-bidone. Gli audiosensori esterni del casco iniziarono a raccogliere il sibilo rabbioso dell’aria che entrava nello scafo dalla torretta mozzata della sezione poppiera. Kassad si strinse nelle spalle: aveva giocato d’azzardo troppe volte e aveva perso.

La seppia vibrò e fece un balzo. I tentacoli di manipolazione di prua si strapparono. All’improvviso il cadavere dell’Ouster fu risucchiato fuori della torretta come una formica in un aspirapolvere. Kassad si tenne stretto all’anello e dal portello aperto guardò i sedili di pilotaggio nell’abitacolo. Rimase colpito dal pensiero che erano incredibilmente antiquati, come se fossero usciti da un libro sul volo spaziale dei primordi. Ormai alcune parti esterne della navetta bruciavano, si staccavano e rombavano davanti alle torrette d’osservazione come pezzi di lava. Kassad chiuse gli occhi e cercò di ricordare le lezioni della Scuola Comando Olympus sulla configurazione delle antiche navi spaziali. La seppia iniziò l’ultima capriola. Il frastuono era incredibile.

«Per Allah!» boccheggiò Kassad: un’esclamazione che non aveva più usato dagli anni d’infanzia. Si diresse verso l’abitacolo, puntando i piedi contro il portello aperto e cercando appigli sul ponte, come se si stesse arrampicando lungo una parete verticale. E in realtà faceva proprio questo. La seppia aveva ruotato su se stessa e si era stabilizzata in un micidiale tuffo di poppa. Kassad si arrampicò sotto un carico di 3 g: se fosse scivolato, si sarebbe rotto tutte le ossa. Alle sue spalle, il sibilo dell’atmosfera si trasformò in un urlo stridulo e poi in un ruggito di drago. La sezione trasporto truppe bruciava fra schizzi di metallo fuso.

Raggiungere il sedile di guida fu come superare una sporgenza rocciosa portando sulla schiena altri due scalatori. I goffi guanti resero la presa sul poggiatesta ancor meno sicura, quando rimase sospeso sul calderone infuocato della sezione trasporto. La navetta sbandò; Kassad eseguì un volteggio e si ritrovò sul sedile di comando. I display video erano spenti. Il calore surriscaldava la torretta, ormai d’un rosso nauseante. Kassad quasi svenne, quando si piegò a frugare con le dita nel buio sotto il sedile, fra le ginocchia. Niente. No… c’era una maniglia. Anzi, sant’Iddio e sant’Allah… un anello di salvataggio. Una reliquia dei libri di storia.

La seppia stava andando in pezzi. In alto, la torretta bruciava e schizzava perspex liquido dentro l’abitacolo, macchiando la tuta e il visore. Kassad sentì il puzzo della plastica fusa. La seppia girava su se stessa. La vista di Kassad diventò rosa, si affievolì, sparì. Le dita intorpidite si mossero a stringere l’imbracatura… sempre più stretta… o gli segava il petto oppure il perspex fuso si era aperto un varco. La mano tornò all’anello di sicurezza. Le dita erano troppo impacciate per afferrarlo… no. Tira!

Troppo tardi. La seppia, con uno stridio finale e un’ultima fiammata, andò in pezzi. La console di comando, ridotta in migliaia di frammenti grossi come shrapnel, squarciò l’abitacolo.

Kassad fu sbattuto contro il sedile. In alto. Fuori. Nel cuore delle fiamme.

Rotolò.

Mentre rotolava in aria, capì confusamente che il sedile proiettava un proprio campo di contenimento: le fiamme gli stavano infatti a qualche centimetro dal viso.

I pirogetti si accesero e scagliarono lontano dalla scia di fiamma della seppia il sedile eiettabile che lasciò nel cielo una scia azzurrina. I microprocessori lo fecero ruotare in modo che il disco del campo di forza si frapponesse tra Kassad e l’attrito ardente. Un gigante era seduto sul torace di Kassad, mentre decelerava a otto gravità in duemila chilometri di cielo.

Kassad aprì gli occhi, vide che era rannicchiato nel ventre di una lunga colonna di fiamma biancazzurra e li richiuse. Non vide nessuna traccia di comandi paracadute, né di apparecchi di sospensione, né di sistemi frenanti d’altro genere. Non aveva importanza. Tanto, non poteva muovere braccia e mani.

Il gigante cambiò posizione, diventò più pesante.

Kassad capì che una parte del casco si era fusa o era stata strappata via. Il frastuono era indescrivibile. Non aveva importanza.

Strinse forte gli occhi. Il momento buono per un sonnellino.


Kassad aprì gli occhi e vide la sagoma scura di una donna china su di lui. Per un secondo pensò che fosse lei. Guardò meglio e capì che era davvero lei. Con le dita fredde gli toccò la guancia.

«Sono morto?» mormorò Kassad, alzando la mano a stringerle il polso.

«No.» La voce era morbida e rauca, velata da un’inflessione appena accennata che lui non riuscì a inquadrare. Non aveva mai parlato, prima.

«Sei reale?»

«Sì.»

Kassad sospirò. Si guardò intorno. Giaceva nudo sotto un sottile rivestimento, su una sorta di divano o di piattaforma sistemata al centro di un locale buio e cavernoso. In alto, il soffitto squarciato lasciava vedere le stelle. Kassad alzò l’altra mano per toccarle la spalla. I capelli della donna erano un’aureola scura sopra di lui. Lei indossava un’ampia veste di stoffa leggera, che anche alla luce delle stelle rivelava i contorni del corpo. Kassad colse il profumo, accenno fragrante di sapone e di pelle e di lei, che conosceva tanto bene.

«Vorrai un mucchio di risposte» mormorò lei, mentre Kassad apriva il fermaglio dorato che reggeva la veste. Con un fruscio, l’ano scivolò a terra. Sotto, la donna non portava niente. In alto, la Via Lattea era chiaramente visibile.

«No» disse Kassad. E strinse a sé la donna.


Verso il mattino si levò la brezza, ma Kassad tirò addosso a sé e alla donna la coperta leggera. La stoffa sembrava trattenere tutto il calore del corpo; giacquero insieme in un tepore perfetto. Da qualche parte, sabbia o neve grattarono le pareti spoglie. Le stelle erano chiare e luminose.

Si svegliarono alla prima luce dell’alba, viso contro viso sotto il copriletto di seta. Lei passò la mano lungo il fianco di Kassad, trovò cicatrici vecchie e recenti.

«Ti chiami?» mormorò Kassad.

«Sst» sussurrò lei, facendo scivolare più in basso la mano.

Kassad spostò il viso contro l’incavo del suo collo profumato. I seni erano morbidi, contro di lui. La notte impallidì nel mattino. Da qualche parte, sabbia o neve soffiarono contro le pareti spoglie.


Si amarono, dormirono, si amarono ancora. In pieno giorno si alzarono e si vestirono. Lei preparò per Kassad della biancheria, una veste grigia e un paio di calzoni. Erano delle giuste misure, come i calzini di spugna e i morbidi stivaletti. Lei indossò un abbigliamento analogo, blu marina.

«Ti chiami?» domandò Kassad, mentre uscivano dall’edificio con il soffitto a cupola squarciato e s’incamminavano in una città morta.

«Moneta» rispose il sogno di Kassad. «O Mnemosine. Quel che ti piace di più.»

«Moneta» mormorò Kassad. Guardò il piccolo sole nel cielo celeste. «Hyperion?»

«Sì.»

«Come sono atterrato? Campo di sospensione? Paracadute?»

«Sei sceso sotto un’ala di foglia d’oro.»

«Non sento dolori. Non ero ferito?»

«Sei stato curato.»

«Che posto è questo?»

«La Città dei Poeti. Abbandonata più di cent’anni fa. Dietro quella montagna ci sono le Tombe del Tempo.»

«Le navette d’assalto degli Ouster?»

«Una è atterrata qui vicino. Il Signore della Sofferenza ha preso sotto di sé l’equipaggio. Le altre due sono atterrate più lontano.»

«Chi è il Signore della Sofferenza?»

«Vieni» disse Moneta. La città morta terminava nel deserto. La sabbia fine scivolava sul marmo bianco semisepolto nelle dune. A ovest c’era una navetta Ouster, con i diaframmi a iride spalancati. Lì vicino, sopra una colonna caduta, un termocubo forniva caffè caldo e focaccine appena sfornate. Mangiarono e bevvero in silenzio.

Kassad cercò di ricordare le leggende su Hyperion. «Il Signore della Sofferenza è lo Shrike» disse alla fine.

«Certo.»

«Tu vieni dalla… dalla Città dei Poeti?»

Moneta sorrise e scosse lentamente la testa.

Kassad finì il caffè e posò la tazza. La sensazione di sognare permaneva, più intensa di quanto non fosse stata durante le esercitazioni simulate. Ma il caffè era piacevolmente amaro e il sole gli scaldava il viso e le mani.

«Vieni, Kassad» disse Moneta.

Attraversarono distese di sabbia fredda. Kassad si scoprì a lanciare occhiate al cielo, consapevole che la nave-torcia Ouster poteva colpirli dall’orbita… e poi ebbe l’improvvisa certezza che non sarebbe accaduto.

Le Tombe del Tempo si trovavano in una vallata. Un basso obelisco brillava debolmente. Una sfinge di pietra sembrava assorbirne la luce. Una complessa costruzione di colonne ritorte gettava ombre su se stessa. Altre tombe si stagliavano contro il sole sorgente. Ogni tomba aveva una porta, ogni porta era spalancata. Kassad sapeva che le porte erano spalancate già quando i primi esploratori avevano trovato le Tombe e che gli edifici erano vuoti. Più di tre secoli di ricerche di stanze nascoste, sepolcri, cripte e passaggi segreti erano stati inutili.

«Puoi arrivare solo fin qui» disse Moneta, quando si avvicinarono alla scarpata a un’estremità della valle. «Le maree del tempo sono forti, oggi.»

L’innesto tattico era muto. Kassad non aveva più comlog. Frugò nella memoria. «Ci sono campi di forza anti-entropici, intorno alle Tombe del Tempo» disse.

«Sì.»

«Le tombe sono antiche. I campi anti-entropici impediscono che invecchino.»

«No» disse Moneta. «Le maree del tempo spingono indietro le Tombe.»

«Indietro nel tempo» precisò scioccamente Kassad.

«Sì.»

«Guarda.»

Lucente, simile a un miraggio, un albero di spine d’acciaio spuntò dalla nebbiolina e dall’improvvisa tempesta di sabbia color ocra. Sembrò riempire la valle, innalzarsi per almeno duecento metri a livello della scarpata. I rami si mossero, si dissolsero, si riformarono, simili a elementi d’un ologramma mal sintonizzato. La luce del sole danzò su spine lunghe cinque metri. Cadaveri di Ouster, uomini e donne, tutti nudi, erano impalati su almeno una ventina di queste spine. Altri rami reggevano altri cadaveri. Non tutti umani.

La tempesta di polvere oscurò per un attimo la visuale e, quando il vento cessò, l’albero era sparito.

«Vieni» disse Moneta.

Kassad la seguì lungo l’orlo delle maree del tempo, evitando il riflusso dei campi anti-entropici, come un bambino che gioca a evitare le onde dell’oceano su una grande spiaggia. Sentì l’attrazione delle maree del tempo, come ondate di déjà vu che attirassero ogni cellula del suo corpo.

Appena più avanti, al di là dell’ingresso della valle, dove le alture si aprivano alle dune e basse brughiere portavano alla Città dei Poeti, Moneta toccò un muro di ardesia azzurra e aprì l’entrata di una stanza lunga e bassa, sulla parete della scarpata. «Stai qui?» domandò Kassad; ma vide immediatamente che la stanza non mostrava segni di essere abitata. Nelle pareti di pietra erano incassati alcuni scaffali e parecchie nicchie.

«Dobbiamo prepararci» sussurrò Moneta. La luce acquistò una tonalità dorata. Una lunga rastrelliera si abbassò con le sue terraglie. Dal soffitto, come una tenda, calò una striscia di polimero riflettente, sottile come un’ostia, che fungeva da specchio.

Kassad guardò, con la calma e la passività d’un sognatore, Moneta spogliarsi e poi togliere a lui i vestiti. La loro non era più nudità erotica; ma semplice rituale.

«Per anni sei stata nei miei sogni» disse Kassad.

«Sì. Il tuo passato. Il mio futuro. L’onda d’urto degli eventi si muove nel tempo come un’increspatura in uno stagno.»

Kassad batté le palpebre, mentre lei alzava una ferula d’oro e gli toccava il petto. Provò un lieve choc e la sua carne diventò uno specchio; la sua testa e il suo viso un ovoide privo di lineamenti che rifletteva tutte le tonalità e le consistenze della stanza. Un attimo dopo Moneta si unì a lui con il corpo trasformato in una cascata di riflessi, acqua sopra mercurio sopra cromo. Kassad vide la propria immagine riflessa e riflettente in ogni curva e in ogni muscolo del corpo di lei. I seni di Moneta afferrarono e piegarono la luce; i capezzoli si sollevarono come piccoli schizzi in uno stagno riflesso da uno specchio. Kassad l’abbracciò e sentì che i loro corpi fluivano insieme come liquidi magnetizzati. Sotto i campi connessi, la sua carne toccò quella di lei.

«I tuoi nemici aspettano al di là della città» mormorò Moneta. Il cromo del suo viso rifluì di luce.

«Nemici?»

«Gli Ouster. Quelli che ti hanno seguito qui.»

Kassad scosse la testa e vide la sua immagine riflessa compiere lo stesso gesto. «Non hanno più importanza.»

«Oh, sì» mormorò Moneta. «Il nemico ha sempre importanza. Devi armarti.»

«Con quali armi?» Ma mentre lo diceva, Kassad si accorse che lei lo toccava con una sfera di bronzo, un toroide azzurro opaco. Il suo stesso corpo alterato gli parlò ora con la chiarezza d’un soldato semplice che fa rapporto sul circuito di comando innestato. Sentì una grande sete di sangue crescergli spaventosamente dentro.

«Vieni.» Moneta lo guidò di nuovo nel deserto. La luce del sole sembrava polarizzata e densa. Kassad ebbe la sensazione di scivolare sulle dune, di fluire come un liquido per le vie di marmo bianco della città morta. Nei pressi del confine occidentale, accanto alle macerie di un edificio che ancora portava l’architrave istoriato dell’Anfiteatro dei Poeti, c’era qualcosa in attesa.

Per un istante Kassad pensò che fosse un’altra persona che portava gli stessi campi di forza color cromo in cui lui e Moneta erano avviluppati… ma solo per un istante. In quella particolare costruzione mercurio-su-cromo non c’era niente di umano. Come in un sogno, Kassad vide le quattro braccia, le lame delle unghie retrattili, la profusione di spine sulla gola, la fronte, i polsi, le ginocchia e il corpo intero; ma non una sola volta il suo sguardo lasciò gli occhi dalle mille sfaccettature, ardenti d’una fiamma rossa che faceva impallidire il sole e oscurava il giorno riducendolo a un’ombra sanguigna.

Lo Shrike, pensò Kassad.

«Il Signore della Sofferenza» mormorò Moneta.

L’essere si girò e li guidò fuori della città morta.


Kassad approvò il modo in cui gli Ouster avevano approntato le difese. Le due navette d’assalto erano atterrate a meno di mezzo chilometro l’una dall’altra: le torrette armate di cannoni, proiettori e missili si coprivano a vicenda e avevano un raggio di fuoco di 360 gradi. A cento metri dalle scialuppe, la fanteria Ouster aveva innalzato alcuni terrapieni di sostegno. Kassad vide almeno due carri armati EM a terra, con gli schieramenti di proiezione e i tubi di lancio che spaziavano sopra l’ampia e deserta brughiera fra la Città dei Poeti e le navette. Kassad aveva subito una modificazione della vista: vedeva i campi di contenimento come nastri di foschia giallastra, i sensori e le mine antiuomo come uova di luce rossa pulsante.

Batté le palpebre rendendosi conto che qualcosa, nell’immagine, non andava. Poi capì: al di là dello spessore della luce e della sua percezione più intensa dei campi d’energia, niente si muoveva. I fanti Ouster, anche quelli che si stavano muovendo, erano rigidi come i soldatini di piombo con cui aveva giocato da bambino nei bassifondi di Tharsis. I carri armati EM erano in posizione di attacco, ma Kassad notò che anche i loro radar d’acquisizione dati, che lui vedeva come archi viola concentrici, erano immobili. Lanciò un’occhiata in alto e vide una sorta d’enorme uccello librato nel cielo, immobile come un insetto imprigionato nell’ambra. Oltrepassò una nuvola di polvere soffiata dal vento, sospesa a mezz’aria; tese la mano color cromo e lasciò cadere a terra spirali di particelle.

Davanti a lui, lo Shrike avanzò con indifferenza in un labirinto rosso di mine sensorie, calpestò le linee azzurre dei raggi trappola, si chinò sotto le pulsazioni viola dei sensori a fuoco automatico, passò attraverso il campo di contenimento giallo e la parete verde del perimetro di difesa sonica, camminò nell’ombra della navetta d’assalto. Moneta e Kassad lo seguirono.

Come possibile? disse Kassad; si rese conto d’avere espresso la domanda servendosi d’un mezzo un po’ meno sofisticato della telepatia, ma un po’ più delle conduzioni a innesto.

Lui controlla il tempo.

Il Signore della Sofferenza?

Naturalmente.

Perché siamo qui?

Moneta indicò gli Ouster immobili. Quelli sono i nostri nemici.

Kassad provò la sensazione di svegliarsi finalmente da un lungo sogno. Tutto questo era reale! Gli occhi del soldato Ouster, anche se dietro il casco non battevano le palpebre, erano reali. La navetta d’assalto Ouster, che si ergeva come una lapide di bronzo alla sua sinistra, era reale.

Fedmahn Kassad capì che poteva ucciderli tutti… i commando, l’equipaggio della navetta d’assalto, tutti quanti… e che loro non avrebbero potuto reagire. Capì che il tempo non si era fermato… non più di quanto si fermasse se un’astronave usava il motore Hawking: si trattava di una semplice variazione di rapporti. L’uccello immobile sopra di loro avrebbe completato il movimento delle ali, se avesse avuto a disposizione ore o minuti sufficienti. Gli Ouster davanti a lui avrebbero battuto le palpebre, se Kassad avesse avuto la pazienza di osservarli per il tempo necessario. Ma intanto Kassad, Moneta e lo Shrike potevano ucciderli tutti, senza che si rendessero conto di essere assaliti.

Era ingiusto, capì Kassad. Era sbagliato. Era l’ultima violazione del codice Neo-Bushido, peggio dell’uccisione arbitraria di civili. L’essenza dell’onore consisteva nell’attimo del combattimento fra uguali. Stava per comunicare questo concetto a Moneta, quando lei disse/pensò: Guarda.

Il tempo riprese a scorrere con un’esplosione sonora non dissimile da quella dell’aria che si precipita in una camera stagna. L’uccello s’innalzò e roteò in alto. La brezza del deserto soffiò polvere contro i campi di contenimento carichi di statica. Un commando Ouster si alzò su un ginocchio, vide lo Shrike e le due figure umane, gridò qualcosa nel canale di comunicazione tattico, alzò l’arma a energia.

Sembrò che lo Shrike non si muovesse… a Kassad sembrò che smettesse all’improvviso d’essere qui per essere là. Il commando Ouster gridò di nuovo, per un attimo, e guardò incredulo il braccio dello Shrike ritrarsi stringendo un cuore nel pugno munito di lame. L’Ouster fissò a occhi sbarrati il proprio cuore, aprì la bocca per gridare ancora e crollò a terra.

Kassad si girò a destra e si trovò a faccia a faccia con un Ouster che portava una corazza. Con un gesto lento e deciso il commando alzò l’arma. Kassad mosse il braccio in un arco, sentì il campo energetico giallo cromo ronzare, vide il taglio della propria mano penetrare nella corazza, nel casco, nel collo. La testa dell’Ouster rotolò nella polvere.

Kassad balzò in una trincea poco profonda e diversi soldati cominciarono a girarsi. Il tempo era ancora fuori quadro; il nemico si muoveva con estrema lentezza e un attimo dopo scattava come un ologramma difettoso a quattro quinti di velocità. Kassad fu più rapido dei soldati. Non pensava più al codice Neo-Bushido: quelli erano i barbari che avevano cercato d’ucciderlo! A uno spezzò la spina dorsale. Si scansò. Con le dita color cromo tese e rigide colpì di punta sulla piastra pettorale un secondo nemico, schiacciò la laringe a un terzo, evitò un coltello che si stava muovendo lentamente verso di lui e con un calcio ruppe la schiena all’Ouster che lo impugnava. Balzò fuori della trincea.

Kassad!

Kassad si chinò di scatto: il raggio laser gli passò sopra la spalla e bruciò nell’aria come una miccia lenta di luce rosso rubino. Kassad sentì odore di ozono. “Impossibile” si disse. “Ho schivato un laser!” Raccolse un sasso e lo tirò all’Ouster che azionava la frustalaser di un carro armato. Si sentì lo schiocco di un boom sonico e l’artigliere esplose all’indietro. Kassad tolse dalla bandoliera di un cadavere una granata al plasma, con un salto fu accanto al portello del carro armato, e con un secondo se ne allontanò di trenta metri prima che l’esplosione provocasse un geyser di fuoco alto come la prua del mezzo d’assalto.

Kassad si fermò nell’occhio del ciclone per guardare Moneta al centro del suo cerchio personale di massacro. Il sangue la schizzava, ma non aderiva: scorreva come olio sull’acqua lungo le curve arcobaleno del mento, della spalla, del seno, del ventre. Moneta lo guardò attraverso il campo di battaglia e Kassad sentì dentro di sé un nuovo impulso sanguinario.

Alle spalle di Moneta, lo Shrike si mosse lentamente nel caos, scegliendo le vittime come se mietesse. Kassad osservò la creatura passare in un batter d’occhio dall’esistenza alla non-esistenza e viceversa. Per il Signore della Sofferenza, Kassad e Moneta si muovevano con la stessa lentezza degli Ouster per Kassad.

Il tempo accelerò, arrivò a quattro quinti di velocità. I soldati sopravvissuti erano adesso in preda al panico, si colpivano fra loro, abbandonavano la posizione, lottavano per salire a bordo del mezzo d’assalto. Kassad cercò di immaginare che cosa quel paio di minuti avesse rappresentato per loro: movimenti appena visibili fra le loro postazioni difensive, compagni moribondi fra grandi schizzi di sangue. Moneta si aggirò tra loro, uccidendo a volontà. Con stupore, Kassad scoprì d’avere un certo controllo sul tempo: blink!, e gli avversari si muovevano a un terzo della sua velocità; blink!, e gli eventi si susseguivano a ritmo quasi normale. Il senso dell’onore e la razionalità gli imponevano di mettere fine al massacro, ma l’impulso sanguinario, quasi simile all’eccitazione sessuale, vinse ogni obiezione.

Nel mezzo d’assalto qualcuno aveva chiuso il portello a tenuta stagna; un commando atterrito usò una carica al plasma per far saltare la chiusura. La massa di soldati si avventò nell’apertura calpestando i feriti nel tentativo di sfuggire agli invisibili assassini. Kassad li seguì dentro la navetta.

La frase “lottare come una belva con le spalle al muro” è una similitudine calzante. Nella storia degli scontri militari, i guerrieri umani hanno sempre combattuto con la massima ferocia quando sono stati assaliti in spazi ristretti da cui era impossibile fuggire. Che si sia trattato dei corridoi di La Haye Sainte, o di Hougoumont a Waterloo, o dei tunnel d’Alveare su Lusus, alcune delle più terribili battaglie a corpo a corpo della storia si sono combattute in spazi affollati dove la ritirata era impossibile. Quel giorno dimostrò ancora una volta la validità del concetto. Gli Ouster lottarono, e morirono, come belve con le spalle al muro.

Lo Shrike aveva danneggiato il mezzo d’assalto. Moneta restò all’esterno per uccidere una sessantina di commando rimasti al loro posto. Kassad uccise quelli a bordo.

Alla fine, l’ultima navetta d’assalto aprì il fuoco contro la sua compagna condannata. Ma Kassad era già di nuovo all’esterno e guardò i raggi a particelle e i laser ad alta intensità strisciare verso di lui, seguiti dopo un’eternità da missili che sembravano muoversi così lentamente che avrebbe potuto scriverci sopra il suo nome. A quel punto tutti gli Ouster erano morti, dentro e intorno il mezzo d’assalto devastato, ma il campo di contenimento reggeva. Le esplosioni a dispersione energetica e a impatto scagliarono cadaveri lungo tutto il perimetro esterno, incendiarono l’equipaggiamento, vetrificarono la sabbia. Kassad e Moneta rimasero a guardare da dentro una cupola di fuoco arancione il mezzo d’assalto superstite che si ritirava nello spazio.

“Non possiamo fermarli?” Kassad ansimava, sudava abbondantemente, tremava in modo violento, tant’era eccitato.

“Potremmo farlo, ma non vogliamo” replicò Moneta. “Porteranno il messaggio allo sciame.”

“Quale messaggio?”

«Vieni qui, Kassad.»

Lui si girò, al suono della voce. Il campo di forza era svanito. La pelle di Moneta era lustra di sudore; i capelli neri, madidi, erano incollati alle tempie; i capezzoli erano induriti. «Vieni qui.»

Kassad abbassò lo sguardo: vide che il suo campo di forzar personale era svanito… aveva voluto lui che svanisse… e che in quel momento mostrava il segno di un’eccitazione sessuale come mai ne aveva provate.

«Vieni qui» ripeté Moneta, in un sussurro, stavolta.

Kassad le si accostò, la sollevò e sentì la pelle liscia e sudata delle sue natiche mentre la portava di peso in una zona erbosa sopra una duna scolpita dal vento. La adagiò sull’erba, fra mucchi di cadaveri Ouster, le aprì rudemente le gambe, le afferrò entrambe le mani, le sollevò le braccia al di sopra della testa, la bloccò a terra e si calò fra le sue cosce.

«Sì» mormorò Moneta, mentre lui le baciava il lobo sinistro, premeva le labbra sulla vena pulsante nell’incavo del collo, leccava dai seni il sudore salato. Giacendo fra i morti. Altri morti a venire. Migliaia. Milioni. Risate di ventri privi di vita. Lunghe file di soldati che emergono dalle balzonavi per entrare nelle fiamme in attesa.

«Sì.» Il respiro di Moneta era caldo, contro l’orecchio di Kassad. Lei si liberò le mani, le passò sulle spalle madide di Kassad, con le lunghe unghie seguì il profilo della sua schiena, gli afferrò le natiche per tirarselo più vicino. L’erezione di Kassad strusciò i peli del pube, pulsò contro la cuspide del ventre. Teleporter che si aprono per lasciar entrare i freddi mezzi di trasporto truppe. Il calore delle esplosioni a plasma. Centinaia di navi, migliaia, che danzano e muoiono come particelle di polvere in una tromba d’aria. Grandi colonne di solida luce color rubino che colpiscono da grande distanza, che bagnano i bersagli di un’ultima ondata di calore, corpi ribollenti di luce rossa.

«Sì.» Moneta aprì per lui labbra e corpo. Calore sopra e sotto, la lingua nella bocca di lui, mentre Kassad la penetrava accolto da un caldo attrito. Il corpo di Kassad si tese a fondo, si ritrasse un poco, si lasciò avviluppare di nuovo dall’umido calore mentre iniziavano a muoversi insieme. Calore su cento mondi. Continenti che bruciano in vividi spasmi, il rullio di mari ribollenti. L’aria stessa in fiamme. Oceani d’aria surriscaldata che si gonfiano come tiepida pelle sotto il tocco dell’amante.

«Sì… sì… sì…» Moneta soffia tepore contro le sue labbra. La sua pelle è olio e velluto. Kassad spinge più rapidamente ora; l’universo si contrae mentre la sensazione si espande; i sensi si attenuano mentre lei si chiude attorno a lui, calda e umida e stretta. Ora i fianchi di lei spingono forte in risposta, quasi sentano la terribile pressione che si forma alla base del suo essere. Esigenti. Kassad fa smorfie, chiude gli occhi, vede…

…sfere di fuoco che si espandono, stélle che muoiono, soli che esplodono in grandi pulsazioni di fiamma, sistemi stellari che periscono in un’estasi di distruzione…

…sente un dolore al petto; i suoi fianchi non si fermano, si muovono più in fretta, mentre lui apre gli occhi e vede…

…la grande spina d’acciaio che spunta fra i seni di Moneta, che quasi lo impala mentre lui inconsciamente scatta all’indietro, la lama che fa sgorgare il sangue che le gocciola sulla carne, carne pallida, carne fredda come metallo morto, e i suoi fianchi continuano a muoversi mentre con occhi offuscati di passione guarda le labbra di Moneta arricciarsi e ritrarsi, rivelare file di lamine d’acciaio al posto dei denti, mentre lame di metallo gli squarciano le natiche dove prima c’erano le dita e gambe simili a possenti lastre di metallo gli imprigionano i fianchi, gli occhi di lei…

…negli ultimi secondi prima dell’orgasmo Kassad cerca di tirarsi indietro… le mani sulla gola di lei, che premono… lei gli si attacca come una sanguisuga, una lampreda pronta a prosciugarlo… rotolano contro i corpi dei morti…

…gli occhi di lei come gemme rosse, occhi che ardono d’un folle calore simile a quello che gli riempie i testicoli doloranti, che si espande come fiamma, che si riversa…

…Kassad pianta a terra le mani, si solleva, si stacca da quella creatura… da quella cosa… con forza disperata ma insufficiente, mentre terribili gravità premono a tenerli uniti… risucchiano come bocca di lampreda, mentre lui minaccia di esplodere, la guarda negli occhi… la morte di mondi… la morte di mondi!

Kassad urla e si scosta bruscamente. Lembi di carne si strappano, quando si butta in avanti e di lato. Denti metallici si serrano di scatto in una vagina metallica mancando di un millimetro il suo glande. Kassad si accascia sul fianco, rotola via, continua a muovere il bacino, incapace di arrestare l’eiaculazione. Il seme esplode in schizzi, cade sui pugni rattrappiti d’un cadavere. Kassad geme, rotola di nuovo, si rannicchia in posizione fetale, mentre viene ancora. E ancora.

Sente un sibilo e un fruscio, quando lei si alza dietro di lui. Rotola sulla schiena e socchiude gli occhi per proteggerli dal bagliore solare della sua stessa sofferenza. Lei è ferma sopra di lui, a gambe aperte, un profilo di spine. Kassad si toglie dagli occhi il sudore, vede i suoi polsi arrossati di sangue e aspetta il colpo finale. La pelle gli si contrae, anticipa il filo della lama nella carne. Ansimando, alza gli occhi: Moneta incombe su di lui, fianchi di carne e non d’acciaio, inguine madido dell’umore della loro passione. Ha il viso in ombra, il sole alle spalle, ma fiamme rosse muoiono nel pozzo sfaccettato dei suoi occhi. Sorride. Il sole si riflette sulle file di denti metallici. «Kassad…» mormora lei, e la sua voce è come il fruscio della sabbia contro le ossa.

Kassad distoglie lo sguardo, si rialza a fatica, inciampa nei cadaveri e nei detriti ardenti, incalzato dal terrore di essere libero. Non si guarda indietro.


Circa due giorni dopo, elementi ricognitori delle Forze d’Autodifesa di Hyperion trovarono il colonnello Fedmahn Kassad. Lo trovarono disteso e privo di conoscenza, in una delle brughiere erbose che portano all’abbandonato Castel Crono, a una ventina di chilometri dalla città morta e dal relitto del modulo d’eiezione Ouster. Kassad era nudo, in fin di vita per via dell’assideramento e delle numerose ferite, ma rispose bene al trattamento d’emergenza e fu subito trasportato per via aerea a sud della Briglia, in un ospedale di Keats. Squadre di ricognitori del battaglione EDA avanzarono prudentemente verso nord, attenti a non incappare nelle maree anti-entropiche intorno alle Tombe del Tempo e in eventuali trappole esplosive lasciate dagli Ouster. Ma gli esploratori non trovarono trappole, solo il relitto del congegno di fuga di Kassad e gli scafi bruciati di due mezzi d’assalto Ouster colpiti dall’orbita. Nessun indizio spiegava perché gli Ouster avessero abbattuto le loro stesse navette; e i cadaveri, sia a bordo, sia all’esterno, erano talmente carbonizzati da non permettere autopsia né analisi.

Tre giorni di Hyperion più tardi, Kassad riprese conoscenza, giurò di non ricordare nulla a partire dal momento in cui si era impadronito della seppia Ouster; due settimane locali dopo, fu imbarcato su una nave-torcia della FORCE.

Tornato nella Rete, presentò le dimissioni. Per qualche tempo si interessò attivamente ai movimenti pacifisti e a volte comparve nelle trasmissioni della Totalità per discutere di disarmo. Ma l’attacco contro Bressia aveva mobilitato l’Egemonia per una vera guerra interstellare, come nient’altro negli ultimi tre secoli; e la voce di Kassad fu soffocata o accantonata come l’espressione del senso di colpa del Macellaio di Bressia Sud.

Nei sedici anni successivi a quell’episodio, il colonnello Kassad sparì dalla Rete e nessuno pensò più a lui. Anche se non ci furono altre battaglie importanti, gli Ouster rimasero il principale spauracchio dell’Egemonia. Fedmahn Kassad era solo un ricordo che sbiadiva.

Era tardo mattino, quando Kassad terminò la sua storia. Il Console batté le palpebre e si guardò intorno: per la prima volta, in più di due ore, si rendeva conto dell’imbarcazione e del panorama. La Benares era uscita nel canale principale dell’Hoolie. Si sentivano scricchiolii di catene e di gherlini; le mante fluviali facevano forza sui finimenti. La Benares sembrava l’unica imbarcazione diretta a monte del fiume, ma ora numerose barche più piccole procedevano nel senso opposto. Il Console si strofinò la fronte e notò con sorpresa d’essere sudato. Il giorno era molto caldo e l’ombra del tendone si era spostata senza che lui se ne accorgesse. Il Console batté le palpebre, si tolse il sudore dagli occhi, si spostò all’ombra per versarsi da bere dalle bottiglie di liquore che gli androidi avevano messo su un mobiletto accanto al tavolo.

— Dio mio — disse padre Hoyt. — Allora, secondo questa Moneta, le Tombe si muovono a ritroso nel tempo?

— Sì — rispose Kassad.

— Possibile? — domandò Hoyt.

— Sì. — Era stato Sol Weintraub, a rispondere.

— Se è vero — disse Brawne Lamia — allora lei ha “incontrato ” questa Moneta… o quale che sia il suo vero nome… in quello che per la donna è il passato e per lei il futuro… un incontro che non è ancora avvenuto.

— Sì — ammise Kassad.

Martin Sileno si accostò al parapetto e sputò nel fiume. — Colonnello — disse — crede che quella puttana fosse davvero lo Shrike?

— Non so — rispose Kassad. La sua voce atona si udì a malapena.

Sileno si rivolse a Sol Weintraub. — Lei è uno studioso. Nella mitografia dello Shrike ci sono accenni al fatto che cambi forma?

— No — rispose Weintraub. Stava preparando il poppatoio per la figlioletta. La bimba fece dei versi e mosse le dita.

— Colonnello — disse Het Masteen. — Il campo di forza… o quel che era, la tuta da combattimento… l’ha portata con sé, dopo l’incontro con gli Ouster e con quella… quella donna?

Kassad guardò un attimo il Templare e scosse la testa.

Il Console fissava il bicchiere, ma a un tratto sollevò bruscamente la testa colpito da un pensiero improvviso. — Colonnello, ha detto di avere avuto una visione dell’albero di morte dello Shrike… la struttura, la cosa in cui impala le sue vittime.

Kassad spostò dal Templare al Console il suo sguardo da basilisco e annuì lentamente.

— E c’erano corpi impalati?

Un altro cenno d’assenso.

Il Console si asciugò il labbro imperlato di sudore. — Se l’albero viaggia a ritroso nel tempo, insieme con le Tombe, allora le vittime appartengono al nostro futuro.

Kassad non fece commenti. Ora anche gli altri fissavano il Console, ma sembrò che soltanto Weintraub avesse capito il senso di quella riflessione… e quale sarebbe stata la domanda seguente.

Il Console resistette all’impulso di asciugarsi di nuovo il labbro. Parlò con voce ferma. — Ha visto qualcuno di noi, nell’albero?

Kassad rimase in silenzio per più d’un minuto. Improvvisamente i deboli rumori del fiume e del sartiame sembrarono più intensi. Alla fine Kassad inspirò a fondo. — Sì — rispose.

Il silenzio si prolungò di nuovo. Brawne Lamia lo spezzò. — Ci dirà chi?

— No. — Kassad si alzò e si avviò alla scaletta che portava ai ponti inferiori.

— Aspetti — lo chiamò padre Hoyt.

Kassad si fermò sul primo gradino.

— Ci dirà almeno altre due cose?

— Quali?

Padre Hoyt fece una smorfia, provocata da una fitta dolorosa. Il viso magro impallidì sotto un velo di sudore. Il prete trasse un gran sospiro e disse: — Primo: ritiene che lo Shrike… la donna… voglia in qualche modo servirsi di lei per dare inizio a quella terribile guerra interstellare che ha visto nel futuro?

— Sì — rispose piano Kassad.

— Secondo: vuole dirci che cosa conta di chiedere allo Shrike… o a questa Moneta… quando l’incontrerà al termine del pellegrinaggio?

Kassad sorrise per la prima volta. Era un sorriso appena accennato, molto, molto freddo. — Non farò petizioni — rispose. — Non chiederò nulla. Quando li incontrerò, questa volta li ucciderò.

Gli altri pellegrini non parlarono né si guardarono, mentre Kassad scendeva sottocoperta. La Benares continuò verso nord-nordest, nel pomeriggio.

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