Castel Crono sporgeva dall’orlo orientale della grande Briglia: un cumulo fosco e barocco di pietre essudanti, con trecento fra stanze e sale, un labirinto di corridoi bui che portavano a locali profondi, torri, torrette, balconate prospicienti le brughiere settentrionali; pozzi d’aria che si alzavano per mezzo chilometro alla luce e che, si diceva, sprofondavano fino nel labirinto stesso del mondo; parapetti sferzati da venti gelidi provenienti dai picchi più in alto, scalinate — interne ed esterne — scavate nella roccia della montagna e che non portavano da nessuna parte; finestre di vetri colorati alte un centinaio di metri, poste in modo da catturare i primi raggi del solstizio o della luna nella notte di mezzo inverno; finestrelle prive di vetri, grosse quanto un pugno, che guardavano su niente in particolare; un infinito spiegamento di bassorilievi, di sculture grottesche in nicchie seminascoste, e più di mille doccioni che guardavano giù da grondaie e parapetti, da transetti e sepolcri, che scrutavano da falsi puntoni di legno nelle grandi sale, che sbirciavano dalle finestre tinteggiate di rosso sangue della facciata nordest, con ombre alate e ingobbite che si muovevano come sinistre ore di meridiana, create di giorno dal sole e di notte dalle torce a gas. E dappertutto, a Castel Crono, segni della lunga occupazione da parte della Chiesa Shrike: altari di espiazione drappeggiati di velluto rosso, sculture sospese e in piedi dell’Avatar con lame d’acciaio policromo e occhi di eliotropia, altre statue dello Shrike scolpite nella pietra delle strette scale e delle sale buie, in modo che in nessun momento della notte ci si liberasse della paura di toccare mani che sporgevano dalla roccia, la netta curvatura di una lama che spuntava dalla pietra, quattro braccia che stringevano nell’ultimo abbraccio. E, come ultimo tocco ornamentale, una filigrana di sangue nella maggior parte delle stanze e delle sale un tempo occupate, rossi arabeschi schizzati su quasi tutti i disegni lungo le pareti e il soffitto dei tunnel, lenzuola macchiate di una sostanza secca color rosso ruggine, una sala da pranzo centrale — piena del lezzo di cibo marcio di un pranzo abbandonato settimane prima — con il pavimento, il tavolo, le sedie e le pareti adorne di sangue, stoffe macchiate e tonache a brandelli ammassate in mucchi silenziosi. E dappertutto il ronzio delle mosche.
— Un bel posto di merda, vero? — disse Martin Sileno. La sua voce echeggiò nella grande sala.
Padre Hoyt avanzò di alcuni passi. La luce del pomeriggio, entrando dal lucernario rivolto a ovest, quaranta metri più in alto, cadeva sulle colonne polverose. — È incredibile — mormorò il prete. — San Pietro, a Nuovo Vaticano, non è niente, al confronto.
Martin Sileno rise. La luce intensa metteva in rilievo i suoi zigomi e le sue sopracciglia da satiro. — È stato costruito per una divinità vivente - disse.
Fedmahn Kassad posò a terra la sacca da viaggio e si schiarì la voce. — Di certo questo edificio risale a epoche precedenti la Chiesa Shrike.
— Infatti — disse il Console. — Ma negli ultimi due secoli l’ha occupato la Chiesa.
— Ora non sembra molto occupato — disse Brawne Lamia. Nella sinistra impugnava l’automatica del padre.
Nei primi venti minuti dentro Castel Crono, tutti avevano lanciato richiami ad alta voce, ma gli echi morenti, i silenzi, il ronzio delle mosche nella sala da pranzo li avevano presto fatti smettere.
— Sono stati gli androidi di Billy il Triste e i servocloni a costruire questo posto maledetto — disse il poeta. — Otto anni locali di fatica, prima dell’arrivo delle spin-navi. In teoria doveva essere il più grosso stabilimento turistico della Rete, la base per andare alle Tombe del Tempo e alla Città dei Poeti; ma secondo me perfino quei poveri scemi d’operai androidi conoscevano la versione locale della storia dello Shrike.
Sol Weintraub, fermo vicino a una finestra che dava a oriente, teneva alta la figlioletta, in modo che la morbida luce del sole le cadesse sulla guancia e sulla manina stretta a pugno. — Ormai tutto questo importa poco — disse. — Andiamo a cercare un angolo che non sia un carnaio, per consumare la cena e dormire.
— Non proseguiamo stanotte? — chiese Brawne Lamia.
— Fino alle Tombe? — disse Sileno. Per la prima volta dall’inizio del viaggio sembrò davvero sorpreso. — Andresti allo Shrike nel buio?
Lamia scrollò le spalle. — Farebbe differenza?
Il Console si avvicinò a una porta a vetri piombati che dava su un balcone di pietra e chiuse gli occhi. Gli sembrava di oscillare ancora al ritmo della funivia. La notte e il giorno di viaggio sopra le vette gli avevano confuso la mente, persa nella stanchezza di quasi tre giorni senza sonno e della tensione sempre crescente. Riaprì gli occhi per non appisolarsi in piedi. — Siamo stanchi — disse. — Stanotte ci fermeremo qui e domattina scenderemo.
Padre Hoyt era uscito sullo stretto balcone. Si sporse dal parapetto di pietra frastagliata. — Si vedono le Tombe, da qui?
— No — rispose Sileno. — Sono al di là di quelle alture. Ma vede quelle cose bianche leggermente a nordovest? Quelle cose che brillano nella sabbia come schegge di denti rotti?
— Sì.
— Quella è la Città dei Poeti. Il posto dove re Billy aveva costruito Keats e al quale aveva destinato tutte le cose brillanti e belle. I locali dicono che vi si aggirano fantasmi decapitati.
— Sei uno di loro? — gli chiese Lamia.
Martin Sileno si girò per replicare, guardò per un momento la pistola che la donna ancora impugnava, scosse la testa e tornò a girarsi.
Da un’invisibile curva delle scale arrivò un rumore di passi. Il colonnello Kassad rientrò nella sala. — Ci sono due stanzini, sopra la sala da pranzo — disse. — Hanno un balcone esterno, ma l’unico ingresso è questa scala. Facili da difendere. I locali sono… puliti.
Sileno rise. — Significa che nessuno può attaccarci, oppure che se qualcuno ci attacca non abbiamo via di scampo?
— Dove andremmo? — disse Sol Weintraub.
— Già, dove? — disse il Console. Era stanchissimo. Prese i bagagli e una maniglia del pesante cubo di Moebius, aspettando che padre Hoyt prendesse l’altra. — Facciamo come dice Kassad. Ha trovato un posto in cui trascorrere la notte. Almeno usciamo da questa sala. Puzza di morte.
Per cena consumarono le ultime razioni liofilizzate, un po’ di vino dell’ultima bottiglia di Sileno e un pezzo di torta stantia che Sol Weintraub aveva portato con sé per celebrare l’ultima sera insieme. Rachel era troppo piccola per mangiare la torta, ma bevve il latte e si addormentò, prona accanto al padre sul materasso.
Lenar Hoyt prese dal suo bagaglio una piccola balalaika e suonò qualche accordo.
— Non sapevo che suonasse — disse Brawne Lamia.
— Maluccio.
Il Console si strofinò gli occhi. — Peccato che non ci sia un pianoforte.
— Lei ne ha uno — disse Martin Sileno.
Il Console fissò il poeta.
— Lo porti qui — disse Sileno. — Gradirei molto uno scotch.
— Di cosa parla? — intervenne bruscamente padre Hoyt. — Si spieghi meglio.
— La sua nave - disse Sileno. — Non ricorda che il compianto Voce dell’Albero Masteen ha rinfacciato al nostro amico Console che la sua arma segreta era quella graziosa mononave dell’Egemonia ferma allo spazioporto di Keats? La chiami, sua Altezza Consolare. La faccia venire qui.
Kassad si scostò dalla scala dove aveva piazzato alcuni raggi trappola. — La sfera dati del pianeta è morta. I satelliti per le trasmissioni non funzionano. Le navi della FORCE in orbita mantengono il silenzio radio. Come farebbe a chiamarla?
Fu Lamia, a rispondere. — Con un trasmettitore astrotel.
Il Console la fissò.
— I trasmettitori astrotel sono grossi come edifici — replicò Kassad.
Brawne Lamia alzò le spalle. — Quello che ha detto Masteen è sensato. Se fossi stata il Console… se fossi stata una delle poche migliaia di persone nell’intera maledetta Rete a possedere una mononave… mi sarei assicurata di poterla comandare da lontano, in caso di necessità. Il pianeta è troppo primitivo per fare affidamento sulla sua rete di comunicazioni, la ionosfera è troppo debole per le onde corte, i comsat sono le prime cose a lasciarci Le penne nelle scaramucce… la chiamerei per astrotel.
— E il problema delle dimensioni? — disse il Console.
Brawne Lamia guardò il diplomatico negli occhi. — L’Egemonia non sa ancora fabbricare trasmettitori astrotel portatili. Corre voce che gli Ouster sappiano farlo.
Il Console sorrise. Da un punto imprecisato arrivò uno stridio, poi uno schianto metallico.
— Restate qui — disse Kassad. Tirò fuori dalla veste la neuroverga, cancellò con il comlog tattico i raggi trappola e sparì giù per le scale.
— Immagino che ora siamo sotto la legge marziale — disse Sileno dopo che il colonnello fu sparito. — Ascendente: Marte.
— Chiudi il becco — replicò Lamia.
— Credete che sia stato lo Shrike? — chiese Hoyt.
Il Console rispose con un gesto. — Lo Shrike non ha bisogno di fare rumore in fondo alla scala. Può comparire semplicemente… qui!
Hoyt scosse la testa. — Intendevo dire che se’è stato lo Shrike la causa… dell’assenza di gente. Dei segni di massacro qui nel Castello.
— Forse i villaggi deserti sono il risultato dell’ordine d’evacuazione — disse il Console. — Nessuno vuol restare ad affrontare gli Ouster. Gli effettivi dell’FAD sono impazziti. Il massacro potrebbe essere in gran parte opera loro.
— Senza cadaveri? — rise Martin Sileno. — Pio desiderio. I nostri ospiti assenti penzolano ora dall’albero d’acciaio dello Shrike. Dal quale, fra non molto, penzoleremo anche noi.
— Sta’ zitto — replicò, stanca, Brawne Lamia.
— E se non sto zitto, signora mia? Mi spari? — sogghignò il poeta.
— Sì.
Il silenzio durò fino al ritorno del colonnello. Kassad riattivò i raggi trappola e si rivolse agli altri, seduti sulle casse d’imballaggio e sui cubi di flussoschiuma. — Non era niente. Alcuni uccelli che divorano carogne… araldi, mi pare li chiamino i locali. Sono entrati dalle vetrate rotte della sala da pranzo per terminare il banchetto.
Sileno ridacchiò. — Araldi. Un nome davvero appropriato.
Kassad sospirò, si sedette su una coperta, con le spalle contro una cassa, e diede un colpetto al cibo freddo. Un’unica lanterna, portata dal carro a vela, illuminava la stanza; le ombre iniziavano a risalire le pareti negli angoli dalla porta al balcone. — È la nostra ultima notte — disse Kassad. — Manca ancora una storia. — Lanciò un’occhiata al Console.
Il Console stava stropicciando la strisciolina di carta con su scritto il numero 7. Si umettò le labbra. — A che scopo? Il pellegrinaggio è già stato rovinato.
Gli altri si mossero a disagio.
— Cosa vuol dire? — domandò padre Hoyt.
Il Console accartocciò la striscia di carta e la gettò in un angolo. — Perché lo Shrike conceda una richiesta, il numero dei pellegrini dev’essere un numero primo. Eravamo sette. La… la scomparsa di Masteen ci ha ridotti a sei. Ci stiamo avviando alla morte senza nessuna speranza che un solo desiderio venga esaudito.
— Superstizione — disse Lamia.
Con un sospiro, il Console si sfregò la fronte. — Sì. Ma è la nostra ultima speranza.
Padre Hoyt indicò la bambina addormentata. — Rachel non potrebbe essere il settimo?
Sol Weintraub si lisciò la barba. — No. Un pellegrino deve venire alla Tombe di sua spontanea volontà.
— Ma Rachel l’ha fatto, una volta — disse Hoyt. — Forse questo la rende idonea.
— No — disse il Console.
Martin Sileno, che aveva continuato a prendere appunti su un bloc notes, si alzò e si mise a passeggiare per la stanza. — Cristo, gente! Guardatevi. Non siamo sei pellegrini di merda, siamo una banda da circo. Hoyt, con il suo crucimorfo, che si porta dietro il fantasma di Paul Duré. Il nostro erg “semicosciente” in quella cassa. Il colonnello Kassad e i suoi ricordi di Moneta. La signora Brawne che, se dobbiamo credere alla sua storia, si porta dentro non solo un figlio, ma anche un poeta romantico defunto. Il nostro studioso, con la neonata che fu sua figlia. Me, e la mia musa. Il Console, che chissà quale bagaglio di merda si è portato in questo folle viaggio. Oddio, gente, dovevamo farci fare un maledetto sconto comitive, per il viaggio!
— Siediti — disse Lamia, in tono calmo ma minaccioso.
— No, ha ragione — disse Hoyt. — Anche la presenza di padre Duré come crucimorfo può riguardare in un certo senso la superstizione del numero primo. Dico di continuare domattina, con la convinzione che…
— Guardate! — esclamò Brawne Lamia. Indicò il vano del balcone, dove il crepuscolo era stato sostituito da una serie di impulsi di luce intensa.
I sei uscirono nella fredda aria della sera, riparandosi gli occhi dallo sconvolgente spettacolo di esplosioni silenziose che riempiva il cielo: scoppi di bombe a fusione, d’un bianco purissimo, si espandevano come increspature esplosive in uno stagno celeste; implosioni al plasma, più piccole e più vivide, azzurre e gialle e d’un rosso intensissimo, s’accartocciavano come fiori che si chiudessero per la notte; la danza fulminea di gigantesche esplosioni di frustalaser, raggi grossi come piccoli pianeti che falciavano a distanza di ore-luce e venivano distorti dai vortici delle anomalie difensive: lo sfarfallio color dell’aurora dei campi di difesa che guizzavano e morivano sotto l’assalto di terribili energie, solo per rinascere qualche nanosecondo più tardi. E, in mezzo a tutto, le code di fusione biancazzurre delle navi-torcia e degli incrociatori più grossi, che tracciavano nel cielo linee perfette come graffi di diamante su un vetro azzurrino.
— Gli Ouster — mormorò Brawne Lamia.
— La guerra è iniziata — disse Kassad. Non c’era euforia, nella sua voce; nessuna emozione di nessun genere.
Il Console rimase sconvolto, quando si accorse di piangere in silenzio. Girò il viso per non farsi vedere dagli altri.
— Siamo in pericolo, qui? — chiese Martin Sileno. Si spostò al riparo dell’architrave di pietra e fissò con gli occhi socchiusi quell’abbagliante spettacolo.
— No, a questa distanza — rispose Kassad. Alzò il binocolo da campo, lo regolò e consultò il comlog tattico. — Gran parte degli scontri dista almeno tre UA. Gli Ouster saggiano le difese della FORCE:spazio. — Abbassò il binocolo. — È appena iniziato.
— Il teleporter è già stato attivato? — domandò Brawne Lamia. — La popolazione sta abbandonando Keats e le altre città?
Kassad scosse la testa. — Non credo, non ancora. La flotta farà un’azione di rallentamento, finché la sfera cislunare non sarà completata. Poi i portali per l’evacuazione saranno aperti alla Rete, mentre le unità della FORCE arriveranno a centinaia. — Sollevò di nuovo il binocolo. — Sarà uno spettacolo d’inferno!
— Guardate! — Stavolta fu padre Hoyt a puntare il dito. Non indicava lo spettacolo pirotecnico in cielo, ma le basse dune delle brughiere a settentrione. A qualche chilometro in direzione delle invisibili Tombe del Tempo, si scorgeva a stento una figura solitaria, come un puntino luminoso di una sagoma che lanciava ombre multiple sotto il cielo spezzettato.
Kassad puntò il binocolo.
— Lo Shrike? — domandò Lamia.
— No, non credo… Mi sembra… un Templare, dall’abbigliamento.
— Het Masteen! — esclamò padre Hoyt.
Kassad si strinse nelle spalle e passò in giro il binocolo. Il Console tornò ad accostarsi al gruppo e si sporse sul balcone. Il mormorio del vento era l’unico rumore, ma in un certo modo rendeva più sinistre le esplosioni nel cielo.
Il Console guardò a sua volta, quando gli passarono il binocolo. L’alta figura indossava una lunga veste, dava la schiena al Castello e avanzava con decisione fra le sabbie vermiglie.
— Si dirige verso di noi o verso le Tombe? — domandò Lamia.
— Verso le Tombe — rispose il Console.
Padre Hoyt appoggiò i gomiti sul davanzale e alzò la faccia magra verso il cielo pieno di esplosioni. — Se è davvero Masteen, siamo di nuovo in sette, no?
— Ci precederà di ore — disse il Console. — Di mezza giornata, se stanotte dormiamo qui come è stato proposto.
Hoyt si strinse nelle spalle. — Non fa molta differenza. Sette sono partiti in pellegrinaggio. Sette arriveranno. Lo Shrike sarà soddisfatto.
— Se è davvero Masteen — obiettò il colonnello Kassad — che senso ha quel mistero sul carro a vele? E come ha fatto ad arrivare qui prima di noi? Non c’erano altre cabine della funivia in movimento e non può aver attraversato a piedi i passi della Briglia.
— Glielo domanderemo domani, appena arriveremo alle Tombe — disse stancamente padre Hoyt.
Intanto Brawne Lamia aveva tentato di ottenere una risposta sulle frequenze generali del comlog. Captò solo il sibilo della statica e qualche borbottio degli EMP lontani. Guardò il colonnello Kassad. — Quando iniziano il bombardamento?
— Non so. Dipende dalla forza della flotta di difesa della FORCE.
— Le difese non erano granché l’altro giorno, quando le vedette Ouster sono penetrate e hanno distrutto l’Yggdrasill - notò Lamia. Kassad annuì.
— Ehi — disse Martin Sileno. — Siamo per caso seduti su un merdoso bersaglio?
— Certo — rispose il Console. — Se gli Ouster attaccano Hyperion per impedire l’apertura delle Tombe del Tempo, come fa supporre il racconto della signora Lamia, allora le Tombe e la zona circostante sono il bersaglio principale.
— Di ordigni nucleari? — chiese Sileno con voce tesa.
— Quasi certamente — rispose Kassad.
— Credevo che i campi anti-entropici tenessero le navi lontano da qui — disse padre Hoyt.
— Le navi con equipaggio umano - precisò il Console, sempre appoggiato alla balaustra, senza girarsi a guardare gli altri. — I campi anti-entropici non daranno nessun fastidio ai missili teleguidati, alle bombe “intelligenti” e ai raggi di frustalaser. E neppure alla fanteria mecc, a dire il vero. Gli Ouster possono far atterrare alcuni skimmer d’assalto e i carri armati automatici; guarderanno da lontano, mentre quelli distruggono la vallata.
— Non lo faranno — disse Brawne Lamia. — Vogliono controllare Hyperiqn, non distruggerlo.
— Su questa ipotesi non ci giocherei la vita — commentò Kassad.
Lamia gli sorrise. — Ma ce la stiamo giocando, colonnello, vero?
Sopra di loro, una scintilla si staccò dal mosaico delle esplosioni, crebbe fino a formare una brace arancione, striò il cielo. I sei sul balcone videro le fiamme e sentirono lo stridio torturato della penetrazione nell’atmosfera. La sfera di fuoco sparì al di là delle montagne dietro il Castello.
Quasi un minuto dopo, il Console si rese conto di avere trattenuto il fiato e di stringere ancora il parapetto di pietra. Fece un respiro rumoroso. Anche gli altri sembrarono riprendere a respirare nello stesso momento. Non c’erano state esplosioni, né onde d’urto a far tremare le rocce.
— Il proiettile ha fatto cilecca? — disse padre Hoyt.
— Probabilmente era una vedetta della FORCE danneggiata che cercava di raggiungere il perimetro orbitale o lo spazioporto di Keats — disse il colonnello Kassad.
— Non ce l’ha fatta, vero? — domandò Lamia. Kassad non rispose.
Martin Sileno alzò il binocolo e scrutò le brughiere buie in cerca del Templare. — È fuori vista — disse. — Il buon capitano deve aver girato intorno a quell’altura da questo lato della valle delle Tombe, oppure ha ripetuto il trucco della scomparsa.
— Peccato che non ascolteremo mai la sua storia — disse padre Hoyt. Si rivolse al Console. — Ma ascolteremo la sua, vero?
Il Console si asciugò le mani sui calzoni. Il cuore gli batteva all’impazzata. — Sì — disse. Finalmente si era deciso. — Vi racconterò la mia.
Il vento ruggiva lungo i pendii orientali delle montagne e fischiava lungo la scarpata di Castel Crono. In alto le esplosioni sembravano meno intense, adesso, ma dato che era sceso il buio ciscuna sembrava più vivida della precedente.
— Rientriamo — disse Lamia. La sua voce quasi si perse nel vento. — Comincia a far freddo.
Avevano spento l’unica lampada; la stanza era illuminata solo a tratti dai fulmini brucianti. Ombre nascevano di colpo, svanivano, ricomparivano, mentre la stanza si tingeva di svariati colori. A volte l’oscurità durava parecchi secondi, prima del successivo fuoco di sbarramento.
Il Console infilò la mano nella sacca da viaggio e tirò fuori una bizzarra apparecchiatura, più grossa di un comlog, curiosamente ornata, che presentava sul davanti un diskey a cristalli liquidi: una specie di reliquia uscita da un ologramma di storia.
— Un trasmettitore astrotel segreto? — chiese seccamente Brawne Lamia.
Il Console fece un sorrisetto. — Un comlog antico. Prodotto durante l’Egira. — Da una tasca nella cintura prese il microdischetto standard e lo inserì nel comlog. — Come padre Hoyt, anch’io devo raccontare la storia di un altro, perché possiate comprendere la mia.
— Cristo in croce! — sbottò Martin Sileno, irridente. — Sono l’unico, in questo branco di merda, che sappia raccontare una storia in maniera diretta? Quanto devo…
Lo stesso Console fu sorpreso dalla propria reazione. Si alzò, si girò, afferrò il poeta per il mantello e il davanti della camicia, lo sbatté contro la parete, lo buttò sopra una cassa d’imballaggio, gli piantò un ginocchio sulla pancia, gli premette la gola con il braccio e sibilò: — Ancora una parola, poeta, e ti uccido!
Sileno cercò di ribellarsi, ma l’aumento della pressione sulla carotide e uno sguardo agli occhi del Console lo convinsero che era meglio lasciar perdere. Era pallidissimo.
In silenzio, quasi con gentilezza, il colonnello Kassad li separò. — Non ci saranno altri commenti — disse. Sfiorò la neuroverga infilata nella cintura.
Martin Sileno si spostò sul lato più lontano massaggiandosi la gola, si lasciò andare contro una cassa e restò zitto. Il Console andò alla porta, fece alcuni respiri profondi e tornò al suo posto. Parlò a tutti, tranne che al poeta. — Scusate. Solo che… non pensavo che avrei mai condiviso con altri questa storia.
Dall’esterno arrivò un’ondata di luce rossa e poi bianca, seguita da un bagliore azzurrastro che si spense nel buio.
— Lo sappiamo — disse Brawne Lamia, a voce bassa. — Ci sentiamo tutti come lei.
Il Console si toccò il labbro inferiore, annuì, si schiarì la voce e sedette accanto all’antico comlog. — La registrazione non è antica quanto lo strumento — disse. — Risale a circa cinquanta anni standard fa. Al termine, avrò ancora qualcosa da dire. — Esitò, come se ci fosse dell’altro; poi scosse la testa e premette il pollice sull’antico diskey.
Non c’erano effetti ottici. La voce era quella d’un uomo giovane. In sottofondo si udiva la brezza soffiare tra l’erba o fra tenere fronde; più in lontananza, un fruscio di onde.
All’esterno la luce pulsò come impazzita, mentre il ritmo della lontana battaglia spaziale accelerava. Il Console si irrigidì, aspettò lo schianto e l’esplosione. Non ci furono. Chiuse gli occhi e ascoltò insieme agli altri.
Salgo la ripida collina fino alla tomba di Siri, nel giorno in cui le isole tornano ai mari bassi dell’Arcipelago Equatoriale. Il giorno è perfetto e io odio la perfezione. Il cielo è tranquillo come i racconti dei mari della Vecchia Terra, le secche sono chiazzate di sfumature blu; una brezza tiepida arriva dal largo e increspa la rossiccia erbasalice sul pendio accanto a me.
In una giornata del genere sarebbero più adatte delle nuvole basse e una luce scarsa. Un po’ di foschia, o una coltre di nebbia che facesse gocciolare gli alberi maestri nel Porto di Primosito e svegliasse dal suo torpore la sirena del faro. Sarebbe meglio se dal freddo ventre del sud soffiasse uno dei simun marini, che spingono davanti a sé le isole mobili e i delfini pastori finché non cercano riparo sottovento ai nostri atolli e ai picchi sassosi.
Qualsiasi cosa sarebbe meglio di una calda giornata di primavera come questa, con il sole che si muove in un cielo così azzurro da farmi venir voglia di correre, di saltare, di rotolarmi nell’erba soffice, come Siri e io facevamo proprio in questo posto.
Proprio questo posto. Mi fermo per guardarmi intorno. L’erba-salice si piega e s’increspa come la pelliccia di un grosso animale; la brezza porta da sud un sapore salmastro. Mi schermo gli occhi, scruto l’orizzonte: niente si muove. Lontano, al di là della scogliera di lava, il mare comincia a frangersi e si solleva in onde nervose.
«Siri» mormoro. Pronuncio il suo nome senza volerlo. Cento metri più sotto, lungo il pendio, la folla si ferma a guardarmi e trattiene il respiro. Il corteo del funerale si estende per più di un chilometro, fin dove iniziano gli edifici bianchi della città. In prima fila distinguo la testa grigia e calva del mio figlio minore. Indossa la veste azzurro e oro dell’Egemonia. So che dovrei aspettarlo, camminare con lui; ma lui e gli altri membri anziani del consiglio non possono tenere il passo dei miei muscoli giovani e allenati sulla nave, della mia andatura costante. Ma il decoro esige che cammini con lui, e con mia nipote Lira e con il mio nipotino di nove anni.
Al diavolo il decoro. E al diavolo i nipoti.
Mi giro e risalgo in fretta il pendio. Il sudore m’inzuppa l’ampia camicia di cotone, quando raggiungo la sommità piatta della cresta e vedo la tomba.
La tomba di Siri.
Mi fermo. Il vento mi gela, anche se il sole è caldo e si riflette sulla perfetta pietra bianca del mausoleo silenzioso. Accanto all’ingresso sigillato della cripta, l’erba è alta. File di sbiadite bandierine festive su aste d’ebano costeggiano lo stretto sentiero di ghiaia.
Giro intorno alla tomba, esitante, e mi accosto alla scogliera a strapiombo qualche metro più in là. Qui l’erbasalice è piegata e calpestata, dove individui irriverenti hanno steso una tovaglia per il picnic. Ci sono alcuni focolari messi insieme con le pietre perfettamente rotonde e perfettamente bianche rubate dalla bordura del sentiero di ghiaia.
Non riesco a trattenere un sorriso. Conosco il panorama che si vede da qui: la grande curva del porto esterno con il suo molo naturale; gli edifici bassi e bianchi di Primosito; gli scafi e gli alberi colorati dei catamarani che si dondolano all’ancora. Accanto alla spiaggia di ciottoli al di là della Sala del Parco, una ragazza con una gonna bianca si avvia all’acqua. Per un attimo credo che sia Siri e sento il cuore battere più forte. Quasi mi preparo a rispondere col braccio al suo gesto di saluto, ma lei non saluta. Osservo in silenzio quella figura lontana girarsi e perdersi nell’ombra del vecchio cantiere navale.
In alto, molto lontano dalla scogliera, un tommifalco dalle ampie ali descrive cerchi sopra la laguna approfittando delle termali ascendenti ed esamina con i suoi occhi a infrarossi i mutevoli letti di fuchiblù, alla ricerca di arpafoche o di torpidi. “La natura è stupida” penso; mi siedo sull’erba soffice. La natura ha disposto uno scenario tutto sbagliato per un giorno come questo, ed è tanto poco sensibile da aggiungervi un uccello in cerca di prede che da molto tempo sfuggono le acque inquinate nelle vicinanze della città in sviluppo.
Ricordo un altro tommifalco, la prima notte che Siri e io siamo saliti qui in cima. Ricordo il chiaro di luna sulle sue ali e il grido bizzarro e ossessionante che era echeggiato dalla scogliera ed era sembrato forare l’aria buia sopra le luci a gas del villaggio sottostante.
Siri aveva sedici anni… no, non ancora. Il chiaro di luna che aveva sfiorato le ali del falco, aveva anche bagnato di una luce lattea la sua pelle nuda e gettato ombre sotto i morbidi cerchi dei suoi seni. Guardammo in alto con aria colpevole, quando il grido dell’uccello squarciò la notte e Siri disse: «Fu l’usignolo e non la lodola, a ferire il tuo orecchio timoroso».
«Eh?» risposi. Siri aveva quasi sedici anni. Io, diciannove. Ma Siri conosceva il lento ritmo dei libri e le cadenze del teatro sotto le stelle. Io conoscevo solo le stelle.
«Cerca di rilassarti, marinaio» mormorò lei e mi tirò giù al suo fianco. «È solo un vecchio tommifalco a caccia. Stupido uccello. Torna, marinaio. Torna, Merin.»
La Los Angeles aveva scelto quel momento per alzarsi al di sopra dell’orizzonte e librarsi come un’aerea favilla verso ovest, fra le insolite costellazioni di Patto-Maui, il mondo di Siri. Rimasi steso accanto a lei e le descrissi il funzionamento della grande spin-nave a motore Hawking che rifletteva la luce del sole contro il fondale della notte sopra di noi; e intanto facevo scivolare più in basso la mano, lungo il suo fianco liscio, sulla sua pelle che sembrava tutta velluto ed elettricità, mentre contro la mia spalla il suo respiro si faceva corto. Chinai il viso contro l’incavo del suo collo, verso il dolce profumo dei riccioli.
«Siri» dico. E questa volta il nome mi viene spontaneo. Sotto di me, sotto la cresta della collina e l’ombra della tomba bianca, la folla si ferma a disagio. È impaziente. Vuole che apra la tomba, che entri, che abbia il mio momento d’intimità nel vuoto freddo e muto che ha preso il posto della calda presenza che fu Siri. Vuole che le dica il mio addio, per poter andare avanti con i suoi riti e le sue cerimonie, aprire il teleporter e unirsi alla Rete dei Mondi dell’Egemonia.
Al diavolo tutto. E al diavolo anche la folla.
Strappo un viticcio dell’erbasalice fittamente ritorta, mastico lo stelo dolciastro e guardo l’orizzonte in cerca del primo segno delle isole migratrici. Nella luce del mattino le ombre sono ancora lunghe. Il giorno è giovane. Mi siederò qui per un po’, a ricordare.
A ricordare Siri.
Siri era… che cosa? Un uccello, penso, la prima volta che la vidi. Portava una sorta di maschera ornata di piume lucenti. Quando se la tolse per unirsi alla quadriglia, la luce delle torce si rifletté sui suoi capelli biondo rame scuro. Era rossa in viso, le guance accese; anche dall’altra parte del parco affollato vedevo il sorprendente verde dei suoi occhi contrastare con il calore estivo del viso e dei capelli. Era la Notte della Festa, naturalmente. Le torce danzavano e scintillavano nella brezza costante che arrivava dal porto; la musica dei flautisti che sul frangiflutti suonavano per le isole di passaggio era quasi soffocata dallo sciacquio delle onde e dagli schiocchi delle bandiere nel vento. Siri aveva quasi sedici anni e la sua bellezza ardeva più luminosa di qualsiasi torcia del perimetro della piazza piena di folla. Mi aprii la strada fra i ballerini e andai da lei.
Per me, fu cinque anni fa. Per noi, più di sessantacinque. Sembra ieri.
Così non va bene.
Da dove iniziare?
«Che ne dici di andare a inzuppare il biscotto, ragazzo?» disse Mike Osho. Basso, tozzo, con il viso grassoccio che sembrava una caricatura furba di Buddha, Mike a quel tempo per me era un dio. Eravamo tutti degli dèi, dèi dalla vita lunghissima, se non proprio immortali, e ben pagati, se non proprio divini. L’Egemonia ci aveva scelti per equipaggiare una delle sue preziosi spin-navi a balzo quantico, perciò come potevamo essere meno di dèi? Solo, Mike… l’intelligente, brillante, irriverente Mike… era un po’ più anziano, e un po’ più in alto nel pantheon, del giovane Merin Aspic.
«Bah. Probabilità zero» risposi. Ci stavamo dando una ripulita dopo il turno di dodici ore nella squadra costruzione teleporter. Trasportare per navetta gli operai intorno al punto d’anomalia prescelto circa 163 mila chilometri fuori Patto-Maui, per noi era molto meno attraente di un balzo di quattro mesi dallo spazio dell’Egemonia. Durante la parte T-più del viaggio, eravamo stati dei maestri specialisti: quarantanove esperti astronavali alla guida di duecento passeggeri nervosi. Ora i passeggeri avevano indossato la tuta rigida e noi marinai ci eravamo ridotti a fare i camionisti, mentre la manovalanza sudava per mettere a posto l’ingombrante sfera di contenimento dell’anomalia.
«Probabilità zero» ripetei. «A meno che i terricoli non abbiano aggiunto un bordello all’isola da quarantena che ci hanno affittato.»
«No che non l’hanno aggiunto» sogghignò Mike. A me e a Mike spettavano tre giorni di licenza planetaria ma sapevamo, dalla predica del capitano Singh e dai gemiti dei nostri colleghi, che il tempo a terra l’avremmo trascorso in un’isola di sette chilometri per quattro, sotto l’amministrazione dell’Egemonia. Non si trattava nemmeno di una delle isole mobili di cui avevamo sentito parlare, ma solo di un’altra vetta vulcanica nelle vicinanze dell’equatore. Una volta lì, potevamo contare su una gravità vera sotto i piedi, su un’aria non filtrata e sulla possibilità di assaggiare cibo non sintetizzato. Ma anche sul fatto che gli unici rapporti con i coloni di Patto-Maui li avremmo avuti comprando manufatti locali al negozio duty-free; e anche quelli li vendevano degli specialisti commerciali dell’Egemonia. Parecchi nostri colleghi preferivano trascorrere le licenze sulla Los Angeles.
«E allora come lo inzuppiamo il biscotto, Mike? Le colonie sono vietate, finché il teleporter non funziona. Il che significa una sessantina d’anni, in tempo locale. O parli di Meg in spin-omaggio?»
«Stanami attaccato, ragazzo» disse Mike. «Se uno vuole, il modo lo trova.»
Mi attaccai a Mike. Eravamo solo in cinque, nella navetta. Per me era sempre entusiasmante scendere dall’orbita nell’atmosfera di un mondo vero. Soprattutto di un mondo simile alla Vecchia Terra come Patto-Maui. Fissai il lembo azzurro e bianco del pianeta finché i mari non si trovarono in basso e fummo nell’atmosfera, avvicinandoci al terminatore del crepuscolo in una gentile planata al triplo della velocità del suono.
Allora eravamo dèi. Ma anche gli dèi devono scendere dal loro trono, all’occasione.
Il corpo di Siri non smetteva mai d’affascinarmi. Quella volta nell’Arcipelago. Tre settimane in quel vasto e ondeggiante albero-casa sotto le albero-vele gonfie, con i delfini pastori che mantenevano l’andatura come battistrada, i tramonti tropicali che riempivano di meraviglie la sera, il tetto di stelle la notte, la nostra scia segnata da migliaia di mulinelli fosforescenti che riflettevano le costellazioni. Eppure è il corpo di Siri, quel che ricordo. Per qualche motivo — timidezza, gli anni di separazione — nei primi giorni della nostra permanenza nell’Arcipelago lei indossava due strisce di costume da bagno; e il morbido candore dei suoi seni e del basso ventre non si era scurito a uguagliare l’abbronzatura, prima che fossi costretto ad andarmene di nuovo.
La ricordo quella prima volta. Triangoli nel chiaro di luna, mentre eravamo distesi nella morbida erba, sopra Porto Primosito. I suoi calzoncini di seta impigliati in una trama d’erbasalice. C’era una modestia infantile, allora: la lieve esitazione di qualcosa donato anzitempo. Ma anche orgoglio. Lo stesso orgoglio che in seguito le permise d’affrontare la folla rabbiosa di Separatisti, sui gradini del Consolato dell’Egemonia a Sterna Sud, e di ricacciarli a casa pieni di vergogna.
Ricordo la mia quinta discesa planetaria, la nostra Quarta Riunione. Fu una delle rare volte in cui la vidi piangere. A quel tempo era quasi regale, nella sua fama e saggezza. Era stata eletta quattro volte a senatore della Totalità e l’Egemonia si rivolgeva a lei per avere consiglio e guida. Indossava la sua indipendenza come un manto regale e il suo fiero orgoglio non aveva mai bruciato più vividamente. Ma quando fummo da soli nella villa di pietra a sud di Fevarone, fu lei a girarsi. Ero nervoso, spaventato da quell’estranea potente, ma fu Siri… Siri dalla schiena dritta e dagli occhi orgogliosi, che girò il viso verso la parete e disse fra le lacrime: «Vattene. Vattene, Merin. Non voglio che tu mi veda. Sono una vecchia, floscia e cadente. Vattene!»
Confesso che allora mi comportai da villano. Con la sinistra le imprigionai i polsi — mettendoci una forza che mi sorprese — e contemporaneamente le strappai il vestito. Le baciai le spalle, il collo, le deboli cicatrici del parto sul ventre teso, la cicatrice sulla coscia, ricordo di un incidente di skimmer avvenuto quaranta dei suoi anni prima. Le baciai i capelli che diventavano grigi, le rughe che segnavano le guance un tempo lisce. Le baciai le lacrime.
«Cristo, Mike, è di sicuro illegale» dissi, quando il mio amico tirò fuori dallo zaino il tappeto volante. Eravamo sull’isola 241, come i mercanti dell’Egemonia avevano romanticamente designato la desolata bruttura vulcanica scelta per la nostra licenza. Isola 241 si trovava a meno di cinquanta chilometri dal più antico insediamento coloniale, ma era come se fosse a cinquanta anni-luce. Nessuna imbarcazione locale attraccava lì, quando erano presenti gli uomini dell’equipaggio della Los Angeles o gli operai del teleporter. I coloni di Patto-Maui avevano alcuni antichi skimmer ancora in buone condizioni, ma per un reciproco accordo non c’erano voli sopra l’isola. A parte i dormitori, la spiaggia e il negozio duty-free, nell’isola c’era ben poco che potesse interessare a noi marinai. Un giorno o l’altro, quando la Los Angeles avesse portato nel sistema gli ultimi componenti e il teleporter fosse stato terminato, funzionari dell’Egemonia avrebbero fatto della 241 un centro commerciale e turistico. Ma fino a quel momento era un posto primitivo, con una griglia per l’atterraggio delle navette, degli edifici in pietra bianca locale appena completati, e un gruppetto di addetti alla manutenzione molto annoiati. Mike comunicò che saremmo andati a fare un’escursione di tre giorni nella parte più ripida e inaccessibile della piccola isola.
«Non voglio andare a fare un’escursione, per l’amor di Dio» protestai. «Preferisco restare sulla Los Angeles e attaccarmi allo stim-sim.»
«Chiudi il becco e seguimi» disse Mike. Come un membro minore del pantheon che seguisse una divinità più anziana e più saggia, chiusi il becco e gli andai dietro. Due ore di scarpinata su per i pendii fra cespugli dai rami pungenti ci portarono a una lama di lava alcune centinaia di metri più in alto dei frangenti rumorosi. Eravamo nei pressi dell’equatore d’un mondo in gran parte tropicale, ma in quella cengia esposta il vento ululava e battevo i denti dal freddo. Il tramonto era una macchia rossastra fra i cumuli scuri e non avevo nessuna voglia di trovarmi all’aperto, quando sarebbe scesa la notte.
«Forza» dissi. «Troviamo un riparo dal vento e accendiamo il fuoco. Non so come diavolo riusciremo a piantare la tenda, con tutte queste pietre.»
Mike si sedette e accese uno spinello. «Prova a dare un’occhiata al tuo zaino, ragazzo.»
Esitai. Aveva parlato in tono neutro, ma era il tono tipico di chi ti ha fatto uno scherzo, un attimo prima che ti cada addosso il secchio pieno d’acqua. Mi sedetti sui talloni e frugai nel sacco di nailon. Lo zaino conteneva solo vecchi cubi da imballaggio, in flusso-schiuma, per dargli forma. Più un costume d’arlecchino, completo di maschera e di campanelle alle babbucce.
«Sei… sei impazzito?» balbettai. L’oscurità stava scendendo in fretta. Forse la tempesta sarebbe passata a sud di noi, forse no. In basso i frangenti raspavano come una belva affamata. Se avessi saputo come trovare nel buio la strada per tornare al centro commerciale, avrei preso in considerazione l’idea di lasciare che i resti di Mike Osho nutrissero i pesci alla base dello strapiombo.
«Adesso guarda cosa c’è nel mio zaino» disse Mike. Buttò via alcuni cubi di flussoschiuma e poi tirò fuori un po’ di bigiotteria del tipo che avevo visto fabbricare a mano su Vettore Rinascimento: una bussola inerziale, una penna laser che la Sicurezza della nave poteva o non poteva considerare arma nascosta, un altro costume d’arlecchino — confezionato per adattarsi al suo fisico più rotondo — e un tappeto volante.
«Cristo, Mike» dissi, passando la mano sul raffinato disegno dell’antico tappeto. «È di sicuro illegale.»
«Non ho visto funzionari delle dogane, quaggiù» sogghignò Mike. «E sono proprio convinto che i locali non abbiano agenti addetti al controllo del traffico.»
«Sì, ma…» Non conclusi la frase e srotolai completamente il tappeto. Era largo poco più d’un metro, lungo circa due. La ricca stoffa era sbiadita dagli anni, ma i fili di volo erano ancora lucenti come rame appena estratto. «Dove l’hai preso?» domandai. «Funziona ancora?»
«Su Garden» rispose Mike, rimettendo nel suo zaino i costumi. «E funziona.»
Era trascorso più di un secolo da quando, su Nuova Terra, il vecchio Vladimir Sholokov — emigrante della Vecchia Terra, studioso di lepidotteri e ingegnere di sistemi EM — aveva fabbricato per la sua bellissima nipotina il primo tappeto volante. Secondo la leggenda, la nipotina aveva disprezzato il regalo; ma nel corso degli anni il giocattolo aveva conquistato una popolarità quasi assurda, più fra gli adulti danarosi che fra i bambini, finché non era stato proibito nella maggior parte dei mondi dell’Egemonia. Pericolosi da maneggiare, uno spreco di monofilamenti schermati, quasi impossibili da guidare in uno spazio aereo controllato, i tappeti volanti erano diventati delle curiosità riservate alle fiabe, ai musei e a qualche mondo coloniale.
«Ti sarà costato una fortuna» dissi.
«Trenta marchi» rispose Mike, sedendosi al centro del tappeto. «Il vecchio negoziante del Mercato Carvnel pensava che non valesse niente. Ed era vero… per lui. L’ho portato a bordo, l’ho caricato, ho riprogrammato i chip inerziali, et voilà!» Mike toccò l’intricato disegno e il tappeto s’irrigidì, sollevandosi di quindici centimetri al di sopra della cengia rocciosa.
Lo fissai, dubbioso. «D’accordo» dissi. «Ma se…»
«Niente paura» tagliò corto Mike. Con impazienza indicò la parte di tappeto dietro di sé. «È a piena carica. So manovrarlo. Forza: monta su o fatti da parte. Voglio muovermi prima che arrivi la tempesta.»
«Ma non credo…»
«Forza, Merin. Deciditi. Ho fretta.»
Esitai ancora un paio di secondi. Se ci scoprivano a lasciare l’isola, ci buttavano fuori a calci dalla nave. E allora il lavoro sulla nave era tutta la mia vita. L’avevo deciso quando avevo firmato il contratto per otto anni di missione su Patto-Maui. Inoltre, ero a duecento anni-luce e a cinque e mezzo anni-balzo dalla civiltà. Anche se ci riportavano nello spazio dell’Egemonia, l’intero giro ci sarebbe costato undici anni di amici e di famiglia. Il debito temporale è irrevocabile.
Strisciai dietro Mike sul tappeto sospeso a mezz’aria. Lui sistemò fra noi gli zaini, mi disse di reggermi e toccò il disegno di volo. Il tappeto si alzò di cinque metri sopra la cengia, virò rapidamente a sinistra e schizzò verso l’oceano aperto. Trecento metri più in basso, le onde scagliavano schizzi bianchi nell’oscurità sempre più fitta. Ci alzammo ancora sopra l’acqua smossa e puntammo a nord, nella notte.
In simili secondi di decisione a volte si compiono interi futuri.
Ricordo che parlavo a Siri, durante la Seconda Riunione, poco dopo la visita alla villa sulla costa, nei pressi di Fevarone. Camminavamo sulla spiaggia. Alón aveva avuto il permesso di restare in città, sotto la sorveglianza di Magritte. Andava benissimo. Mi sentivo un po’ a disagio, con il bambino. Solo l’innegabile solennità degli occhi verdi e l’imbarazzante familiarità dei corti ricci scuri e del naso all’insù, lo legavano a me… a noi… nella mia mente. Quei tratti, e il rapido, quasi ironico, sorriso che lo sorprendevo nascondere a Siri quando lei lo sgridava. Era un sorriso troppo cinico, divertito, perspicace, per essere così abituale in un bambino di dieci anni. Lo conoscevo bene. Pensavo che simili atteggiamenti si apprendessero, non che fossero ereditari.
«Sai ben poco» mi disse Siri. Procedeva a piedi, scalza, nelle pozzanghere lasciate dalla marea. Ogni tanto raccoglieva una delicata conchiglia di corno da caccia, la esaminava in cerca di difetti, la lasciava cadere di nuovo nell’acqua torbida.
«Sono stato addestrato bene» risposi.
«Sì, sono certa che ti hanno addestrato bene» convenne Siri. «So che sei abilissimo, Merin. Ma sai ben poco.»
Irritato, senza sapere che cosa rispondere, continuai a camminare accanto a lei a testa bassa. Scalzai dalla sabbia una pietra lavica bianca e la tirai lontano nella baia. Nubi gonfie di pioggia s’addensavano all’orizzonte orientale. Mi trovai a desiderare di essere ancora sulla nave. Questa volta ero stato riluttante a tornare; adesso capivo d’avere sbagliato. Era la mia terza visita su Patto-Maui, la nostra Seconda Riunione, come i poeti e la sua gente la definivano. Mi mancavano cinque mesi per compiere ventuno anni standard. Tre settimane prima, Siri aveva festeggiato i trentasette anni.
«Sono stato in un mucchio di posti che tu non hai mai visto» dissi alla fine. Sembrò una risposta petulante e infantile perfino alle mie orecchie.
«Oh, certo» disse Siri, e batté le mani. Per un secondo, nel suo entusiasmo, scorsi l’altra mia Siri… la giovane ragazza di cui avevo sognato durante i nove lunghi mesi d’inversione. Poi l’immagine tornò piano piano alla cruda realtà e vidi fin troppo bene i suoi capelli corti, il rilassamento dei muscoli del collo e dei tendini ora in rilievo su quelle mani un tempo amate. «Sei stato in posti che non vedrò mai» disse Siri in fretta. La voce era identica. Quasi. «Merin, amore mio, hai già visto cose che io non posso nemmeno immaginare. Probabilmente, dell’universo conosci più fatti di quanti io non posso nemmeno sognare. Ma sai ben poco, tesoro.»
«Di cosa diavolo parli, Siri?» Mi sedetti sopra un tronco per metà sommerso, sulla striscia di sabbia umida e sollevai al petto le ginocchia, quasi a formare una barriera fra noi.
Siri uscì dalle pozzanghere e venne a inginocchiarsi davanti a me. Mi prese le mani: anche se le mie erano più grosse, più pesanti, più rudi, sentivo la forza nelle sue. La ritenni la forza di anni che non avevo condiviso con lei. «Devi vivere, per conoscere davvero le cose, amore mio. Alón mi ha aiutato a capirlo. C’è qualcosa, nell’allevare un figlio, che aiuta ad acuire il senso di ciò che è reale.»
«Non puoi spiegarti meglio?»
A occhi socchiusi, per qualche secondo Siri guardò lontano da me e con aria assente si ravviò un ricciolo. Con la sinistra stringeva forte le mie mani. «Non sono sicura» disse piano. «Penso che si cominci a capire quali sono le cose davvero importanti. Non so come esprimerlo. Quando passi trent’anni a entrare in stanze piene di estranei, senti una pressione minore di quando avevi solo metà di quel tempo d’esperienza. Sai che cosa la stanza e la gente può avere in serbo per te, e te l’aspetti. Se non c’è, te ne accorgi subito e te ne vai per gli affari tuoi. Solo, sai di più su che cosa è, che cosa non è, e quanto poco tempo c’è per imparare la differenza. Capisci, Merin? Mi segui almeno un poco?»
«No» risposi.
Siri annuì, si morsicò il labbro inferiore, e per un po’ non parlò. Si sporse invece a baciarmi. Le sue labbra erano secche, sembravano quasi porre domande. Rimasi per un secondo a guardare il cielo al di là di lei, desiderando tempo per riflettere. Poi sentii la tiepida intrusione della sua lingua e chiusi gli occhi. Dietro di noi, la marea saliva. Sentii un calore piacevole e la reazione, mentre Siri mi sbottonava la camicia e mi passava sul petto le unghie appuntite. Ci fu un secondo di vuoto fra noi; aprii gli occhi in tempo per vederla sbottonare l’ultimo bottone sul davanti dell’abito bianco. I suoi seni erano più grossi di quanto ricordassi, più pesanti, con capezzoli più larghi e più scuri. L’aria era pungente. Le abbassai sulle spalle il vestito e mi strinsi a lei. Scivolammo dal tronco sulla sabbia tiepida. Stretto a Siri, mi domandai come potevo pensare che fosse lei la più forte. La sua pelle sapeva di sale.
Le mani di Siri mi aiutarono. I suoi capelli corti erano schiacciati contro il legno scolorito: cotone bianco e sabbia. Il cuore mi batteva più forte dei frangenti.
«Capisci, Merin?» mormorò Siri qualche secondo dopo, mentre il suo calore ci univa.
«Sì» sussurrai. Ma non capivo.
Mike diresse il tappeto verso Primosito. Ci volle più di un’ora di volo nel buio, e io passai quasi tutto il tempo rannicchiato per difendermi dal vento, e aspettandomi che da un momento all’altro il tappeto si piegasse e ci facesse precipitare nell’oceano. Mancava ancora mezz’ora di volo quando vedemmo la prima isola mobile. Le isole correvano davanti alla tempesta, con le albero-vele gonfie; provenivano dai pascoli meridionali in una processione all’apparenza infinita. Alcune erano vividamente illuminate e adorne di festoni di lanterne multicolori e dei cangianti veli di luce dei ragnatelidi.
«Sei sicuro che sia la strada giusta?» gridai.
«Sì» rispose Mike. Non girò la testa. Il vento mi soffiava sul viso i suoi lunghi capelli neri. Ogni tanto Mike controllava la bussola e correggeva un poco la rotta. Forse era più facile seguire le isole. Oltrepassammo una delle più grandi, lunga quasi mezzo chilometro; aguzzai la vista per scorgere i particolari ma, a parte il riflesso della scia fosforescente, l’isola era buia. Sagome scure tagliavano le onde lattee. Diedi un colpetto sulla spalla di Mike e tesi il braccio.
«Delfini!» gridai, indicandoli. «La colonia è stata fondata proprio a questo scopo, ricordi? Durante l’Egira, un gruppo di filantropi ingenui voleva salvare tutti i mammiferi degli oceani della Vecchia Terra. Ma non c’è riuscito.»
Avrei continuato, ma in quel momento scorsi il promontorio e il porto di Primosito.
Pensavo che le stelle fossero vivide, nel cielo di Patto-Maui. Pensavo che il pittoresco spettacolo delle isole migratorie fosse memorabile. Ma la città di Primosito, fra porto e colline, era un faro ardente nella notte. La sua luminosità mi ricordò una nave-torcia che avevo visto tempo addietro mentre creava la propria nova di plasma contro il lembo scuro di una fosca gigante gassosa. Primosito era un alveare a cinque piani di edifici bianchi, tutti illuminati all’interno da calde lanterne e all’esterno da un numero incredibile di torce. La pietra bianca della stessa isola vulcanica sembrava risplendere delle luci della città. Alla periferia c’erano tende, padiglioni, falò, fuochi per cucinare, e grandi roghi ardenti troppo grossi per servire a qualcosa se non a dare il benvenuto alle isole di ritorno.
Il porto era pieno di imbarcazioni: catamarani con campanacci appesi all’albero maestro; case galleggianti con lo scafo grande e la chiglia piatta, adatte a navigare senza fretta di porto in porto nelle calme secche equatoriali, ma quella notte orgogliosamente illuminate da file di lampadine; e occasionali yacht d’altura, snelli e funzionali come pescicani. Sull’estremità del corno della scogliera portuale un faro lanciava il suo raggio di luce lontano sul mare, illuminava onde e isole, poi tornava indietro a rivelare il colorato dondolio di imbarcazioni e persone.
Anche a due chilometri di distanza si sentiva un gran frastuono. I suoni di un festeggiamento arrivavano chiarissimi fino a noi. Sopra le grida e il costante mormorio dei frangenti si levavano le inconfondibili note di una sonata per flauto di Bach. Seppi in seguito che questo coro di benvenuto era trasmesso con alcuni idrofoni nei Canali di Passaggio, dove i delfini spiccavano balzi e capriole al suono della musica.
«Oddio, Mike, come sapevi che ci sarebbe stata festa?»
«Ho domandato al computer principale della nave» rispose Mike. Il tappeto virò a destra per tenersi lontano dalle imbarcazioni e dal raggio del faro, poi curvò all’indietro, a nord di Primosito, verso un buio sputo di terra. Sentivo il morbido rimbombo delle onde contro le secche più avanti. «Fanno questa festa ogni anno» continuò Mike. «Ma ora si celebra il centocinquantesimo anniversario. La festa dura da tre settimane e andrà avanti per altre due. Sull’intero pianeta ci sono solo centomila coloni, Merin; ma sono sicuro che almeno la metà ci sta partecipando.»
Rallentammo, scendemmo con cautela e toccammo terra su un affioramento roccioso non lontano dalla spiaggia. La tempesta ci aveva mancati, a sud; ma lampi intermittenti e le luci lontane delle isole in arrivo segnavano ancora l’orizzonte. In alto, appena sopra l’altura davanti a noi, le stelle non erano oscurate dallo splendore di Primosito. Lì l’aria era più calda; sentivo nella brezza il profumo dei frutteti. Ripiegammo il tappeto e indossamo in fretta i costumi da arlecchino. Mike s’infilò nelle tasche capaci la penna laser e la bigiotteria.
«A cosa ti servono?» gli chiesi mentre mettevamo al sicuro, sotto un grosso masso, gli zaini e il tappeto.
«Questi?» disse Mike, facendo dondolare una collana di Rinascimento. «Sono denaro sonante, nel caso sia necessario procurarsi un favore.»
«Un favore?»
«Un favore» ripeté Mike. «La generosità di una signora. Qualche comodità per uno stanco spaziale. Un cantuccio per te, ragazzo.»
«Oh» dissi. Mi sistemai la maschera e il berretto da giullare. Nel buio i sonagli mandarono un lieve scampanellio.
«Su, vieni» disse Mike. «Non perdiamoci la festa.» Annuii e lo seguii, fra un tintinnio di campanelle, mentre ci facevamo strada fra sassi e cespugli verso la luce in attesa.
Siedo qui al sole e aspetto. Non so con certezza che cosa. Sento sulla schiena un tepore crescente: il sole del mattino, riflesso dalla pietra bianca della tomba di Siri.
La tomba di Siri?
Non ci sono nuvole. Alzo la testa e scruto il cielo socchiudendo gli occhi, come se potesse esserci la L.A. con il teleporter appena terminato. Non è possibile. Una parte di me sa che non si sono ancora alzati in volo. Una parte di me sa esattamente quanto tempo manca perché nave e teleporter passino sullo zenit. Una parte di me non vuole pensarci.
“Siri, faccio la cosa giusta?”
C’è un rumore improvviso di bandierine agitate dal vento. Intuisco, più che vedere, l’irrequietezza della folla in attesa. Per la prima volta dall’atterraggio per la nostra Sesta Riunione, questa, sono addolorato. No, non sento dolore, non ancora, ma una tristezza acuta che presto diventerà rimpianto. Per anni ho portato avanti mute conversazioni con Siri formulando a me stesso domande per future discussioni con lei, e all’improvviso mi rendo conto con fredda chiarezza che mai più ci siederemo insieme a parlare. Dentro di me comincia a crescere un vuoto.
“Devo lasciare che accada, Siri?”
Non c’è risposta, a parte il crescente mormorio della folla. Fra qualche minuto manderanno sulla collina Donel, il mio figlio più giovane e ancora in vita, o sua figlia Lira e il fratello, a sollecitarmi. Butto via il filo d’erbasalice. C’è una traccia d’ombra all’orizzonte. Potrebbe essere una nuvola. Oppure la prima delle isole, spinte dall’istinto e dalle tramontane primaverili a migrare nella grande striscia di secche equatoriali da cui erano partite. Non importa.
“Siri, faccio la cosa giusta?”
Non c’è risposta; e resta sempre meno tempo.
A volte Siri sembrava così ignorante da farmi star male.
Non sapeva niente della mia vita lontano da lei. Faceva domande, ma dubitavo che fosse interessata alle risposte. Ho passato molte ore a spiegarle la bellezza della fisica che permette l’esistenza delle spin-navi, ma non capiva. Una volta, dopo che mi ero dato un gran daffare per chiarire le differenze fra la loro antica nave coloniale e la Los Angeles, Siri mi sorprese domandandomi: «Ma perché ai miei antenati occorsero ottant’anni di tempo nave per arrivare su Patto-Maui, quando tu fai il viaggio in centrotrenta giorni?» Non aveva capito niente.
Siri aveva un senso della storia a dir poco penoso. Considerava l’Egemonia e la Rete dei Mondi allo stesso modo con cui un bambino vedrebbe il mondo fantastico di una leggenda piacevole ma piuttosto sciocca: in lei c’era un’indifferenza che a volte mi faceva arrabbiare.
Siri sapeva tutto, dei primi giorni dell’Egira… almeno per quanto riguardava Patto-Maui e i suoi coloni; di tanto in tanto se ne usciva con qualche divertente e antiquato modo di dire, ma non sapeva niente delle realtà post-Egira. Nomi come Garden e gli Ouster, Rinascimento e Lusus significavano poco, per lei. Se citavo Salmud Brevy o il generale Horace Glennon-Height, non aveva nessuna reazione.
L’ultima volta che la vidi, aveva settant’anni standard. Aveva settant’anni e non aveva mai… fatto viaggi interplanetari, usato un astrotel, assaggiato bevande alcoliche diverse dal vino; non si era mai interfacciata con un chirurgo empatico, non aveva mai varcato un teleporter, fumato uno spinello, ricevuto un aggiustamento genetico; non si era mai collegata a uno stim-sim; non aveva ricevuto un’istruzione scolastica formale, preso una medicina RNA, sentito parlare di gnostici Zen e di Chiesa Shrike; né volato su un qualsiasi velivolo, a parte un antiquato skimmer Vikken di proprietà della sua famiglia.
Siri non aveva mai fatto l’amore con nessuno, tranne che con me. O così aveva detto. E così credevo.
Fu durante la nostra Seconda Riunione, quella volta nell’Arcipelago, che Siri mi portò a parlare con i delfini.
Ci eravamo alzati ad ammirare l’alba. I piani più alti dell’albero-casa erano un posto perfetto per guardare il cielo che impallidiva e si trasformava in mattino. Increspature d’alti cirri si coloravano di rosa, poi il mare stesso sembrò fondersi mentre il sole galleggiava sopra l’orizzonte piatto.
«Andiamo a nuotare» disse Siri. La ricca luce orizzontale le bagnava la pelle e gettava la sua ombra a quattro metri sulle assi della piattaforma.
«Sono troppo stanco» risposi. «Più tardi.» Eravamo rimasti svegli per gran parte della notte a chiacchierare, a fare l’amore, a chiacchierare, a fare di nuovo l’amore. Nel bagliore del mattino mi sentivo vuoto e con un vago senso di nausea. Il lieve movimento dell’isola mi dava un pizzico di vertigine, mi faceva sentire distaccato dalla gravità come un ubriaco.
«No. Andiamo adesso.» Mi prese la mano per tirarmi con sé. Ero irritato, ma non mi opposi. Siri aveva ventisei anni, sette di più di quanti ne aveva avuti all’epoca della Prima Riunione; ma il suo comportamento impulsivo spesso mi ricordava la Siri ragazzina che avevo portato via dalla festa solo dieci dei miei mesi prima. La risata profonda e generosa era la stessa. Gli occhi verdi avevano lo stesso sguardo tagliente, quando si spazientiva. I lunghi capelli biondo rame non erano cambiati. Ma il corpo era maturato, si era riempito d’una promessa prima solo accennata. I seni erano ancora alti e sodi, quasi da adolescente, punteggiati nella parte superiore da lentiggini che lasciavano spazio a un candore così trasparente da lasciar scorgere una traccia azzurrina di vene. Ma, in qualche modo, diversi. Lei stessa era diversa.
«Vieni con me, o te ne resti qui imbambolato?» disse Siri. Si era tolta il caffetano, mentre uscivamo sul ponte inferiore. La nostra barchetta era ancora attraccata al pontile. In alto, le albero-vele cominciavano a schiudersi alla brezza del mattino. Negli ultimi giorni Siri aveva insistito per mettersi in costume da bagno, quando entrava in acqua. Ora non lo aveva. I suoi capezzoli s’indurirono nell’aria fresca.
«Non ci lascerà indietro?» le chiesi, dando un’occhiata di sbieco alle albero-vele che sbattevano. Nei giorni precedenti avevamo atteso le bonacce equatoriali di metà giornata, quando l’isola era ferma nell’acqua e il mare uno specchio lustro. Ora le liane del fiocco si tendevano, mentre le spesse foglie si gonfiavano al vento.
«Non essere sciocco» disse Siri. «Possiamo sempre afferrare una radice di chiglia e seguirla. Oppure un viticcio di nutrimento. Vieni.» Mi gettò una maschera a osmosi e si mise la sua. La pellicola trasparente dava l’impressione che lei avesse il viso lucido d’olio. Prese dalla tasca del caffetano un grosso medaglione e se lo mise al collo. Il metallo sembrò scuro e sinistro contro la sua pelle.
«Che cos’è?» domandai.
Siri non sollevò la maschera a osmosi per rispondere. Si sistemò sul collo i cavi di comunicazione e mi tese l’auricolare. La voce era metallica. «Disco traduttore» disse. «Pensavo che conoscessi tutti i marchingegni, Merin. L’ultimo è un auricolare sottomarino.» Con una mano tenne fermo fra i seni il disco e si tuffò dall’isola. Vidi i pallidi globi delle natiche, quando si capovolse e scalciò per scendere in profondità. Nel giro di qualche secondo fu solo una sagoma bianca e confusa nell’acqua profonda. Mi misi anch’io la maschera, collegai i cavetti di comunicazione e mi tuffai.
Il fondo dell’isola era una macchia scura contro un soffitto di luce cristallina. Diffidai dei viticci di nutrizione, anche se Siri mi aveva ampiamente dimostrato che s’interessavano solo a divorare il minuscolo zooplancton che anche in quel momento rifletteva la luce del sole come la polvere di una sala da ballo abbandonata. Le radici di chiglia, simili a stalattiti contorte, scendevano per centinaia di metri nell’abisso violaceo.
L’isola si muoveva. Vedevo la lieve fibrillazione dei viticci che si spostavano. Una scia prese la luce dieci metri sopra di me. Per un secondo soffocai, mentre il gel della maschera mi toglieva il fiato proprio come avrebbe fatto l’acqua circostante; poi mi rilassai e l’aria mi riempì liberamente i polmoni.
Mi arrivò la voce di Siri: «Più giù, Merin». Battei le palpebre… un lento ammiccare, mentre la maschera si riadattava sui miei occhi; intravidi Siri, venti metri più in basso, aggrappata a una radice della chiglia, sospesa senza sforzo sopra le correnti più profonde e più fredde, dove non arrivava la luce. Pensai ai chilometri d’acqua sotto di me, alle creature che forse erano in agguato, sconosciute ai coloni umani e non cercate. Lo scroto mi si contrasse.
«Vieni giù.» La voce di Siri era un ronzio d’insetto. Ruotai e scalciai. La spinta idrostatica qui era inferiore a quella dei mari della Vecchia Terra, ma occorreva sempre una certa forza per spingersi così in basso. La maschera compensava la profondità e l’azoto, ma sentivo la pressione sulla pelle e nelle orecchie. Alla fine smisi di scalciare e afferrai una radice; usandola come fune, raggiunsi il livello di Siri.
Nuotammo fianco a fianco nella luce fioca. Siri era una figura spettrale, con i lunghi capelli che fluttuavano come un nimbo color vino scuro, le strisce di pelle non abbronzata che mandavano pallidi riflessi nella luce verdazzurra. La superficie sembrava lontanissima. La V sempre più larga formata dalla scia e il movimento di deriva dei numerosi viticci mostravano che ora l’isola si muoveva più velocemente, che si spostava con noncuranza verso altri pascoli, altre acque più lontane.
«Dove sono i…» iniziai a subvocalizzare.
«Sst» disse Siri. Si gingillò col medaglione. E allora li sentii: grida stridule e trilli, fischi, fusa e grida echeggianti. Di colpo il mare si era riempito di una musica bizzarra.
«Oddio» dissi; e poiché Siri aveva sintonizzato con il traduttore i nostri cavetti di comunicazione, la parola fu trasmessa sotto forma di un fischio e di un suono di corno privi di significato.
«Salve!» disse Siri, e il saluto fu tradotto dal trasmettitore: un cinguettio rapidissimo che scivolava negli ultrasuoni. «Salve!» ripeté Siri.
Passò qualche minuto, prima che i deflini venissero a indagare. Girarono dietro di noi, sorprendentemente grossi, grandi da far paura, la pelle lucida e muscolosa nella luce incerta. Un grosso delfino nuotò a un metro da noi e all’ultimo momento deviò, e il suo ventre biancastro fu come un muro intorno a noi. L’occhio scuro ruotò per seguirmi, mentre il delfino passava oltre. Un colpo dell’ampia pinna caudale produsse uno spostamento d’acqua così forte da darmi la misura della forza dell’animale.
«Salve» gridò Siri; ma la sagoma veloce svanì nella foschia della distanza e ci fu un silenzio improvviso. Siri spense il traduttore. «Vuoi parlare ai delfini?» mi domandò.
«Sì.» Ero dubbioso. Più di tre secoli di tentativi non avevano avuto molto successo nello stabilire un dialogo fra l’uomo e quei mammiferi marini. Una volta Mike m’aveva detto che le strutture di pensiero dei due gruppi d’orfani della Vecchia Terra erano troppo diverse e i punti di contatto troppo pochi. Un esperto pre-Egira aveva scritto che parlare a un delfino o a una focena dava la stessa soddisfazione di parlare a un bambino di un anno. In genere lo scambio di suoni piaceva a entrambi gli interlocutori e c’era una sorta di dialogo, ma nessuno ne ricavava conoscenze superiori. Siri accese di nuovo il disco traduttore. «Salve» dissi io.
Ci fu un ultimo minuto di silenzio; poi gli auricolari si misero a ronzare, e il mare a echeggiare di ululati striduli.
distanza/no-coda/salve-tono?/corrente impulso/gira intorno a me/divertente?
«Cosa diavolo succede?» chiesi a Siri, ma dal traduttore la domanda uscì in forma di trillo. Sotto la maschera a osmosi, Siri rideva.
Provai di nuovo. «Salve! Saluti da… uh… dalla superficie. Come va?»
Il grosso maschio… immaginai che fosse maschio… descrisse una curva verso di noi con la velocità d’una torpedine. Si mosse nell’acqua dieci volte più in fretta di quanto avrei mai potuto fare io, anche se mi fossi ricordato di mettere un paio di pinne. Per un istante pensai che ci avrebbe speronati e alzai le ginocchia afferrandomi forte alla radice. Ma il delfino passò oltre e risalì per respirare, mentre Siri e io venivamo sbattuti qua e là dalla turbolenza della sua scia, storditi dal suo grido acuto.
no-coda/no-cibo/no-nuoto/no-gioco/no-divertimento.
Siri spense il traduttore e mi si avvicinò. Mi strinse piano la spalla, mentre mi reggevo sempre con la destra alla radice. Andammo alla deriva nell’acqua tiepida e le nostre gambe si toccarono. Un banco di minuscoli pesci guerrieri color cremisi sciamò sopra di noi; le sagome scure dei delfini giravano in cerchio, più lontano.
«Ti basta?» domandò Siri. Mi posò sul petto la mano.
«Ancora una prova» risposi. Siri annuì e riaccese il disco. La corrente ci spinse di nuovo l’uno addosso all’altra. Lei mi circondò col braccio.
«Perché seguite le isole?» chiesi alle sagome dal naso gonfio che giravano nella luce variegata. «Quali vantaggi avete, a stare con loro?»
risonanti adesso/antichi canti/acqua fonda/no-Grandi Voci/no-Squalo/antichi canti/nuovi canti.
Il corpo di Siri era adesso allineato al mio. Con la sinistra si strinse a me. «Grandi Voci erano le balene» mormorò. I suoi capelli si aprirono a ventaglio come stelle filanti. Mosse la destra più in basso e sembrò sorpresa da quel che trovò.
«Sentite la mancanza delle Grandi Voci?» domandai alle ombre. Non ci fu risposta. Con le gambe Siri mi circondò i fianchi. La superficie era una conca di luce che ribolliva quaranta metri più in alto.
«Cosa vi manca di più, degli oceani della Vecchia Terra?» chiesi. Con la sinistra tirai Siri più vicino, lasciai scivolare la mano lungo la curva della sua schiena fino all’attaccatura delle natiche, e la tenni stretta. Ai delfini che ci giravano intorno certo sembravamo una creatura sola.
Il disco traduttore si era spostato e pendeva sulla spalla di Siri. Allungai la mano per spegnerlo, ma mi trattenni, perché la risposta prese a ronzarmi impellente nelle orecchie.
manca Squalo/manca Squalo/manca Squalo/manca Squalo/Squalo/Squalo/Squalo.
Spensi il traduttore e scossi la testa. Non capivo. C’erano molte cose, che non capivo. Chiusi gli occhi, mentre Siri e io ci muovevamo al ritmo gentile della corrente e di noi stessi; intanto i delfini sciamavano lì intorno e la cadenza dei loro richiami assumeva il tono stridulo, triste e pacato, d’un antico lamento.
Siri e io scendemmo dalle colline e tornammo alla Festa, proprio prima dell’alba del secondo giorno. Per una notte e un giorno avevamo vagato fra le colline, mangiato con estranei nei padiglioni di seta arancione, fatto il bagno insieme nelle gelide acque dello Shree, danzato alla musica che non smetteva mai di raggiungere la fila infinita delle isole di passaggio. Eravamo affamati. Mi ero svegliato al tramonto e avevo scoperto che Siri era sparita. Tornò prima che sorgesse la luna di Patto-Maui. Mi disse che i suoi genitori erano andati via con degli amici per alcuni giorni in una lenta casa galleggiante. Avevano lasciato a Primosito lo skimmer di famiglia. Allora passammo di ballo in ballo, di falò in falò, fino al centro della città. Intendevamo volare a ovest, nella tenuta della sua famiglia vicino a Fevarone.
Era tardi, ma nel parco di Primosito si attardava ancora un bel po’ di gente. Ero molto felice. Avevo diciannove anni e mi ero innamorato e la gravità di Patto-Maui, 0,93 g, mi sembrava minore di quanto non fosse in realtà. Avrei potuto volare, se avessi voluto. Avrei potuto fare qualsiasi cosa.
Ci eravamo fermati a un chiosco per comprare focaccine fritte e tazze di caffè nero. All’improvviso mi colpì un pensiero. «Come sapevi che sono un marinaio?» le domandai.
«Zitto, amico Merin. Mangia la tua povera colazione. Poi alla villa ti preparerò un pasto vero.»
«No, dico sul serio» replicai; con la manica del tutt’altro che pulito costume da arlecchino mi tolsi dal mento una macchia di grasso. «Stamattina hai detto che ieri notte hai capito subito che venivo dalla nave. Come mai? Per il mio modo di parlare? Per il costume? Mike e io ne abbiamo visti altri, vestiti come noi.»
Siri rise e si lisciò i capelli. «Ringrazia il cielo che sono stata io a scoprirti, Merin, amore mio. Fosse stato mio zio Gresham o i suoi amici sarebbero stati guai.»
«Ah. Ma perché?» Presi un’altra ciambella e Siri pagò. La seguii tra la folla che diventava più rada. Nonostante il movimento e la musica tutt’intorno, cominciavo a sentirmi stanco.
«Sono Separatisti» disse Siri. «Di recente zio Gresham ha sostenuto davanti al Consiglio che dobbiamo combattere, non lasciarci inghiottire dalla vostra Egemonia. Ha detto che dovremmo distruggere quel vostro teleporter, prima di esserne distrutti.»
«Sì?» dissi. «Ha spiegato come intendeva farlo? Per quanto ne so, voi non avete navi interplanetarie.»
«No, e non le abbiamo più da cinquant’anni» disse Siri. «Ma questo dimostra fino a che punto i Separatisti possono essere irrazionali.»
Annuii. Il capitano Singh e il consigliere Halmyn ci avevano informati dei cosiddetti Separatisti di Patto-Maui. «Il solito gruppo di sciovinisti coloniali e di ritardati» aveva detto Singh. «È anche per questo che procediamo lentamente e cerchiamo di sviluppare il potenziale economico del pianeta prima di terminare il teleporter. La Rete dei Mondi non ha bisogno che questi zoticoni siano ammessi prima del tempo. Gruppi come i Separatisti sono un motivo in più per tenere lontano dai terricoli gli uomini dell’equipaggio e le squadre di costruzione.»
«Dov’è il tuo skimmer?» domandai. Il parco si stava svuotando in fretta. La maggior parte dei complessi aveva già messo via gli strumenti. Molte persone con addosso costumi vistosi russavano sull’erba o sui ciottoli, fra i rifiuti e le lanterne spente. Restavano solo piccole oasi di baldoria, gruppetti che danzavano lentamente al suono solitario d’una chitarra o che cantavano da avvinazzati. Vidi subito Mike Osho: un buffone vestito da arlecchino che da un pezzo aveva perso la maschera e teneva a braccetto una ragazza per parte. Tentava di insegnare la “Hava Nagilla” a un cerchio di ammiratori rapiti ma incapaci. Uno inciampava, e cadevano tutti. Fra le risate generali, Mike li incitava a rialzarsi e a cominciare da capo, saltellando goffamente al canto della sua voce da basso profondo.
«Eccolo lì» disse Siri. Indicò una corta fila di skimmer fermi dietro la Sala del Parco. Agitai il braccio in direzione di Mike, ma lui era troppo impegnato a stringersi alle due ragazze per notare me. Siri e io avevamo attraversato la piazza ed eravamo all’ombra del vecchio edificio, quando sentii il grido.
«Marinaio! Girati, figlio di puttana dell’Egemonia!»
Mi bloccai e mi girai di scatto stringendo i pugni, ma accanto a me non c’era nessuno. Sei giovanotti avevano sceso i gradini della tribuna coperta e si erano messi a semicerchio dietro Mike. Quello più avanti era alto, snello, di una bellezza sorprendente. Sui venticinque anni, aveva lunghi ricci biondi che scendevano sull’abito di seta cremisi che metteva in risalto il fisico. Nella destra reggeva una spada d’un metro che sembrava di acciaio temperato.
Lentamente Mike si girò. Anche da lontano vidi che si era fatto di colpo sobrio e che stava studiando la situazione. Le ragazze ai suoi fianchi e un paio di giovanotti del suo gruppo ridacchiarono come se qualcuno avesse detto una spiritosaggine. Mike badò a non perdere il sorriso da ubriaco. «Dice a me, signore?» replicò.
«Dico a te, figlio di baldracca dell’Egemonia!» sibilò il capo dei sei. Il bel viso era contorto in un ghigno.
«Bertol» mormorò Siri. «Mio cugino. Il figlio minore di Gresham.» Uscii dall’ombra. Siri mi trattenne per il braccio.
«È la seconda volta, signore, che si riferisce in maniera poco cortese a mia madre» disse Mike, con voce strascicata. «Mia madre o io l’abbiamo forse offesa in qualche modo? Se è così, le chiedo mille volte scusa.» Mike fece un inchino tanto profondo che i sonagli del berretto quasi toccarono terra. Alcuni del suo gruppo applaudirono.
«La tua presenza mi offende, brutto bastardo dell’Egemonia! Appesti l’aria, con la tua carcassa lardosa!»
Mike inarcò comicamente le sopracciglia. Accanto a lui, un giovanotto con un costume da pesce mosse la mano. «Oh, via, Bertol. È solo…»
«Taci, Ferick. Parlo a questo ciccione d’uno stronzo.»
«Stronzo?» ripeté Mike, sempre con le sopracciglia inarcate. «Ho attraversato duecento anni-luce per farmi chiamare ciccione d’uno stronzo? Non mi pare proprio che ne valesse la pena.» Si girò con grazia per districarsi dalle due donnine. In quel momento mi sarei unito a Mike, ma Siri mi si appese con forza al braccio supplicandomi senza successo. Quando riuscii a liberarmi, Mike sorrideva ancora, continuando a recitare la parte dello sciocco. Ma aveva infilato la mano nell’ampia tasca della camicia.
«Dagli la tua spada, Creg» disse Bertol, brusco. Uno dei giovani lanciò a Mike una spada dalla parte dell’elsa. Mike la guardò descrivere un arco e cadere con fracasso sui ciottoli.
«Non puoi fare sul serio» disse Mike, con una voce bassa, di colpo completamente sobria. «Stupido sterco di vacca! Credi davvero che mi batta a duello con te solo perché t’è venuta la fregola di fare l’eroe per questi bifolchi?»
«Raccogli la spada» gridò Bertol. «Altrimenti, perdio, ti faccio a pezzi qui su due piedi.» Fece un passo avanti. Il viso era stravolto dall’ira.
«Vaffanculo» disse Mike. Nella sinistra aveva la penna laser.
«No!» gridai. Corsi in piena luce. Penne del genere le usavano gli operai per marcare le travature in fibrolega.
Le cose precipitarono in un attimo. Bertol avanzò d’un altro passo e Mike quasi con noncuranza lo colpì con il raggio verde. Il colono gridò e fece un salto indietro: di traverso, sullo sparato della camicia di seta, era comparsa una linea nera e fumante. Esitai. Mike aveva regolato sul minimo la penna laser. Due amici di Bertol avanzarono: Mike li colpì agli stinchi. Uno cadde sulle ginocchia e imprecò, mentre l’altro saltellò via reggendosi la gamba e ululando di dolore.
Si era formata una folla. Tutti risero mentre Mike, con il berretto a sonagli, faceva di nuovo un’ampia riverenza. «La ringrazio» disse Mike. «Anche a nome di mia madre.»
Il cugino di Siri aveva la bava alla bocca. Mi aprii un varco fra la folla e avanzai fra Mike e il colono.
«Ehi, è tutto a posto» dissi. «Ce ne andiamo. Andiamo via subito.»
«Maledizione, Merin, togliti di mezzo!» disse Mike.
«È tutto a posto» ripetei girandomi verso di lui. «Sono con una ragazza che si chiama Siri e ha…» Bertol mi superò con un passo e fece un affondo. Con il braccio sinistro lo afferrai per le spalle e lo tirai indietro. Cadde pesantemente sull’erba.
«Oh, merda» disse Mike, arretrando di alcuni passi. Sembrava stanco e un poco disgustato, mentre si sedeva su un gradino di pietra. «Oh, Cristo!» disse poi sottovoce. In una delle toppe nere sul lato sinistro del costume da arlecchino c’era un taglio cremisi. Sotto i miei occhi, quello squarcio sottile si aprì e il sangue colò sul grosso ventre di Mike Osho.
«Cristo, Mike!» Strappai una striscia di camicia e cercai di fermare l’emorragia. Non riuscivo a ricordare le lezioni di pronto soccorso che ci avevano insegnato da cadetti. Mi toccai il polso, ma non trovai il comlog. Li avevamo lasciati sulla Los Angeles.
«Non è brutta, Mike» ansimai. «Solo un taglietto.» Il sangue mi colò sulla mano e sul polso.
«Basterà» disse Mike. La voce era tesa per il dolore. «Cristo! Una spada di merda! Ci credi, Merin? Abbattuto nel fiore degli anni da un merdoso coltellaccio uscito da una merdosa operetta da un soldo. Oh, Cristo, brucia!»
«Da tre soldi» dissi e cambiai mano. Lo straccio era zuppo di sangue.
«Sai, Merin, qual è il tuo maledetto guaio? Ci metti sempre i tuoi merdosi due soldi. Ahi!» La faccia gli diventò pallida, poi grigia. Abbassò la testa e prese a respirare pesantemente. «Al diavolo tutto, ragazzo. Andiamo a casa, eh?»
Lanciai un’occhiata da sopra la spalla. Bertol si stava allontanando lentamente con i suoi amici. Tutti gli altri giravano qua e là, sconvolti. «Chiamate un medico!» gridai. «Chiamate un’ambulanza!» Due giovanotti si lanciarono di corsa nella via. Non c’era segno di Siri.
«Un momento! Un momento!» disse Mike alzando la voce, come se si fosse scordato una cosa importante. «Un momento solo» disse. E morì.
Morì. Morte vera. Morte del cervello. Spalancò oscenamente la bocca, strabuzzò gli occhi fino a mostrare solo il bianco, e un attimo dopo il sangue smise di sgorgare dalla ferita.
Per qualche istante di follia maledissi il cielo. Vedevo la L.A. muoversi contro lo sfondo delle stelle che già svanivano; potevo riportare in vita Mike, se l’avessi raggiunta nel giro di qualche minuto. La folla arretrò, mentre urlavo e imprecavo alle stelle.
Alla fine mi girai verso Bertol. «Tu!» dissi.
Il giovane si era fermato all’estremità del parco. La sua faccia era color cenere. Mi fissava, muto.
«Tu!» ripetei. Raccolsi da terra la penna laser, la regolai sul massimo e avanzai verso il punto dove Bertol e i suoi amici erano fermi in attesa.
Nella confusione di grida e di carne bruciata che seguì, mi resi vagamente conto che lo skimmer di Siri si stava posando sulla piazza piena di gente soffiando polvere da tutte le parti, e lei mi stava ordinando di raggiungerla. Volammo via da quella luce e da quella follia. Il vento freddo mi soffiò dal collo i capelli fradici.
«Andiamo a Fevarone» disse Siri. «Bertol era ubriaco. I Separatisti sono un gruppo piccolo e violento. Non ci saranno ritorsioni. Starai con me finché il Consiglio non avrà concluso l’inchiesta.»
«No» dissi. «Qui. Atterra qui.» Indicai uno sputo di terra non lontano dalla città.
Nonostante le proteste. Siri atterrò. Lanciai un’occhiata al grosso sasso per assicurarmi che gli zaini fossero ancora lì, poi scesi dallo skimmer. Siri si allungò sul sedile e attirò la mia testa verso la sua. «Merin, amore» disse. Le sue labbra erano calde e aperte, ma non sentii niente. Ero come anestetizzato in tutto il corpo. Arretrai e con un gesto la mandai via. Lei si lisciò i capelli e mi fissò, gli occhi verdi pieni di lacrime. Poi lo skimmer si alzò, virò, e si diresse rapidamente a sud nella luce del primo mattino.
“Un momento solo” avrei voluto gridare. Mi sedetti su una pietra, mi afferrai le ginocchia e fui travolto dai singhiozzi. Poi mi alzai e scagliai di sotto, fra le onde, la penna laser. Tirai fuori gli zaini e ne svuotai per terra il contenuto.
Il tappeto volante era sparito.
Rimasi lì, troppo esausto per ridere o piangere o allontanarmi a piedi. Il sole si alzò, ed ero sempre lì. Ero ancora lì, quando, tre ore dopo, il grosso skimmer nero della Sicurezza Navale si posò silenziosamente accanto a me.
«Padre? Padre, si fa tardi.»
Mi giro e guardo mio figlio Donel, in piedi dietro di me. Indossa la veste azzurro e oro del Consiglio dell’Egemonia. La testa calva è arrossata e imperlata di sudore. Donel ha solo quarantatré anni, ma a me sembra molto più anziano.
«Per favore, padre» dice. Mi alzo, mi spazzolo via fili d’erba e polvere. Andiamo insieme alla tomba. Ora la folla si è avvicinata. La ghiaia scricchiola sotto i piedi della gente, che si muove a disagio. «Devo entrare con te, padre?» mi chiede Donel.
Esito, per guardare questo estraneo già vecchio che è mio figlio. C’è poco, di me e di Siri, in lui. Il suo viso è amichevole, florido, e teso per le emozioni della giornata. Intuisco in lui la schietta onestà che in certi individui prende il posto dell’intelligenza. Non posso fare a meno di paragonare questo calvo burattino d’uomo ad Alón… Alón dai ricci scuri, dai lunghi silenzi, dal sorriso ironico. Ma Alón è morto da trentatré anni, abbattuto in una stupida guerra che non aveva niente a che fare con lui.
«No» rispondo. «Vado da solo. Grazie, Donel.»
Lui annuisce e arretra. Le bandierine sbattono nel vento, sopra la testa della folla che arranca. Rivolgo l’attenzione alla tomba.
L’ingresso è chiuso da una serratura a impronta del palmo. Mi basta toccarla.
Negli ultimi minuti ho fantasticato di una cosa che mi salverebbe sia dalla crescente tristezza, sia dalla serie di eventi che ho evocato. Siri non è morta. Nell’ultimo stadio della malattia ha convocato i medici e i pochi tecnici rimasti nella colonia, che hanno ricostruito per lei una delle antiche sale d’ibernazione usate nelle navi coloniali di due secoli prima. Siri è soltanto addormentata. E inoltre, un anno di sonno le ha in qualche modo restituito la giovinezza. Quando la sveglierò, sarà la Siri dei nostri primi giorni, come la ricordo. Insieme usciremo alla luce del sole: quando i battenti del teleporter si apriranno, saremo i primi a varcarli.
«Padre?»
«Sì.» Faccio un passo, appoggio la mano sulla porta della cripta. Si sente un ronzio di motori elettrici e la bianca lastra di pietra scivola via. Chino la testa ed entro nella tomba di Siri.
«Maledizione, Merin, fissa quella fune prima che ti sbatta fuori bordo! Presto!» Eseguii in fretta. La corda bagnata era difficile da arrotolare e ancor più difficile da legare. Siri scosse la testa, con disgusto, e si sporse a legare con una sola mano una bolina.
La nostra Sesta Riunione. Tre mesi di ritardo per il suo compleanno. Più dì cinquemila persone avevano partecipato ai festeggiamenti. Il PFE della Totalità le aveva fatto gli auguri, con un discorso di quaranta minuti. Un poeta aveva letto i suoi versi più recenti. L’ambasciatore dell’Egemonia le aveva donato una pergamena e una nuova imbarcazione, un piccolo sommergibile azionato dalle prime celle a fusione ammesse su Patto-Maui.
Siri aveva altre diciotto imbarcazioni. Dodici appartenevano alla sua flotta di rapidi catamarani che commerciavano fra l’Arcipelago errante e le isole casa. Due erano magnifici yacht da corsa, usati solo due volte all’anno per vincere la regata del Fondatore e il Criterium del Patto. Le altre quattro erano antiche barche da pesca, brutte e sgraziate, ben tenute, ma poco più che semplici chiatte.
Siri aveva diciannove imbarcazioni, ma eravamo a bordo di un peschereccio, la Ginnie Paul. Negli ultimi otto giorni avevamo pescato lungo lo zoccolo delle Secche Equatoriali: un equipaggio di due sole persone, che lanciavano le reti e le tiravano a bordo, si muovevano immersi fino al ginocchio fra pesci puzzolenti e fragili trilobiti, sguazzavano in ogni onda, gettavano e tiravano altre reti, montavano di guardia e, nei brevi periodi di riposo, dormivano come bambini esausti. Non avevo ancora ventitré anni. Pensavo di essermi abituato ai lavori pesanti a bordo della L.A., dove ero solito fare un’ora d’allenamento nel modulo a 1,3 g un turno sì e uno no; ma ora le braccia e la schiena mi dolevano per la fatica e le mie mani erano coperte di piaghe e di calli. Siri aveva appena compiuto i settanta.
«Merin, vai a prua a terzarolare la vela di trinchetto. Riduci anche il fiocco, poi scendi di sotto a preparare i panini. Non lesinare con la mostarda.»
Andai a prua. Per un giorno e mezzo avevamo giocato a nascondino con una tempesta: navigando davanti, quando potevamo; girandoci e subendola, quando non era possibile evitarla. All’inizio era stato entusiasmante; un sollievo rispetto alla fatica di calare in continuazione le reti, tirarle a bordo e rammendarle. Ma dopo le prime ore, il flusso di adrenalina si affievolì e lasciò il posto a una nausea continua, alla fatica, a una stanchezza terribile. Il mare non si placava. Le onde arrivavano a sei metri e anche di più. La Ginnie Paul ci sguazzava da brava matrona dall’ampio baglio qual era. Ogni cosa era fradicia. Avevo la pelle bagnata, sotto tre strati di materiali impermeabili. Per Siri era una vacanza a lungo attesa.
«Questo è niente» disse, nell’ora più buia della notte, mentre le onde spazzavano la tolda e si rompevano contro la plastica ammaccata del quartiere di poppa. «Dovresti vedere durante la stagione dei simun.»
Le nuvole ancora basse si fondevano in lontananza con le onde grigie, ma il mare si era ora ridotto a una tranquilla maretta di cinque piedi. Spalmai di mostarda i panini con l’arrosto e versai nei grossi boccali bianchi il caffè fumante. A gravità zero era più facile portare il caffè nella caffettiera piuttosto che risalire con le tazze in mano la ripida scaletta del tambucio. Siri accettò senza commenti la tazza mezza vuota. Per un po’ restammo in silenzio, a gustare il cibo e il liquido che bruciava la lingua. Presi il timone, mentre Siri scendeva a riempire di nuovo le tazze. Impercettibilmente, il giorno grigio si stava trasformando in sera.
«Merin» disse Siri dopo avermi dato una tazza, mentre si sedeva sulla lunga panca imbottita che circondava il quartiere di poppa. «Cosa accadrà, quando apriranno il teleporter?»
Quella domanda mi sorprese. Non avevamo parlato quasi mai del momento in cui Patto-Maui si sarebbe unito all’Egemonia. Lanciai a Siri un’occhiata: fui colpito da quanto, all’improvviso, mi sembrasse anziana. Il suo viso era un mosaico di rughe e d’ombre. I magnifici occhi verdi erano due pozzi bui; gli zigomi erano fili di coltello tesi sotto una pergamena friabile. I capelli grigi, che ora portava corti, sparavano in fuori in tante punte. Il collo e i polsi erano un fascio tendini che emergevano dal maglione informe.
«Come sarebbe a dire?» risposi.
«Cosa accadrà, dopo l’apertura del teleporter?»
«Sai cosa dice il Consiglio, Siri.» Parlai a voce alta, perché da un orecchio non ci sentiva bene. «Per Patto-Maui nascerà una nuova era di commercio e di tecnologia. E non sarete più confinati in un solo piccolo mondo. Una volta acquisita la cittadinanza, tutti potranno usare il teleporter.»
«Sì» disse Siri, con voce stanca. «L’ho sentito dire, Merin. Ma cosa accadrà? Chi saranno i primi a venire da noi?»
Mi strinsi nelle spalle. «Altri diplomatici, credo. Specialisti in contatti culturali. Antropologi. Etnologi. Biologi marini.»
«E poi?»
Esitai. Era già buio. Il mare ormai era quasi calmo. Le nostre luci di posizione, una rossa e una verde, brillavano nella notte. Provai la stessa ansia che avevo conosciuto due giorni prima, quando la muraglia della tempesta era comparsa all’orizzonte. Dissi: «E poi verranno i missionari. I geologi in cerca di petrolio. Gli esperti in coltivazioni marine. Gli addetti allo sviluppo».
Siri sorseggiò il caffè. «Pensavo che la vostra Egemonia avesse superato un’economia basata sul petrolio.»
Risi e bloccai il timone. «Nessuno può superare l’economia basata sul petrolio. Almeno finché il petrolio c’è. Non lo utilizziamo come combustibile, se è questo che intendi, ma è sempre essenziale per la produzione di materie plastiche, di sintetici, di basi per i cibi, di cheroidi. Duecento miliardi di persone consumano un mucchio di plastica.»
«E su Patto-Maui c’è il petrolio?»
«Oh, sì» dissi. Adesso non avevo più voglia di ridere. Una riserva di miliardi di barili solo sotto le Secche Equatoriali.»
«Come lo estrarranno, Merin? Con le piattaforme?»
«Già. Piattaforme. Impianti sommersi. Colonie sottomarine con manodopera modificata e importata da Mare Infinitum.»
«E le isole mobili? Ogni anno devono tornare alle Secche per cibarsi di fuchiblù e per riprodursi. Cosa ne sarà, delle isole?»
Tornai a stringermi nelle spalle. Il troppo caffè mi aveva lasciato in bocca un gusto amaro. «Non so» risposi. «All’equipaggio non è che dicano molto. Ma durante il nostro primo viaggio, Mike ha sentito dire che intendevano dare sviluppo al maggior numero possibile di isole, così alcune saranno protette.»
«Dare sviluppo?» La voce di Siri per una volta tanto mostrò sorpresa. «Che cosa significa? Le stesse Prime Famiglie devono chiedere al Popolo del Mare il permesso anche per costruire i rifugi albero-casa.»
Sorrisi all’uso del termine locale per indicare i delfini. I coloni di Patto-Maui erano infantili, quando si trattava dei loro maledetti delfini. «I piani sono già pronti» dissi. «Esistono 128.573 isole mobìli abbastanza grandi per costruirci sopra un’abitazione. I permessi per farlo sono già stati venduti da tempo. Le isole più piccole saranno distrutte e le isole casa saranno “sviluppate” a scopo ricreativo.»
«A scopo ricreativo» ripeté Siri. «Quanti cittadini dell’Egemonia useranno il teleporter per venire qui… a scopo ricreativo?»
«All’inizio, intendi? Poche migliaia, il primo anno. Finché l’unico portale si troverà sull’isola 241… il Centro Commerciale… l’affluenza sarà limitata. Forse cinquantamila il secondo anno, quando anche Primosito avrà una porta. Si tratterà di un giro di lusso. Succede sempre così, quando una colonia viene aperta alla Rete.»
«E dopo?»
«Dopo il periodo di prova di cinque anni? Ci saranno migliaia di porte, naturalmente. Direi che arriveranno una ventina di milioni di nuovi residenti, nel primo anno di piena cittadinanza.»
«Una ventina di milioni» disse Siri. La luce del sostegno della bussola illuminò dal basso il suo viso pieno di rughe. C’era ancora bellezza, in quel viso. Niente rabbia, né sorpresa. Me le ero aspettate tutte e due.
«Comunque, a quel punto sarete cittadini anche voi» dissi. «Liberi di andare in qualsiasi punto della Rete. Ci saranno sedici mondi nuovi fra cui scegliere. Probabilmente di più, a quel punto.»
«Sì» disse Siri, mettendo da parte la tazza vuota. Una pioggia sottile bagnava il vetro intorno a noi. Il rozzo schermo radar nella cornice intagliata a mano mostrava che il mare era vuoto e la tempesta ormai passata. «È vero, Merin, che la gente dell’Egemonia ha casa in decine di mondi? Voglio dire, una sola casa le cui finestre si affacciano su una decina di cieli diversi?»
«Certo» risposi. «Ma non sono molti. Solo i ricchi posso permettersi residenze multiplanetarie.»
Siri sorrise e mi posò sul ginocchio la mano. Il dorso era macchiato e segnato da vene azzurrastre. «Ma tu sei ricchissimo, vero, marinaio?»
Guardai dall’altra parte. «No, non ancora.»
«Ah, presto però, presto, Merin. Quanto tempo ti ci vorrà, amore mio? Meno di due settimane qui, poi il viaggio di ritorno all’Egemonia. Altri cinque mesi del tuo tempo per riportare gli ultimi componenti, qualche settimana per terminare, e poi con un passo torni a casa ricco. Con un passo superi duecento vuoti anni-luce. Che pensiero singolare… ma a che punto ero? Ah, sì, il tempo. Meno di un anno standard.»
«Dieci mesi. Trecentosei giorni standard. Trecentoquattordici dei vostri. Novecentodiciotto turni.»
«E il tuo esilio terminerà.»
«Sì.»
«E avrai ventiquattro anni e sarai ricchissimo.»
«Sì.»
«Sono stanca, Marin. Voglio dormire, ora.»
Programmammo il timone, innestammo l’allarme anticollisione e scendemmo sotto coperta. Il vento si era un po’ alzato e la vecchia imbarcazione passava dalla cresta al cavo dell’onda a ogni raffica. Ci spogliammo alla fioca luce della lampada dondolante. Entrai per primo nella cuccetta e sotto le coperte. Era la prima volta che Siri e io dividevamo un periodo di sonno. Ricordando quanto era stata timida durante la nostra ultima Riunione alla villa, mi aspettavo che spegnesse la luce. Invece lei rimase in piedi un minuto, nuda nell’aria fredda, le braccia magre allungate con calma lungo i fianchi.
Il tempo aveva reclamato Siri, ma non aveva infierito. La gravità aveva compiuto il suo inevitabile lavoro sui suoi seni e sulle natiche; e lei era molto più magra. Fissai lo sparuto profilo delle costole e dello sterno e ricordai la ragazza sedicenne con il grasso infantile e la pelle simile a velluto caldo. Alla fredda luce della lampada fissai la carne cascante di Siri e ricordai il chiaro di luna sui seni in boccio. Eppure, in qualche modo singolare e inesplicabile, quella davanti a me in quel momento era la stessa Siri.
«Fatti da parte, Merin.» S’infilò nella cuccetta, accanto a me. Le lenzuola erano fresche contro la nostra pelle, la ruvida coperta era piacevole. Spensi la luce. La piccola barca ondeggiava al ritmo regolare del respiro dell’oceano. Sentivo il gradevole scricchiolio degli alberi e del sartiame. Al mattino avremmo lanciato, tirato, rammendato reti; ma ora era tempo di dormire. Cominciai ad assopirmi, al rumore delle onde contro il legno.
«Merin?»
«Sì?»
«Cosa accadrebbe se i Separatisti assalissero i turisti dell’Egemonia o i nuovi residenti?»
«Credevo che tutti i Separatisti fossero stati confinati sulle isole.»
«Infatti. Ma se si ribellassero?»
«L’Egemonia manderebbe le truppe della FORCE, e farebbe il mazzo ai Separatisti.»
«E se il teleporter stesso fosse assalito… e distrutto, prima che diventi operativo?»
«Impossibile.»
«Sì, lo so, ma se accadesse?»
«Allora la Los Angeles tornerebbe nove mesi più tardi, con le truppe dell’Egemonia che farebbero il mazzo ai Separatisti… e a chiunque altro di Patto-Maui si mettesse in mezzo.»
«Nove mesi di tempo nave» disse Siri. Dieci anni del nostro tempo.»
«Inevitabili, in ogni senso. Parliamo d’altro.»
«Bene.» Ma non parlammo. Ascoltai i sospiri e gli scricchiolii della barca. Siri mi si era rannicchiata nell’incavo del mio braccio. Mi aveva posato la testa sulla spalla e respirava con ritmo profondo e regolare, tanto che pensai si fosse addormentata. Mi ero quasi addormentato anch’io, quando la sua mano calda mi scivolò fra le gambe e mi strinse. Ne fui sorpreso, anche perché cominciai a reagire. Siri sussurrò una risposta alla mia domanda inespressa: «No, Merin, non si è mai troppo vecchi. Almeno per desiderare calore e vicinanza. Decidi tu, amore mio. Sarò contenta in ogni caso».
Decisi. Verso l’alba ci addormentammo.
La tomba è vuota.
«Donel, vieni subito qui!»
Lui si precipita dentro, con un fruscio di stoffa nell’edificio vuoto. La tomba è vuota. Non c’è nessuna sala d’ibernazione… in realtà non m’aspettavo che ce ne fosse davvero una. Ma non c’è nemmeno un sarcofago, né una bara. Una vivida lampadina illumina l’interno bianco. «Che diavolo significa, Donel? Credevo che fosse la tomba di Siri.»
«E lo è, padre.»
«Dov’è interrata? Sotto il pavimento, Cristo santo?»
Donel si asciuga la fronte. Ricordo che Siri è anche sua madre. E ricordo che lui ha avuto quasi due anni per abituarsi all’idea che sia morta.
«Nessuno te l’ha detto?» mi chiede.
«Detto cosa?» La collera e la confusione cominciano ad affievolirsi. «Mi hanno portato qui in fretta e furia dalla stazione delle navette e mi hanno detto che dovevo visitare la tomba di Siri, prima che fosse inaugurato il teleporter. Cosa?»
«Madre è stata cremata, secondo il suo desiderio. Le ceneri sono state sparse sul Gran Mare Meridionale, dalla più alta piattaforma dell’isola di famiglia.»
«Allora perché questa… questa cripta?» Sto attento alle parole: Donel è molto sensibile.
Si asciuga di nuovo la fronte e lancia un’occhiata alla porta. Siamo nascosti alla vista della folla, ma siamo molto indietro rispetto al programma. Già gli altri membri del Consiglio hanno sceso di corsa la collina per unirsi ai dignitari sul palco della banda. Il mio lento dolore oggi è stato peggio di un cattivo programma… è diventato cattivo teatro.
«Madre ha lasciato alcune istruzioni. Sono state eseguite.» Donel tocca un pannello della parete interna, che scivola di lato e rivela una piccola nicchia con dentro una cassetta di metallo. C’è scritto sopra il mio nome.
«Cos’è quella?»
Donel scuote la testa. «Oggetti personali che Madre ha lasciato per te. Solo Magritte era al corrente dei particolari, ma è morta l’inverno scorso senza parlarne a nessuno.»
«Va bene» dico. «Grazie. Vengo fuori fra un attimo.»
Donel guarda il cronometro. «La cerimonia inizia fra otto minuti. Fra venti attiveranno il teleporter.»
«Lo so» rispondo. E lo so davvero. Una parte di me sa con esattezza quanto tempo manca. «Non ci metterò molto.»
Donel esita, poi esce. Con un tocco del palmo chiudo alle sue spalle la porta. La cassetta metallica è molto pesante. La poso sul pavimento di pietra e mi piego sui talloni per esaminarla meglio. Un piccolo lucchetto a impronta mi permette di aprirla. Il coperchio scatta. Guardo dentro.
«Che mi venga un colpo!» esclamo sottovoce. Non so che cosa mi aspettassi di trovare… forse dei piccoli oggetti, ricordi nostalgici dei centrotré giorni trascorsi insieme… forse un fiore secco, ricordo di un’offerta dimenticata, oppure la conchiglia corno da caccia che ci tuffammo a prendere al largo di Fevarone. Ma non ci sono ricordi… non di questo genere.
La cassetta contiene un piccolo laser Steiner-Ginn, una delle più potenti armi a proiezione mai costruite. L’accumulatore è collegato mediante un cavetto di piombo a una piccola cella a fusione che Siri deve aver prelevato dal sommergibile nuovo. Alla stessa cella è collegato un antiquato comlog, con l’interno a stato solido e il diskey a cristalli liquidi. L’indicatore di carica brilla di luce verde.
E ci sono altri due oggetti, nella scatola. Uno è il medaglione traduttore che abbiamo adoperato molto tempo fa. L’altro mi lascia letteralmente a bocca aperta.
«Ah, la puttanella!» dico. Le tessere vanno tutte a posto. Non riesco a trattenere un sorriso. «La cara puttanella cospiratrice!»
Accuratamente arrotolato, con i cavi elettrici collegati nel modo esatto, c’è il tappeto volante che Mike Osho acquistò per trenta marchi al Mercato Carvnel. Lascio lì il tappeto, sgancio il comlog, lo tolgo dalla scatola. Mi siedo a gambe incrociate per terra e toccò il diskey. Nella cripta la luce si affievolisce e all’improvviso Siri è qui davanti a me.
Non mi buttarono fuori, quando Mike morì. Potevano farlo, ma si astennero. Non mi lasciarono alla mercé della giustizia provinciale di Patto-Maui. Potevano fare anche questo, ma stabilirono diversamente. Per due giorni fui tenuto in cella e interrogato dagli agenti della Sicurezza e una volta dal capitano Singh in persona. Poi mi lasciarono tornare in servizio. Per i quattro mesi del lungo balzo di ritorno mi torturai con il ricordo dell’omicidio di Mike. Con il mio rozzo modo di fare, lo sapevo, avevo contribuito alla sua morte. Completai i turni, sognai i miei incubi, mi domandai se mi avrebbero congedato appena raggiunta la Rete. Potevano dirmelo, ma preferirono non farlo.
Non mi congedarono. Nei mondi della Rete avevo normali licenze, ma non permessi brevi fuori nave nel sistema di Patto-Maui. Inoltre mi diedero un rimprovero scritto e mi degradarono. Ecco quanto valeva la vita di Mike: un rimprovero scritto e una degradazione.
Presi la mia licenza di tre settimane come il resto dell’equipaggio ma, a differenza degli altri, non intendevo fare ritorno. Mi teleportai su Esperance e caddi nel classico errore dei marinai: fare visita alla famiglia. Due giorni nell’affollato bulbo residenziale furono sufficienti: mi trasferii su Lusus e mi godetti tre giorni a puttane nella Rue des Chats. Quando il mio umore peggiorò, mi teleportai su Fuji e persi gran parte dei marchi liquidi scommettendo sui combattimenti all’ultimo sangue dei samurai.
Alla fine mi teleportai a Stazione Homesystem per prendere la navetta che in due giorni portava i pellegrini al Bacino Hellas. Prima d’allora, non ero mai stato su Homesystem né su Marte, e neppure intendo tornarci; ma i dieci giorni trascorsi lì, a girare da solo nei corridoi polverosi e infestati del Monastero, servirono a rimandarmi sulla nave. E da Siri.
Di tanto in tanto lasciavo il labirinto di pietra rossa del megalito e me ne stavo con addosso solo la pelletuta e la maschera, su una delle innumerevoli terrazze di pietra a fissare il cielo e la pallida stella grigia che un tempo era stata Vecchia Terra. A volte pensavo ai coraggiosi e stupidi idealisti che si erano precipitati nel grande buio a bordo di navi lente e insicure, portando con sé con uguale fede e uguale cura embrioni e ideologie. Ma molte volte cercavo di non pensare. Molte volte mi limitavo a restare lì, nella notte viola, lasciando che Siri venisse da me. Lì nella Rocca del Maestro, dove il perfetto satori aveva eluso tanti pellegrini assai più meritevoli di me, raggiunsi la pace spirituale attraverso il ricordo del corpo di una donna-bambina non ancora sedicenne disteso accanto al mio, mentre la luce della luna si rifletteva sulle ali d’un tommifalco.
Quando la Los Angeles tornò allo stato quantico, andai con lei. Quattro mesi più tardi, fui contento di fare il mio turno con le squadre di costruzione, collegarmi al solito stim-sim e passare a letto le licenze brevi. Poi Singh mi convocò. «Stai per andare giù» mi disse. Non capii. «Negli ultimi undici anni, i terricoli ne hanno fatto una maledetta leggenda. Del casino che avete piantato tu e Mike Osho. C’è un intero mito culturale, costruito intorno alla tua piccola rotolata nel fieno con quella ragazza indigena.»
«Siri» dissi.
«Prepara i bagagli. Hai tre settimane a terra. Secondo gli esperti dell’ambasciatore, gioverai alla causa dell’Egemonia più scendendo sul pianeta che rimanendo a bordo. Staremo a vedere.»
Il pianeta era in attesa. La folla applaudiva. Siri agitava la mano in un gesto di saluto. Lasciammo il porto su un catamarano giallo; puntammo a sud-sudest, diretti all’Arcipelago e alla sua isola di famiglia.
«Ciao, Merin.» Siri si libra a mezz’aria nell’oscurità della sua stessa tomba. L’ologramma non è perfetto: ai margini è disturbato da una leggera nebulosità. Ma è proprio Siri… Siri come l’ho vista l’ultima volta: capelli grigi tosati più che tagliati, testa alta, i tratti segnati da ombre. «Ciao, Merin, amore mio.»
«Ciao, Siri» dico. La porta della tomba è chiusa.
«Mi spiace di non poter condividere con te la nostra Settima Riunione, Merin. L’aspettavo con ansia.» Siri esita, si guarda le mani. L’immagine tremola lievemente, il pulviscolo svolazza attraverso la sua figura. «Ho studiato con cura le parole da dire» continua lei. «Come dirle. Ragioni da addurre come giustificazioni. Istruzioni da dare. Ma ora so quanto sarebbe inutile. O le ho già dette e tu le hai ascoltate, oppure non resta niente da dire e il silenzio si adatterebbe meglio al momento.»
Con il passare degli anni, la voce di Siri è diventata ancora più bella. Possiede un’intensità, una calma, che possono nascere solo dalla conoscenza del dolore. Siri muove le mani, che scompaiono oltre il bordo della proiezione tridimensionale. «Merin, amore mio, quanto sono stati strani i nostri giorni di lontananza e di vicinanza! Quant’è bello e assurdo il mito che ci ha legati! Le mie giornate erano semplici battiti del cuore, per te. Ti odiavo, per questo. Eri lo specchio della verità. Se ti fossi visto in viso, all’inizio di ogni Riunione! Il minimo che avresti dovuto fare era nascondere lo sbigottimento… almeno questo potevi farlo, per me.
«Ma nella tua goffa ingenuità c’è sempre stato… qualcosa, Merin. Qualcosa che smentisce l’insensibilità e lo stupido egoismo con cui ti mascheri così bene. Una preoccupazione, forse. Un rispetto per la preoccupazione, se non altro.
«Merin, questo diario ha centinaia di voci… migliaia, purtroppo. Lo tengo da quando avevo tredici anni. Ma quando lo vedrai, tutte saranno state cancellate, tranne quelle che seguono. Addio, mìo amato. Addio.»
Spengo il comlog e resto in silenzio per un minuto. I rumori della folla si sentono appena, attraverso le spesse pareti della tomba. Tiro un respiro profondo e aziono il diskey.
Siri compare. È prossima alla cinquantina. Riconosco subito il luogo e il giorno in cui ha registrato questa immagine. Ricordo il mantello che indossa, il ciondolo d’anguillaria che le pende al collo, il ricciolo che le ricade anche ora sulla guancia da sotto il berretto. Ricordo tutto, di quel giorno. L’ultimo della nostra Terza Riunione: eravamo con alcuni amici sulle alture prospicienti Sterna Sud. Donel aveva dieci anni e cercavamo di convincerlo a scivolare con noi sul campo di neve. Piangeva. Siri si allontanò da noi ancor prima che lo skimmer atterrasse. Quando ne uscì Magritte, dal viso di Siri intuimmo che era accaduto qualcosa.
È quello stesso viso che ora mi fissa. Con aria assente Siri scosta un ricciolo ribelle. Ha gli occhi rossi, ma controlla la voce. «Merin, oggi hanno ucciso nostro figlio. Alón aveva ventun anni ed è morto. Eri così confuso, oggi, Merin. “Com’è potuto accadere un errore simile?” continuavi a ripetere. Non conoscevi realmente nostro figlio, ma ti ho letto in viso un senso di perdita, quando abbiamo avuto la brutta notizia. Merin, non è stato un incidente. Se nessun’altra registrazione sopravvive, se non capirai mai perché ho permesso a un mito sentimentale di regolare la mia vita… si sappia almeno questo: non è stato un incidente a uccidere Alón. Era con i Separatisti, quando è arrivata la polizia del Consiglio. Avrebbe potuto farla franca. Avevamo preparato insieme un alibi. La polizia gli avrebbe creduto. Ma lui ha preferito restare.
«Oggi, Merin, sei rimasto impressionato dalle parole che ho rivolto alla folla… alla marmaglia… davanti all’ambasciata. Sappilo, marinaio. Quando ho detto: “Non è il momento di mostrare la vostra rabbia e il vostro odio”, intendevo dire proprio questo. Niente di più, niente di meno. Ma il giorno verrà. Verrà di sicuro. Il Patto non è stato preso alla leggera, in quei giorni conclusivi, Merin. E non viene preso alla leggera neanche adesso. Chi ha dimenticato sarà sorpreso, quando verrà il giorno: ma verrà di “sicuro.»
L’immagine svanisce e cambia; nell’istante della sovrapposizione, il viso di Siri ventiseienne compare sopra i (lineamenti della donna più anziana. «Merin, sono incinta. E così felice! Ormai sei via da cinque settimane e mi manchi davvero. Starai via dieci anni. Anche di più. Merin, perché non hai pensato d’invitarmi a venire con te? Forse non sarei venuta, ma mi sarebbe piaciuto che tu mi avessi anche solo invitata. Comunque sono incinta, Merin. I medici dicono che sarà un maschio. Gli parlerò di te, amore mio. Forse un giorno tu e lui navigherete per l’Arcipelago e ascolterete le canzoni del Popolo del Mare, come abbiamo fatto io e te in queste ultime settimane. Forse allora le capirai. Merin, mi manchi moltissimo. Ti prego, torna in fretta.»
L’immagine olografica sfarfalla e cambia. La sedicenne ha il viso arrossato. I lunghi capelli neri le ricadono sulle spalle nude e sulla vestaglia bianca. Parla in fretta, fra le lacrime. «Marinaio Merin Aspic, mi dispiace per il tuo amico… mi dispiace davvero… ma te ne sei andato senza dirmi neppure addio! Avevo grandi progetti sull’aiuto che ci avresti dato… su noi due… e non mi hai neppure detto addio. Non m’importa cosa ti accadrà! Puoi tornare ai tuoi alveari affollati e puzzolenti dell’Egemonia e lì marcire, per quel che mi riguarda. Non voglio più vederti, Merin Aspic, nemmeno se mi pagano. Addio.»
Mi gira la schiena, prima che la proiezione svanisca. Ora nella tomba è buio, ma l’audio continua per un secondo. Si sente una lieve risatina e la voce di Siri — non saprei dirne l’età — mi arriva per l’ultima volta. «Addio, Merin. Addio.»
«Addio» dico. Spengo il diskey.
La folla si divide, quando esco dalla tomba battendo le palpebre. La mia comparsa in ritardo ha rovinato la drammaticità dell’evento. Il sorriso che mi aleggia sulle labbra provoca mormoni furiosi. Gli altoparlanti portano fin sulla nostra collina i discorsi della cerimonia ufficiale, «…iniziando una nuova era di cooperazione» echeggia la voce ben modulata dell’ambasciatore.
Poso sull’erba la cassetta e tiro fuori il tappeto volante. La folla si avvicina a guardare, mentre lo srotolo. Il disegno è sbiadito, ma i fili di volo brillano come rame nuovo. Mi siedo al centro del tappeto e tiro accanto a me la scatola.
«…e altro seguirà, finché lo spazio e il tempo non saranno più ostacoli.»
La folla si ritrae, quando manipolo il disegno di volo e il tappeto s’innalza di quattro metri. Ora vedo al di là del tetto della tomba. Le isole tornano dall’Arcipelago Equatoriale. Le vedo, a centinaia, spinte a nord dalla brezza e dalla fame.
«Perciò, colonia di Patto-Maui, è con grande piacere che chiudo il circuito e ti do il benvenuto nella comunità dell’Egemonia dell’Uomo.»
Il sottile filo del com-laser cerimoniale pulsa allo zenit. Segue un applauso, la banda inizia a suonare. Guardo con gli occhi socchiusi il cielo, appena in tempo per cogliere la nascita d’una nuova stella. Una parte di me, in quel microsecondo, sa cos’è accaduto.
Per alcuni microsecondi il teleporter è entrato in funzione. Per alcuni microsecondi, tempo e spazio hanno smesso davvero di essere degli ostacoli. Poi la massiccia trazione della marea dell’anomalia artificiale ha innescato la carica di termite da me piazzata sulla sfera esterna di contenimento. La minuscola esplosione non è stata visibile ma, un secondo dopo, il campo di Swarzschild in espansione ne consuma il guscio, inghiotte trentaseimila tonnellate di fragile dodecaedro e cresce rapidamente a inglobare alcune migliaia di chilometri di spazio intorno a esso. E questo è visibile, magnificamente visibile, sotto forma di una nova in miniatura che brilla di luce abbagliante nel cielo azzurro e sereno.
La banda smette di suonare. La gente urla e corre al riparo. Ma non ce n’è motivo. Un’esplosione di raggi X si proietta all’esterno mentre il teleporter continua a crollare in se stesso, ma non è sufficiente a causare danni attraverso la ricca atmosfera di Patto-Maui. Una seconda scia di plasma diventa visibile, quando la Los Angeles aumenta la distanza tra sé e il piccolo buco nero in rapido decadimento. Il vento si alza e il mare s’infuria. Stanotte ci saranno maree bizzarre.
Vorrei dire qualcosa di profondo, ma non mi viene in mente nulla. E poi, la folla non è dell’umore adatto per ascoltare. Mi dico che fra le urla e le grida sento anche degli evviva.
Manipolo i disegni di volo e il tappeto si lancia velocemente sopra la scogliera e il porto. Un tommifalco, che si sta crogiolando sulle correnti calde del mezzogiorno, agita le ali spaventato.
«Lascia che vengano!» grido al falco in fuga. «Lascia che vengano! Avrò trentacinque anni e non sarò solo: vengano pure, se ne hanno il coraggio!» Abbasso il pugno e rido. Il vento mi spinge indietro i capelli e mi raffredda il sudore sul petto e sulle braccia.
Più calmo, ora, faccio il punto e stabilisco la rotta verso le isole più lontane. Non vedo l’ora di incontrare gli altri. Anzi, non vedo l’ora di parlare al Popolo del Mare, di dire che finalmente è tempo che lo Squalo venga negli oceani di Patto-Maui.
Più tardi, terminate e vinte le battaglie, quando il mondo sarà loro, parlerò di lei, canterò di Siri.
La cascata di luce proveniente dalla lontana battaglia spaziale non si era interrotta. Si sentiva solo il vento scivolare lungo le scarpate. Il gruppetto sedeva compatto, tendendo il collo per guardare l’antico comlog come se aspettasse dell’altro.
Non c’era più niente. Il Console tolse il microdisco e se lo mise in tasca.
Sol Weintraub strofinò la schiena della piccina addormentata e si rivolse al Console. «Lei non è certo Merin Aspic.»
«No» rispose il Console. «Merin Aspic morì durante la Rivolta. La Rivolta di Siri.»
«Come è entrato in possesso di questa registrazione?» domandò padre Hoyt. Sotto la sua maschera di sofferenza, si vedeva che era commosso. «Questa incredibile registrazione…»
«Me l’ha data lui» disse il Console. «Qualche settimana prima che fosse ucciso nella Battaglia dell’Arcipelago.» Fissò il viso che lo guardava senza capire. «Sono il loro nipote» spiegò. «Di Siri e di Merin. Mio padre, il Donel che Aspic cita, diventò il primo presidente del Consiglio Autonomo, quando Patto-Maui fu ammesso al Protettorato. In seguito fu eletto senatore e mantenne la carica fino alla morte. Avevo nove anni, quel giorno sulla collina accanto alla tomba di Siri. Ne avevo venti… abbastanza per unirmi ai ribelli e combattere… quando Aspic venne di notte nella nostra isola, mi prese da parte e mi proibì di unirmi alla loro banda.»
«Avrebbe combattuto?» domandò Brawne Lamia.
«Oh, sì. E sarei morto. Come un terzo dei nostri uomini e un quinto delle nostre donne. Come tutti i delfini e molte isole stesse, per quanto l’Egemonia abbia cercato di salvarne il maggior numero possibile.»
«Un documento commovente» disse Sol Weintraub. «Ma lei perché è qui con noi? Perché fa il pellegrinaggio allo Shrike?»
«Non ho terminato il mio racconto» disse il Console. «Ascoltate il resto.»
Mio padre era tanto debole quanto mia nonna era stata forte. L’Egemonia non attese undici anni locali per tornare: prima che fossero trascorsi cinque anni, le navi torcia della FORCE erano già in orbita. Mio padre rimase a guardare, mentre le navi costruite in fretta dai ribelli venivano spazzate via. Continuò a difendere l’Egemonia anche se stava assediando il nostro mondo. Mi ricordo di quando avevo quindici anni: un giorno, dal ponte superiore della nostra isola ancestrale, guardavo con la mia famiglia una decina d’altre isole bruciate, in lontananza, mentre con le loro cariche di profondità gli skimmer dell’Egemonia illuminavano il cielo. Al mattino, le onde erano grigie di delfini morti.
Mia sorella maggiore, Lira, si unì ai ribelli nei giorni disperati che seguirono la Battaglia dell’Arcipelago. Testimoni oculari la videro morire. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Mio padre non pronunciò mai più il suo nome.
Entro tre anni dal cessate il fuoco e dall’ammissione al Protettorato, noi coloni originari diventammo una minoranza sul nostro stesso mondo. Le isole venivano sottomesse e vendute ai turisti, proprio come Merin aveva predetto a Siri. Ora Primosito conta undici milioni di abitanti: i condomini e le guglie e le città EM si estendono lungo le coste intorno a tutta l’isola. Il porto di Primosito rimane un pittoresco bazar d’altri tempi, dove discendenti delle Prime Famiglie vendono manufatti e oggetti artistici a prezzi esagerati.
Vivemmo per un certo periodo su Tau Ceti Centro, quando mio padre fu eletto senatore la prima volta. Lì terminai le scuole. Ero il figlio diligente che esaltava le virtù della vita nella Rete, che studiava la gloriosa storia dell’Egemonia dell’Uomo, che si preparava alla carriera nel corpo diplomatico.
E per tutto quel tempo aspettai.
Ritornai su Patto-Maui per un breve periodo, dopo la laurea; lavorai in ufficio, nell’Isola dell’Amministrazione Centrale. Una parte del mio incarico consisteva nel visitare le centinaia di piattaforme di trivellazione impiantate sulle secche, nel fare rapporto sui complessi sottomarini in rapida espansione, nel fare da trait d’union con le compagnie di sviluppo che arrivavano da TC2 e da Sol Draconis Septem. Il lavoro non mi piaceva. Ma ero efficiente. E sorridevo. E aspettavo.
Mi fidanzai e mi sposai con una ragazza delle Prime Famiglie, del ramo del cugino di Siri, Bertol; superato con lode l’esame per entrare nel corpo diplomatico, chiesi di essere assegnato a una sede fuori della Rete.
Così iniziò la nostra diaspora privata, mia e di Gresha. Ero un tipo efficiente. Nato per fare il diplomatico. In cinque anni standard ero già viceconsole. In otto, console a buon diritto. Finché fossi rimasto nella Periferia, era il massimo grado che potevo raggiungere.
Era la mia scelta. Lavoravo per l’Egemonia. E aspettavo.
All’inizio il mio ruolo era quello di fornire tecnologia della Rete per aiutare i coloni a fare quello in cui riescono meglio: distruggere le vere forme di vita indigene. Non è un caso che nei sei secoli di espansione interstellare l’Egemonia non abbia incontrato altre specie classificate come intelligenti nel Catalogo Drake-Turing-Chen. Su Vecchia Terra, era stato da lungo tempo riconosciuto che, se una specie inseriva l’Uomo nella sua catena alimentare, in breve diventava una specie estinta. Mentre la Rete si espandeva, se una specie tentava di mettersi seriamente in competizione con l’intelletto umano, si estingueva prima che un teleporter si aprisse nel sistema.
Su Whirl demmo la caccia agli elusivi zeplen, fra le loro torri di nuvole. Può darsi che secondo gli standard umani o del Nucleo non fossero intelligenti. Ma erano creature magnifiche. Quando morivano, passavano attraverso i colori dell’arcobaleno, ma i loro variegati messaggi rimanevano invisibili e muti ai loro compagni di gregge in fuga: impossibile trovare parole per descrivere la bellezza della loro agonia. Vendemmo a compagnie della Rete la loro pelle fotoricettiva, a mondi come Porta del Paradiso la loro carne, e riducemmo in polvere le loro ossa per venderle come afrodisiaco agli impotenti e ai superstiziosi di altri venti mondi coloniali.
Su Garden, ero consigliere per gli ingegneri dell’arcologia che prosciugavano la Grande Palude ponendo così fine al breve regno dei centauri maremmani che lì dominavano… e minacciavano il progresso dell’Egemonia. Alla fine i centauri tentarono di migrare, ma le Marche Nordiche erano troppo asciutte; alcuni decenni dopo, quando Garden faceva ormai parte della Rete, visitai la regione: i resti essiccati dei centauri ingombravano ancora alcune Marche remote, come gusci di piante esotiche di un’epoca più pittoresca.
Su Hebron arrivai proprio quando i coloni ebrei terminavano la lunga faida con gli Aluit Seneschai, creature fragili quanto l’ecologia priva d’acqua di quel mondo. Gli Aluit erano empatici: furono uccisi a causa della nostra paura e della nostra avidità… e della loro irrimediabile natura aliena. Ma su Hebron non fu la morte degli Aluit a farmi impietrire il cuore, ma la mia parte nel condannare i coloni stessi.
Su Vecchia Terra avevano una parola per indicare ciò che ero: collaborazionista. Infatti, anche se Hebron non era il mio mondo, i coloni rifugiati lassù avevano avuto motivi chiari quanto quelli dei miei antenati che su Maui, un’isola della Vecchia Terra, firmarono il Patto di Vita. Ma aspettavo. E nell’attesa recitavo… in tutti i sensi.
I coloni di Hebron si fidavano di me. Arrivarono a credere alle mie candide rivelazioni su quanto fosse meraviglioso riunirsi alla comunità umana… entrare nella Rete. Pretesero con insistenza che solo una città fosse aperta ai forestieri. Sorrisi e accettai. E ora Nuova Gerusalemme conta sessanta milioni d’abitanti, mentre il continente ospita dieci milioni d’indigeni ebrei, che dipendono dalla città della Rete per la maggior parte delle loro esigenze. Bastò un decennio. Forse meno.
Mi lasciai andare un poco, dopo l’apertura di Hebron alla Rete. Scoprii gli alcolici, la benedetta antitesi al Flashback e al collegamento neurale. Gresha rimase con me in ospedale finché non fui disintossicato. Curiosamente, trattandosi d’un mondo ebraico, la clinica era cattolica. Ricordo ancora il fruscio delle tonache nei corridoi, la notte.
Il mio esaurimento nervoso si era manifestato su un mondo lontano e non era stato pubblicizzato. Non mi danneggiò la carriera. In veste di console, portai moglie e figlio su Bressia.
Quant’era delicato il nostro ruolo, su quel mondo! Quant’era bizantina la linea sottile che seguivamo! Da decenni, colonnello Kassad, militari del TecnoNucleo attaccavano gli sciami Ouster dovunque fuggissero. Ora i falchi del Senato e il Comitato di Consulenza IA avevano stabilito che bisognava fare esperimenti sulla potenza degli Ouster nella Periferia stessa. Fu scelto Bressia. Lo ammetto, per decenni i bressiani erano stati i nostri sostituti, prima del mio arrivo. La loro società era antiquata e piacevolmente prussiana, militaristica all’eccesso, arrogante nelle pretese economiche, xenofoba al punto da prestarsi volentieri a cancellare “la Minaccia Ouster”. All’inizio, alcune navi-torcia in affitto, in modo che potessero raggiungere gli sciami. Armi al plasma. Sonde a impatto con virus adattati.
Fu un piccolo errore di calcolo, il fatto che mi trovassi ancora su Bressia quando arrivarono le orde degli Ouster. Uno scarto di qualche mese. Al mio posto avrebbe dovuto esserci una squadra d’analisi politico-militare.
Non importava. I fini dell’Egemonia erano serviti. La decisione e la capacità di sviluppo rapido della FORCE furono adeguatamente messe alla prova, mentre gli interessi dell’Egemonìa non subivano alcun vero danno. Gresha, morì, certo. Nel primo bombardamento. E anche mio figlio Alón, a soli dieci anni. Era stato con me, era sopravvissuto alla guerra, solo per morire quando un idiota della FORCE piazzò una trappola esplosiva o una carica di demolizione troppo vicino alle baracche di rifugio, a Buckminster, la capitale.
Non ero con lui, quando morì.
Dopo Bressia, fui promosso. Ricevetti l’incarico più impegnativo e delicato mai affidato a un semplice console: rappresentante diplomatico dei negoziati diretti con gli Ouster stessi.
Prima fui inviato su Tau Ceti Centro, per una lunga conferenza con il comitato del senatore Meina Gladstone e di alcuni consiglieri IA. Incontrai di persona la Gladstone. Il piano era complicatissimo. In poche parole, bisognava provocare gli Ouster perché attaccassero, e la chiave della provocazione era il pianeta Hyperion.
Gli Ouster tenevano d’occhio Hyperion fin da prima della Battaglia di Bressia. I nostri servizi segreti sostenevano che erano ossessionati dalla Tombe del Tempo e dallo Shrike. Il loro attacco alla nave ospedale che trasportava fra gli altri il colonnello Kassad era stato un errore di calcolo: il capitano della loro nave si era lasciato prendere dal panico, perché aveva confuso la nave ospedale con una spin-nave militare. Ma la cosa peggiore, dal punto di vista degli Ouster, era un’altra: facendo atterrare le navette nei pressi delle Tombe, lo stesso comandante aveva rivelato che gli Ouster erano in grado di sfidare le maree di tempo. Quando lo Shrike decimò le loro squadre d’assalto, il capitano della nave-torcia tornò allo Sciame e fu giustiziato.
Ma i nostri servizi segreti sostenevano che l’errore di calcolo degli Ouster non era stato un disastro totale. Aveva procurato loro preziose informazioni sullo Shrike. E la loro ossessione per Hyperion era cresciuta.
Gladstone mi spiegò come l’Egemonia contava di sfruttare a suo favore questa ossessione.
L’essenza del piano consisteva nel provocare gli Ouster ad assalire l’Egemonia. Il punto focale dell’attacco doveva essere lo stesso Hyperion. Mi fu fatto capire che la conseguente battaglia riguardava più la politica interna della Rete che gli Ouster. Elementi del TecnoNucleo si erano opposti da secoli all’ingresso di Hyperion nell’Egemonia. Gladstone mi spiegò che questo non era più nell’interesse dell’umanità e che l’annessione forzata di Hyperion, con il pretesto di difendere la Rete stessa, avrebbe consentito a una coalizione IA più progressista di acquisire maggior potere. Il mutamento dell’equilibrio di potere nel Nucleo avrebbe favorito il Senato e la Rete, ma non mi fu spiegato come. La potenziale minaccia degli Ouster sarebbe stata sradicata una volta per tutte. Per l’Egemonia sarebbe iniziata una nuova era di splendore.
Non occorreva, mi spiegò Gladstone, che io mi offrissi volontario: la missione sarebbe stata rischiosa sia per la mia carriera sia per la mia vita. Accettai comunque.
L’Egemonia mi fornì una nave privata. Chiesi una sola modifica: l’aggiunta d’un antico pianoforte Steinway.
Per mesi viaggiai da solo, sotto la spinta dei motori Hawking. Per altri mesi vagai in zone dello spazio dove lo Sciame Ouster migrava regolarmente. Alla fine la mia nave fu scoperta e catturata. Gli Ouster tennero per buono che fossi un corriere e capirono che ero una spia. Discussero se dovevano uccidermi, ma non mi uccisero. Discussero se trattare con me e alla fine decisero di trattare.
Non cercherò di descrivere la bellezza della vita nello Sciame: le città globulari a gravità zero, le fattorie cometa e i grappoli di pulsione, le microforeste orbitali e i fiumi migratori, i diecimila colori e toni di vita a Settimana Rendezvous. Basti dire che secondo me gli Ouster hanno fatto quel che l’umanità della Rete non è riuscita a fare nell’ultimo millennio: si sono evoluti. Mentre noi viviamo nelle nostre società derivative, pallide immagini della vita su Vecchia Terra, gli Ouster hanno esplorato nuove dimensioni dell’estetica e dell’etica, delle bioscienze e dell’arte, e tutte le cose che devono cambiare per poter riflettere l’anima umana.
Barbari, lì chiamiamo. E intanto timidamente ci aggrappiamo alla nostra Rete, come Visigoti acquattati nelle rovine dello svanito splendore di Roma, e ci proclamiamo civili.
Entro dieci mesi standard, avevo rivelato il mio segreto più grande e gli Ouster mi avevano rivelato il loro. Spiegai in tutti i particolari a me noti il piano per la loro estinzione studiato dai collaboratori di Gladstone. Dissi loro quanto poco gli scienziati della Rete sapessero dell’anomalia delle Tombe del Tempo e rivelai l’inesplicabile paura che il TecnoNucleo aveva di Hyperion. Descrissi come Hyperion sarebbe stata una trappola per loro, se avessero osato assalirlo e occuparlo; come ogni elemento della FORCE era stato trasferito nel sistema di Hyperion per distruggerli. Rivelai tutto ciò che sapevo e attesi di nuovo la morte.
Anziché uccidermi, mi dissero alcune cose. Mi mostrarono intercettatori di astrotel, registrazioni a raggio compresso, e i loro stessi documenti d’archivio a partire da quando erano fuggiti dal sistema solare della Vecchia Terra, quattro secoli e mezzo prima. I loro fatti erano terribili e semplici.
Il Grande Errore del ’38 non era stato un errore. La morte della Vecchia Terra era stata voluta, pianificata da elementi del TecnoNucleo e dalle loro controparti umane nel balbettante governo dell’Egemonia. L’Egira era stata pianificata nei particolari, decenni prima che il buco nero vagabondo precipitasse “accidentalmente” nel cuore della Vecchia Terra.
La Rete dei Mondi, la Totalità, l’Egemonia dell’Uomo… sono basate tutte sul più perverso tipo di parricidio. Ora erano mantenute con una quieta e deliberata politica di fratricidio: l’assassinio di qualsiasi specie che mostrasse anche il minimo accenno di essere un potenziale rivale. E gli Ouster, l’unica tribù umana libera di vagare fra le stelle, e l’unico gruppo non dominato dal TecnoNucleo, era il primo nel nostro elenco di estinzioni.
Tornai nella Rete. Erano trascorsi più di trenta anni locali. Meina Gladstone era diventata PFE. La Rivolta Siri era una romantica leggenda, una nota a piè pagina nella storia dell’Egemonia.
M’incontrai con Gladstone. Le dissi molte delle cose che gli Ouster mi avevano rivelato… ma non tutte. Sapevano, le dissi, che una eventuale battaglia per Hyperion sarebbe stata una trappola, ma che ci sarebbero andati comunque. Gli Ouster, le dissi, volevano che io diventassi console su Hyperion, in modo da operare come agente doppio durante la guerra.
Non le dissi che avevano promesso di darmi un marchingegno che avrebbe aperto le Tombe del Tempo e avrebbe scatenato lo Shrike.
Il PFE Gladstone ebbe con me lunghe discussioni. Gli agenti della FORCE:spionaggio ebbero con me discussioni ancora più lunghe, alcune di mesi interi. Tecnologia e droghe confermarono che dicevo la verità e che non nascondevo nulla. Anche gli Ouster erano stati abilissimi, con tecnologia e droghe. Dicevo la verità. E contemporaneamente nascondevo qualcosa.
Alla fine, fui assegnato su Hyperion. Gladstone si offrì di elevare Hyperion allo stato di Protettorato e me al rango di ambasciatore. Declinai tutt’e due le offerte, ma chiesi che mi lasciassero la nave personale. Arrivai con una spin-nave regolare; la mia nave privata arrivò alcune settimane dopo, nella stiva di una nave-torcia in visita. Fu lasciata in orbita di parcheggio, con l’intesa che potessi chiamarla e andarmene quando volevo.
Da solo su Hyperion, rimasi in attesa. Trascorsero gli anni. Lasciai che il mio vice governasse quel mondo periferico, mentre io mi ubriacavo da Cicero e aspettavo.
Gli Ouster si misero in contatto con me per mezzo del mio astrotel personale; presi tre settimane di ferie, portai giù la mia nave in un posto isolato nelle vicinanze del mare d’Erba, andai all’appuntamento con la loro vedetta nei pressi della Nube di Oört, imbarcai il loro agente — una donna di nome Andil — e un terzetto di tecnici, e scesi a nord della Briglia, a pochi chilometri dalle Tombe stesse.
Gli Ouster non possedevano il teleporter. Passavano la vita in lunghi viaggi fra le stélle e osservavano la vita della Rete scorrere velocemente come un film o un ologramma azionato a velocità superiore. Erano ossessionati dal tempo. Il TecnoNucleo aveva dato all’Egemonia il teleporter e continuava a mantenerlo in efficienza. Nessuno scienziato umano, o squadra di scienziati, era riuscito a capirne il funzionamento. Gli Ouster provarono. Non ebbero successo. Ma dai tentativi falliti scoprirono vie nuove per manipolare lo spaziotempo.
Capirono le maree di tempo, i campi anti-entropici che circondano le Tombe. Non sapevano generare campi del genere, ma sapevano come proteggersi dal loro effetto e, in teoria, come abbatterli. Le Tombe e tutto ciò che vi era contenuto avrebbero smesso di procedere a ritroso nel tempo. Si sarebbero “aperte”. Lo Shrike si sarebbe liberato delle sue catene, quando non fosse stato più legato dalla vicinanza alle Tombe. E il contenuto di queste ultime, qualsiasi cosa fosse, sarebbe stato affrancato.
Gli Ouster erano convinti che le Tombe del Tempo fossero manufatti provenienti dal loro futuro e che lo Shrike fosse un’arma di redenzione in attesa che la giusta mano l’impugnasse. Il Culto Shrike vedeva il mostro come un angelo vendicatore; gli Ouster lo vedevano come un utensile di progettazione umana, inviato a ritroso nel tempo per liberare l’umanità dal TecnoNucleo. Andil e i tre tecnici erano venuti lì a fare prove e misurazioni.
«Non lo userete adesso?» domandai. Ci trovavamo all’ombra della costruzione chiamata Sfinge.
«Non subito» rispose Andil. «Quando starà per partire l’invasione.»
«Ma avete detto che occorrono mesi perché l’apparecchiatura funzioni» replicai. «Perché le Tombe si aprano.»
Andil annuì. Aveva occhi d’un verde scurissimo. Era molto alta e distinguevo sulla sua pelletuta le strisce sottili dell’esoscheletro elettronico. «Forse un anno, o anche di più» disse. «L’apparecchiatura provoca il lento decadimento del campo anti-entropico. Una volta iniziato, il processo è irrevocabile. Ma non lo attiveremo finché i Dieci Consigli non decideranno che l’invasione della Rete è necessaria.»
«Ci sono dubbi?»
«Dibattiti etici» rispose Andil. A qualche metro da noi, i tre tecnici coprivano con alcuni tèli mimetici l’apparecchiatura e la chiudevano in un campo di contenimento a codice. «Una guerra interstellare causerebbe la morte di milioni, forse miliardi di persone. Scatenare nella Rete lo Shrike comporterebbe conseguenze imprevedibili. Per quanto sia necessario colpire il Nucleo, si discute ancora su quale sia la via migliore.»
Guardai l’apparecchiatura e la valle delle Tombe. «Ma una volta attivata» dissi «è impossibile fare marcia indietro. Lo Shrike sarà scatenato: dovrete avere vinto la guerra per controllarlo.»
Andil sorrise appena. «Verissimo.»
Allora le sparai, e sparai ai tre tecnici. Poi scagliai lontano fra le dune mobili il laser Steiner-Ginn di nonna Siri; mi sedetti su una cassa di flussoschiuma vuota e piansi per diversi minuti. Poi mi diedi da fare: usai un comlog dei tecnici per entrare nel campo di contenimento, tirai via la protezione mimetica e misi in funzione l’apparecchiatura.
Non ci furono cambiamenti immediati. L’aria aveva la luce piena del tardo inverno. La Tomba di Giada brillava tenuemente, mentre la Sfinge continuava a fissare il nulla. Si udiva solo il fruscio della sabbia fra le casse e i cadaveri. Solo una spia accesa mostrava che l’aggeggio degli Ouster era in funzione… che aveva già funzionato.
Tornai lentamente alla nave, aspettandomi quasi che lo Shrike comparisse, augurandomi quasi che lo facesse davvero. Per più di un’ora rimasi sul balcone della nave a guardare le ombre che riempivano la valle e la sabbia che ricopriva i cadaveri lontani. Non c’era nessuno Shrike. Nessun albero di spine. Dopo un poco, suonai sullo Steinway un Preludio di Bach, chiusi la nave e mi sollevai nello spazio.
Mi misi in contatto con la nave Ouster e dissi che c’era stato un incidente: lo Shrike aveva preso gli altri quattro e l’apparecchiatura era stata accesa prematuramente. Anche nella confusione e nel panico, gli Ouster mi offrirono rifugio. Declinai l’offerta e diressi la nave verso la Rete. Gli Ouster non m’inseguirono.
Usai il trasmettitore astrotel per mettermi in contatto con Meina Gladstone e dirle che gli agenti Ouster erano stati eliminati. Le dissi che l’invasione era assai probabile, che la trappola sarebbe scattata secondo i piani. Gladstone si congratulò con me e mi richiamò in patria. Rifiutai. Le dissi che avevo bisogno di silenzio e di solitudine. Diressi la nave al mondo della Periferia più vicino al sistema di Hyperion — ben sapendo che il viaggio stesso avrebbe divorato il tempo — in attesa che iniziasse l’atto seguente.
Più tardi, quando da Gladstone in persona mi arrivò per astrotel la convocazione al pellegrinaggio, capii il ruolo che gli Ouster avevano previsto per me in quei giorni finali: gli Ouster, o il Nucleo, o Gladstone e le sue macchinazioni. Non importa più chi si considera padrone degli eventi. Gli eventi non ubbidiscono più ai padroni.
Il mondo come lo conosciamo è alla fine, amici miei, qualsiasi cosa ci accada. In quanto a me, non ho domande da fare allo Shrike. Non porto parole finali per lui o per l’universo. Sono tornato perché devo, perché questo è il mio destino. Ho sempre saputo che cosa dovevo fare fin da quando, bambino, tornavo alla tomba di Siri e giuravo vendetta contro l’Egemonia. Ho sempre saputo quale prezzo dovevo pagare, sia nella vita sia nella storia.
Ma quando arriverà il momento di giudicare, di capire un tradimento che si diffonderà come una fiamma per tutta la Rete e che porrà termine ai mondi, vi chiedo di non pensare a me — il mio nome non era neppure scritto sull’acqua, come avrebbe detto lo spirito del vostro poeta perduto — ma alla Vecchia Terra morta senza un valido motivo, ai delfini e alla loro carne grigia che secca e imputridisce al sole; vi chiedo di vedere, come ho visto io, le isole mobili senza più spazio dove andare, il pascoli distrutti, le Secche Equatoriali incrostate di piattaforme di trivellazione, le isole stesse soffocate da turisti vocianti e rompiscatole che puzzano di lozione UV e di spinelli.
O, meglio ancora, non pensate a niente di tutto questo. State fermi, come ho fatto io dopo aver azionato l’interruttore. Un omicida, un assassino, ma comunque orgoglioso, con i piedi fermamente piantati sulla mobile sabbia di Hyperion, che grida a testa alta e con il pugno alzato contro il cielo: «La peste su tutt’e due le vostre case!»
Vedete, ricordo il sogno di mia nonna. Ricordo come avrebbe potuto essere.
Ricordo Siri.
— È lei la spia? — gli chiese padre Hoyt. — La spia Ouster?
Il Console si fregò le guance e rimase in silenzio. Sembrava esausto, spento.
— Già — disse Martin Sileno. — PFE Gladstone mi ha avvisato, quando mi ha scelto per il pellegrinaggio. Me lo ha detto che c’era una spia.
— L’ha detto a tutti — replicò brusca Brawne Lamia. Fissava il Console. Sembrava rattristata.
— Il nostro amico è una spia — disse Sol Weintraub — ma non una semplice spia degli Ouster. — La piccina si era svegliata. Weintraub la prese in braccio perché smettesse di piangere. — È quello che nei romanzi chiamano un agente doppio, triplo in questo caso: un agente multiplo all’infinito. In verità, un agente per vendetta.
Il Console fissò l’anziano studioso.
— È sempre una spia — disse Sileno. — Le spie vengono giustiziate, no?
Il colonnello Kassad aveva in mano la neuroverga. Non la teneva puntata in direzione di nessuno. — È in contatto con la sua nave? — domandò al Console.
— Sì.
— Come?
— Mediante il comlog di Siri. È stato… modificato.
Kassad annuì lievemente. — E si è tenuto in contatto con gli Ouster per mezzo del trasmettitore astrotel della nave?
— Sì.
— E ha fatto rapporto sul pellegrinaggio, come si aspettavano?
— Sì.
— Hanno risposto?
— No.
— Come possiamo credergli? - sbottò il poeta. — È una maledetta spia.
— Silenzio — lo rimbeccò il colonnello Kassad con un tono piatto, definitivo, senza lasciare con gli occhi il Console. — Ha assalito lei Het Masteen?
— No. Ma quando l’Yggdrasill è bruciata, ho capito che qualcosa non quadrava.
— Come sarebbe a dire?
Il Console si schiarì la voce. — Ho trascorso un po’ di tempo con la Voce Templare dell’Albero. Il loro legame con la nave-albero è quasi telepatico. La reazione di Masteen è stata troppo debole. O non era quel che diceva di essere, oppure sapeva che la nave sarebbe stata distrutta e aveva già reciso il contatto. Durante il mio turno di guardia, sono sceso sottocoperta per affrontarlo. Era sparito. La cabina era nello stato in cui l’abbiamo trovata, a parte il fatto che la cassa di Moebius era sul neutro. L’erg avrebbe potuto fuggire. Ho bloccato la cassa e sono tornato di sopra.
— Non ha ucciso Het Masteen? — domandò di nuovo Kassad.
— No.
— Lo ripeto, perché diavolo dobbiamo credergli? — disse Sileno. Il poeta stava bevendo uno scotch, dall’ultima bottiglia che si era portato dietro.
Quando rispose, il Console fissava la bottiglia. — Non ha motivo di credermi. Tanto, non cambia niente.
Le lunghe dita di Kassad tamburellarono oziosamente sul rivestimento di plastica opaca della neuroverga. — Ora cosa farà, con il suo collegamento astrotel?
Il Console fece un sospiro di stanchezza. — Farò rapporto, quando le Tombe del Tempo si apriranno. Se sarò ancora vivo.
Brawne Lamia indicò l’antiquato comlog. — Potremmo distruggerlo.
Il Console si strinse nelle spalle.
— Potrebbe servirci — disse il colonnello. — Per intercettare trasmissioni civili e militari in chiaro. E, se sarà il caso, per chiamare la nave del Console.
— No! — esclamò il Console. Per la prima volta in molti minuti aveva manifestato un’emozione. — Non possiamo tornare indietro proprio ora!
— Credo che nessuno abbia intenzione di tornare indietro — disse Kassad. Guardò le facce pallide, una dopo l’altra. Per un istante nessuno aprì bocca.
— Dobbiamo prendere una decisione — disse Sol Weintraub. Si mise a cullare la piccina e annuì in direzione del Console.
Martin Sileno aveva appoggiato la fronte sulla bocca della bottiglia di scotch vuota. Alzò lo sguardo. — La pena per il tradimento è la morte. — Ridacchiò. — Fra qualche ora moriremo tutti in ogni caso. Perché non compiere un’esecuzione, come ultimo gesto?
Padre Hoyt contrasse le labbra in una smorfia, in preda a uno spasmo di dolore. Con il dito tremante si sfiorò le labbra screpolate. — Ma noi non siamo un tribunale.
— Sì — disse Kassad. — Lo siamo.
Il Console piegò le gambe contro il petto, appoggiò le braccia sulle ginocchia e intrecciò le dita. — Decidete, allora. — La sua voce era priva di emozione.
Brawne Lamia aveva estratto l’automatica del padre. Ora la posò per terra, accanto a sé. Spostò rapidamente lo sguardo dal Console a Kassad. — Parliamo di tradimento, qui? — disse. — Tradimento verso chi? Nessuno di noi, tranne forse il Console, è esattamente un cittadino modello. Tutti siamo stati presi a calci da forze che sfuggono al nostro controllo.
Sol Weintraub si rivolse direttamente al Console. — Lei, amico mio, ignora una cosa. Se Meina Gladstone e alcuni elementi del Nucleo l’hanno scelta per mettersi in contatto con gli Ouster, sapevano benissimo come si sarebbe comportato. Forse non sospettavano che gli Ouster avessero i mezzi per aprire le Tombe… anche se, con le IA del Nucleo, non si può mai dire… ma di sicuro sapevano che lei si sarebbe rivoltato contro entrambe le società, contro entrambi i campi che hanno danneggiato la sua famiglia. Fa tutto parte di chissà quale piano bizzarro. Lei non era nient’altro che uno strumento compiacente, quanto lo fu… — sollevò la figlia — questa bambina.
Il Console sembrò confuso. Aprì la bocca per replicare, invece si limitò a scuotere la testa.
— Può essere così — disse il colonnello Fedmahn Kassad. — Ma per quanto cerchino di usarci tutti come pedine, dobbiamo tentare di scegliere come comportarci. — Lanciò un’occhiata alle pareti, che i lampi di luce provenienti dalla lontana battaglia spaziale tingevano di rosso. — A causa di questa guerra, moriranno migliaia di persone. Forse milioni. Se gli Ouster o lo Shrike ottengono l’accesso al sistema teleporter della Rete, miliardi di vite in centinaia di pianeti sono in pericolo.
Il Console guardò Kassad sollevare la neuroverga.
— Sarebbe più rapido per tutti noi — disse Kassad. — Lo Shrike non conosce misericordia.
Nessuno parlò. Il Console sembrava fissare un punto molto lontano.
Kassad mise la sicura e s’infilò nella cintola la neurverga. — Siamo arrivati fin qui — disse. — Arriveremo a destinazione tutti insieme.
Brawne Lamia mise via l’automatica del padre, si alzò, si accostò al Console, s’inginocchiò accanto a lui, lo circondò con le braccia. Sorpreso, il Console sollevò una mano. Sulla parete alle loro spalle la luce danzò.
Un attimo dopo, Sol Weintraub si avvicinò e li abbracciò entrambi, con un braccio solo. La piccina si agitò di piacere all’improvviso calore del loro corpo. Il Console sentì profumo di talco e di neonato.
— Sbagliavo — disse il Console. — Farò allo Shrike una richiesta. La grazia per lei. - Con gentilezza sfiorò la testolina di Rachel nel punto dove il piccolo cranio s’incurvava nel collo.
Martin Sileno emise un suono che cominciò come una risata e terminò in singhiozzo. — Le nostre ultime richieste! — disse. — La musa concede grazie? Io non ho nulla da chiedere. Voglio solo che il poema sia terminato.
Padre Hoyt si girò verso il poeta. — È così importante?
— Oh, sì, sì, sì, sì — ansimò Sileno. Lasciò cadere la bottiglia di scotch vuota, frugò nella sacca e ne tirò fuori una manciata di veline; le sollevò come se le offrisse al gruppetto. — Volete leggerlo? Volete che io stesso ve lo legga? Leggete le parti vecchie. Leggete i Canti da me scritti tre secoli fa e mai pubblicati. È tutto qui. Siamo tutti qui. Il mio nome, il vostro, questo viaggio. Non capite? Non creo un poema, creo il futuro! — Lasciò cadere le veline, alzò la bottiglia vuota, si accigliò, la sollevò come un calice. — Creo il futuro — ripeté, senza alzare lo sguardo — ma è il passato che bisogna cambiare. Un solo istante. Una sola decisione.
Rialzò il viso. Aveva gli occhi rossi. — Questa cosa che ci ucciderà domani… la mia musa, colui che ci ha fatti, colui che ci distruggerà… ha viaggiato a ritroso nel tempo. Bene, che sia» Stavolta, che prenda me e lasci in pace Billy. Che prenda me e lasci terminare qui il poema, incompiuto per sempre. — Sollevò più in alto la bottiglia, chiuse gli occhi e la scagliò contro la parete opposta. Schegge di vetro rifletterono la luce arancione delle esplosioni silenziose.
Il colonnello Kassad gli si avvicinò, e con le lunghe dita toccò la spalla del poeta.
Per alcuni secondi la stanza sembrò scaldata da quel semplice contatto umano. Padre Lenar Hoyt si staccò dalla parete a cui era appoggiato; sollevò la destra, col pollice e il mignolo uniti e tre dita dritte, in un gesto che in qualche modo comprendeva tanto se stesso quanto quelli davanti a lui, e disse piano: — Ego te absolvo.
Il vento raschiò le pareti esterne e fischiò intorno ai doccioni e alle balconate. La luce della battaglia combattuta a cento milioni di chilometri gettò sul gruppetto delle sfumature sanguigne.
Il colonnello Kassad si avvicinò alla porta. Il gruppo si sciolse.
— Cerchiamo di dormire un poco — disse Brawne Lamia.
Più tardi, mentre ciascuno era nel sacco a pelo e ascoltava il vento che strideva e ululava, il Console appoggiò la guancia contro la sua sacca e tirò più su la ruvida coperta. Erano anni che non riusciva a prendere sonno facilmente.
Mise sotto la guancia le dita a pugno, chiuse gli occhi e si addormentò.