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La Benares attraccò a Limito, poco dopo mezzogiorno dell’indomani. Una manta era morta sotto i finimenti, a soli venti chilometri a valle della destinazione e A. Bettik l’aveva staccata. L’altra durò finché non ormeggiarono al molo scolorito, poi si girò pancia all’aria, esausta, emettendo bolle dai fori d’aerazione gemelli. Bettik ordinò di staccare dai finimenti anche quella e spiegò che aveva una debole speranza di sopravvivere solo se poteva galleggiare nella corrente più rapida.

Già da prima del sorgere del sole i sette pellegrini erano svegli e guardavano scorrere il paesaggio. Parlavano poco e nessuno aveva trovato niente da dire a Martin Sileno. A quanto pareva, il poeta non ci aveva badato: bevve vino a colazione e cantò canzonette oscene al sorgere del sole.

Durante la notte il fiume si era allargato e al mattino sembrava una strada grigiazzurra larga chilometri che tagliava le colline a sud del mare d’Erba. Così vicino al mare non c’erano alberi; i marrone, gli oro e i toni d’erica dei cespugli della Criniera si erano gradualmente accesi nei verdi arditi della vegetazione nordica alta due metri. Durante la mattina, a mano a mano che procedevano, le colline si erano appiattite e adesso erano ridotte a basse scarpate erbose ai lati del fiume. Un oscuramento quasi invisibile restava sospeso all’orizzonte, a nord e a est; quei pellegrini che erano stati sui mondi oceanici e lo conoscevano come un effetto del mare in avvicinamento, dovettero ricordare a se stessi che l’unico mare nelle vicinanze era costituito di alcuni miliardi d’acri d’erba.

Limito non era mai stato un avamposto molto grande, e adesso era completamente deserto. I venti edifici che costeggiavano il viottolo pieno di solchi oltre il pontile avevano l’aspetto vuoto di tutte le costruzioni abbandonate; sul lungofiume c’erano segni della fuga degli abitanti, avvenuta settimane prima. Il Riposo del Pellegrino, una locanda vecchia di tre secoli, proprio sotto la cresta dell’altura, era stato bruciato.

A. Bettik li accompagnò in cima alla bassa scarpata.

— Ora cosa farete? — domandò all’androide il colonnello Kassad.

— Secondo le clausole del servizio al Tempio, dopo questo viaggio siamo liberi — rispose Bettik. — Lasceremo qui la Benares per il vostro ritorno e useremo la scialuppa per scendere il fiume. Poi ce ne andremo per la nostra strada.

— Con le evacuazioni generali? — domandò Brawne Lamia.

— No — sorrise Bettik. — Abbiamo scopi e pellegrinaggi nostri, su Hyperion.

Il gruppo raggiunse la cima arrotondata della scarpata. Dietro di loro, la Benares sembrava una piccola cosa legata a un pontile cadente. Più avanti l’Hoolie curvava a ovest e si restringeva verso le insuperabili Cataratte Basse, una decina di chilometri a monte di Limito. A nord e a est si estendeva il mare d’Erba.

— Dio mio — mormorò Brawne Lamia.

Era come se avessero salito l’ultima collina del creato. Sotto di loro una manciata di moli, di pontili e di tettoie segnava la fine di Limito e l’inizio del mare d’Erba. L’erba si estendeva all’infinito, s’increspava sensualmente nelle lieve brezza, sembrava lambire come un verde frangente le zolle delle scarpate. Pareva infinita e ininterrotta, toccava l’orizzonte in due punti cardinali e si estendeva fin dove gli occhi erano in grado di vedere. Non c’era il minimo accenno dei picchi nevosi della Briglia, che si trovavano a circa ottocento chilometri a nordest. L’illusione di guardare uno smisurato mare verde era quasi perfetta, fino al tremolio, provocato dal vento, degli steli verdi che sembravano bianche creste d’onda lontano dalla riva.

— È bellissimo — disse Lamia, che vedeva quello spettacolo per la prima volta.

— Colpisce, al sorgere e al tramontare del sole — commentò il Console.

— Affascinante — mormorò Sol Weintraub, sollevando la piccina perché anche lei vedesse. La bimba ridacchiò, felice, concentrata nell’esame delle proprie dita.

— Un ecosistema ben conservato — approvò Het Masteen. — Il Muir ne sarebbe compiaciuto.

— Merda — disse Martin Sileno.

Gli altri si girarono a fissarlo.

— Non c’è nessun maledetto carro a vela — disse il poeta.

Gli altri cinque uomini, la donna e l’androide fissarono in silenzio le banchine abbandonate e la piana d’erba deserta.

— Sarà in ritardo — disse il Console.

Martin Sileno fece una risata simile a un latrato. — Oppure è già andato via. In teoria dovevamo essere qui ieri sera.

Il colonnello Kassad alzò il binocolo elettronico e scrutò l’orizzonte. — Mi sembra poco probabile che se ne sia andato senza di noi — disse. — Il carro lo mandavano i preti stessi del Tempio Shrike. Loro ci tengono, al nostro pellegrinaggio.

— Potremmo camminare — disse Lenar Hoyt. Il prete, pallido e debole, chiaramente in preda al dolore e alle droghe, sembrava appena in grado di reggersi in piedi, altro che camminare.

— No — rispose Kassad. — Sono centinaia di chilometri. E l’erba è più alta di noi.

— La bussola — disse il prete.

— La bussola non funziona, su Hyperion — replicò Kassad senza abbassare il binocolo.

— Gli indicatori direzionali, allora — continuò Hoyt.

— Abbiamo un ID, ma il punto è un altro — intervenne il Console. — L’erba è tagliente. Mezzo chilometro, e saremo degli stracci.

— E ci sono i serpenti d’erba — aggiunse Kassad abbassando il binocolo. — L’ecosistema è ben mantenuto, ma non abbastanza da farci una passeggiata.

Padre Hoyt sospirò e quasi crollò nell’erba bassa alla sommità dell’altura. Nella sua voce c’era qualcosa di simile al sollievo, quando disse: — D’accordo, torniamo indietro.

A. Bettik avanzò d’un passo. — L’equipaggio sarà lieto di aspettare e di riportarvi con la Benares a Keats, se il carro a vela non dovesse arrivare.

— No — disse il Console. — Prendete pure la lancia e andatevene.

— Merda, aspetti un minuto! — esclamò Martin Sileno. — Non mi ricordo d’averla eletta dittatore, amigo. Lì dobbiamo andarci! Se il merdoso carro a vela non arriva, dovremo trovare un altro mezzo.

Il Console girò sui tacchi per fronteggiare l’altro, più basso di lui. — E come? In barca? Occorrono due settimane, per risalire la Criniera, girare intorno al Litorale Nord e raggiungere Otho o una delle altre aree di posta. Ammesso che ci siano navi disponibili. Ogni vascello di Hyperion probabilmente è adibito all’evacuazione.

— In dirigibile, allora — brontolò il poeta.

Brawne Lamia scoppiò a ridere. — Oh, sì. Né abbiamo visti talmente tanti, nei due giorni di fiume!

Martin Sileno si girò di scatto e strinse i pugni come se volesse colpirla. Poi sorrise. — D’accordo, allora, signora mia. Che cosa facciamo? Forse, se sacrifichiamo uno di noi ai serpenti dell’erba, gli dèi dei trasporti ci sorrideranno.

Lo sguardo di Brawne Lamia era gelido come il ghiaccio. — Credevo che nel tuo stile rientrassero di più gli olocausti, piccoletto.

Il colonnello Kassad intervenne. Latrò un ordine: — Basta così. Il Console ha ragione. Ci fermiamo fino all’arrivo del carro. Masteen, Lamia, andate con Bettik a badare allo scarico del nostro equipaggiamento. Padre Hoyt e Sileno raccoglieranno un po’ di legna per fare un falò.

— Un falò? — disse il prete. Faceva caldo, sul pendio della collina.

— Per la notte — spiegò Kassad. — Bisogna far sapere al carro a vela che siamo qui. E ora, muoviamoci!


Fu un gruppo silenzioso quello che guardò l’elettrolancia scendere il fiume, al tramonto. Anche da due chilometri di distanza, il Console vedeva la pelle azzurra dell’equipaggio. Lungo la banchina, la Benares sembrava vecchia e abbandonata, già parte della città deserta. Quando la lancia sparì lontano, il gruppo si girò a fissare il mare d’Erba. Le lunghe ombre delle scarpate lungo il fiume scivolavano su quelli che il Console si era già scoperto a considerare come frangenti e bassi fondali. Più lontano, il mare sembrava cambiare colore e l’erba si addolciva in un riflesso acquamarina, prima di scurirsi in una tonalità verde intenso. Il cielo blu si fondeva nel rosso e nell’oro del tramonto, illuminava la cima dell’altura e irradiava di una luce liquida la pelle dei pellegrini. Si sentiva solo il mormorio del vento fra l’erba.

— Abbiamo un bel mucchio di merdosi bagagli — disse ad alta voce Martin Sileno — per essere quattro gatti in un viaggio di sola andata.

Era vero, si disse il Console. Sul pendio erboso, i bagagli formavano una montagnola.

— Da qualche parte, laggiù — disse piano Het Masteen — forse c’è la nostra salvezza.

— Cosa vuol dire? — domandò Brawne Lamia.

— Già — disse Martin Sileno, steso sulla schiena, le mani sotto la testa, fissando il cielo. — Ha portato un paio di mutande a prova di Shrike?

Il Templare scosse lentamente la testa. L’improvviso crepuscolo mise in ombra il suo viso sotto il cappuccio della veste. — Evitiamo commenti scemi e ipocriti — disse. — È ora d’ammettere che ciascuno di noi ha portato in questo pellegrinaggio qualcosa che si augura possa mutare l’inevitabile risultato, quando verrà il momento di affrontare il Signore delle Sofferenze.

Il poeta rise. — Io non ho portato nemmeno la mia stronzissima zampa di coniglio portafortuna.

Il cappuccio del Templare si mosse lievemente. — Ma il manoscritto sì, vero?

Il poeta restò zitto.

Het Masteen spostò gli occhi invisibili sull’uomo alto alla sua sinistra. — E lei, colonnello? Ci sono alcuni bauli con il suo nome. Armi, per caso?

Kassad alzò la testa, ma non replicò.

— Naturalmente — proseguì Het Masteen — sarebbe sciocco andare a caccia senza un’arma.

— E io? — domandò Brawne Lamia, incrociando le braccia. — Sa quale arma segreta ho portato di nascosto?

La voce dalla cadenza bizzarra del Templare rimase calma. — Non abbiamo ancora ascoltato la sua storia, signora Lamia. Sarebbe prematuro fare ipotesi.

— E il Console? — replicò Lamia.

— Oh, sì, l’arma che il nostro amico diplomatico ha in serbo è ovvia.

Il Console smise di contemplare il tramonto e girò la testa. — Ho portato solo qualche vestito e due libri da leggere — disse in tono sincero.

— Ah — sospirò il Templare. — Però si è lasciato alle spalle una magnifica nave!

Sileno saltò in piedi. — La sua merdosa nave! — esclamò. — Può chiamarla, vero? Allora, maledizione, tiri fuori il fischietto. Sono stufo di starmene qui seduto.

Il Console strappò uno stelo e tirò via le foglioline. Dopo un minuto, disse: — Anche se potessi chiamarla… e avete sentito A. Bettik, i satelliti per le telecomunicazioni e le stazioni ripetitrici non funzionano… anche se potessi chiamarla, non potremmo atterrare a nord della Briglia. Sarebbe un disastro immediato, addirittura prima che lo Shrike cominciasse a muoversi a sud delle montagne.

— Già — disse Sileno, agitando le braccia, turbato. — Ma potremmo superare questo… questa prateria del cazzo! Chiami la nave.

— Aspettiamo domattina — rispose il Console. — Se il carro a vela non sarà ancora arrivato, discuteremo le altre possibilità.

— Vaffanculo… — iniziò il poeta. Ma Kassad venne avanti dandogli la schiena, con il risultato di escluderlo dal cerchio degli altri.

— Signor Masteen — disse il colonnello. — Qual è il suo segreto?

La luce del sole al tramonto era sufficiente perché sulle labbra sottili del Templare si scorgesse un accenno di sorriso. Masteen indicò la montagnola di bagagli. — Come vede, il mio baule è più pesante e misterioso degli altri.

— Un cubo di Moebius — disse padre Hoyt. — Ho già visto trasportare in questo modo i manufatti antichi.

— O bombe a fusione — disse Kassad.

Het Masteen scosse la testa. — Niente di così poco raffinato — disse.

— Ce lo dirà? — domandò Lamia.

— Quando sarà il mio turno — ribatté il Templare.

— È lei, il prossimo? — chiese il Console.- Possiamo ascoltare la sua storia, nell’attesa.

Sol Weintraub si schiarì la voce. — Ho io il numero 4 — disse, mostrando la sua strisciolina di carta. — Ma sarei ben lieto di far cambio con la Vera Voce dell’Albero. — Weintraub passò dalla sinistra di Rachel alla sua destra, e le diede un colpetto leggero sulla schiena.

Het Masteen scosse di nuovo la testa. — No, c’è tempo. Volevo solo far notare che anche nella disperazione c’è sempre una speranza. Finora abbiamo imparato molto dalle storie, eppure ciascuno di noi ha un seme di promessa sepolto molto più in profondità di quanto non abbia ammesso.

— Non capisco… — cominciò padre Hoyt, ma fu interrotto dal grido di Martin Sileno.

— Il carro! Il merdoso carro a vela! È arrivato, finalmente!


Passarono venti minuti, prima che il carro a vela attraccasse a una banchina. L’imbarcazione proveniva da nord: le vele erano riquadri bianchi contro la piana scura ormai priva di colore. L’ultima luce era svanita, quando la grande barca si avvicinò alla bassa scarpata, ripiegò le numerose vele e si fermò.

Il Console ne fu impressionato. Era un’imbarcazione di legno, fatta a mano, gigantesca: s’incurvava nella sagoma da donna incinta d’un galeone della Vecchia Terra. L’unica ruota, enorme, al centro dello scafo ricurvo, normalmente era nascosta dall’erba alta due metri, ma il Console riuscì a dare un’occhiata di sfuggita alla parte inferiore del vascello, mentre trasportava i bagagli sulla banchina. Da terra c’erano almeno sei metri per arrivare al parapetto, e più di cinque volte tanto alla cima dell’albero maestro.

Da dove si era fermato, ansimando per lo sforzo, il Console sentiva lo schiocco degli altissimi pennoni e un ronzio continuo, quasi subsonico, che proveniva o dal volano interno della nave o dai suoi enormi giroscopi.

Dallo scafo superiore fu spinta fuori una passerella che si abbassò fino alla banchina. Padre Hoyt e Brawne Lamia furono costretti ad arretrare in fretta per non farsi schiacciare.

Il carro a vela era meno illuminato della Benares: la luce proveniva da parecchie lanterne appese ai pennoni. Mentre la barca accostava non si era visto equipaggio, e anche ora non venne fuori nessuno.

— Ehilà! — gridò il Console dalla base della passerella. Nessuno rispose.

— Aspettate qui un minuto, per favore — disse Kassad, e con cinque lunghi passi risalì la rampa.

Gli altri guardarono Kassad soffermarsi in cima, toccarsi la cintura in cui teneva la piccola neuroverga e sparire sul polite di mezzo. Alcuni minuti dopo, una luce illuminò le ampie finestre di poppa e lanciò sull’erba sottostante trapezi di giallo.

— Salite — gridò Kassad, dalla cima della rampa. — È vuoto.

Il gruppetto trasportò a bordo i bagagli con parecchi viaggi. Il Console aiutò Het Masteen a portar su il pesante cubo di Moebius e sulla punta delle dita sentì una debole ma intensa vibrazione.

— Ma dove cazzo è finito l’equipaggio? — chiese Martin Sileno quando furono tutti riuniti sul ponte di prua. In fila indiana avevano fatto il giro degli stretti corridoi e delle cabine, su per scale più a pioli che a gradini, e dei locali poco più grandi delle cuccette che contenevano. Solo la cabina più in fondo (quella del capitano, se pure lo era) si avvicinava alla grandezza e alle normali comodità della Benares.

— Chiaramente è tutto automatizzato — disse Kassad. L’ufficiale della FORCE indicò le sagole che sparivano nelle feritoie del ponte, i manipolatori quasi invisibili fra sartiame e pennoni, le tracce di ingranaggi a metà dell’albero poppiero munito di vela latina.

— Non vedo il centro di comando — disse Lamia. — Nemmeno un diskey, né un nesso C. — Tolse dalla tasca sul petto il comlog e cercò di interfacciarsi sulle frequenze di dati standard, di comunicazione e di biomedicina. Non ottenne risposta.

— Un tempo l’equipaggio c’era — disse il Console. — Gli iniziati del Tempio accompagnavano alle montagne i pellegrini.

— Be’, ora non c’è — disse Hoyt. — Ma qualcuno ci sarà, alla stazione della funivia, o a Castel Crono. Ci hanno mandato il carro, no?

— Forse sono tutti morti e il carro segue un programma automatico — disse Lamia. Si guardò alle spalle, quando la velatura e il sartiame scricchiolarono sotto un improvviso colpo di vento. — Maledizione, fa un certo effetto essere tagliati fuori da tutto e da tutti in questo modo. Sembra d’essere sordi e ciechi. Come fanno i coloniali a sopportarlo?

Martin Sileno si accostò al gruppetto e si sedette sul parapetto. Bevve un sorso da una lunga bottiglia verde, e disse:

Dov’è il Poeta? Mostratelo! Mostratelo,

mie Muse, che lo conosca!

È questo l’uomo che dell’uomo

è uguale, sia egli re,

o il più povero dei mendicanti,

oppure ogni altra meraviglia che l’uomo

può essere fra la scimmia e Piatone.

E questo l’uomo che con un uccello,

scricciolo o aquila, trova la via

a tutti i suoi istinti. Ha udito

il ruggito del leone e può dire

cosa esprime la sua gola rauca,

e per lui il grido della tigre

esce articolato e preme

sul suo orecchio come lingua madre.

— Dove ha preso quella bottiglia di vino? — gli chiese Kassad.

Sileno sorrise. Alla luce di lanterna, i suoi occhi erano piccoli e vividi. — La cambusa è ben fornita, c’è anche il bar. L’ho dichiarato aperto.

— Bisognerebbe preparare la cena — disse il Console, anche se in quel momento desiderava solo un po’ di vino. Non mangiavano da dieci ore.

Sentendo un rumore metallico e un ronzio, tutti e sette si accostarono al parapetto di tribordo. La passerella si era ritirata. Si girarono di nuovo, mentre le vele si srotolavano, le sartie si tendevano e da qualche parte un volano ronzava raggiungendo gli ultrasuoni. Le vele si gonfiarono, il ponte s’inclinò, e il carro a vela si allontanò dalla banchina nell’oscurità. Si sentiva solo lo sbattere delle vele e lo scricchiolio della nave, il lontano brontolio della ruota e il fruscio dell’erba contro la parte inferiore dello scafo.

Tutti e sette rimasero a guardare mentre la scarpata buia si allontanava e il falò che serviva da faro si riduceva al debole bagliore di una luce stellare sopra al legno chiaro; poi ci furono solo il cielo e la notte e i mobili cerchi della luce di lanterna.

— Vado di sotto — disse il Console. — Vedo se riesco a mettere insieme un pasto.

Gli altri si trattennero un poco sul ponte; sotto i piedi sentivano una leggera vibrazione, mentre guardavano scorrere il buio. Il mare d’Erba era adesso solo la linea dove finivano le stelle e iniziava la piatta oscurità. Kassad illuminò di sfuggita con la torcia le vele, le sartie e le funi tirate da mani invisibili; poi controllò tutti gli angoli e i punti in ombra, da poppa a prua. Gli altri rimasero a guardare in silenzio. Quando Kassad spense la torcia, le tenebre sembrarono meno opprimenti, e la luce delle stelle più vivida. Un odore ricco, fertile, più di fattoria in primavera che di mare, arrivò sulle ali della brezza che aveva spazzato mille chilometri d’erba.

Più tardi il Console li chiamò e tutti scesero a cenare.


La cambusa aveva poco spazio e non c’era tavolo mensa: usarono come sala comune la cabina più ampia, quella di poppa, e accostarono tre bauli per ottenere un tavolo di fortuna. Quattro lanterne che dondolavano dalle basse travi illuminarono il locale. La brezza entrò, quando Het Masteen aprì un’alta finestra sopra il letto.

Il Console mise sul baule più grande un vassoio pieno di panini e poi tornò con alcune grosse tazze bianche e un thermos di caffè. Mentre gli altri mangiavano, riempì le tazze.

— L’arrosto è buono — disse Fedmahn Kassad. — Dove l’ha preso?

— Il frigo è ben fornito. Nella cambusa di poppa c’è un altro grosso congelatore.

— Elettrico? — domandò Het Masteen.

— No. A doppio isolamento.

Martin Sileno annusò un vasetto, trovò sul vassoio un coltello e aggiunse al suo panino una generosa quantità di rafano. Quando lo mangiò, gli occhi gli si riempirono di lacrime.

— Quanto tempo richiede la traversata, in genere? — chiese Lamia al Console.

Lui alzò lo sguardo, smettendo di contemplare nella tazza il cerchio di caffè nero bollente. — Prego?

— La traversata del mare d’Erba. Quanto tempo richiede?

— Una notte più mezza giornata, fino alle montagne. Se il vento è favorevole.

— E poi… per attraversare le montagne? — domandò Padre Hoyt.

— Meno di una giornata.

— Se la funivia funziona — aggiunse Kassad.

Il Console sorseggiò il caffè bollente. Fece una smorfia. — Dobbiamo presumere che funzioni. Altrimenti…

— Altrimenti cosa? — domandò Lamia.

— Altrimenti — disse il colonnello Kassad mettendosi le mani sui fianchi e andando davanti alla finestra aperta — ci troveremo arenati a seicento chilometri dalle Tombe del Tempo e a mille dalle città meridionali.

Il Console scosse la testa. — No — disse. — I preti del Tempio, o chiunque ci sia dietro questo pellegrinaggio, hanno fatto in modo che arrivassimo fin qui. Ci metteranno in condizione di terminare il viaggio.

Brawne Lamia incrociò le braccia e corrugò la fronte. — In qualità di… di vittime sacrificali?

Martin Sileno scoppiò a ridere e alzò la bottiglia:

Chi sono costoro che vengono al sacrificio?

A quale verde altare, o misterioso sacerdote,

hai condotto questa giovenca che muggisce al cielo,

con i serici fianchi ornati di ghirlande?

Quale paesello in riva al fiume o al mare,

quale pacifica rocca di montagna,

d’alme si svuota della sua gente, in questo pio mattino?

E per sempre, paesello, le tue vie

saranno mute; e non un’anima tornerà

a narrare il perché dell’abbandono.

Brawne Lamia infilò la mano sotto la veste e tirò fuori un laser da taglio non più grosso del mignolo. Lo puntò contro la testa del poeta. — Miserabile verme di merda. Ancora una parola, e ti giuro che ti affetto dove sei.

Nell’improvviso silenzio si sentirono solo i rumori della nave in sottofondo. Il Console si mosse verso Martin Sileno. Il colonnello Kassad avanzò di due passi alle spalle di Lamia.

Il poeta bevve una lunga sorsata e sorrise alla donna bruna. Aveva le labbra umide. — Oh, edifica la tua nave di morte — mormorò. — Oh, edificala!

Sulla matita laser le dita di Lamia si erano sbiancate. Il Console si avvicinò ancora a Sileno, senza sapere che cosa fare: già pensava di sentirsi fondere gli occhi dal raggio di luce. Kassad, come un’ombra di due metri, si chinò su Lamia.

— Signora — disse Sol Weintraub, seduto sulla cuccetta contro la parete più lontana. — Devo ricordarle che siamo in presenza di una bambina?

Lamia lanciò un’occhiata a destra. Da una credenza della nave Weintraub aveva preso un cassetto e l’aveva adattato a culla. Aveva fatto il bagno alla piccina ed era entrato silenziosamente proprio un attimo prima della recita di Sileno. Adagiò piano la bimba nel nido imbottito.

— Chiedo scusa — disse Brawne Lamia, abbassando il piccolo laser. — Ma quello lì riesce a rendermi… rabbiosa.

Weintraub annuì, facendo dondolare piano il cassetto. Il gentile rollio del carro a vela, combinato con l’incessante brontolio della grande ruota, sembrava aver già addormentato la piccina. — Siamo tutti stanchi e tesi — disse lo studioso. — Forse sarebbe meglio sceglierci un alloggio per la notte e ritirarci.

La donna sospirò e rimise nella cintura la piccola arma. — Non dormirei — disse. — È tutto troppo… insolito.

Gli altri annuirono. Martin Sileno si era seduto sull’ampio davanzale dell’oblò di prua. Tirò su le gambe, bevve un sorso e si rivolse a Weintraub. — Racconti la sua storia, vecchio.

— Sì — disse Padre Hoyt. Il prete sembrava esausto, ma nel viso pallidissimo gli occhi gli ardevano febbrili. — Racconti. Abbiamo bisogno di conoscere le storie e di tempo per meditarle, prima dell’arrivo.

Weintraub si passò la mano sul cranio calvo. — È una storia noiosa — disse. — Io non sono mai stato su Hyperion. Non ci sono mostri, né atti di eroismo: la mia è la storia di un uomo per cui il massimo dell’avventura epica consiste nel tenere una lezione senza avere sottomano gli appunti.

— Meglio — commentò Martin Sileno. — Abbiamo bisogno di un sonnifero.

Sol Weintraub sospirò, si aggiustò gli occhiali, annuì. C’era ancora qualche filo scuro, nella sua barba, fra tutto quel grigio. Lo studioso abbassò la luce della lanterna sul letto della bimba e si spostò nella poltrona al centro della cabina.

Il Console abbassò gli altri lumi e versò altro caffè per chi ne voleva. Weintraub parlò con voce lenta, attento alla formulazione delle frasi e alla scelta delle parole; ben presto la cadenza gentile della sua storia si fuse con il debole brontolio e con il lento beccheggio del carro a vela che avanzava verso nord.

IL RACCONTO DELLO STUDIOSO Il fiume Lete sa d’amaro

Sol Weintraub e sua moglie Sarai erano contenti della loro vita anche prima della nascita della bimba; Rachel aveva reso quasi perfetta la loro unione.

Quando la bimba fu concepita, Sarai aveva ventisette anni; Sol, ventinove. Nessuno dei due aveva preso in considerazione il trattamento Poulsen perché era troppo costoso, ma anche senza quella precauzione si aspettavano altri cinquant’anni di buona salute.

Erano sempre vissuti sul Mondo di Barnard, uno dei primi e dei meno entusiasmanti dell’Egemonia. Barnard faceva parte della Rete, ma per Sol e Sarai la cosa non faceva molta differenza, perché non potevano permettersi di viaggiare spesso via teleporter e, comunque, non avevano molta voglia di girare. Di recente Sol aveva festeggiato il decimo anniversario d’insegnamento nel Nightenhelser College, dove teneva corsi di storia e di cultura classica, oltre a fare ricerche sull’evoluzione etica. Nightenhelser era una scuola piccola — meno di tremila studenti — ma aveva un’eccezionale reputazione accademica e attirava giovani da tutta la Rete. La principale lamentela degli studenti era il fatto che Nightenhelser e la comunità circostante di Crawford costituivano un’isola di civiltà in un oceano di granturco. Ed era vero: il college distava tremila chilometri di pianura dalla capitale Bussard e quella distesa di terreno terraformato era riservata all’agricoltura. Non c’erano state foreste da abbattere, colline da spianare, montagne che rompessero la monotonia dei campi di granturco, fagioli, granturco, frumento, granturco, riso, granturco. Il poeta radicale Salmud Brevy aveva insegnato per un breve periodo a Nightenhelser, prima della rivolta di Glennon-Height; era stato licenziato e, dopo essersi teleportato su Vettore Rinascimento, aveva raccontato agli amici che la contea di Crawford nel Sinzer meridionale, sul Mondo di Barnard, era l’Ottavo Cerchio di Desolazione nel più piccolo foruncolo sulle chiappe del Creato.

A Sol e Sarai Weintraub piaceva. Crawford, un piccolo centro di venticinquemila anime, sembrava costruita sul modello di una cittadina americana del Diciottesimo secolo. Le strade erano ampie e costeggiate di olmi e querce. (Barnard era stata la seconda colonia extrasolare terrestre, secoli prima del motore Hawking e dell’Egira: a quei tempi le navi coloniali erano enormi.) Le case rispecchiavano stili che andavano dal primo vittoriano al revival canadese, ma sembravano tutte bianche e costruite in fondo a prati ben curati.

Il college era in stile georgiano, un assieme di mattoni rossi e colonne bianche intorno all’ovale del parco pubblico. L’ufficio di Sol era al secondo piano di Platcher Hall, il più antico edificio del campus, e d’inverno Sol poteva ammirare i rami spogli che intagliavano nel parco complicati disegni geometrici. Amava la polvere di gesso e l’odore di legno antico di quel posto, un odore che non era cambiato da quando era matricola; e ogni giorno, mentre saliva in ufficio, guardava con piacere i gradini consumati, eredità di venti generazioni di studenti a Nightenhelser.

Sarai era nata in una fattoria a metà fra Bussard e Crawford e aveva conseguito la laurea in teoria della musica un anno prima che Sol si laureasse. Era una ragazza felice e piena di energia, che compensava con la personalità quel che le mancava secondo i canoni comuni della bellezza fisica, e quella non era una dote che si perdeva. Per due anni Sarai aveva studiato all’estero, all’Università di Nuova Lione, su Deneb Drei, ma aveva sofferto di nostalgia: lì i tramonti erano troppo rapidi e le tanto decantate montagne affettavano i raggi del sole come falci frastagliate, mentre lei sentiva il desiderio delle lunghe ore dei tramonti di casa, quando la stella di Barnard rimaneva sospesa all’orizzonte come un enorme, rosso, pallone frenato, e il cielo si raffreddava nella sera. Sentiva la mancanza della perfetta piattezza dove, scrutando dalla sua camera al terzo piano, sotto il tetto spiovente, una ragazzina poteva arrivare con lo sguardo fino a cinquanta chilometri sui campi a mosaico, vedendo le tempeste in arrivo come tende illuminate all’interno dai fulmini. E sentiva la mancanza della famiglia.

Conobbe Sol una settimana dopo essersi trasferita a Nightenhelser e, prima che lui le chiedesse di sposarlo e lei accettasse, passarono altri tre anni. All’inizio Sarai non ci vide niente, in quel neolaureato. A quel tempo si vestiva ancora secondo la moda della Rete, aveva la passione delle teorie musicali post-distruzionistiche, leggeva Obit, Nihil e le riviste d’avanguardia di Vettore Rinascimento e di TC2, affettava una sofisticata noia di vivere e parlava come una ribelle… e niente di tutto questo si accordava con il tozzo ma ansioso professore di storia che, alla festa in onore del Decano Moore, le aveva versato addosso un po’ di cocktail di frutta. I caratteri esotici che Sol Weintraub aveva ereditato dal suo retaggio ebraico furono subito vanificati dalla sua inflessione, tipica della gente del MdB, dal guardaroba di Crawford Squire Shop e dal fatto che fosse venuto alla festa tenendo distrattamente sotto braccio una copia delle Solitudini in varianza di Detresque.

Per Sol fu invece amore a prima vista. Fissò la ragazza dalle guance rosse e dal sorriso simpatico e non badò al suo abito costoso e alle sue unghie da mandarino cinese, per concentrarsi sulla sua personalità, che secondo lui brillava come un faro. Sol non si era accorto di essere un solitario finché non aveva incontrato Sarai; ma quando le strinse la mano e le versò sul vestito un po’ di macedonia di frutta, capì che la sua vita sarebbe stata per sempre vuota, se non si fossero sposati.

Si sposarono la settimana dopo l’annuncio che a Sol era stato affidato un incarico d’insegnamento al college. Trascorsero la luna di miele su Patto-Maui (la prima esperienza di Sol col teleporter), affittarono per tre settimane un’isola mobile e veleggiarono in solitudine fra le meraviglie dell’Arcipelago Equatoriale. Sol non dimenticò mai quei giorni pieni di sole e di vento; e l’immagine segreta che avrebbe sempre conservato come un tesoro era quella di Sarai che usciva nuda dall’acqua dopo un bagno notturno: le stelle del Nucleo brillavano sopra di lei e il suo corpo luccicava di costellazioni per la fosforescenza della scia dell’isola mobile.

Volevano subito un figlio, ma solo dopo cinque anni la natura si decise a collaborare.

Sol ricordava come aveva cullato fra le braccia Sarai, mentre lei si torceva nel dolore per il parto difficile finché finalmente, incredibilmente, alle due del mattino, nel Centro medico della contea di Crawford, Rachel Sarah Weintraub nacque.

La presenza d’una neonata s’intromise nella vita egocentrica, da serio accademico, di Sol e nella professione di Sarai, critico musicale per la sfera dati di Barnard, ma nessuno dei due ne soffrì. I primi mesi furono un misto di stanchezza costante e di gioia. A notte tarda, fra un pasto e l’altro della piccina, Sol andava in punta di piedi alla nursery solo per controllare Rachel e starsene a guardarla. La maggior parte delle volte Sarai era già lì e tutti e due, mano nella mano, guardavano il miracolo della bimba addormentata, col culetto in aria e la testa affondata nell’imbottitura della culla.

Rachel era uno di quei rari bambini che riescono a essere graziosi senza farlo pesare; a due anni standard, era straordinaria sia come aspetto sia come personalità… i capelli castano chiaro, le guance rosse e l’ampio sorriso della madre, i grandi occhi castani del padre. Gli amici dicevano che la bambina aveva ereditato le parti migliori della sensibilità di Sarai e dell’intelligenza di Sol. Un altro amico, uno psicologo infantile del college, una volta disse che Rachel a cinque anni mostrava tutti i segni di una creatura particolarmente dotata: curiosità razionale, simpatia per gli altri, compassione, un forte senso di lealtà.

Un giorno, nel suo studio, mentre esaminava antichi documenti della Vecchia Terra, Sol lesse un articolo su come Beatrice avesse influenzato la concezione del mondo di Dante e fu colpito da un brano scritto da un critico del Ventesimo o Ventunesimo secolo:


Per lui, solamente Beatrice era reale, dava significato al mondo, e bellezza. La sua natura diventò per lui il punto di riferimento… quel che Melville chiamerebbe, con maggiore assennatezza di quella cui ora siamo in grado di fare appello, il suo meridiano di Greenwich…


Sol s’interruppe per cercare la definizione di meridiano di Greenwich, poi riprese a leggere. Il critico aveva aggiunto una nota personale:


Molti di noi, mi auguro, hanno avuto figli, mogli o amici simili a Beatrice, persone che per la loro stessa natura, per l’ovvia bontà innata e per l’intelligenza ci rendono scomodamente consapevoli delle nostre menzogne, quando mentiamo.


Sol aveva spento lo schermo ed era rimasto a fissare le nere figure geometriche disegnate dai rami sopra il parco.


Rachel non era insopportabilmente perfetta. A cinque anni standard, tagliò con cura i capelli alle cinque bambole preferite e poi i suoi, ancora più corti. A sette anni, decise che gli operai stagionali alloggiati nelle case diroccate della periferia sud non avevano una dieta nutriente e svuotò le dispense di casa, i frigoriferi, i congelatori e i banchi di sintesi, convinse tre amici ad accompagnarla e distribuì l’equivalente di alcune centinaia di marchi del budget mensile per il vitto della famiglia.

A dieci anni, in risposta a una sfida di Stubby Berkowitz, si arrampicò sul più vecchio olmo di Crawford. Era arrivata a quaranta metri, meno di cinque dalla cima, quando un ramo si ruppe e lei precipitò per una trentina di metri. Sol fu chiamato al comlog, mentre stava discutendo le implicazioni morali del primo disarmo nucleare della Terra: lasciò l’aula senza una parola, e fece di corsa i dodici isolati che lo separavano dal Centro medico.

Rachel si era rotta la gamba sinistra e due costole, aveva il polmone perforato e una frattura alla mascella. Galleggiava nel bagno di liquido nutritivo, quando Sol entrò come un uragano, ma riuscì a guardare da sopra la spalla della madre, a sorridere e a dire, nonostante il ferro alla mascella: «Papà, ero a cinque metri dalla cima. Forse meno. Ce la faccio, la prossima volta».


Rachel si diplomò con lode; scuole private di cinque mondi e alcune università, fra cui Harvard di Nuova Terra, le offrirono una borsa di studio. Lei scelse Nightenhelser.

Sol non fu molto sorpreso, quando sua figlia scelse archeologia come corso principale di laurea. Fra i suoi ricordi più belli, conservava quello dei lunghi pomeriggi in cui Rachel, a due anni, se ne stava a scavare nella terra grassa sotto il portico anteriore senza badare ai ragni e ai millepiedi, e poi si precipitava in casa a mostrare ogni pezzetto di plastica, ogni pfenning ossidato ritrovati, e domandava da dove venivano e che tipo di persone li aveva abbandonati lì.

A diciannove anni standard, Rachel ottenne la laurea di primo grado; quell’estate lavorò nella fattoria della nonna e l’autunno seguente andò via col teleporter. Rimase all’università di Reichs, su Freeholm, per ventotto mesi locali; quando tornò, a Sol e a Sarai sembrò che il mondo avesse riacquistato colore.

Per due settimane la loro figlia (ora adulta, consapevole e sicura come persone con il doppio dei suoi anni spesso non erano) si riposò e si divertì a stare in famiglia. Una sera, nell’attraversare il campus subito dopo il tramonto, fece al padre alcune domande sul suo retaggio. «Papà, ti consideri ancora ebreo?»

Sol si passò la mano fra i capelli sempre più radi, sorpreso per la domanda. «Ebreo? Sì, penso di sì. Ma non ha più il significato d’una volta.»

«E io sono ebrea?» domandò Rachel. Le guance le brillavano nella luce debole.

«Solo se vuoi esserlo» rispose Sol. «Non ha più l’importanza d’una volta, ora che la Vecchia Terra è stata distrutta.»

«Se fossi nata maschio, mi avresti fatto circoncidere?»

Sol mise a ridere, divertito e imbarazzato.

«Parlo sul serio» disse Rachel.

Sol si aggiustò gli occhiali. «Immagino di sì, bambina mia. Non ci ho mai pensato.»

«Sei stato alla sinagoga di Bussard?»

«Non più, dopo il mio bar mitzvah» rispose Sol, e gli tornò in mente quel giorno di cinquant’anni prima, quando suo padre si era fatto prestare la Vikken di zio Richard e aveva accompagnato la famiglia nella capitale per la cerimonia.

«Papà, come mai gli ebrei pensano che tutto abbia… meno importanza adesso che prima dell’Egira?»

Sol allargò le mani… mani forti, più adatte a un tagliapietre che a un professore universitario. «Ottima domanda, Rachel. Probabilmente, perché gran parte del sogno è morto. Israele non esiste più. Il Nuovo Tempio è durato ancora meno del primo e del secondo. Dio ha mancato alla parola data, permettendo per la seconda volta la distruzione della Terra. E questa diaspora… non ha più fine.»

«Ma gli ebrei mantengono la loro identità etnica e religiosa, in alcuni mondi.»

«Oh, certo. Su Hebron e in alcune zone isolate del Concourse trovi ancora intere comunità… assidici, ortodossi, asmonei… scegli tu. Ma hanno la tendenza a essere… gruppi privi di vitalità, pittoreschi, a uso turistico.»

«Come un parco a tema?»

«Sì.»

«Domani puoi portarmi al tempio Bethel? Mi faccio prestare lo strat di Khaki.»

«Non occorre. Useremo lo shuttle del college.» Sol esitò, poi aggiunse: «Sì, mi piacerebbe portarti alla sinagoga, domani.»

Sotto i vecchi olmi si stava facendo buio. I lampioni si accesero lungo l’ampio viale che portava alla loro casa.

«Papà» disse Rachel. «Ora ti faccio una domanda che ti ho rivolto un milione di volte, da quando avevo due anni. Credi in Dio?»

Sol non sorrise. Non aveva scelta, se non darle la risposta che le aveva dato un milione di volte. «Aspetto di crederci» disse.


Dopo la laurea, Rachel seguì un corso di specializzazione in manufatti alieni precedenti l’Egira. Per tre anni standard, Sol e Sarai ricevettero di tanto in tanto una visita della figlia, a cui facevano seguito veline astrotel spedite da mondi esotici nelle vicinanze della Rete, ma non compresi nella stessa. Sapevano che il lavoro di ricerca sul campo per la tesi conclusiva presto avrebbe portato Rachel al di là della Rete, nella Periferia, dove il debito temporale consumava la vita e i ricordi delle persone che ci si lasciava alle spalle.

«Dove diavolo si trova, Hyperion?» chiese Sarai durante l’ultima vacanza di Rachel, prima che la spedizione partisse. «Sembra un nuovo prodotto per la casa.»

«È un mondo grande, mamma. Lì ci sono più manufatti non umani che in qualsiasi altro pianeta, a parte Armaghast.»

«E allora perché non vai su Armaghast?» disse Sarai. «Dista dalla Rete solo qualche mese. Perché scegli il secondo e non il primo?»

«Hyperion non è ancora una grande attrazione turistica» spiegò Rachel. «Ma i turisti cominciano a diventare una seccatura. Ora la gente piena di soldi è più disposta a viaggiare al di fuori della Rete.»

Sol scoprì all’improvviso d’avere la voce rauca. «Andrai nel labirinto o nelle cosiddette Tombe del Tempo?»

«Nelle Tombe, papà. Lavoro con il dottor Melio Arundez, la massima autorità sulle Tombe del Tempo.»

«Non sono pericolose?» disse Sol con noncuranza, ma senza riuscire a nascondere una traccia di preoccupazione.

Rachel sorrise. «A causa dello Shrike? No. Da due secoli standard nessuno è mai stato infastidito da quell’essere leggendario.»

«Ma ho visto alcuni documenti sui disordini avvenuti durante la seconda colonizzazione…» iniziò Sol.

«Anch’io, papà, ma allora non si sapeva niente delle grosse anguille delle rocce che scendono a caccia nel deserto. Probabilmente qualcuno è rimasto vittima delle anguille e gli altri si sono fatti prendere dal panico. Sai benissimo come nascono le leggende. Comunque, a furia di essere cacciate, le anguille delle rocce si sono estinte.»

«I veicoli spaziali non atterrano sul pianeta» insistette Sol. «Dovrai andare in barca fino alle Tombe. O a piedi. O chissà come.»

Rachel rise. «All’inizio, nel sorvolare le Tombe, sono stati sottovalutati gli effetti dei campi anti-entropici e si sono verificati alcuni incidenti. Ma ora c’è un servizio di dirigibili. E un grande albergo, il Castel Crono, al limitare delle montagne, dove centinaia di turisti si fermano tutto l’anno.»

«Ti fermerai lì?» domandò Sarai.

«Per un po’. Sarà un’esperienza entusiasmante, mamma.»

«Non troppo, mi auguro» disse Sarai, e tutt’e tre sorrisero.


Durante i quattro anni in cui Rachel fu in transito (per lei erano solo alcune settimane di crio-fuga) Sol scoprì di sentire la mancanza della figlia molto più che se fosse stata impegnata in qualche punto della Rete e impossibilitata a tenersi in contatto. L’idea che volasse via da lui a velocità superiore a quella della luce, avvolta nel bozzolo quantico artificiale dell’effetto Hawking, gli sembrava innaturale e infausta.

Lui e la moglie si tennero occupati. Sarai lasciò il suo lavoro di critico musicale per dedicare più tempo alle questioni ambientali locali, ma per Sol quello fu uno dei periodi più febbrili della sua vita. Diede alle stampe il secondo e il terzo libro; e il secondo, Svolte decisive della morale, provocò sensazione, tanto che la presenza dell’autore fu richiesta costantemente in simposi e conferenze extraplanetari. Ad alcuni, Sol partecipò da solo; ad altri, in compagnia di Sarai. Ma per quanto amassero l’idea di viaggiare, dopo un po’ l’esperienza dei cibi insoliti, della gravità diversa, della luce di soli sconosciuti perse di fascino, e Sol si ritrovò a trascorrere sempre più tempo a casa per fare ricerche sul libro successivo, e partecipò alle conferenze, se proprio doveva, dal college, via ologramma interattivo.

Quasi cinque anni dopo la partenza di Rachel, Sol ebbe un sogno che gli cambiò la vita.


Sol sognò di vagare in un grande edificio con colonne grosse come piccole sequoie e un soffitto che si perdeva in alto, dal quale cadevano solidi raggi di luce rossa. Di tanto in tanto aveva fuggevoli visioni di cose lontanissime nelle tenebre, a sinistra o a destra; una volta distinse un paio di gambe di pietra che si ergevano come edifici massicci nel buio e un’altra volta vide quello che sembrava uno scarabeo di cristallo che ruotava molto in alto su di lui, con le interiora illuminate di luci fredde.

Alla fine si fermò a riposare. Molto più indietro sentiva rumori simili a gigantesche esplosioni, al crepitare dell’incendio di intere città e foreste. Davanti a lui brillavano le luci alle quali si dirigeva, due ovali d’un rosso intensissimo.

Si stava asciugando dalla fronte il sudore, quando una voce possente gli disse:


“Sol! Prendi tua figlia, la tua unica figlia Rachel da te amata, vai sul mondo chiamato Hyperion e offrila come olocausto in uno dei luoghi che ti dirò”.


E in sogno Sol si alzò e replicò: “Non dirai certo sul serio!” Proseguì nel buio: ora gli ovali rossi brillavano come lune sanguigne sopra una piana indistinta e, quando si fermò a riposare, la voce possente disse:


“Sol! Prendi tua figlia, la tua unica figlia Rachel da te amata, vai sul mondo chiamato Hyperion e offrila come olocausto in uno dei luoghi che ti dirò”.


E Sol allontanò con una scrollata di spalle il peso di quelle parole e disse con voce chiara nelle tenebre: “Avevo sentito anche prima… La risposta è sempre no”.

Poi Sol capì che stava sognando e, mentre una parte della sua mente apprezzava l’ironia del copione, un’altra voleva solo svegliarsi. Invece si ritrovò su un basso balcone che dava su una stanza in cui Rachel giaceva nuda sopra un largo blocco di pietra. La scena era illuminata dal bagliore dei due occhi rossi. Sol si guardò la destra e scoprì di reggere un lungo coltello dalla lama ricurva. Lama e manico sembravano d’osso.

La voce, che a Sol sembrava sempre più vicina all’idea della voce di Dio di un produttore di olofilm di terz’ordine, parlò di nuovo:


“Sol! Ascolta bene. Il futuro dell’umanità dipende dalla tua ubbidienza. Devi prendere tua figlia, la tua unica figlia Rachel da te amata, devi andare sul mondo chiamato Hyperion e offrirla come olocausto in uno dei luoghi che ti dirò”.


E Sol, nauseato dal sogno ma in qualche modo allarmato, si girò e scagliò lontano nel buio il coltello. Quando tornò a voltarsi verso sua figlia, la scena era svanita. Gli occhi rossi erano più vicini che mai, e Sol vide che erano gemme sfaccettate della grandezza di due piccoli pianeti.

La voce amplificata risuonò di nuovo:


“Allora? Hai avuto la tua opportunità, Sol Weintraub. Se cambi idea, sai dove trovarmi”.


E Sol si svegliò, un po’ ridendo del sogno, un po’ spaventato. Pensò, divertito, che l’intero Talmud e il Vecchio Testamento forse erano soltanto una buffa storiella cosmica con una conclusione paradossale.


Più o meno nel periodo in cui Sol aveva fatto il sogno, Rachel stava completando il suo primo anno di ricerca su Hyperion. La squadra di nove archeologi e di sei fisici aveva trovato Castel Crono affascinante ma troppo affollato di turisti e di cosiddetti pellegrini dello Shrike; così, dopo il primo mese di audizioni, i ricercatori piazzarono un campo fisso fra la città in rovina e il piccolo canyon in cui si trovavano le Tombe del Tempo.

Mentre mezza squadra eseguiva scavi nelle zone più recenti della città mai terminata, due colleghi aiutarono Rachel a catalogare ogni aspetto delle Tombe. I fisici, affascinati dai campi anti-entropici, passavano gran parte del tempo a sistemare bandierine di diverso colore per segnare i limiti delle cosiddette maree.

La squadra di Rachel si concentrò sulla costruzione denominata Sfinge, anche se la creatura rappresentata nella pietra non era né umana né leonina. Forse non era affatto una creatura, anche se le linee levigate in cima al monolito di pietra suggerivano le curve d’un essere vivente e le ampie appendici davano a tutti l’impressione di ali. A differenza delle altre Tombe, aperte e facili da ispezionare, la Sfinge era una massa di pesanti blocchi traforati da stretti corridoi, alcuni dei quali si restringevano in modo impossibile, mentre altri si allargavano fino all’ampiezza di un salone; ma ciascuno immetteva solo in altri corridoi. Non c’erano cripte, sale del tesoro, sarcofaghi saccheggiati, pitture murali e passaggi segreti: solo un labirinto di corridoi oscuri nell’umida pietra.

Rachel e il suo amante, Melio Arundez, iniziarono a disegnare la mappa della Sfinge secondo un metodo in uso da almeno settecento anni, sperimentato nelle piramidi d’Egitto intorno al Ventesimo secolo. Piazzarono nei punti più bassi della Sfinge rivelatori di radiazioni e di raggi cosmici e registrarono il tempo d’arrivo e lo schema di deflessione delle particelle che attraversavano la massa di pietra sosprastante, pronti a scoprire sale nascoste o passaggi che non sarebbero stati individuati neppure dal radar a immagine profonda. A causa dell’intensa stagione turistica e dell’interesse del Consiglio Autonomo di Hyperion di evitare alle Tombe danni provocati da ricerche del genere, Rachel e Melio andavano sul posto ogni notte a mezzanotte con una camminata di mezz’ora, e strisciavano nel labirinto di corridoi che avevano dotato di globi di luce azzurra. Lì, seduti sotto centinaia di migliaia di tonnellate di pietra, osservavano gli strumenti fino al mattino, ascoltando negli auricolari il ping delle particelle nate nel ventre di stelle morenti.

Le maree del tempo non causavano difficoltà, con la Sfinge. Di tutte le Tombe, questa sembrava la meno protetta dai campi anti-entropici e i fisici avevano segnato con cura i momenti in cui l’arrivo delle maree poteva costituire una pericolo. L’alta marea si verificava alle dieci e dopo soli venti minuti si allontanava verso la Tomba di Giada, mezzo chilometro più a sud. I turisti non potevano avvicinarsi alla Sfinge fin dopo le dodici; inoltre, per maggiore sicurezza, già alle nove ci si accertava che se ne fossero andati. La squadra di fisici aveva impiantato alcuni sensori cronotropici in vari punti lungo i sentieri e i passaggi fra le Tombe, sia per segnalare le variazioni di marea sia per avvertire i visitatori.

Una notte, quando mancavano tre settimane alla fine dell’anno di ricerca su Hyperion, Rachel si svegliò, lasciò l’amante addormentato, prese una jeep e andò alle Tombe. Lei e Melio avevano deciso che era sciocco sorvegliare insieme l’attrezzatura ogni notte. Ora si alternavano: uno lavorava sul posto, mentre l’altro raccoglieva i dati e si preparava al progetto finale, il rilevamento radar delle dune fra la Tomba di Giada e l’Obelisco.

La notte era fresca e bella. Da orizzonte a orizzonte brillava una profusione di stelle, in un numero quattro o cinque volte superiore a quelle visibili dal Mondo di Barnard, sotto le quali Rachel era cresciuta. Le basse dune mormoravano e si spostavano sotto la forte brezza che soffiava dalle montagne meridionali.

Al sito le luci erano ancora accese. La squadra dei fisici aveva smesso di lavorare e stava caricando la jeep. Rachel scambiò con loro quattro chiacchiere, bevve una tazza di caffè mentre loro se ne andavano, poi riprese lo zaino e camminò per venticinque minuti, fino al basamento della Sfinge.

Per la centesima volta si domandò chi avesse costruito le Tombe e a quale scopo. La datazione dei materiali si era rivelata inutile a causa dei campi anti-entropici. Solo l’analisi delle Tombe in rapporto all’erosione del canyon e di altre caratteristiche geologiche dei dintorni aveva indotto gli scienziati a stimare che quei manufatti avessero almeno mezzo milione di anni. Si aveva la sensazione che gli architetti delle Tombe fossero stati esseri umanoidi, anche se non c’era niente a suggerirlo a parte la scala degli edifici. Certo i corridoi interni della Sfinge rivelavano poco: alcuni, per forma e grandezza, erano abbastanza umani; ma a volte, dieci metri più avanti, gli stessi corridoi si restringevano in un cunicolo della grandezza di una tubatura fognaria, per poi trasformarsi in qualcosa di più ampio e regolare di una caverna naturale. Le porte, se così potevano definirsi, visto che non si aprivano su nessun locale in particolare, avevano con identica frequenza forma di rettangolo, di triangolo, di trapezio o di decagono.

Negli ultimi dieci metri Rachel strisciò giù per una ripida pendenza, spingendo davanti a sé lo zaino. I globi luminosi privi di calore davano alla roccia e alla carne una sfumatura livida, esangue. Lo “scantinato”, quando lo raggiunse, le sembrò un porto di disordine umano e di odori. Alcune sedie pieghevoli occupavano il centro del piccolo spazio; rivelatori, oscilloscopi e altre attrezzature riempivano lo stretto tavolo contro la parete nord. Sopra un’asse coi cavalietti, lungo la parete opposta, c’erano tazze da caffè, una scacchiera, una mezza ciambella, due libri in brossura e un giocattolo di plastica che rappresentava una sorta di cane con una sottana d’erba.

Rachel si sedette, posò accanto al cane il thermos di caffè e controllò i rivelatori di raggi cosmici. I dati sembravano sempre uguali: niente stanze o passaggi segreti, solo alcune nicchie sfuggite perfino al radar di profondità. Al mattino, Melio e Stefan avrebbero messo in funzione una sonda, vi avrebbero inserito un filamento d’olocamera e avrebbero analizzato l’aria prima di scavare più a fondo con il micro-manipolatore. Fino a quel momento, una decina di nicchie non aveva rivelato nulla d’interessante. Nel campo circolava una battuta: il prossimo foro, non più grande d’un pugno, avrebbe rivelato sarcofaghi in miniatura, urne di formato ridotto e una piccola mummia o, come aveva detto Melio, “un minuscolo Tutankhamen”.

Per forza d’abitudine, Rachel provò i collegamenti sul comlog. Niente. Quaranta metri di pietra bloccavano le comunicazioni. Si era parlato di far passare un cavo telefonico dallo scantinato alla superficie, ma finora non c’era stata urgenza e adesso la spedizione aveva quasi concluso il suo periodo di studi. Rachel regolò i canali d’input del comlog per tenere sotto controllo i dati del rivelatore e si preparò a una notte di noia.

C’era la meravigliosa storia di quel faraone della Vecchia Terra (si trattava di Cheope?) che aveva autorizzato la costruzione della sua gigantesca piramide, aveva accettato che la camera di sepoltura fosse costruita in profondità al centro dell’edificio e poi, per anni, di notte era rimasto sveglio in preda alla claustrofobia a pensare a tutte quelle tonnellate di pietra sopra di lui per l’eternità. Alla fine aveva ordinato di costruire più in alto la camera funeraria. Una cosa davvero poco ortodossa. Rachel capiva il re. Si augurò che ora dormisse meglio, dovunque fosse.

Anche lei si era quasi assopita, quando, alle due e un quarto, il comlog trillò, i rivelatori urlarono e lei saltò in piedi. Secondo i sensori, nella Sfinge erano spuntate all’improvviso una decina di stanze nuove, alcune più grandi dell’intera struttura. Rachel batté i tasti per avere un’immagine e l’aria si annebbiò di modellini che cambiavano forma sotto i suoi occhi. Schemi di corridoi si avvolgevano su se stessi come rotanti strisce di Moebius. I sensori esterni indicavano che la struttura superiore si torceva e si piegava come poliflex nel vento… o come ali.

Rachel capì che il fenomeno era dovuto a distorsioni multiple e, mentre cercava di ricalibrare gli strumenti, chiese al comlog dati e stampe. Poi, tutte insieme, accaddero diverse cose.

Nel corridoio superiore risuonarono dei passi.

Tutti gli schermi si spensero nello stesso istante.

Da qualche parte, nel labirinto di corridoi, risuonò l’allarme che annunciava una marea del tempo.

Tutte le luci si spensero.

Quest’ultimo fatto non aveva senso. Ogni complesso strumentale era fornito della propria fonte energetica e sarebbe rimasto acceso anche durante un attacco nucleare. Le lampade dello scantinato avevano una batteria che durava dieci anni. I globi nei corridoi erano bioluminescenti e funzionavano senza corrente elettrica.

Eppure le luci si spensero. Dalla tasca sul ginocchio della tuta Rachel estrasse una torcialaser e l’accese. Non accadde niente.

Per la prima volta in vita sua, Rachel Weintraub sentì la paura serrarle il cuore come in un pugno. Le mancava il fiato. Per dieci secondi si impose di restare assolutamente immobile, senza nemmeno tendere l’orecchio, aspettando solo che il panico passasse. Quando fu abbastanza calma da respirare senza affanno raggiunse a tentoni gli strumenti e batté sui tasti. Non ottenne reazioni. Alzò il comlog e azionò il diskey. Niente… ed era assurdo, ovviamente, considerata l’invulnerabilità stato-solida e l’affidabilità della batteria dello strumento. Eppure, non ci furono reazioni.

Ora Rachel sentiva il battito del proprio cuore, ma dominò di nuovo il panico e cominciò a dirigersi a tentoni verso l’unica uscita. Il solo pensiero di dover trovare la strada in quel labirinto buio le faceva venir voglia di urlare, ma non aveva alternativa.

Un momento. Nel labirinto della Sfinge una volta c’erano delle lampadine di vecchio tipo, ma al loro posto la squadra di ricercatori aveva appeso alcuni globi biolum. Li aveva appesi. A un cavo di perlon che arrivava fino alla superficie.

Magnifico. Rachel si diresse a tentoni verso l’uscita. Sotto le dita sentiva la pietra fredda. Era così fredda anche prima?

Udì il suono chiarissimo di qualcosa di duro che grattava avanzando nel pozzo d’accesso.

«Melio?» chiamò Rachel. «Tanya? Kurt?»

Lo sfregamento risuonò molto vicino. Rachel arretrò nel buio, rovesciò uno strumento e una sedia. Qualcosa le toccò i capelli. Rachel ansimò, alzò la mano.

Il soffitto era più basso di prima. Il solido blocco di pietra — cinque metri quadrati — si abbassò ancora, mentre lei alzava l’altra mano a toccarlo. L’apertura che dava sul corridoio era a metà parete. Rachel barcollò in quella direzione, agitando davanti a sé le mani come una cieca. Inciampò in una sedia pieghevole, trovò il tavolo degli strumenti, lo seguì fino alla parete opposta, sentì sparire la parte inferiore dell’apertura mentre il soffitto si abbassava ancora. Tirò indietro le dita un attimo prima di farsele mozzare.

Si sedette nel buio. Un oscilloscopio raschiò contro il soffitto, finché il tavolo non scricchiolò e crollò. Rachel mosse la testa in brevi, disperati archi. Udì un raspare metallico, quasi un respiro, a meno d’un metro. Cominciò ad arretrare, strisciando sul pavimento ora disseminato di apparecchiature in frantumi. Il respiro le si accelerò.

Qualcosa di pungente e di infinitamente gelido le afferrò il polso.

Rachel, alla fine, urlò.


Su Hyperion, a quel tempo, non esistevano trasmettitori astrotel. E neppure la spin-nave AE Farraux City aveva apparecchiature per comunicazioni a velocità superiore a quella della luce. Perciò Sol e Sarai vennero a sapere dell’incidente accaduto alla figlia solo quando il Consolato dell’Egemonia su Parvati comunicò al college che Rachel era rimasta ferita, che al momento era in condizioni stazionarie, ma priva di conoscenza, e che stava per essere trasferita da Parvati a Vettore Rinascimento, nella Rete, con una nave-torcia medica. Il viaggio sarebbe durato poco più di dieci giorni, tempo della nave, con un debito temporale di cinque mesi. Questi cinque mesi furono una vera sofferenza, per Sol e per sua moglie; quando la nave-torcia attraccò al nesso teleporter di Rinascimento, già mille volte i due avevano pensato al peggio. Non vedevano Rachel ormai da otto anni.

Il Centro medico di Da Vinci era una torre galleggiante sostenuta da energia a emissione diretta. La vista sul mar di Como mozzava il fiato, ma né Sol né Sarai avevano tempo d’ammirarla, mentre passavano di piano in piano alla ricerca della figlia. La dottoressa Singh e Melio Arundez li aspettavano al centro del reparto Cure Intensive. Si scambiarono in fretta le presentazioni.

«E Rachel?» chiese Sarai.

«Dorme» rispose la dottoressa Singh. Era alta, aristocratica, ma aveva occhi gentili. «Per quanto ne sappiamo, non ha subito danni… ah… fisici. Ma ormai è priva di conoscenza da circa diciassette settimane standard di tempo soggettivo. Solo da dieci giorni le onde cerebrali indicano un sonno profondo anziché uno stato comatoso.»

«Non capisco» disse Sol. «Nel campo c’è stato un incidente? Una esplosione?»

«Qualcosa è accaduto» disse Melio Arundez. «Ma non sappiamo cosa, esattamente. Rachel si trovava all’interno di un edificio… da sola; il suo comlog e gli altri strumenti non hanno registrato niente fuori dell’ordinario. Ma c’è stato un rigurgito di un fenomeno noto come campi anti-entropici…»

«Le maree del tempo» disse Sol. «Sappiamo cosa sono. Continui.»

Arundez annuì e aprì le mani, come se modellasse l’aria. «C’è stato un… rigurgito del campo… più simile a uno tsunami che a una marea… e la Sfinge… l’edificio dove Rachel si trovava… è stato completamente inondato. Voglio dire, Rachel non ha subito danni fisici, ma era incosciente, quando l’abbiamo trovata…» Si rivolse alla dottoressa Singh in cerca di aiuto.

«Vostra figlia era in coma» disse la dottoressa. «Era impossibile, in quelle condizioni, metterla in crio-fuga…»

«Ha fatto il balzo quantico senza crio-fuga?» domandò Sol. Aveva letto dei danni psicologici riportati da viaggiatori che avevano sperimentato direttamente l’effetto Hawking.

«No, no» lo calmò Singh. «Lo stato d’incoscienza la proteggeva con la stessa efficacia della crio-fuga.»

«È ferita?» domandò Sarai.

«Non lo sappiamo» rispose Singh. «Tutti i segni di vita sono tornati quasi alla normalità. L’attività delle onde cerebrali si avvicina allo stato di coscienza. Il guaio è che il corpo sembra avere assorbito… cioè, sembra che il campo anti-entropico l’abbia contaminata.»

Sol si fregò la fronte. «Come le malattie da radiazioni?»

La dottoressa Singh esitò. «Non proprio. Ah… questo caso non ha precedenti. Oggi pomeriggio alcuni specialisti in malattie dell’invecchiamento arriveranno da Tau Ceti Centro, da Lusus e da Metaxas.»

Sol la fissò negli occhi. «Dottoressa, vuol dire che su Hyperion Rachel ha contratto una malattia che la fa invecchiare?» S’interruppe un attimo, frugando nella memoria. «Qualcosa di simile alla sindrome di Matusalemme o all’antico morbo di Alzheimer?»

«No» disse Singh. «In realtà la malattia di vostra figlia non ha nome. Qui i dottori la chiamano morbo di Merlino. Vede… sua figlia invecchia a ritmo normale… ma, da quanto ci risulta, invecchia a ritroso.»

Sarai si staccò dal gruppetto e fissò Singh come se fosse impazzita. «Voglio vedere mia figlia» disse, piano ma con fermezza. «Voglio vedere Rachel, subito!»


Rachel si svegliò meno di quaranta ore dopo l’arrivo di Sol e di Sarai. Nel giro di qualche minuto si alzò a sedere sul letto, e fu in grado di parlare anche se medici e tecnici s’affaccendavano intorno a lei. «Mamma! Papà! Cosa ci fate, qui?» Prima che uno dei due rispondesse, si guardò intorno e batté le palpebre. «Un momento, dove siamo? A Keats?»

La madre le strinse la mano. «In un ospedale a Da Vinci, tesoro. Su Vettore Rinascimento.»

Rachel spalancò gli occhi, con aria quasi comica. «Rinascimento! Siamo nella Rete?» Si guardò intorno, attonita.

«Rachel, qual è l’ultima cosa che ricorda?» le chiese la dottoressa Singh.

La ragazza la fissò senza capire. «L’ultima cosa che ricordo… sono andata a dormire con Melio dopo…» Diede un’occhiata ai genitori e con la punta delle dita si toccò le guance. «Melio? Gli altri? Sono…»

«Tutti i componenti la spedizione stanno bene» disse la dottoressa Singh. «Lei ha avuto un piccolo incidente. Sono trascorse circa diciassette settimane. È tornata nella Rete. In salvo. I suoi colleghi stanno bene.»

«Diciassette settimane…» I resti dell’abbronzatura non riuscirono a nascondere l’improvviso pallore di Rachel.

Sol le prese la mano. «Come ti senti, bambina mia?» La pressione delle dita di Rachel era debole, sconsolante.

«Non so, papà» riuscì a dire la ragazza. «Stanca. Intontita. Confusa.»

Sarai si sedette sul letto e le circondò le spalle. «Va tutto bene, bambina. Andrà tutto bene.»

Melio entrò nella stanza, con la barba lunga e i capelli arruffati dal pisolino schiacciato nella saletta esterna. «Rachel?»

Rachel lo guardò, al sicuro nell’abbraccio della madre. «Ciao» disse, quasi timidamente. «Sono tornata.»


Sol aveva sempre pensato, e continuava a pensare, che in realtà la scienza medica non fosse cambiata molto dai giorni dei salassi e dei cataplasmi: ora i medici mettevano il malato nelle centrifughe, riallineavano il campo magnetico del corpo, lo bombardavano di onde soniche, penetravano nelle cellule per interrogare l’RNA, e alla fine ammettevano la propria ignoranza senza però dirlo chiaramente. L’unica vera differenza era il conto, molto più salato di un tempo.

Sonnecchiava nella poltrona, quando fu svegliato dalla voce di Rachel.

«Papà?»

Si alzò a sedere, le prese la mano. «Eccomi, bambina mia.»

«Dove sono, papà? Cos’è successo?»

«Sei in un ospedale di Rinascimento, bambina mia. Hai avuto un incidente, su Hyperion. Ora stai bene, ma la tua memoria è rimasta un po’ colpita.»

Rachel si afferrò alla sua mano. «Ospedale? Nella Rete? Come ci sono arrivata? Da quanto sto qui?»

«Da circa cinque settimane» mormorò Sol. «Qual è l’ultima cosa che ricordi, Rachel?»

Lei si lasciò ricadere sul cuscino e si toccò la fronte, dove erano impiantati minuscoli sensori. «Melio e io avevamo partecipato alla riunione. Avevamo parlato con la squadra di piazzare nella Sfinge l’attrezzatura di ricerca. Oh, papà, non ti ho parlato di Melio… è il mio…»

«Certo, certo» disse Sol. Le tese il comlog. «Tieni, piccolina. Ascolta questo.» Uscì dalla stanza.

Rachel sfiorò il diskey e batté le palpebre, quando sentì la propria voce. «Bene, Rachel, ti sei appena svegliata. Sei confusa. Non sai come sei arrivata qui. Ecco, ti è accaduto qualcosa, ragazza. Ascolta.

«Oggi è il dodicesimo giorno del mese Decimo, anno 457 dell’Egira, a.D. 2739 secondo il vecchio calendario. Sì, lo so che è passato mezzo anno standard dall’ultima cosa che ricordi. Ascolta.

«Dentro la Sfinge c’è stato un incidente. Sei rimasta presa nella marea del tempo. La marea ti ha cambiato. Invecchi a ritroso, per quanto sciocco sembri. Il corpo ringiovanisce a ogni minuto, ma non è questa la parte importante, al momento. Quando dormi… quando dormiamo… dimentichi. Perdi un altro giorno di ricordi prima dell’incidente e tutto il resto dopo. Non chiedermi perché. I medici non lo sanno. Gli esperti non lo sanno. Se vuoi un’analogia, pensa a un virus tenia del vecchio tipo, che divora i dati del tuo comlog… a ritroso dall’ultima registrazione.

«Non si sa neppure perché la perdita di memoria si verifica durante il sonno. Hanno provato a tenerti sveglia: dopo trenta ore, per un po’ cadi in stato catatonico e il virus fa comunque il suo lavoro. Quindi non vale la pena.

«Sai una cosa? Questo parlare di te come se si trattasse di un’estraneo è una specie di terapia. In realtà, sono qui distesa e aspetto che mi portino all’olocamera, sapendo che mi addormenterò al ritorno… sapendo che dimenticherò di nuovo ogni cosa… e sono spaventata da morire.

«Bene, regola il diskey a breve termine: un discorsetto già pronto ti aggiornerà sull’accaduto a partire dall’incidente. Oh… mamma e papà sono qui e sanno di Melio. Ma io non so quel che prima sapevo. Quando abbiamo fatto l’amore con lui la prima volta, mmm? Il secondo mese su Hyperion? Allora, Rachel, ci restano solo alcune settimane: poi tu e Melio sarete solo amici. Goditi i ricordi finché puoi, ragazza.

«Firmato, la Rachel di ieri.»

Sol rientrò; la figlia, seduta sul letto, stringeva fra le mani il comlog, pallida e spaventata. «Papà…»

Sol si sedette accanto a lei e lasciò che piangesse… per la ventesima notte di fila.


Otto settimane standard dopo l’arrivo di Rachel su Rinascimento, Sol e Sarai salutarono la figlia e Melio al multiporto teleporter di Da Vinci e tornarono a casa, sul Mondo di Barnard.

«Secondo me, non doveva lasciare l’ospedale» brontolò Sarai, mentre prendevano lo shuttle della sera per Crawford. Sotto di loro, il continente era un mosaico di riquadri pronti per il raccolto.

«Madre» disse Sol toccandole il ginocchio «i medici l’avrebbero tenuta lì per sempre, ma solo per soddisfare la loro curiosità. Hanno fatto tutto quel che potevano per aiutarla… cioè niente. Ha una vita da vivere.»

«Ma perché andare via con… con lui?» protestò Sarai. «Lo conosce appena.»

Sol sospirò e si appoggiò allo schienale imbottito. «Ancora due settimane e non lo ricorderà per niente» disse. «Almeno, non quello che condividono ora. Guarda la cosa dal suo punto di vista, Madre. Lottare ogni giorno per riorientarsi in un mondo impazzito. Ha venticinque anni ed è innamorata. Lascia che sia felice.»

Sarai si girò verso il finestrino. Insieme, in silenzio, guardarono il sole rosso, sospeso come un pallone frenato sull’orlo della sera.


Sol era in pieno secondo semestre, quando Rachel lo chiamò. Era un messaggio unidirezionale via cavo teleporter da Freeholm: l’immagine della ragazza rimase sospesa, come un fantasma familiare, al centro della vecchia piazzuola di trasmissione.

«Ciao, mamma. Ciao, papà. Susate se nelle ultime settimane non ho scritto né chiamato. Saprete già che ho lasciato l’università. E Melio. Era stupido seguire corsi per neolaureati. Avrei solo dimenticato il martedì quello discusso il lunedì. Anche con i dischetti e i suggerimenti del comlog, era una battaglia persa in partenza. Posso iscrivermi di nuovo ai corsi universitari… di quelli ricordo tutto! Scherzavo.

«Era troppo dura, anche con Melio. Almeno così dicono le mie note. Non per colpa sua, di questo sono sicura. È stato gentile, paziente, amorevole, fino alla fine. Solo che… be’, non si può ricominciare una relazione ogni giorno. Il nostro appartamento era pieno di nostre fotografie, di appunti su di noi scritti da me stessa, di ologrammi di noi su Hyperion, ma… lo sapete. Ogni mattina Melio tornava a essere un perfetto sconosciuto. Il pomeriggio cominciavo a credere a quel che c’era stato fra noi, anche se non lo ricordavo. La sera piangevo fra le sue braccia: prima o poi dovevo andare a dormire. Meglio così.»

Rachel esitò, si girò come se stesse per interrompere il contatto, poi l’immagine tornò a stabilizzarsi. Sorrise. «Comunque, ho lasciato la scuola per un po’. Il centro medico di Freeholm mi vuole a tempo pieno, ma dovrebbero allinearsi… ho ricevuto un’offerta dall’Istituto di ricerca di Tau Ceti ed è difficile rinunciarci. Mi offrono un… credo lo chiamino “onorario di ricerca”… superiore a quanto pagammo per quattro anni a Nightenhelser e per tutto il tempo a Reichs messi insieme.

«Ho rifiutato. Ci vado ancora come paziente esterna; ma i trapianti di RNA mi lasciano piena di lividi e depressa. Certo, forse la depressione deriva solo dal non ricordare la mattina da dove provengono i lividi… ah, ah.

«Comunque, starò per un poco con Tanya, poi, forse… pensavo di tornare a casa. Nel mese Secondo compio gli anni… ne avrò di nuovo ventidue. Buffo, vero? A ogni modo, è molto più facile avere attorno gente che conosco… e ho conosciuto Tanya proprio appena mi sono trasferita qui, a ventidue anni. Sono sicura che capite.

«Perciò… la mia vecchia camera è ancora lì, mamma? O l’avete cambiata in un salottino per giocare a mah-jong, come minacciavate sempre? Scrivetemi o chiamatemi. La prossima volta metterò da parte i soldi per una comunicazione bidirezionale, così potremo parlarci. Solo… pensavo…»

Rachel agitò la mano. «Devo andare. Ciao ciao, maramao. Vi voglio bene.»


La settimana precedente il compleanno di Rachel, Sol volò a Bussard e aspettò la figlia nell’unico terminex teleporter pubblico del pianeta. La vide per primo, ferma accanto alle valigie, vicino all’orologio floreale. Sembrava giovane, ma non più di quando li aveva salutati su Vettore Rinascimento. No, si disse Sol, c’era qualcosa di meno fiducioso, nel suo atteggiamento. Scosse la testa per scacciare quei pensieri, la chiamò e corse ad abbracciarla.

La sorpresa sul viso di lei, quando si staccarono, era così intensa che Sol non poté ignorarla. «Che ti prende, tesoro? Che ti succede?»

Era una delle pochissime volte in cui aveva visto sua figlia restare completamente senza parole.

«Ah… tu… dimenticavo» balbettò Rachel. Scosse la testa nel suo solito modo e riuscì a piangere e a ridere insieme. «Sembri… diverso, papà, tutto qui. Ricordo… alla lettera… come t’ho lasciato qui, ieri. Quando ho visto… i tuoi capelli…» Rachel si coprì la bocca.

Sol si passò la mano sulla testa. «Ah, sì» disse, provando anche lui l’impulso di ridere e di piangere insieme. «Fra scuola e viaggi, per te sono passati più di undici anni. Sono invecchiato. E calvo.» Spalancò di nuovo le braccia. «Bentornata, piccola mia.»

Rachel si rifugiò nella protezione del suo abbraccio.


Per diversi mesi tutto andò bene. Rachel si sentiva più sicura, fra le cose familiari, e in Sarai il dolore per la malattia della figlia fu per il momento compensato dalla gioia di riaverla a casa.

Rachel si alzava di buon’ora ogni mattina e passava in esame il suo privato “spettacolo orientativo” che, come Sol sapeva, conteneva immagini di lui e di Sarai di dodici anni più anziani di quanto Rachel ricordasse. Sol cercò di immaginare quale effetto facesse tutto questo a Rachel: una ragazza si svegliava nel suo letto, fresca di ricordi, ventiduenne, a casa in vacanza prima d’andare all’estero a laurearsi… e trovava i genitori invecchiati all’improvviso, centinaia di piccoli cambiamenti nella casa e nella cittadina, notizie differenti… anni di storia che l’avevano solo sfiorata.

Sol non riuscì a immaginarlo.


Il primo errore fu quello di accontentare Rachel invitando i suoi vecchi amici alla festa per il suo ventiduesimo compleanno: lo stesso gruppo che l’aveva già festeggiato una volta… l’esuberante Niki, Don Stewart e il suo amico Howard, Kathi Obeg e Marta Tyn, la sua migliore amica Linna McKyler; tutti appena usciti dall’università, studenti che si scuotevano di dosso il bozzolo dell’adolescenza in attesa di una vita nuova.

Rachel li aveva incontrati, dopo il ritorno. Ma aveva dormito… e dimenticato. E questa volta Sol e Sarai non ricordarono che lei aveva dimenticato.

Niki aveva trentaquattro anni standard e due figli; era ancora energica, esuberante, ma vecchia, per lo standard di Rachel. Don e Howard parlavano dei loro investimenti, dei meriti sportivi dei propri figli, delle prossime ferie. Kathi era confusa, aveva rivolto la parola a Rachel solo due volte e come se parlasse a un’impostora. Marta era apertamente gelosa della giovinezza di Rachel. Linna, che nel frattempo era diventata un’ardente gnostica Zen, si era messa a piangere e se n’era andata presto.

Quando anche gli altri se ne furono andati, Rachel rimase seduta nel soggiorno in disordine e fissò i resti della torta. Non pianse. Prima di salire di sopra, abbracciò la madre e mormorò al padre: «Papà, per favore, non farmelo più fare».

Poi andò a dormire.


Quella primavera Sol fece ancora il sogno. Era sperso in un luogo ampio e buio illuminato solo da due occhi rossi. Non ci fu niente di assurdo, quando la voce piatta disse:


“Sol! Prendi tua figlia, la tua unica figlia Rachel da te amata, vai sul mondo chiamato Hyperion e offrila come olocausto in un luogo che ti dirò”.


Sol urlò nel buio: “Ce l’hai già, figlio di puttana! Cosa devo fare, per portarla indietro? Dimmelo! Dimmelo, maledetto!”

E Sol Weintraub si svegliò, madido, con gli occhi pieni di lacrime e il cuore pieno di rabbia. Nell’altra stanza sentiva sua figlia dormire, mentre il grande verme la divorava.


Nei mesi seguenti, Sol cercò con ossessione dati e notizie su Hyperion, le Tombe del Tempo e lo Shrike. Come ricercatore professionista, si stupì che esistessero così pochi documenti su un argomento tanto stimolante. C’era ovviamente la Chiesa Shrike (sul Mondo di Barnard non esistevano templi di questa chiesa, ma ce n’erano su diversi mondi della Rete) però scoprì presto che cercare dati oggettivi sul culto Shrike era come tentare di tracciare la mappa di Sarnath visitando un monastero buddista. Il tempo era menzionato nei dogmi della Chiesa Shrike, ma solo nel senso che lo Shrike era considerato “l’Angelo del Castigo al di là del Tempo” e che per la razza umana il tempo vero e proprio era terminato nel momento in cui la Vecchia Terra era morta e i quattro secoli seguenti erano stati “tempo falso”. Sol trovò che le caratteristiche di questi dogmi erano la solita mistura, comune a molte religioni, di frasi ambigue e aria fritta. Tuttavia decise di visitare un tempio della Chiesa Shrike, dopo avere esplorato vie di ricerca più serie.

Melio Arundez organizzò un’altra spedizione su Hyperion, anche questa finanziata dall’università Reichs, con lo scopo dichiarato di isolare e capire il fenomeno della marea del tempo che aveva inflitto a Rachel il morbo di Merlino. Un risultato importante fu la decisione del Protettorato egemonico di fornire alla spedizione un teleporter da installare a Keats, nel Consolato dell’Egemonia, ma anche così sarebbero trascorsi più di tre anni, tempo della Rete, prima che la spedizione raggiungesse Hyperion. Il primo impulso di Sol fu quello di partire con Arundez e la sua squadra (in qualsiasi olofilm drammatico i personaggi principali sarebbero tornati sulla scena dell’azione) ma nel giro di qualche minuto superò quell’impulso istintivo. Sol era uno storico e un filosofo, e un suo eventuale contributo al successo della spedizione sarebbe stato d’importanza irrilevante anche nel migliore dei casi. Rachel possedeva ancora l’interesse e le doti di un archeologo prossimo alla laurea, ma diminuivano di giorno in giorno e Sol non vedeva quale beneficio potesse venirle dal ritorno sul luogo dell’incidente. Ogni giorno per lei sarebbe stato una nuova sorpresa, con il risveglio in un mondo estraneo, in una missione che richiedeva capacità a lei ignote. E poi Sarai non l’avrebbe permesso.

Sol accantonò il libro a cui lavorava (un’analisi delle teorie di Kierkegaard sull’etica come moralità di compromesso in quanto applicata al meccanismo legale dell’Egemonia) e si concentrò nella raccolta di dati arcani sul tempo, su Hyperion e sulla storia di Abramo.

Mesi e mesi impiegati a portare avanti il normale lavoro e a raccogliere informazioni riuscirono a soddisfare ben poco il suo bisogno d’azione. Di tanto in tanto Sol sfogava la sua frustrazione sugli specialisti medici e scientifici che venivano a esaminare Rachel come sciami di pellegrini a un tempio sacro.

«Come diavolo può succedere una cosa del genere?» gridò a un piccolo specialista che aveva fatto l’errore di rivolgersi con un tono affettato e condiscendente al padre della ragazza. Il medico era così calvo che il suo viso sembrava dipinto su una palla da biliardo. «Comincia a diventare più piccola!» gridò ancora Sol, assalendo letteralmente l’esperto che cercava di scantonare. «Ancora non si vede, ma la massa ossea diminuisce! Come può ridiventare bambina? Come diavolo lo spiega, la legge di conservazione della massa?»

L’esperto aprì la bocca, ma era troppo confuso per parlare. Il suo collega barbuto rispose per lui: «Signor Weintraub, deve capire che al momento sua figlia ospita… ah… diciamo una zona localizzata di entropia invertita».

Sol si girò di scatto a fronteggiarlo. «Mi sta dicendo che è semplicemente racchiusa in una bolla d’inversione temporale?»

«Be’… no» rispose l’esperto, strofinandosi nervosamente il mento. «Forse un’analogia migliore è che… biologicamente, almeno… il metabolismo vitale è stato invertito… ah…»

«Stupidaggini!» replicò Sol, brusco. «Non defeca per nutrirsi né rigurgita il cibo. E l’attività neurologica? Inverta gli impulsi elettrochimici e otterrà solo un assurdo. Il cervello funziona, signori… sono i ricordi, a svanire. Perché, signori? Perché?»

Lo specialista alla fine ritrovò la voce. «Non sappiamo il perché, signor Weintraub. Matematicamente, il corpo di sua figlia sembra un’equazione rovesciata… o piuttosto un oggetto che è passato attraverso un buco nero in rapidissima rotazione. Non sappiamo come sia accaduto, signor Weintraub; e non sappiamo perché in questo caso si stia verificando un fatto fisicamente impossibile. Non ne sappiamo abbastanza, tutto qui.»

Sol strinse la mano ai due. «Magnifico. Era quel che volevo sapere, signori. Fate un buon viaggio di ritorno.»


Il giorno del suo ventunesimo compleanno, Rachel si presentò alla porta di Sol, un’ora dopo che si erano ritirati. «Papà?»

«Cosa c’è, bambina?» Sol indossò la vestaglia e la raggiunse sulla soglia. «Non riesci a dormire?»

«Non dormo da due giorni» mormorò lei. «Ho preso degli stimolanti per consultare tutta la roba nel file “Ti interessa?”.»

Sol annuì.

«Papà, hai voglia di scendere a bere un goccio con me? Vorrei parlarti di certe cose.»

Sol prese dal comodino gli occhiali e scese con lei al piano di sotto.

Fu la prima e unica volta che Sol si ubriacò insieme alla figlia. Non fu una sbronza chiassosa… per un po’ chiacchierarono, poi si misero a raccontare barzellette e a fare giochi di parole, finché tutt’e due risero troppo per continuare. Rachel iniziò a raccontare un’altra storiella, bevve un sorso proprio nel momento più comico e quasi schizzò whisky dalle narici, tanto rideva. Pensarono che fosse la cosa più buffa accaduta fino a quel momento.

«Vado a prendere un’altra bottiglia» disse Sol appena smise di lacrimare. «Il decano Moore mi ha regalato un po’ di scotch, lo scorso Natale… credo.»

Quando tornò, camminando con prudenza, Rachel si era seduta sul divano e si stava tirando indietro i capelli. Sol le versò un dito di liquore e per un po’ bevvero in silenzio.

«Papà?»

«Sì?»

«Ho riflettuto. Mi sono guardata, mi sono ascoltata, ho visto gli ologrammi di Linna e degli altri, tutti ormai di mezz’età…»

«Non direi. Linna ne avrà trentacinque il mese che viene…»

«Be’, vecchi, sai cosa intendo. Comunque, ho letto i bollettini medici, ho visto le foto prese su Hyperion, e sai una cosa?»

«Cosa?»

«Non ci credo, papà.»

Sol posò il bicchiere e fissò la figlia. Aveva un viso più pieno, meno sofisticato. E anche più bello.

«Cioè, in realtà ci credo» proseguì lei con una risatina spaventata. «Tu e mamma non mi fareste mai uno scherzo così crudele. E poi c’è la tua… la tua età… e le notizie e tutto il resto. So che è reale, ma non ci credo. Capisci cosa voglio dire, papà?»

«Sì» disse Sol.

«Mi sono svegliata stamattina e ho pensato: “Domani c’è l’esame di paleontologia e non ho studiato niente”. Mi aspettavo di mostrare un paio di cosette a Roger Sherman… si crede così intelligente!»

Sol bevve un sorso. «Roger è morto tre anni fa, in un disastro aereo a sud di Bussard» disse. Non avrebbe parlato, se non fosse stato pieno di whisky, ma doveva scoprire se c’era una Rachel nascosta dentro la Rachel.

«Lo so» disse Rachel. Tirò contro il mento le ginocchia. «Ho cercato di contattare tutti quelli che conoscevo. Nonna è morta. Il professor Eikhardt non insegna più. Niki ha sposato un… commesso viaggiatore! Succedono molte cose, in quattro anni.»

«In dodici e passa. Il viaggio di andata e ritorno da Hyperion ti ha lasciata indietro di sei anni rispetto a noi che siamo rimasti a casa.»

«Ma questo è normale» esclamò Rachel. «La gente viaggia fuori della Rete ogni momento. E ce la fa.»

Sol annuì. «Il tuo caso è diverso, bambina mia.»

Rachel riuscì a sorridere e bevve l’ultimo sorso di whisky. «Ragazzi, che modo di dirlo!» Posò il bicchiere con un colpo rumoroso, definitivo. «Senti, ecco cosa ho deciso. Ho trascorso due giorni e mezzo a ripassare tutta la roba che lei… che io… ho preparato per sapere che cos’è accaduto, che cosa accadrà… e non mi è di nessun aiuto!»

Sol rimase immobile, non osava neppure respirare.

«In altre parole» continuò Rachel «sapere che ogni giorno ringiovanisco, che perdo il ricordo di persone che ancora non ho conosciuto… insomma, che cosa accade dopo? Continuo solo a diventare più giovane e più piccola e meno capace, fino a svanire del tutto, un giorno? Cristo, papà!» Rachel si strinse con più forza le ginocchia. «È buffo, in un certo modo, vero?»

«No» rispose Sol, piano.

«No, sono sicura di no» disse Rachel. Gli occhi, sempre grandi e scuri, erano umidi. «Per te e mamma dev’essere il peggior incubo del mondo. Ogni giorno mi vedete scendere le scale, confusa, che mi sveglio coi ricordi di ieri, ma ascolto la mia stessa voce dirmi che ieri era anni fa. Che ho avuto una relazione con un certo Amelio…»

«Melio» mormorò Sol.

«Fa lo stesso. Non mi aiuta, papà. Appena comincio ad assorbire le cose, sono così esausta che devo dormire. Poi… be’, sai cosa accade dopo.»

«Cosa…» iniziò Sol, ma fu costretto a schiarirsi la voce. «Cosa vuoi che facciamo, piccolina?»

Rachel lo guardò negli occhi e sorrise. Era lo stesso sorriso di cui lo aveva gratificato dalla quinta settimana di vita. «Non dirmi niente, papà» disse con fermezza. «Non permettere che sia io stessa a dirmelo. Fa solo male. Vedi, sono giorni che non ho vissuto…» Esitò, si toccò la fronte. «Sai cosa intendo, papà. La Rachel che andò su un altro pianeta e s’innamorò e fu ferita… era una Rachel diversa! Non dovrei essere io a soffrire il suo dolore.» Ora piangeva. «Capisci, papà? Capisci?»

«Sì» disse Sol. Aprì le braccia e sentì contro il petto il suo calore e le sue lacrime. «Sì, capisco.»


L’anno seguente, i messaggi astrotel da Hyperion arrivarono con una buona frequenza ma furono tutti negativi. Non erano state scoperte la natura e l’origine dei campi anti-entropici. Intorno alla Sfinge non si erano rilevate attività insolite della marea del tempo. Esperimenti con animali da laboratorio, dentro e intorno alle zone di marea, si erano conclusi con la morte improvvisa di alcuni animali, ma nessuno aveva contratto il morbo di Merlino. Melio concludeva ogni messaggio con le parole: «Il mio amore a Rachel».


Sol e Sarai si fecero prestare del denaro dall’università Reichs per sottoporsi a un limitato trattamento Poulsen, a Bussard. Erano ormai troppo anziani per il procedimento d’estensione della vita per un altro secolo, ma riebbero l’aspetto di una coppia vicina ai cinquanta standard anziché ai settanta. Esaminarono vecchie foto di famiglia e scoprirono che non era molto difficile vestirsi come ci si vestiva quindici anni prima.

Una Rachel sedicenne scese le scale, con il comlog sintonizzato sulla stazione radio del college. «Posso avere fiocchi di riso?»

«Non li mangi ogni mattina?» sorrise Sarai.

«Sì» ridacchiò Rachel. «Pensavo solo che forse andavamo fuori o chissà cosa. Ho sentito il telefono. Era Niki?»

«No» disse Sol.

«Accidenti!» disse Rachel, dando loro un’occhiata. «Scusate, ma Niki ha promesso di chiamare appena si sapevano i punteggi standard. Tre settimane dal corso tutoriale. Dovrei già sapere qualcosa.»

«Non pensarci» disse Sarai. Portò in tavola il bricco, iniziò a versare a Rachel una tazza di caffè, poi lo versò per sé. «Non preoccuparti, tesoro. Sono sicura che il tuo punteggio sarà abbastanza buono da farti ammettere a qualsiasi scuola tu voglia.»

«Mamma» sospirò Rachel. «Tu non capisci. Il mondo esterno è spietato.» Corrugò la fronte. «Hai visto per caso il mio questionario di matematica? La mia stanza è tutta in disordine. Non trovo niente.»

Sol si schiarì la voce. «Oggi niente lezioni, bambina.»

Rachel lo guardò. «Niente lezioni? Di martedì? A sei settimane dagli esami? Cosa succede?»

«Sei stata ammalata» disse Sarai, in tono fermo. «Puoi stare a casa un giorno. Solo oggi.»

La ruga di Rachel divenne più marcata. «Malata? Non mi sento male. Solo un po’ strana. Come se le cose, non fossero… non fossero giuste, per così dire. Perché il divano è spostato nella stanza dei media? E dov’è Chips? Ho continuato a chiamarlo, ma non s’è fatto vedere.»

Sol sfiorò il polso della figlia. «Sei stata male per un pezzo» disse. «Il medico ha detto che forse ti saresti svegliata con qualche vuoto di memoria. Facciamo due chiacchiere, mentre andiamo al campus. Ti va?»

Rachel s’illuminò. «Saltare le lezioni e andare al college? Ma certo.» Finse un’aria costernata. «Purché non ci imbattiamo in Roger Sherman. Segue il corso di matematica per matricole ed è una vera piaga.»

«Non lo vedremo» disse Sol. «Sei pronta?»

«Quasi.» Rachel si alzò per abbracciare la madre. «Ciao ciao, maramao.»

«A fra poco, bel topo» disse Sarai.

«Certo» ridacchiò Rachel, facendo ondeggiare i capelli lunghi. «Sono pronta.»


I continui viaggi a Bussard avevano reso necessario l’acquisto di un VEM. In una fresca giornata d’autunno, Sol prese il percorso più lento, molto al di sotto delle corsie piene di traffico, godendosi la vista e il profumo dei campi da poco mietuti. Parecchie persone al lavoro agitarono il braccio a salutarlo.

Bussard era cresciuta moltissimo, dall’infanzia di Sol; ma la sinagoga era sempre lì, ai margini di uno dei quartieri più vecchi della città. Il tempio era vecchio, Sol si sentiva vecchio, anche lo yarmulke che indossò nell’entrare sembrava vecchio, consunto da decenni d’uso; ma il rabbino era giovane. Sol capì che l’uomo aveva almeno quarant’anni (i capelli erano già radi, ai lati dello zuccotto nero), ma ai suoi occhi era poco più d’un ragazzo. Si sentì sollevato quando l’altro suggerì di terminare la conversazione nel parco, dall’altra parte della via.

Si sedettero sopra una panchina. Sol fu sorpreso nell’accorgersi di portare ancora lo yarmulke e di passarlo da una mano all’altra.

Il giorno odorava di foglie bruciate e della pioggia della notte precedente.

«Non capisco bene, signor Weintraub» disse il rabbino. «Quel che la turba è il sogno, o il fatto che sua figlia si sia ammalata da quando il sogno stesso ha cominciato a manifestarsi?»

Sol alzò la testa per sentire in viso il sole. «Nessuna delle due cose, esattamente» rispose. «Ho la sensazione che le due cose siano in qualche modo collegate e non riesco a liberarmene.»

Il rabbino si passò il dito sul labbro inferiore. «Quanti anni ha sua figlia?»

«Tredici» rispose Sol, dopo una pausa impercettibile.

«E la malattia… è grave? C’è pericolo di morte?»

«No… non ancora.»

Il rabbino incrociò le braccia sul grosso ventre. «Non crederà… posso chiamarla Sol?»

«Certo.»

«Sol, non crederà per caso che lei, facendo questo sogno… in qualche modo abbia causato la malattia della bambina?»

«No» rispose Sol. Tacque un momento, chiedendosi nell’intimo se diceva la verità. «No, rabbi. Non credo…»

«Mi chiami Mort, Sol.»

«D’accordo, Mort. Non sono venuto perché penso che io, o il sogno, causiamo la malattia di Rachel. Ma credo che il mio subconscio cerchi di dirmi qualcosa.»

Mort si dondolò leggermente. «Forse un neurospecialista o uno psicologo potrebbero aiutarla, Sol. Non sono sicuro di essere…»

«M’interessa la storia di Abramo» lo interruppe Sol. «Cioè, ho avuto alcune esperienze con sistemi etici diversi, ma mi è difficile capire un sistema iniziato con l’ordine a un padre di uccidere il proprio figlio.»

«No, no, no!» esclamò il rabbino, agitandogli davanti dita curiosamente infantili. «Al momento del sacrificio, Dio fermò la mano di Abramo. Non avrebbe permesso un sacrificio umano in Suo nome. Era l’ubbidienza alla volontà del Signore, quel che voleva…»

«Sì» disse Sol. «Ubbidienza. Ma è scritto: “Allora Abramo tese la mano e prese il coltello per uccidere suo figlio”. Dio avrà certo guardato nella sua anima, avrà visto che Abramo era davvero pronto a uccidere Isacco. Una semplice esibizione di ubbidienza, senza un’intima convinzione, non avrebbe soddisfatto il dio della Genesi. Cosa sarebbe accaduto, se Abramo avesse amato suo figlio più di quanto amava il suo Dio?»

Per un momento Mort tamburellò con le dita sul ginocchio, poi allungò la mano a stringere il braccio di Sol. «Sol, vedo che è sconvolto per la malattia di sua figlia. Non faccia confusione con un documento scritto ottomila anni fa. Mi spieghi meglio la situazione della piccola. Voglio dire, i bambini non muoiono più di malattia. Non nella Rete.»

Sol si alzò, sorrise, arretrò d’un passo per liberare il braccio. «Mi piacerebbe parlarne ancora, Mort. Vorrei farlo. Ma devo tornare. Ho lezione, stasera.»

«Verrà al tempio, sabato?» gli chiese il rabbino, tendendo le dita tozze per un ultimo contatto umano.

Sol lasciò cadere lo yarmulke nelle mani dell’altro. «Uno di questi giorni, forse, Mort. Uno di questi giorni verrò.»


Più avanti, quello stesso autunno, una sera, guardando dalla finestra dello studio, Sol scorse la sagoma scura d’un uomo fermo sotto l’olmo spoglio di fronte alla casa. I media, pensò, sentendosi sprofondare. Da un decennio temeva il giorno in cui il segreto sarebbe stato scoperto: avrebbe significato la fine della loro vita semplice a Crawford. Uscì nell’aria fredda della sera. «Melio!» esclamò, quando vide in viso l’uomo alto.

L’archeologo era fermo, con le mani nelle tasche del lungo soprabito azzurro. Nonostante i dieci anni standard dal loro ultimo incontro, Arundez era invecchiato ben poco: Sol pensò che fosse ancora sulla soglia della trentina. Ma il viso abbronzato era segnato da rughe di preoccupazione. «Sol» disse, e gli tese la mano quasi con timidezza.

Sol la strinse calorosamente. «Non sapevo del tuo ritorno. Vieni dentro.»

«No.» L’archeologo arretrò d’un passo. «Sto qui fuori da un’ora, Sol. Non avevo il coraggio di venire alla porta.»

Sol aprì bocca, ma si limitò ad annuire. Mise anche lui le mani in tasca per difenderle dal freddo. Sopra il tetto scuro spiovente si vedevano le prime stelle. «Al momento Rachel non è in casa» disse poi. «È andata in biblioteca. Pensa… pensa di dover fare un compito scritto di storia.»

Melio fece un respiro rauco e annuì a sua volta. «Sol» disse, con la voce impastata «tu e Sarai dovete sapere che abbiamo fatto tutto il possibile. La squadra è rimasta su Hyperion per quasi tre anni standard. Saremmo rimasti ancora, se l’università non avesse smesso di finanziarci. Non c’era niente…»

«Lo sappiamo» disse Sol. «Ti ringraziamo per i messaggi.»

«Io stesso ho trascorso mesi interi, da solo, dentro la Sfinge» continuò Melio. «Secondo gli strumenti, era solo un mucchio di pietra inerte, ma ha volte ho creduto di sentire… qualcosa…» Scosse di nuovo la testa. «Non sono riuscito ad aiutarla, Sol.»

«No» disse Sol. Strinse la spalla del giovane sotto il soprabito di lana. «Ma voglio chiederti una cosa. Ci siamo messi in contatto con i nostri senatori… abbiamo anche parlato ai direttori del Consiglio scientifico… ma nessuno sa spiegarmi perché l’Egemonia non abbia investito più tempo e denaro per investigare i fenomeni di Hyperion. Secondo me, già da parecchio avrebbero dovuto accoglierlo nella Rete, se non altro per il suo potenziale scientifico. Come si può ignorare un enigma del calibro delle Tombe?»

«Capisco cosa intendi, Sol. Anche il taglio anticipato delle nostre sovvenzioni è sospetto. Sembra quasi che l’Egemonia segua la politica di tenere Hyperion a distanza.»

«Pensi forse…» cominciò Sol; ma in quel momento Rachel si avvicinò a loro nel crepuscolo autunnale. Teneva le mani sprofondate nella giacca rossa, portava i capelli corti secondo la moda degli adolescenti di qualsiasi luogo, e le guance piene erano arrossate dal freddo. Rachel era in bilico fra l’infanzia e la prima giovinezza; con le gambe lunghe rivestite di jeans, le scarpe da tennis e il giubbotto voluminoso, poteva essere la sagoma di un ragazzo.

Sorrise. «Ciao, papà.» Si avvicinò nella luce fioca e rivolse un timido cenno di saluto a Melio. «Scusatemi, non volevo interrompere la conversazione.»

Sol fece un sospiro. «Non fa niente, bambina. Rachel, ti presento il dottor Arundez, dell’università di Reichs, su Freeholm. Dottor Arundez, mia figlia Rachel.»

«Piacere di conoscerla» disse Rachel, illuminandosi sul serio, ora. «Uau, Reichs! Ho letto i loro cataloghi. Mi piacerebbe davvero frequentarla, un giorno.»

Melio annuì, teso. Sol notò la rigidità delle sue spalle e del busto. «Cosa…» cominciò Melio. «Cosa ti piacerebbe studiare, lì?»

Sol pensò che il dolore nella voce del giovane non potesse passare inosservato a Rachel, ma la bambina si limitò a scrollare le spalle con una risata. «Oddio, tutto! Il vecchio signor Eikhardt… l’insegnante di paleontologia e di archeologia che tiene il corso avanzato… dice che c’è una sezione grandiosa riservata ai classici e ai manufatti antichi.»

«È vero» riuscì a dire Melio.

Rachel passò timidamente lo sguardo dal padre allo sconosciuto, come se avesse intuito la tensione fra i due, ma non l’origine. «Be’, continuo solo a interrompervi. Devo entrare e andare a letto. Credo d’avere preso questo virus bizzarro… una sorta di meningite, dice mamma, solo che mi rende un po’ sciocca. Comunque, piacere d’averla conosciuta, dottor Arundez. Spero di rivederla a Reichs, un giorno o l’altro.»

«Spero anch’io» disse Melio, fissandola nel buio con un’intensità tale che Sol ebbe l’impressione che il giovane volesse memorizzare nei minimi particolari quell’istante.

«D’accordo, bene…» disse Rachel, e arretrò, con le suole di gomma che scricchiolavano sul marciapiede. «Buona notte, allora. Ci vediamo domani, papà.»

«Buona notte, Rachel.»

Lei si fermò sulla soglia. La luce a gas del prato la faceva sembrare più giovane dei suoi tredici anni. «Ciao ciao, maramao.»

«A fra poco, bel topo» rispose Sol e udì Melio mormorare la stessa frase.

Per qualche minuto rimasero in silenzio, come oppressi dalla notte che stava calando sulla cittadina. Passò un ragazzo in bicicletta: le foglie scricchiolarono sotto le ruote, i raggi brillarono nelle pozze di luce sotto i vecchi lampioni. «Entra in casa» disse Sol al giovanotto silenzioso. «Sarai ti rivedrà con piacere. Rachel sarà già a letto.»

«Non ora» disse Melio. Era un’ombra, lì, con le mani ancora in tasca. «Ho bisogno di… è stato un errore, Sol.» Cominciò a girarsi, si guardò indietro. «Mi faccio vivo, appeno torno a Freeholm» disse. «Organizzeremo un’altra spedizione.»

Sol annuì. Tre anni di transito, pensò; se partissero stasera, lei avrebbe… nemmeno dieci anni, prima che arrivino. «Bene» disse.

Melio esitò, alzò la mano in un gesto di saluto e si allontanò lungo il cordolo senza badare alle foglie che scricchiolavano sotto i piedi.

Sol non lo rivide più, di persona.


La più grande Chiesa Shrike nella Rete si trovava su Lusus; Sol si teleportò su quel pianeta poche settimane prima del decimo compleanno di Rachel. L’edificio in sé non era molto più grande di una cattedrale della Vecchia Terra, ma sembrava gigantesco per l’effetto dei contrafforti rampanti, dei piani superiori distorti, e dei muri di sostegno in vetro colorato. L’umore di Sol era assai basso e la brutale gravità di Lusus non contribuiva a migliorarlo. Nonostante avesse un appuntamento con il vescovo, Sol aspettò più di cinque ore prima di essere ammesso nel sancta sanctorum interno. Trascorse gran parte dell’attesa a fissare la scultura rotante, venti metri d’acciaio policromo, che forse raffigurava il leggendario Shrike… e forse era un omaggio astratto a ogni arma bianca mai inventata. Sol fu colpito soprattutto dai due occhi rossi che fluttuavano in uno spazio da incubo che forse era un cranio.

«Signor Weintraub?»

«Eccellenza» disse Sol. Accoliti, esorcisti, lettori e ostiari che gli avevano tenuto compagnia durante la lunga attesa, alla comparsa dell’alto sacerdote si erano prostrati sulle mattonelle scure. Sol eseguì un inchino formale.

«Entri, prego, entri, signor Weintraub» disse il prete. Con un ampio gesto del braccio coperto dalla veste talare indicò la porta del santuario Shrike.

Sol si trovò in un locale buio e pieno d’echi non molto dissimile da quello del suo sogno ricorrente, e si sedette dove il vescovo gli indicava. Mentre il prelato si accomodava al suo posto, su quello che sembrava un piccolo trono dietro una scrivania decorata di complicati intagli, eppure modernissima, Sol notò che il gran sacerdote era lusiano di nascita, un tipo grasso col viso flaccido ma notevole come solo i nativi di Lusus sanno essere. La tonaca colpiva per l’intensità del rosso… vivido, arterioso; ricadeva in pieghe, più come un liquido in un contenitore invisibile che come seta o velluto, bordato d’ermellino onice. A ogni dito il vescovo portava un grosso anello, rosso alternato a nero, il cui effetto turbò Sol.

«Eccellenza» comincò Sol «mi scuso in anticipo per le infrazioni al protocollo ecclesiastico che posso aver commesso o che commetterò. Confesso di sapere poco della Chiesa Shrike, ma quel poco mi ha condotto qui. La prego di perdonarmi se, senza volerlo, metterò in mostra la mia ignoranza con un uso goffo di titoli e di termini.»

Il vescovo agitò un dito ammonitore verso Sol. Nella fioca luce le pietre rosse e nere lampeggiarono. «I titoli non hanno importanza, signor Weintraub. Ci è gradito che un non credente si rivolga a noi con il termine “Eccellenza”. Dobbiamo avvisarla, tuttavia, che il nome formale del nostro modesto gruppo è “Chiesa della Redenzione Finale” e che noi ci riferiamo all’entità che tanto superficialmente il mondo chiama Shrike… ci riferiamo… se pure ne facciamo il Nome… con il termine di “Signore delle Sofferenze” o, più comunemente, di “Avatar”. La prego di procedere nel presentare l’importante richiesta che dice di avere per noi.»

Sol gli rivolse un lieve inchino. «Eccellenza, sono un insegnante…»

«Ci scusi l’interruzione, signor Weintraob, ma lei è molto più d’un insegnante. Lei è uno studioso. Ci sono noti i suoi scritti sull’ermeneutica morale. Le argomentazioni ivi esposte sono errate, ma molto stimolanti. Le adoperiamo regolarmente nei nostri corsi di apologetica dottrinale. Prosegua, la prego.»

Sol batté le palpebre. I suoi libri erano quasi sconosciuti al di fuori dei più rarefatti circoli accademici, e questo riconoscimento l’aveva scombussolato. Nei cinque secondi necessari a riprendersi trovò preferibile credere che il vescovo dello Shrike avesse voluto sapere con chi doveva parlare e che avesse ottimi collaboratori. «Eccellenza, la mia preparazione culturale non ha importanza. Ho chiesto di vederla perché la mia bambina… mia figlia… si è ammalata forse per colpa della ricerca che stava facendo in una zona di una certa importanza per la sua Chiesa. Mi riferisco ovviamente alle cosiddette Tombe del Tempo, sul mondo di Hyperion.»

Il vescovo annuì lentamente. Sol si domandò se fosse al corrente di Rachel.

«Sa, signor Weintraub, che l’accesso alla zona a cui lei si è riferito… quella che noi chiamiamo le Arche dell’Alleanza… di recente è stato vietato ai cosiddetti ricercatori per disposizione del Consiglio Autonomo di Hyperion?»

«Sì, Eccellenza. Ne sono al corrente. E mi pare che la sua Chiesa abbia avuto una parte importante nell’approvazione di questa legge.»

Il vescovo non ebbe reazioni. Lontano, nel buio velato d’incenso, risuonarono piccole campanelle.

«A ogni modo, Eccellenza, mi auguro che alcuni aspetti della dottrina della sua Chiesa possano fare luce sulla malattia di mia figlia.»

Il vescovo inclinò in avanti la testa in modo che il singolo raggio di luce che lo illuminava gli risplendesse sulla fronte e lasciasse in ombra gli occhi. «Desidera forse ricevere un’istruzione religiosa nei misteri della Chiesa, signor Weintraub?»

Sol si toccò con un dito la barba. «No, Eccellenza; a meno che, così facendo, non riesca a migliorare la salute di mia figlia.»

«E sua figlia desidera essere iniziata alla Chiesa della Redenzione Finale?»

Sol esitò un attimo. «Le ripeto, Eccellenza, che lei desidera recuperare la salute. Se unirsi alla sua Chiesa la guarisse o le giovasse, questa possibilità sarebbe presa seriamente in esame.»

Con un fruscio di vesti, il vescovo si appoggiò allo schienale. Nella penombra sembrò fluire da lui una luminosità rossastra. «Lei parla di salute fisica, signor Weintraub. La nostra Chiesa è l’arbitro finale della salute spirituale. Sa che la prima deriva invariabilmente dalla seconda?»

«So che questa è un’affermazione antica e ampiamente rispettata» disse Sol. «Il totale benessere di nostra figlia è la preoccupazione di mia moglie e di me stesso.»

Il vescovo appoggiò al pugno la testa massiccia. «Qual è la natura della malattia di sua figlia, signor Weintraub?»

«È una malattia… collegata al tempo, Eccellenza.»

Il vescovo si drizzò a sedere, improvvisamente teso. «E in quale dei luoghi sacri sua figlia ha contratto questa malattia, signor Weintraub?»

«Nel manufatto chiamato Sfinge, Eccellenza.»

Il vescovo si alzò così bruscamente che le carte sulla scrivania volarono per terra. Anche senza le vesti, l’uomo sarebbe stato il doppio di Sol. Nelle sue vesti ondeggianti, dritto in tutta la sua altezza, il sacerdote dello Shrike ora incombeva su Sol come una morte cremisi incarnata. «Può andare!» tuonò il vescovo. «Sua figlia è la persona più benedetta e maledetta. Non c’è nulla che lei o la Chiesa… o quaìsiasi agente in questa vita… possa fare per sua figlia.»

Sol rimase al suo posto. «Eccellenza, se esiste una possibilità qualsiasi…»

«NO!» gridò il vescovo, ora rosso in viso. Batté le dita sulla scrivania. Esorcisti e lettori comparvero sulla soglia: le vesti nere, orlate di rosso, erano un’infausta eco del vescovo. Gli ostiari vestiti solo di nero si fusero con le ombre. «L’udienza è terminata» disse il vescovo, a voce più bassa, ma con determinazione. «Sua figlia è stata scelta dall’Avatar per redimersi, in un modo che tutti i peccatori e i non credenti dovranno patire un giorno. Un giorno molto vicino.»

«Eccellenza, se posso avere altri cinque minuti del suo tempo…»

Il vescovo schioccò le dita e gli esorcisti si fecero avanti per scortare fuori Sol. Erano lusiani: uno solo di loro poteva tenere a bada senza difficoltà cinque studiosi del calibro di Sol.

Sol si scrollò di dosso le mani del primo. «Eccellenza…» esclamò. Altri tre esorcisti vennero in aiuto del collega, mentre alcuni lettori altrettanto nerboruti si tenevano pronti a intervenire. Il vescovo aveva girato le spalle e sembrava fissare il buio.

L’esterno del santuario echeggiò dei brontolii e dei passi strascicati di Sol, e di un grido trattenuto quando il piede di Sol incocciò nelle parti meno sacerdotali del primo esorcista. La cosa non cambiò il risultato della controversia. Sol atterrò nella via. L’ultimo ostiario a girare le spalle lanciò a Sol il berretto ammaccato.

Altri dieci giorni di permanenza su Lusus servirono solo a procurare a Sol un supplemento di stanchezza da gravità. I burocrati del Tempio non risposero alle sue chiamate. Le corti non gli offrirono alcun appiglio. Gli esorcisti lo aspettavano appena al di là della porta del vestibolo.

Sol si teleportò su Nuova Terra e su Vettore Rinascimento, su Fuji e su TC2, su Deneb Drei e su Deneb Vier: ma per lui i templi Shrike erano sbarrati.

Esausto, frustrato, a corto di fondi, tornò sul Mondo di Barnard; recuperò il VEM dal parcheggio a lungo termine e arrivò a casa un’ora prima del compleanno di Rachel.

«Mi hai portato un regalo, papà?» domandò con entusiasmo la bambina di dieci anni. Sarai le aveva detto che Sol era stato via.

Sol le diede un pacchetto: la raccolta completa della serie Anne of Green Gables. Ma non era quello, il regalo che avrebbe voluto portarle.

«Posso aprirlo?»

«Più tardi, piccola. Con gli altri regali.»

«Oh, per favore, papà! Solo questo, adesso! Prima che vengano Niki e gli altri ragazzi.»

Sol guardò Sarai. Lei scosse la testa. Rachel ricordava d’avere invitato alla festa, solo qualche giorno prima, Niki e Linna e gli altri amici. Sarai non aveva ancora trovato una scusa buona.

«E va bene, Rachel» concesse Sol. «Soltanto questo pacchetto, prima della festa.»

Mentre Rachel strappava la carta del pacchetto, Sol vide in soggiorno un grosso pacco legato con un nastro rosso. La bicicletta nuova, naturalmente. Rachel l’aveva chiesta da mesi, prima di quel decimo compleanno. Stancamente Sol si domandò se l’indomani si sarebbe stupita nel trovare lì la bici nuova il giorno prima del suo decimo compleanno. Forse avrebbero dovuto liberarsi di quella bicicletta durante la notte, mentre Rachel dormiva.

Si lasciò cadere sul divano. Il nastro rosso gli ricordava la tonaca del vescovo.


Sarai non aveva mai trovato facile rinunciare al passato. Ogni volta che puliva, ripiegava e riponeva una serie di abiti troppo piccoli di Rachel, versava in segreto qualche lacrima di cui chissà come Sol si accorgeva. Sarai aveva conservato religiosamente ogni stadio dell’infanzia di Rachel, godendo della quotidiana normalità delle cose, una normalità che aveva quietamente accettato come la parte migliore della vita. Aveva sempre intuito che l’essenza dell’esperienza umana consisteva soprattutto non nelle esperienze principali, come il giorno del matrimonio e i trionfi che spiccavano nella memoria come date segnate in rosso sui vecchi calendari, ma nel normale fluire delle piccole cose… nei pomeriggi dei fine settimana in cui ogni membro della famiglia era impegnato nel proprio svago, con i loro incroci e collegamenti casuali, i dialoghi da dimenticare presto… era la somma di simili ore, che creava una sinergia importante ed eterna.

Sol trovò Sarai in soffitta: piangeva in silenzio mentre esaminava il contenuto di alcuni scatoloni. Non erano le lacrime gentili che una volta versava per la fine delle piccole cose. Sarai Weintraub era infuriata.

«Cosa fai, Madre?»

«A Rachel servono dei vestiti. Tutto le va troppo grande. Quel che va bene a una bambina di otto anni non va bene a una di sette. Da qualche parte ho ancora delle cose sue.»

«Lascia stare» disse Sol. «Compreremo degli abiti nuovi.»

Sarai scosse la testa. «In modo che ogni giorno si domandi che fine hanno fatto i suoi vestiti preferiti? No. Ho conservato dei capi di vestiario. Sono qui, da qualche parte.»

«Cerca più tardi.»

«Maledizione, non esiste un più tardi!» gridò Sarai, poi girò la schiena e nascose fra le mani il viso. «Scusami.»

Sol le circondò le spalle. Nonostante il limitato trattamento Poulsen, le braccia nude di Sarai erano più magre di quanto lui ricordasse. Sotto la pelle ruvida spiccavano nodi e tendini. Sol la strinse forte.

«Scusami» ripeté lei, piangendo ora senza ritegno. «Non è giusto, ecco!»

«No» riconobbe Sol. «Non è giusto.» Il sole che entrava dai vetri polverosi aveva una nota triste, da cattedrale. Sol aveva sempre amato l’odore delle soffitte… la calda e stantia promessa di un luogo così poco usato e pieno di futuri tesori. Oggi quella gioia era rovinata.

Si accoccolò accanto a uno scatolone. «Vieni qui, amore mio» disse. «Cercheremo insieme.»


Rachel continuò a essere felice, interessata alla vita: era solo un poco confusa per le incongruità che si trovava ad affrontare ogni mattina al risveglio. Mentre diventava più giovane, era più facile spiegare i cambiamenti che sembravano verificarsi di colpo: la sparizione del vecchio olmo davanti alla casa, il nuovo condominio sull’angolo in cui il signor Nesbitt una volta abitava in una casa dell’era coloniale, l’assenza dei suoi amici… e Sol cominciò a rendersi conto davvero di quanto fosse elastica la mente dei bambini. Ora immaginava che Rachel vivesse sulla cima delle onde del tempo, senza vedere gli abissi tenebrosi del mare più in là, mantenendo l’equilibrio grazie alla piccola riserva di ricordi e alla completa dedizione alle quindici ore di presente concessele ogni giorno.

Né Sol né Sarai volevano che la loro figlia fosse isolata dagli altri bambini, ma era difficile trovare il modo di mantenere i contatti. Rachel era deliziata di giocare con “la nuova bambina” o con “il nuovo bambino” del vicinato… i figli di altri istruttori, i nipoti degli amici e, per un periodo, la figlia di Niki. Ma gli altri bambini dovevano abituarsi al fatto che ogni giorno Rachel rinnovava la loro conoscenza senza ricordare nulla del passato comune; e solo alcuni avevano la sensibilità di continuare in quella sciarada per amore di una compagna di giochi.

A Crawford, naturalmente, la storia della singolare malattia di Rachel non era un segreto. Nel primo anno dal ritorno di Rachel, la notizia si diffuse nel college e presto tutta la cittadina ne fu al corrente. Crawford reagì nel modo tipico, da tempo immemorabile, di tutte le piccole città… gente che sparla in continuazione; gente che non riesce a non mostrare, con la voce e con lo sguardo, la pietà e il piacere per le sfortune altrui… Ma in linea di massima la comunità ripiegò le sue ali protettive intorno alla famiglia Weintraub come una goffa mamma uccello che ripari i suoi piccoli.

Comunque i Weintraub continuarono la loro vita; e quando Sol fu costretto a ridurre la frequenza delle lezioni e poi ad anticipare il suo ritiro in pensione, a causa dei viaggi in cerca di cure mediche per Rachel, nessuno spettegolò sui veri motivi.

Ma non poteva durare, naturalmente. Il giorno di primavera in cui Sol uscì sulla veranda e vide la figlia di sette anni tornare in lacrime dal parco, circondata e seguita da una turba di robocronisti, fra un luccichio di impianti telecamera e di comlog estesi, capì che una fase della sua vita era terminata per sempre. Sol balzò dalla veranda e corse a fianco di Rachel.

«Signor Weintraub, è vero che sua figlia ha una malattia temporale all’ultimo stadio? Cosa accadrà fra sette anni? Svanirà e basta?»

«Signor Weintraub! Signor Weintraub! Rachel è convinta che Raben Dowell sia il PFE del Senato e che siamo nel 2711. Ha perduto del tutto questi trentaquattro anni, oppure è un’illusione provocata dal morbo di Merlino?»

«Rachel! Ricordi d’essere stata una donna adulta? Cosa si prova a tornare bambini?»

«Signor Weintraub! Signor Weintraub! Ancora una posa, prego. Un’inquadratura di lei e della bambina mentre guardate un’immagine di Rachel più anziana.»

«Signor Weintraub! È vero che si tratta della maledizione delle Tombe del Tempo? Rachel ha visto il mostro, lo Shrike?»

«Ehi, Weintraub! Sol! Ehi, Solly! Cosa farai, quando la bambina svanirà?»

Un robocronista bloccò a Sol la via per la porta d’ingresso. L’uomo allungò il collo mentre gli occhi a stereocamera zoomavano un primo piano di Rachel. Sol lo afferrò per i capelli lunghi, convenientemente legati a coda, e lo scostò con forza.

Per sette settimane la turba di robocronisti rumoreggiò fuori della porta. Sol capì una cosa che sapeva ma che aveva dimenticato, a proposito delle piccole comunità: spesso si annoiavano, erano sempre provinciali, a volte ficcavano il naso nella vita privata, ma non avevano mai accettato il maligno retaggio del cosiddetto “diritto all’informazione pubblica”.

La Rete, invece, sì. Anziché sopportare che la sua famiglia fosse assediata di continuo dai cronisti, Sol passò all’offensiva. Organizzò interviste per i più diffusi programmi di notiziario via cavo teleporter, partecipò a discussioni della Totalità, presenziò al Consiglio di Ricerca Medica del Concourse. In dieci mesi standard, chiese aiuto per sua figlia su ottanta pianeti.

Le offerte affluirono da diecimila fonti, ma la massa delle comunicazioni proveniva da guaritori, promotori di progetti, istituti e ricercatori indipendenti che offrivano i propri servigi in cambio di pubblicità, fedeli dello Shrike e altri fanatici religiosi che evidenziavano come Rachel meritasse il castigo; e comprendevano richieste di svariate agenzie pubblicitarie per il lancio di prodotti, offerte di agenti dei media di “occuparsi” di Rachel per questo tipo di pubblicità, offerte di simpatia provenienti dalla gente comune (a cui spesso erano allegate chip di credito), espressioni di incredulità degli scienziati, offerte di produttori olografici e di editori per l’esclusiva sulla vita di Rachel, e un fuoco di fila di offerte immobiliari.

L’università di Reichs pagò una squadra di valutatori per vagliare le offerte e vedere se per caso c’era qualcosa che poteva essere utile a Rachel. La maggior parte delle comunicazioni fu scartata. Alcune offerte mediche e di ricerca furono attentamente prese in esame. Alla fine, nessuna sembrò offrire una via di ricerca, né una terapia sperimentale che a Reichs non avessero già provato.

Sol fu colpito dal contenuto di una velina astrotel. Proveniva dal Presidente del kibbutz K’far Shalom, su Hebron, e diceva semplicemente: SE DIVENTA TROPPO, VENGA.


Presto diventò troppo. Dopo i primi mesi di pubblicità, l’assedio sembrò cessare, ma era solo il preludio del secondo atto. Tabloidi fax-sim si riferirono a Sol chiamandolo “l’ebreo errante”, il padre disperato che vagava lontano in cerca di una cura per la singolare malattia della figlia… e un titolo ironico accennò al fatto che a Sol non era mai piaciuto viaggiare. Inevitabilmente, Sarai fu la “mater dolorosa!’. Rachel divenne le “bambina predestinata” oppure, in un titolo più ispirato, la “vittima innocente della maledizione delle Tombe del Tempo”. Nessuno della famiglia poteva uscire di casa senza trovare sulla porta un robocron e dietro l’albero un’olocamera nascosta.

Crawford scoprì che c’era la possibilità di far quattrini, nella sfortuna dei Weintraub. All’inizio la città resistette; ma quando degli imprenditori di Bussard aprirono negozi d’articoli regalo, T-shirt esclusive, giri turistici, chioschi di chip informative per i sempre più numerosi turisti, i commercianti locali dapprima esitarono, poi vacillarono, infine decisero all’unanimità che, se commercio doveva esserci, non era giusto che i guadagni andassero a gente di fuori.

Dopo quattro secoli e trentotto anni di relativo isolamento, la cittadina di Crawford ebbe un terminex teleporter: i visitatori non dovevano più sobbarcarsi i venti minuti di volo da Bussard. La folla aumentò.


Il giorno in cui si trasferirono, pioveva a dirotto e le vie erano deserte. Rachel non pianse, ma per tutto il giorno rimase a occhi sbarrati e parlò con un tono mogio. Mancavano dieci giorni al suo sesto compleanno. «Ma, papà, perché dobbiamo andarcene?»

«È necessario, tesoro.»

«Ma perché?»

«Dobbiamo farlo, piccolina. Hebron ti piacerà. Ci sono tantissimi parchi.»

«Ma perché non hai mai parlato di trasferirci?»

«Ne abbiamo parlato, amore. Te ne sarai dimenticata.»

«Ma nonno e nonna, zio Richard e zia Tetha, zio Saul e tutti gli altri?»

«Verranno a trovarci quando vorranno.»

«E Niki e Linna e i miei amici?»

Sol non rispose, ma portò sul VEM l’ultima valigia. La casa, già venduta, era vuota; i mobili erano stati venduti o già spediti a Hebron. Per una settimana c’era stato un viavai continuo di familiari, vecchi amici, colleghi di college e perfino di alcuni membri della squadra medica di Reichs che avevano lavorato per diciotto anni con Rachel, ma ora la via era deserta. La pioggia rigava il tettuccio di perspex del VEM e scorreva in rivoli complicati. Tutt’e tre rimasero per un momento nel veicolo a fissare la casa. L’abitacolo odorava di lana bagnata e d’aria umida.

Rachel strinse al petto l’orsacchiotto che sei mesi prima Sarai aveva recuperato in soffitta. «Non è giusto» disse.

«No» convenne Sol. «Non è giusto.»


Hebron era un mondo desertico. Quattro secoli di terraforming avevano reso respirabile l’atmosfera e coltivabili alcuni milioni di acri di terreno. Le creature che avevano abitato quel mondo erano piccole, resistenti e infinitamente caute, come le creature importate dalla Vecchia Terra, inclusa la specie umana.

«Ahh» ansimò Sol, il giorno del loro arrivo a Dan, il villaggio bruciato dal sole al di sopra di K’far Shalom, il kibbutz bruciato dal sole. «Noi ebrei siamo proprio masochisti. Con ventimila mondi già esplorati e adatti alla razza umana, all’inizio dell’Egira questi scemi sono venuti a stare proprio qui.»

Ma non era stato il masochismo a farvi arrivare i primi coloni, o Sol e la sua famiglia. Hebron era in gran parte desertico, ma le zone coltivabili erano d’una fertilità quasi terrificante. L’università Sinai era rispettata in tutta la Rete e il suo Centro medico ospitava pazienti ricchi e procurava buoni introiti alla cooperativa. Hebron aveva un singolo terminex teleporter, a Nuova Gerusalemme, e non permetteva l’apertura di portali in altri luoghi. Dal momento che non apparteneva né all’Egemonia né al Protettorato, Hebron tassava pesantemente i viaggiatori per il privilegio di usare il teleporter e non consentiva ai turisti di uscire da Nuova Gerusalemme. Per un ebreo in cerca d’intimità, era forse il più sicuro dei trecento mondi su cui l’uomo aveva messo piede.

Il kibbutz era una cooperativa più per tradizione che di fatto. I Weintraub furono accolti nella loro nuova casa, un edificio modesto di adobe seccati al sole, con curve al posto degli angoli retti e spogli pavimenti in legno; però dalla collina si godeva un bel panorama con l’infinita distesa di deserto al di là degli aranceti e degli uliveti. Il sole sembrava prosciugare ogni cosa, si disse Sol, anche le preoccupazioni e i brutti sogni. La luce era tangibile. Di sera, la loro casa brillava di rosa anche un’ora dopo il tramonto del sole.


Ogni mattina Sol sedeva al capezzale della figlia finché non la vedeva sveglia. Trovava sempre penosi i suoi primi minuti di confusione, ma si accertava di essere la prima cosa che Rachel vedeva ogni mattina. La teneva stretta mentre lei gli faceva delle domande.

«Papà, dove siamo?»

«In un posto meraviglioso, piccolina. Te ne parlerò dopo colazione.»

«Come siamo arrivati qui?»

«Col teleporter e poi camminando un poco. Non è molto lontano… ma quanto basta a renderlo una bella avventura.»

«Ma il lettino… i miei animali di pezza… perché non ricordo il viaggio?»

Allora Sol la stringeva gentilmente per le spalle, la guardava negli occhi e diceva: «Hai avuto un incidente, Rachel. Ricordi che nel Rospo nostalgico, quando batte la testa, Torrence dimentica per qualche giorno dove abita? A te è accaduta una cosa del genere.»

«Ora sto meglio?»

«Sì» diceva Sol. «Ora stai molto meglio.» La casa si riempiva del profumo della colazione e loro due uscivano sul terrazzo dove Sarai li aspettava.


Rachel non aveva mai avuto tanti compagni di giochi. Nel kibbutz c’era una scuola dove lei era sempre la benvenuta, accolta ogni giorno come fosse il primo. Nei lunghi pomeriggi i bambini giocavano nei frutteti e andavano a fare giri d’esplorazione lungo i pendii.

Avner, Robert ed Ephraim, gli anziani del Consiglio, spinsero Sol a lavorare al libro. Hebron era orgoglioso del numero di studiosi, artisti, musicisti, filosofi, scrittori e compositori che ospitava come cittadini e residenti a lungo termine. La casa, precisarono, era un dono dello stato. La pensione di Sol, modesta secondo gli standard della Rete, era più che sufficiente per le esigenze di vita a K’far Shalom. Tuttavia Sol scoprì con sorpresa di apprezzare il lavoro fisico. Sia che coltivasse i frutteti, sia che togliesse i sassi in campi non ancora reclamati, o riparasse un muro sopra la città, Sol trovò che da parecchio tempo non godeva di tanta libertà di mente e di spirito. Scoprì di poter lottare con Kirkegaard, mentre aspettava che la calcina asciugasse; e di poter trovare nuove intuizioni in Kant e in Vandeur, mentre controllava con cura che le mele non fossero bacate. A settantatré anni standard, si procurò i primi calli alle mani.

La sera giocava con Rachel; poi faceva con Sarai una passeggiata fino alla base delle alture, mentre Judy o un’altra ragazza del vicinato teneva d’occhio la bambina addormentata. Un fine settimana andarono a Nuova Gerusalemme, Sol e Sarai da soli, la prima volta insieme da soli da quando Rachel era tornata a vivere con loro.

Ma non tutto era idilliaco. Troppo frequenti erano le notti in cui Sol si svegliava da solo nel letto e andava, scalzo, in fondo al corridoio a vedere Sarai che teneva d’occhio la bambina addormentata. E spesso, alla fine d’una lunga giornata, mentre nella vecchia vasca di ceramica facevano il bagno a Rachel, o mentre le rimboccavano le lenzuola quando le pareti si tingevano di rosa, la bambina diceva: «Qui mi piace, papà, ma domani torniamo a casa?» Sol annuiva. Dopo averle letto una favola, dopo la ninnananna e il bacio della buonanotte, certo che Rachel ormai dormisse, usciva in punta di piedi dalla cameretta e udiva il soffocato: «Ciao ciao, maramao» provenire dalla figurina sotto le coperte; allora doveva rispondere: «A fra poco, bel topo». E, disteso sul letto, accanto alla figura dal respiro lieve, forse addormentata, della donna che amava, guardava i pallidi raggi di una o di tutt’e due le piccole lune di Hebron muoversi lungo la parete scabra e parlava a Dio.


Sol parlava a Dio già da alcuni mesi, prima di rendersene conto. L’idea lo divertiva. I dialoghi non erano affatto preghiere, ma prendevano la forma di monologhi rabbiosi che, appena prima di diventare diatribe, si trasformavano in vigorose discussioni con se stesso. Gli argomenti di quei dibattiti infuocati erano profondi, la posta in gioco era alta, il campo trattato era grande… al punto, capì Sol un giorno, che l’unica persona da rimproverare per simili manchevolezze poteva essere solo Dio stesso. Poiché per Sol l’idea di un dio personale, sveglio la notte a preoccuparsi degli esseri umani e pronto a intromettersi nella vita dei singoli individui, era sempre stata assurda, il pensiero di simili dialoghi lo indusse a dubitare della propria sanità di mente.

Ma i dialoghi continuarono.

Sol voleva sapere come un qualsiasi sitema etico (e tanto meno una religione così indomabile da sopravvivere a qualsiasi male l’umanità le scagliasse contro) potesse derivare dall’ordine di Dio a un uomo di uccidere il proprio figlio. A Sol non importava che l’ordine fosse una prova d’ubbidienza. A dire il vero, l’idea che fosse stata l’ubbidienza a consentire ad Abramo di diventare padre di tutte le tribù d’Israele, era proprio ciò che procurava a Sol accessi d’ira.

Dopo cinquantacinque anni di lavoro sulla storia dei sistemi etici, Sol Weintraub era arrivato a un’unica, incrollabile decisione: ogni rispetto per una divinità, un concetto o un principio universale che poneva l’ubbidienza al di sopra del giusto comportamento nei confronti di un essere umano innocente, era un male.


Allora definisci il termine “innocente”, disse, in tono vagamente divertito e querulo, la voce che Sol associava a queste discussioni.

Un bambino è innocente, pensò Sol; Isacco era innocente. Rachel è innocente.

“Innocente” per il semplice fatto d’essere bambino?

Sì.

E non esiste circostanza in cui il sangue dell’innocente debba essere versato per una causa superiore?

No, pensò Sol, nessuna.

Ma “innocente” non è limitato ai bambini, immagino.

Sol esitò, intuendo una trappola e cercando di scoprire dove il suo invisibile interlocutore volesse andare a parare. Non ci riuscì. No, pensò, “innocente” include altri, oltre i bambini.

Rachel, per esempio? A ventiquattro anni? L’innocente non dovrebbe mai essere sacrificato, a nessuna età?

Esattamente.

Forse è questa, la parte della lezione che Abramo doveva imparare, prima d’essere padre della benedetta fra le nazioni della terra.

Quale lezione?, pensò Sol; quale lezione? Ma nella sua mente la voce era svanita; ora restavano solo i richiami degli uccelli notturni all’esterno e il fievole respiro della moglie al suo fianco.


A cinque anni Rachel era ancora in grado di leggere. Sol non ricordava più quando la bambina avesse imparato: sembrava che avesse sempre saputo leggere. «A quattro anni standard» gli disse Sarai. «Era l’inizio dell’estate… tre mesi dopo il suo compleanno. Facevamo colazione nel campo sopra il college, Rachel guardava il libro di Winnie-the-Pooh e all’improvviso disse: “Sento una voce nella testa”».

Allora Sol ricordò.

E ricordò anche la gioia che lui e Sarai avevano provato nel vedere con quanta facilità Rachel apprendeva, a quattro anni. Se ne ricordò, perché ora si trovavano davanti al rovesciamento di quel processo.

«Papà» disse Rachel, seduta per terra nello studio, tutta presa a colorare disegni. «Quant’è stato, dal compleanno di mamma?»

«Era lunedì» rispose Sol, assorto nella lettura. Il compleanno di Sarai non era ancora arrivato, ma Rachel lo ricordava.

«Lo so. Ma quant’è stato, da allora?»

«Oggi è giovedì» disse Sol. Stava leggendo un lungo trattato talmudico sull’ubbidienza.

«Lo so! Ma quanti giorni?»

Sol posò il libro. «Non sai il nome dei giorni della settimana?» Sul Mondo di Barnard si usava il vecchio calendario.

«Certo» disse Rachel. «Sabato, domenica, lunedì, martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato…»

«Sabato l’hai già detto.»

«Già. Ma quanti giorni fa?»

«Non sai contare da lunedì a giovedì?»

Rachel aggrottò la fronte, mosse le labbra. Riprovò, stavolta contando sulle dita. «Quattro giorni?»

«Benissimo» disse Sol. «Mi sai dire quanto fa dieci meno quattro, piccolina?»

«Cosa vuol dire meno?»

Sol si costrinse a guardare di nuovo le carte. «Niente» rispose. «Lo imparerai a scuola.»

«Quando domani andiamo a casa?»


«Sì.»

Un mattino, quando Rachel uscì con Judy a giocare con gli altri bambini (ormai era troppo piccola per andare ancora a scuola) Sarai disse: «Sol, dobbiamo portarla su Hyperion».

Sol la fissò. «Eh?»

«Mi hai capito. Non possiamo aspettare che sia troppo piccola per camminare… per parlare. E poi, noi due non diventiamo più giovani.» Sarai rise a denti stretti. «Curioso, vero? Ma è così. Il trattamento Poulsen perderà efficacia, fra un paio d’anni.»

«Sarai, non ti ricordi? Tutti i medici dicono che Rachel non sopravviverebbe alla crio-fuga. Nessuno affronta un viaggio a velocità superiore a quella della luce, se non è in stato di crio-fuga. L’effetto Hawking può far impazzire… o peggio.»

«Non importa» disse Sarai. «Rachel deve tornare su Hyperion.»

«Ma che diavolo dici?» protestò Sol, arrabbiandosi.

Sarai gli strinse la mano. «Credi di essere l’unico a sognare?»

«Sognare?» riuscì a ripetere Sol.

Sarai sospirò e si sedette al tavolo bianco della cucina. La luce del mattino colpiva come un faro giallastro le piante sul davanzale. «Il luogo buio» disse Sarai. «Le due luci rosse in alto. La voce. Che ci dice… ci dice di portare… di andare su Hyperion. A fare… a fare un’offerta.»

Sol si leccò l’orlo del labbro superiore, ma era asciutto. Sentiva il cuore battergli all’impazzata. «Quale nome… quale nome chiama?»

Sarai lo guardò curiosamente. «I nostri. Se non ci fossi stato tu… con me, nel sogno… non l’avrei mai sopportato, per tutti questi anni.»

Sol crollò sulla sedia. Fissò, come se non li avesse mai visti, la mano e il braccio sul piano del tavolo. Le nocche cominciavano a gonfiarsi per l’artrite; il braccio mostrava le vene in rilievo e le macchie epatiche. La mano era la sua, ovviamente. Sol sentì se stesso dire: «Non me ne hai mai parlato. Non hai mai detto una parola…».

Ora la risata di Sarai fu meno amara. «E come potevo? Ogni volta ci svegliavamo nel buio. E tu eri madido. Ho capito dall’inizio che non si trattava di un semplice sogno. Dobbiamo andare, Padre. Andare su Hyperion.»

Sol mosse la mano. Ancora non gli sembrava che facesse parte del suo corpo. «Perché? Per l’amor di Dio, Sarai, perché? Non possiamo… offrire Rachel!»

«No, certo, Padre. Non ci hai pensato? Dobbiamo andare su Hyperion… dovunque il sogno ci indichi… e offrire noi stessi in cambio.»

«Offrire noi stessi» ripeté Sol. Si domandò se non gli venisse un infarto: il petto gli doleva da mozzargli il fiato. Per un minuto intero rimase in silenzio, convinto che, se avesse provato a spiccicar parola, avrebbe emesso solo un singhiozzo. Dopo un altro minuto, disse: «Da quanto tempo… ci pensi, Madre?».

«Da quanto tempo so cosa dobbiamo fare, intendi? Un anno. Un po’ di più. Dal suo quinto compleanno.»

«Un anno! Perché non mi hai detto niente?»

«Aspettavo. Che tu capissi. Che sapessi.»

Sol scosse la testa. La stanza gli sembrò lontana, pazzamente inclinata. «No. Cioè… non sembra… devo riflettere, Madre.» Sol guardò la mano estranea accarezzare quella ben nota di Sarai.

Lei annuì.


Sol trascorse tre giorni e tre notti fra le aride montagne, mangiando solo il pane dalla crosta spessa che si era portato e bevendo dal thermos condensatore.

Diecimila volte, negli ultimi venti anni, aveva desiderato d’avere lui la malattia di Rachel: se uno doveva soffrire, che fosse il padre, non la figlia. Qualsiasi genitore avrebbe pensato allo stesso modo… pensava davvero a questo modo… ogni volta che il figlio si feriva o era tormentato dalla febbre. Certo non era così semplice. Nel caldo del terzo pomeriggio, mentre giaceva assopito all’ombra di una sottile lastra di roccia, Sol imparò che non era affatto così semplice.


Che fosse questa, la risposta di Abramo a Dio? Offrire se stesso al posto d’Isacco?

Non poteva essere la risposta di Abramo. E non può essere la tua. Perché?


Quasi in risposta, Sol ebbe la visione di adulti nudi che sfilavano fra uomini armati verso i forni, di madri che nascondevano sotto mucchi d’indumenti i propri figli. Vide uomini e donne, la cui carne pendeva in brandelli bruciati, portare bambini sbigottiti via dalle ceneri di quella che un tempo era una città. Sol capì che queste immagini non erano un sogno: erano la sostanza stessa del Primo e del Secondo Olocausto. E capì, prima che la voce gli parlasse nella mente, qual era la risposta. Quale doveva essere.


I genitori hanno offerto se stessi. Questo sacrificio è già stato accettato. Siamo al di là di questo punto.

E allora? Allora?


Gli rispose il silenzio. Sol rimase fermo sotto il bagliore del sole, quasi cadde. In alto, o nella visione, un uccello nero roteò. Sol agitò il pugno contro il cielo color bronzo.


Ti servi dei nazisti come strumento. Pazzi. Mostri. Sei un maledetto mostro tu stesso.

No.


La terra s’inclinò e Sol cadde sul fianco, contro i sassi acuminati. Non gli sembrò molto diverso dall’appoggiarsi a una parete scabra. Una pietra grossa come il suo pugno gli bruciò la guancia.


Per Abramo, pensò Sol, la giusta risposta era l’ubbidienza. Dal punto di vista etico, Abramo stesso era un bambino. Lo erano tutti gli uomini, a quel tempo. Per i figli di Abramo, la giusta risposta era diventare adulti e offrire se stessi in cambio. Qual è la giusta risposta, per noi?


Non ci fu risposta. Il terreno e il cielo smisero di roteare. Dopo un po’, Sol si alzò, malfermo sulle gambe; si pulì la guancia dal sangue e dalla polvere, scese verso la città nella vallata sottostante.


«No» disse Sol a Sarai. «Non andremo su Hyperion. Non è la soluzione giusta.»

«Allora non faremo niente.» Le labbra di Sarai si erano sbiancate, ma la voce era sotto controllo.

«No. Non voglio che facciamo la cosa sbagliata.»

Sarai sospirò. Indicò la finestra, da cui si vedeva in cortile la figlia di quattro anni giocare con il cavalluccio. «Pensi che lei abbia tempo d’aspettare che facciamo la cosa sbagliata… o una cosa qualsiasi… indefinitamente?»

«Siediti, Madre.»

Sarai rimase in piedi. Sul davanti del vestito marrone chiaro di cotone c’era il debole brillio di alcuni granelli di zucchero. Sol ricordò la giovane donna che s’alzava, nuda, dalla scia fosforescente dell’isola mobile, su Patto-Maui.

«Dobbiamo fare qualcosa» disse lei.

«Abbiamo consultato più di cento medici e scienziati. L’hanno guardata, toccata, sondata, torturata, in venti centri di ricerca. Io sono andato alla Chiesa Shrike su ogni mondo della Rete e non mi hanno neppure ricevuto. A Reichs, Melio e gli altri esperti dicono che, nella sua dottrina, il culto Shrike non contempla niente di simile al morbo di Merlino e che gli indigeni di Hyperion non hanno leggende che riguardano questa malattia o il modo per curarla. Durante i tre anni di permanenza su Hyperion, la squadra di ricerca non ha scoperto niente. Adesso le ricerche in situ sono vietate. L’accesso alle Tombe del Tempo è permesso solo ai cosiddetti pellegrini. È quasi impossibile perfino ottenere un visto di viaggio per Hyperion. E se portiamo Rachel, il viaggio potrebbe ucciderla.»

Sol s’interruppe per riprendere fiato e toccò di nuovo il braccio di Sarai. «Scusa se te lo ripeto, Madre. Ma qualcosa abbiamo fatto.»

«Non abbastanza» disse Sarai. «E se ci andassimo come pellegrini?»

Sol incrociò le braccia, frustrato. «La Chiesa Shrike sceglie fra migliaia di volontari le sue vittime sacrificali. La Rete è piena di gente stupida, depressa. Pochi pellegrini tornano.»

«E questo non dimostra qualcosa?» mormorò Sarai con un tono pressante. «Qualcuno o qualcosa cattura i pellegrini.»

«Banditi» disse Sol.

Sarai scosse la tesa. «Il golem.»

«Intendi lo Shrike.»

«Quello è il golem» insistette Sarai. «Lo stesso che vediamo nel sogno.»

Sol era turbato. «Non vedo nessun golem, nel sogno. Quale golem?»

«Gli occhi rossi che osservano. Lo stesso golem che Rachel ha sentito quella notte dentro la Sfinge.»

«Come sai che ha sentito qualcosa?»

«È nel sogno. Prima che entriamo nel luogo dove il golem aspetta.»

«Non abbiamo sognato lo stesso sogno. Madre, Madre… perché non me ne hai parlato prima?»

«Credevo di perdere la ragione» mormorò Sarai.

Sol pensò alle sue conversazioni segrete con Dio e circondò le spalle della moglie.

«Oh, Sol» mormorò Sarai, stringendosi a lui. «È troppo doloroso stare a guardare. E questo posto è davvero solitario.»

Sol la tenne stretta. Cinque o sei volte avevano provato ad andare a casa (la loro casa sarebbe stata per sempre il Mondo di Barnard) a fare visita a familiari e amici, ma ogni volta la visita era stata rovinata da un’invasione di robocron e di turisti. Non era colpa di nessuno. Le notizie viaggiavano quasi istantaneamente attraverso la megasfera dati di centosessanta mondi della Rete. Per soddisfare la curiosità, bastava infilare una carta universale nel diskey di un terminex e varcare il teleporter. Avevano provato ad arrivare senza annunciarsi e a viaggiare in incognito, ma non erano bravi a giocare alle spie e i loro sforzi erano penosi. Entro ventiquattr’ore standard dal rientro nella Rete, si ritrovavano assediati. Istituti di ricerca e grandi centri medici fornivano facilmente lo schermo di sicurezza per visite del genere, ma gli amici e i familiari soffrivano. Rachel faceva NOTIZIA.

«Potremmo invitare di nuovo Tetha e Richard…» cominciò Sarai.

«Ho un’idea migliore» disse Sol. «Vai da sola, Madre. Vuoi rivedere tua sorella, ma vuoi anche vedere, sentire, annusare casa… guardare un tramonto in cui non ci siano iguane… camminare nei campi. Vai.»

«Da sola? Non riuscirei a stare lontano da Rachel…»

«Sciocchezze. Due volte in vent’anni… quasi quaranta, se contiamo i giorni belli precedenti… comunque, due volte in vent’anni non significa trascurare i figli. È stupefacente che in questa famiglia ci si sopporti ancora: siamo rimasti stipati insieme per un mucchio di tempo.»

Sarai, assorta, fissava il piano del tavolo. «Ma la gente della stampa non mi troverebbe?»

«Non credo» rispose Sol. «A quanto pare, marcano da vicino solo Rachel. Se ti danno la caccia, torna a casa. Ma sono sicuro che puoi passare una settimana a fare visita a chi vuoi, prima che i cronisti ti scoprano.»

«Una settimana» ansimò Sarai. «Non riuscirei…»

«Sì, invece. Anzi, devi farlo. Così avrò alcuni giorni da dedicare a Rachel; quando tornerai, rinfrescata, mi metterò egoisticamente al lavoro sul nuovo libro.»

«Quello su Kierkegaard?»

«No. Un altro con il quale mi sono baloccato e che intitolerò Il problema Abramo

«Che titolo maldestro!»

«Come il problema stesso» replicò Sol. «Ora vai a fare la valigia. Domani voliamo a Nuova Gerusalemme, così prendi il teleporter prima che inizi il sabato.»

«Ci penserò» disse lei, poco convinta.

«Fai la valigia» insistette Sol, abbracciandola di nuovo, poi la fece girare in modo che desse le spalle alla finestra e avesse di fronte il corridoio e la porta della camera da letto. «Vai. Quando tornerai da casa, avrò escogitato qualcosa.»

Sarai esitò. «Me lo prometti?»

Lui la guardò negli occhi. «Prometto che lo farò prima che il tempo distrugga ogni cosa. Ti giuro, come padre di Rachel, che troverò un modo.»

Sarai annuì, più calma di quanto lui non la vedesse da mesi. «Vado a fare la valigia» disse.


Il giorno dopo, quando con la figlia tornò da Nuova Gerusalemme, Sol uscì a bagnare il prato stento, mentre Rachel giocava tranquilla in casa. Quando rientrò, il roseo bagliore del tramonto dava alle pareti un senso di tepore marino e di quiete; Rachel non era nella sua stanza e neppure nei suoi soliti posti. «Rachel?»

Non ottenne risposta. Controllò di nuovo il cortile posteriore e la via deserta.

«Rachel?» Sol si precipitò al telefono per chiamare i vicini, ma a un tratto sentì un lievissimo rumore provenire dal grande armadio che Sarai usava come ripostiglio. Piano piano Sol aprì l’anta.

Rachel era seduta sotto gli abiti appesi; fra le sue gambette c’era, aperto, l’antico bauletto di pino. Per terra erano sparse fotografie e olochip di Rachel studentessa delle superiori, di Rachel nel giorno della partenza per il college, di Rachel di fronte alla montagna scolpita su Hyperion. Il comlog di studio di Rachel mormorava in grembo alla Rachel di quattro anni. Il cuore di Sol sobbalzò al suono ben noto della voce fiduciosa della giovane donna.

«Papà» disse la bambina seduta per terra, con voce che era l’eco un po’ spaventata di quella del comlog. «Non mi hai mai detto che avevo una sorella.»

«Non hai sorelle, piccolina.»

Rachel corrugò la fronte. «Allora questa è mamma quando era… non era così grande? Uh, non è possibile. Anche lei si chiama Rachel, dice qui. Com’è possibile…»

«Niente di strano, ora ti spiego…» Sol si rese conto che in soggiorno il telefono squillava. «Aspetta solo un minuto, tesoro. Torno subito.»

Sopra la piazzuola di trasmissione si formò l’ologramma di un uomo che Sol non aveva mai visto. Sol non attivò il proprio trasmettitore, ansioso di liberarsi dello sconosciuto. «Sì?» disse, brusco.

«Signor Weintraub? Il Weintraub che stava sul Mondo di Barnard e ora sta nel villaggio di Dan su Hebron?»

Sol mosse la mano per togliere la comunicazione, poi esitò. Il suo codice d’accesso non figurava in elenco. Di tanto in tanto un venditore chiamava da Nuova Gerusalemme, ma le chiamate extraplanetarie erano rarissime. E, capì, con un’improvvisa stilettata gelida allo stomaco, era sabato e il sole era calato da un pezzo: solo le chiamate d’emergenza erano permesse.

«Sono io» rispose.

«Signor Weintraub» disse l’uomo, fissando ciecamente al di là di Sol. «È accaduto un incidente terribile.»


Quando Rachel si svegliò, suo padre era seduto accanto a lei sul letto. Sembrava stanco. Aveva gli occhi rossi e le guance grigie per i peli sopra la linea della barbetta ben curata.

«Buon giorno, papà.»

«Buon giorno, tesoro.»

Rachel si guardò intorno e batté le palpebre. C’erano alcune sue bambole e alcuni suoi giocattoli, ma la stanza non era la sua. La luce era diversa. L’aria sapeva di diverso. Suo papà sembrava diverso. «Papà, dove siamo, papà?»

«Abbiamo fatto un viaggio, piccolina.»

«Dove?»

«Non conta, al momento. Salta fuori, tesoro. Devi fare il bagno e poi dobbiamo vestirci.»

Ai piedi del letto c’era un abito nero che lei non aveva mai visto. Rachel guardò il vestito, poi il padre. «Papà, cosa succede? Dov’è mamma?»

Sol si strofinò la guancia. Era il terzo giorno dall’incidente. Il giorno del funerale. Gliel’aveva detto ciascuno dei giorni precedenti, perché non riusciva nemmeno a immaginare di mentirle: gli sembrava il tradimento finale… di Sarai e di Rachel. Ma non aveva cuore di dirlo ancora. «È accaduto un incidente, Rachel» disse, con voce rauca e affannosa. «Mamma è morta. Oggi andiamo a dirle addio.» S’interruppe. Ormai sapeva che occorreva un minuto, prima che la morte della mamma per Rachel diventasse un fatto reale. Il primo giorno non sapeva se una bambina di quattro anni potesse capire davvero il concetto di morte. Rachel lo capiva e lui ora lo sapeva.

Più tardi, mentre stringeva a sé la bambina in lacrime, Sol cercò di capire l’incidente che le aveva descritto a brevi cenni. I VEM erano di gran lunga i più sicuri mezzi di trasporto personali che l’umanità avesse mai progettato. I loro sollevatori potevano guastarsi, ma anche in questo caso la carica residua nei generatori EM permetteva al veicolo aereo di scendere a terra senza pericolo, da qualsiasi altezza. Il progetto basilare dello strumento di sicurezza per evitare collisioni tra VEM non era cambiato nel corso di alcuni secoli. Ma la certezza non esiste mai. In questo caso, era stata una coppia di ragazzi che scorrazzava per divertimento su un VEM rubato, al di fuori delle corsie di traffico, a velocità di 1,5 mach, a luci spente e con i radarfari disinseriti, per non farsi scoprire, a sfidare tutte le leggi delle probabilità andando a urtare contro il vecchio Vikken di zia Tetha in fase di discesa sul campo d’atterraggio del teatro municipale di Bussard. Oltre a Tetha, Sarai e i due ragazzi, altre tre persone erano morte nello scpntro, quando pezzi dei veicoli erano precipitati nell’affollato atrio del teatro stesso.

Sarai.

«Mamma non la rivedremo più?» disse Rachel, fra le lacrime. L’aveva detto ogni volta.

«Non so, tesoro mio» rispose Sol, sincero.


Il funerale si tenne nel cimitero di famiglia della contea di Kates, sul Mondo di Barnard. La stampa non invase il cimitero vero e proprio, ma alcuni robocron si librarono fra gli alberi e si ammassarono contro la scura cancellata di ferro, simili a un’irata marea tempestosa.

Richard voleva che Sol e Rachel si fermassero per qualche giorno, ma Sol sapeva quale sofferenza sarebbe toccata a un tranquillo contadino, se la stampa avesse continuato l’assalto. Allora abbracciò Richard, parlò brevemente ai cronisti che rumoreggiavano al di là della recinzione e tornò su Hebron tirandosi dietro una Rachel sbigottita e silenziosa.

I robocron li seguirono a Nuova Gerusalemme e tentarono di seguirli anche a Dan, ma la polizia militare bloccò i VEM presi a nolo, sbatté in galera una decina di persone che servissero da esempio, e revocò al resto il visto teleporter.


La sera Sol camminò lungo le creste sopra il villaggio, mentre Judy badava alla bambina addormentata. Scoprì che adesso il suo dialogo con Dio era intelligibile e tenne a freno l’impulso di agitare il pugno al cielo, di gridare bestemmie, di tirare sassi. Invece gli rivolse delle domande che terminavano sempre con: Perché?

Non ci fu risposta. Il sole di Hebron tramontò dietro creste lontane e le rocce brillarono nel cedere il calore. Sol si sedette sopra un grosso sasso e si strofinò le tempie.

Sarai.

Avevano vissuto una vita piena, anche quando incombeva su di loro la tragedia della malattia di Rachel. Era davvero ironico che Sarai, alla prima ora di pace con sua sorella… Sol gemette a voce alta.

La trappola, naturalmente, era stata la totale dedizione alla malattia di Rachel. Nessuno dei due aveva saputo affrontare il futuro al di là della… morte? scomparsa?… di Rachel. Il mondo era dipeso da ogni giorno in cui la loro figlia era viva e non avevano rivolto alcun pensiero alla possibilità d’un incidente, perversa antilogica di uno spietato universo. Sol era sicuro che Sarai, come lui stesso, avesse pensato al suicidio, ma nessuno dei due avrebbe mai abbandonato l’altro. O Rachel. Lui non aveva mai riflettuto sulla possibilità di essere da solo con Rachel, quando…

Sarai!

In quel momento Sol capì che il dialogo, spesso rabbioso, che per tanti millenni il suo popolo aveva avuto con Dio non era terminato con la morte della Vecchia Terra… e neppure con la Nuova Diaspora… ma continuava ancora. Lui, Rachel e Sarai ne avevano fatto parte, ne facevano parte ora. Sol lasciò che il dolore arrivasse. Lo travolse, con la spietata sofferenza della fermezza.

Si fermò su una cresta e pianse, mentre l’oscurità calava.

Al mattino, era accanto al letto di Rachel. La luce del sole riempiva la cameretta.

«Buon giorno, papà.»

«Buon giorno, tesoro.»

«Papà, dove siamo?»

«Abbiamo fatto un viaggio. È un posto grazioso.»

«Mamma dov’è?»

«Oggi è da zia Tetha.»

«Domani la vedremo?»

«Sì» disse Sol. «Ora metti il vestito, mentre preparo la colazione.»


Quanto Rachel tornò ad avere tre anni, Sol iniziò a presentare petizioni alla Chiesa Shrike. I viaggi su Hyperion erano ormai molto limitati e l’accesso alle Tombe del Tempo era in pratica impossibile. Solo un occasionale Pellegrinaggio allo Shrike inviava gente in quella regione.

Rachel si rattristò perché era lontana dalla mamma, il giorno del terzo compleanno; ma la visita di parecchi bambini del kibbutz la distrasse un poco. Il regalo principale fu un libro di fiabe illustrato che Sarai aveva comprato per lei a Nuova Gerusalemme qualche mese prima.

Sol lesse a Rachel alcune di quelle favole per farla addormentare. Da sette mesi la bambina non sapeva più leggere una parola. Ma le piacquero le favole, in particolare “La bella addormentata”, e volle che suo padre gliela rileggesse.

«La mostrerò a mamma quando torniamo a casa» disse fra gli sbadigli, mentre Sol spegneva la luce in alto.

«Buona notte, piccolina» disse lui piano, soffermandosi sulla soglia.

«Papà?»

«Sì?»

«Ciao ciao, maramao.»

«A fra poco, bel topo.»

Rachel ridacchiò contro il cuscino.


Non era molto diverso, pensò Sol negli ultimi due anni, dal veder invecchiare la persona amata. Ma era peggio. Mille volte peggio.

A Rachel erano caduti i denti definitivi, a intervalli, nel periodo fra l’ottavo e il secondo compleanno. Erano stati sostituiti dai denti di latte, ma a diciotto mesi la metà si era ritirata nelle gengive.

I capelli di Rachel, che erano sempre stati la sua unica vanità, divennero più corti e più radi. Il viso perse la forma ben nota, mentre il grasso infantile copriva gli zigomi e il mento volitivo. Per gradi Rachel perdette la coordinazione nei movimenti, visibile all’inizio nella goffaggine a reggere la forchetta o la matita. Il giorno in cui disimparò a camminare, Sol la depose di buonora nella culla e poi si ritirò nello studio a sbronzarsi in silenzio.

La perdita della parola fu per Sol la più difficile da sopportare. Il vocabolario di Rachel si ridusse con la velocità dell’incendio d’un ponte fra loro e recise l’ultimo filo di speranza. Qualche tempo dopo il secondo compleanno di Rachel, Sol rimboccò la coperta alla piccina, si fermò sulla soglia e le disse. «Ciao ciao, maramao».

«Eh?»

«Ciao ciao, maramao.»

Rachel ridacchiò.

«E tu rispondi: A fra poco, bel topo» disse Sol. Le spiegò il significato di maramao e di topo.

«A fla poco be’ topo» ridacchiò Rachel.

Il mattino dopo aveva dimenticato.


Sol portò con sé Rachel, nei suoi viaggi per la Rete (ormai dei robocron se ne fregava) a presentare petizioni alla Chiesa Shrike per ottenere il diritto di pellegrinaggio, a sollecitare il Senato per un visto e un permesso d’accesso alle zone proibite di Hyperion, a visitare ogni istituto di ricerca e ogni clinica che potessero offrire una cura. Sprecò vari mesi, mentre altri medici si dichiaravano sconfitti. Quando tornò su Hebron, Rachel aveva quindici mesi standard; nelle antiche unità di misura adoperate su Hebron, pesava venticinque libbre ed era alta trenta pollici. Non si vestiva più da sola. Il suo vocabolario comprendeva venticinque parole: le più usate erano “mamma” e “papà”.

A Sol piaceva portare in braccio Rachel. C’erano volte in cui la curva del suo visetto contro la sua guancia, il calore del suo corpo contro il suo petto, l’odore della sua pelle, contribuivano a fargli dimenticare la feroce ingiustizia del tutto. E in quei momenti, se Sarai fosse stata al suo fianco, Sol per un poco si sarebbe sentito in pace con l’universo. Infatti c’erano degli armistizi temporanei, nel suo dialogo rabbioso con un Dio in Cui non credeva.


Quale ragione può mai esserci per tutto questo?

Quale ragione si è mai vista per tutte le forme di sofferenza sopportate dall’umanità?

Proprio così, pensò Sol; e si domandò se, per la prima volta, non avesse segnato un punto a suo favore. Ne dubitava.

Il fatto che una cosa non sia visibile non significa che non esista.

Che goffaggine, servirsi di tre negazioni per un’asserzione. Soprattutto per un’asserzione così banale.

Proprio così, Sol. Cominci a capire il senso della situazione.

Eh?


Non ci fu risposta ai suoi pensieri. Sol rimase disteso dentro casa ad ascoltare il soffio del vento del deserto.


L’ultima parola di Rachel fu: Mamma. La disse quando aveva appena compiuto cinque mesi.

Si svegliò nella culla e non domandò, non poté domandare, dov’era. Il suo mondo ormai comprendeva solo pasti, pisolini e giocattoli. A volte, quando la sentiva piangere, Sol si domandava se piangesse per la mancanza della mamma.

Sol andava a far spesa nei piccoli negozi di Dan, portando con sé la piccina mentre sceglieva pannolini, poppatoi e a volte un giocattolino nuovo.

La settimana prima che Sol lasciasse Tau Ceti Centro, Ephraim e gli altri due anziani vennero a parlargli. Era sera e la luce morente brillava sul cranio calvo di Ephraim. «Sol, siamo preoccupati per te. Le prossime settimane saranno durissime. Le donne vorrebbero aiutarti. Tutti noi vorremmo aiutarti.»

Sol posò la mano sul braccio dell’anziano. «Ti ringrazio, Ephraim. Per tutto quello che avete fatto in questi ultimi anni. Questa, ora, è anche casa nostra. Sarai, se ci fosse, vorrebbe che… che vi dicessi grazie. Ma domenica ce ne andiamo. Rachel si troverà meglio.»

Sulla lunga panca, i tre si scambiarono occhiate. Avner disse: «Hanno trovato una cura?».

«No. Ma ho trovato un motivo di speranza.»

«La speranza è bene» disse Robert, in tono prudente.

Sol sorrise, i denti bianchi contro il grigio della barba. «Meglio che lo sia» disse. «A volte è tutto ciò che abbiamo.»


L’olocamera dello studio si spostò per riprendere un primo piano di Rachel rannicchiata fra le braccia di Sol, sul set di “Quattro chiacchiere”. «Perciò lei sostiene» disse Devon Whiteshire, il conduttore dello spettacolo e il terzo viso più noto della sfera dati della Rete «che la Chiesa Shrike, nel rifiutarle il permesso di tornare alle Tombe del Tempo… e l’Egemonia, con la sua lentezza nel concedere il visto… condanneranno sua figlia a… all’estinzione?»

«Proprio così» rispose Sol. «Il viaggio su Hyperion richiede non meno di sei settimane. Rachel ora ne ha dodici. Un ulteriore ritardo, o da parte della Chiesa Shrike, o da parte della burocrazia della Rete, ucciderà questa bambina.»

Nello studio il pubblico si agitò. Devon Whiteshire si rivolse all’olocamera più vicina. Il suo viso, rugoso e benevolo, riempì il monitor. «Quest’uomo non sa se potrà salvare sua figlia» disse Whiteshire, con voce intensa e appassionata «ma chiede solo una possibilità. Credete che lui… e la piccina… la meritino? Se ne siete convinti, rivolgetevi al vostro rappresentante planetario e al più vicino tempio della Chiesa Shrike. Il numero del vostro tempio più vicino dovrebbe comparire in sovrimpressione in questo istante.» Si rivolse a Sol. «Le auguriamo buona fortuna, signor Weintraub. E…» la grossa mano di Whiteshire sfiorò la guancia di Rachel «ti auguriamo buon viaggio, piccola amica.»

L’inquadratura si soffermò su Rachel e si dissolse lentamente.


L’effetto Hawking provocava nausea, vertigini, emicrania e allucinazioni. Il primo tratto del viaggio fu il percorso di dieci giorni fino a Parvati, sulla nave-torcia dell’Egemonia EA Intrepido.

Sol tenne stretta Rachel e sopportò. Erano le uniche due persone coscienti a bordo della nave da guerra. Dapprima Rachel pianse, ma dopo qualche ora rimase quieta fra le braccia di Sol a fissarlo con gli occhi grandi e scuri. Sol ricordò il giorno in cui era nata: i medici avevano sollevato la neonata dal caldo ventre di Sarai e l’avevano data a Sol. A quel tempo, i capelli scuri di Rachel non erano molto più corti di adesso, e lo sguardo non era meno intenso.

Alla fine s’addormentarono, per pura e semplice stanchezza.

Sol sognò di vagare in un edificio con colonne grandi come sequoie e il soffitto che si perdeva molto in alto. Una luce rossa bagnava un gelido vuoto. Sol fu sorpreso di scoprire che portava ancora in braccio Rachel. In precedenza, Rachel bambina non era mai comparsa nei suoi sogni. Ora la neonata lo guardò e Sol sentì con certezza il contatto della sua coscienza, come se la piccina avesse parlato a voce alta.

All’improvviso, una voce diversa, immensa e gelida, echeggiò nel vuoto:


Sol! Prendi tua figlia, la tua unica figlia Rachel da te amata; vai sul mondo chiamato Hyperion e offrila come olocausto in uno dei luoghi che ti dirò.


Sol esitò, guardò Rachel. Gli occhi della piccina, intensi e luminosi, fissavano il padre. Sol sentì il inespresso. Tenendola stretta, avanzò nelle tenebre e alzò la voce a rompere il silenzio:


Ascolta! Non ci saranno più offerte, né di figli né di genitori. Non ci saranno più sacrifici a nessun altro che ai nostri fratelli umani. Il tempo dell’ubbidienza e della redenzione è finito.


Sol tese l’orecchio. Sentiva il battito del suo cuore e il calore di Rachel contro il braccio. Da qualche parte, in alto, arrivò un rumore di vento gelido fra invisibili fessure. Sol si portò alle labbra la mano a coppa e gridò:


È tutto! Adesso, o ci lasci in pace, o ti unisci a noi come padre, non come destinatario di sacrifici. Hai la scelta di Abramo!


Rachel si agitò fra le sue braccia, quando un rombo salì dal pavimento di pietra. Le colonne vibrarono. Il bagliore rossastro s’incupì, poi di colpo si spense, lasciando solo il buio. Da lontano giunse il rimbombo di passi giganteschi. Sol strinse a sé Rachel mentre un vento violento li colpiva.

Ci fu un bagliore di luce, mentre lui e Rachel si svegliavano a bordo della AE Intrepido, diretta a Parvati, per il trasbordo sulla nave-albero Yggdrasill e il viaggio a Hyperion. Sol sorrise alla figlioletta di sette settimane. Lei gli restituì il sorriso.

Fu il suo ultimo, o il suo primo, sorriso.

Nella cabina principale del carro a vela cadde il silenzio, quando l’anziano studioso terminò il racconto. Sol si schiarì la gola e bevve un sorso d’acqua dal bicchiere di cristallo. Rachel dormiva nella sua culla di fortuna, il cassetto aperto. Il carro a vela dondolava lievemente nel procedere; il brontolio della grande ruota e il ronzio del giroscopio principale erano un rumore di fondo che quietava l’animo.

— Dio mio — disse piano Brawne Lamia. Aprì la bocca per continuare, poi si limitò a scuotere la testa.

Martin Sileno chiuse gli occhi e disse:

Considerato che, rimosso tutto l’odio,

l’anima riacquista radicale innocenza

e impara infine che è per essa delizioso,

appagante, allarmante,

e che il suo dolce volere è volere del Cielo;

lei può, anche se ogni viso s’acciglia

e ulula il vento da ogni quadrante

o soffia ogni mantice, essere ancora felice.

— William Butler Yeats? — domandò Sol Weintraub.

Sileno annuì. — “Preghiera per mia figlia”.

— Vado sul ponte a prendere una boccata d’aria, prima di mettermi a letto — disse il Console. — Qualcuno ha voglia di farmi compagnia?

Tutti annuirono. La brezza provocata dal movimento del carro era rinfrescante, mentre dal casseretto guardavano passare fra i brontolii il rabbuiato mare d’Erba. Il cielo era un’enorme coppa schizzata di stelle e graffiata dalla scia delle meteoriti. Le vele e il sartiame scricchiolavano con un rumore antico quanto il viaggio umano.

— Credo che sia meglio mettere delle sentinelle, stanotte — disse il colonnello Kassad. — Uno di guardia, mentre gli altri dormono. Turni di due ore.

— Sono d’accordo — disse il Console. — Faccio io il primo.

— Domattina… — cominciò Kassad.

— Guardate! — esclamò padre Hoyt.

Seguirono l’indicazione del suo braccio. Fra lo splendore delle costellazioni, brillarono globi di fuoco colorato… verde, viola, arancione, verde ancora… che illuminarono la vasta piana d’erba come fulmini da calore. Le stelle e le scie meteoriche impallidirono, insignificanti di fronte all’improvviso spettacolo.

— Esplosioni? — azzardò il prete.

— Battaglia spaziale — disse Kassad. — Cislunare. Armi a fusione. — Scese rapidamente di sotto.

— L’Albero — disse Het Masteen, indicando un puntino luminoso che si muoveva fra le esplosioni come una favilla in uno spettacolo pirotecnico.

Kassad tornò portando il binocolo elettronico e lo passò in giro.

— Ouster? — domandò Lamia. — L’invasione?

— Ouster, quasi certamente — rispose Kassad. — Ma solo una squadra esplorativa, direi. Vede quei grappoli? Sono missili dell’Egemonia intercettati dagli antimissili Ouster.

Il binocolo toccò al Console. Ora i lampi erano chiarissimi, cumuli di fuoco in espansione. Il Console distingueva il puntino e la lunga scia azzurra di almeno due vedette che sfuggivano agli inseguitori dell’Egemonia.

— Non credo… — iniziò Kassad; s’interruppe, mentre carro, vele e mare d’Erba brillavano d’un vivido arancione, nel riflesso.

— Sant’Iddio — mormorò padre Hoyt. — Hanno colpito la nave-albero.

Il Console spostò di scatto a sinistra il binocolo. Il crescente nimbo di fuoco si vedeva a occhio nudo, ma col binocolo il tronco lungo dieci chilometri e lo spiegamento di rami dell’Yggdrasill fu visibile per un istante, mentre ardeva e avvampava, con lunghi filamenti di fuoco che s’inarcavano nello spazio mentre i campi di contenimento cedevano e l’ossigeno bruciava. La nube arancione pulsò, impallidì, ricadde su se stessa; il tronco tornò visibile per un ultimo istante, poi avvampò e si spezzò come l’ultimo lungo tizzone d’un fuoco morente. Nulla poteva essere sopravvissuto. La nave-albero Yggdrasill, con il suo equipaggio, il complemento di cloni e di semisenzienti erg motori, era morta.

Il Console si rivolse a Het Masteen e con gesto tardivo gli tese il binocolo. — Mi… mi spiace davvero — mormorò.

L’alto Templare non prese il binocolo. Lentamente distolse lo sguardo dal cielo, si tirò sugli occhi il cappuccio e senza una parola scese di sotto.

La morte della nave-albero fu l’esplosione conclusiva. Passarono dieci minuti senza che altri lampi turbassero la notte. — Credete che li abbiano presi? — disse Brawne Lamia.

— Gli Ouster? — disse Kassad. — Probabilmente no. Le vedette sono costruite per la velocità e l’autodifesa. Ormai saranno a minuti-luce di distanza.

— Hanno assalito di proposito la nave-albero? — chiese Sileno. Il poeta sembrava del tutto sobrio.

— Non penso — rispose Kassad. — Un semplice bersaglio casuale.

— Bersaglio casuale — ripeté Sol Weintraub. Scosse la testa. — Vado a dormire qualche ora, prima dell’alba.

A uno a uno, anche gli altri scesero. Quando sul ponte rimase solo Kassad, il Console disse: — Dove dovrei montare la guardia?

— Faccia il giro — disse il colonnello. — Dal corridoio principale in fondo alla scaletta si vedono la porta di ogni cabina e l’ingresso della mensa e della cambusa. Salga a controllare passerella e ponti. Tenga accese le lanterne. È armato?

Il Console scosse la testa.

Kassad gli diede la neuroverga. — È regolata sul raggio compatto, circa mezzo metro fino a dieci metri di portata. Non l’adoperi se non è sicuro della presenza di intrusi. La piastrina ruvida che scorre in avanti è la sicura. Al momento è inserita.

Il Console annuì, badando bene a tenere il dito a distanza dal pulsante di sparo.

— Salgo a darle il cambio fra due ore — disse Kassad. Controllò il comlog. — Prima che il mio turno finisca, sarà l’alba. — Guardò il cielo, come se si aspettasse che l’Yggdrasill ricomparisse a riprendere il suo cammino luminoso. Solo le stelle splendevano. Lungo l’orizzonte di nordest, una massa mobile nera prometteva tempesta.

Kassad scosse il capo. — Che spreco — disse. E scese sottocoperta.

Per un po’ il Console rimase ad ascoltare il vento contro le vele, i rumori del sartiame, il brontolio della ruota. Poi andò al parapetto e fissò le tenebre, pensieroso.

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