5

L’alba sopra il mare d’Erba era uno spettacolo bellissimo. Il Console lo ammirò dal punto più alto del ponte di poppa. Dopo il suo turno di guardia aveva cercato di dormire, ci aveva rinunciato ed era tornato in coperta a guardare la notte impallidire nel giorno. Il fronte di tempesta aveva coperto di basse nubi il cielo; il sole nascente accendeva il mondo d’oro vivido, riflesso dall’alto e dal basso. Le vele e le funi del carro a vela e le assi logore brillarono nella breve benedizione di luce, nei pochi momenti prima che il sole venisse oscurato dal soffitto di nuvole e ancora una volta i colori sparissero dal mondo. Il vento che seguì il chiudersi di quel sipario era gelido, quasi soffiasse dai picchi innevati della Briglia, appena visibili come una scura massa confusa contro l’orizzonte di nordest.

Brawne Lamia e Martin Sileno si unirono al Console sul ponte di poppa, reggendo ciascuno una tazza di caffè. Il vento agitò e tirò le sartie. La folta massa di ricci svolazzò intorno al viso di Brawne Lamia, come un nimbo scuro.

— ’Giorno — brontolò Sileno, guardando a occhi socchiusi, sopra la tazza di caffè, il mare d’Erba increspato dal vento.

— Buon giorno — rispose il Console, stupito di sentirsi così attento e rinvigorito dopo la totale mancanza di sonno della notte precedente. — Abbiamo vento contrario, ma sembra che il carro proceda lo stesso a una buona velocità. Arriveremo senz’altro alle montagne, prima di sera.

— Grrnn — commentò Sileno e tuffò il naso nella sua tazza di caffè.

— Stanotte non ho chiuso occhio — disse Brawne Lamia. — Pensavo alla storia di Weintraub.

— Non credo… — cominciò il poeta, ma s’interruppe: Weintraub era comparso sul ponte, con la piccina che guardava fuori dall’orlo del porta-neonati appeso al collo del padre.

— Buon giorno a tutti — disse Weintraub, guardandosi intorno e inspirando a fondo. — Uhm, fresco, vero?

— Un freddo di merda — disse Sileno. — A nord delle montagne sarà anche peggio.

— Scendo a prendermi la giacca — disse Lamia; ma prima che potesse muoversi, dal ponte sottostante arrivò un grido acuto.

Sangue!


Infatti c’era sangue dappertutto. La cabina di Het Masteen era singolarmente in ordine… letto intatto, bagagli ben impilati in un angolo, veste ripiegata con cura sulla sedia… a parte il sangue che ricopriva grandi zone di pavimento, pareti e soffitto. I sei pellegrini si affollarono sulla soglia, riluttanti a entrare.

— Salivo sul ponte — disse padre Hoyt, con voce inespressiva. — La porta era socchiusa. Passando, ho visto… la macchia di sangue sulla parete.

— È davvero sangue? — domandò Martin Sileno.

Brawne Lamia entrò nella cabina, toccò la macchia sulla paratia, si portò alle labbra il dito. — Sangue — confermò. Si guardò intorno, andò all’armadio, diede una rapida occhiata ai ripiani vuoti e alle grucce, poi esaminò il piccolo oblò. Era chiuso a chiavistello dall’interno.

Lenar Hoyt sembrò star più male del solito; barcollando, si lasciò cadere sulla sedia. — Allora è morto?

— Sappiamo solo che il capitano Masteen non è in cabina e che c’è invece un mucchio di sangue — disse Lamia. Si pulì la mano sulla gamba dei calzoni. — Non ci resta che perquisire attentamente la nave.

— Infatti — disse il colonnello Kassad. — E se non troviamo il capitano?

Brawne Lamia aprì l’oblò. L’aria fresca portò via l’odore di mattatoio e lasciò entrare il borbottio della ruota e il fruscio dell’erba contro la chiglia. — Se non troviamo il capitano Masteen — disse la donna — allora possiamo supporre che abbia lasciato la nave di sua spontanea volontà oppure che sia stato portato via.

— Ma tutto questo sangue… — iniziò padre Hoyt.

— Non dimostra nulla — terminò Kassad. — Lamia ha ragione. Non conosciamo il tipo né il genotipo del sangue di Masteen. Uno di noi ha visto o sentito qualcosa?

Seguirono solo brontolii e cenni di diniego.

Martin Sileno si guardò intorno. — Non riconoscete l’opera del nostro amico Shrike, quando la vedete?

— Non è detto — replicò Lamia. — Forse qualcuno vuole proprio farci credere che sia opera dello Shrike.

— Non ha senso — disse Hoyt, ancora con il fiato mozzo.

— Comunque — disse Lamia — faremo una ricerca a coppie. Chi ha un’arma, oltre me?

— Io — rispose il colonnello Kassad. — Ne ho altre di scorta, se occorre.

— Io no — disse Hoyt.

Il poeta scosse la testa.

Sol Weintraub era tornato con la figlia nel corridoio. Ora guardò di nuovo nella cabina. — Io non ho niente — disse.

— Nemmeno io — aggiunse il Console. Due ore prima, al termine del turno di guardia, aveva restituito a Kassad la neuroverga.

— E va bene — disse Brawne Lamia. — Il prete scenderà con me nel ponte inferiore. Sileno, vai con il colonnello: perquisite il ponte di mezzo. Weintraub e il Console guarderanno sul ponte superiore. Cercate qualsiasi cosa d’inconsueto, qualsiasi segno di lotta.

— Una domanda — disse Sileno.

— Cioè?

— Chi diavolo ti ha eletta regina del ballo?

— Sono un’investigatrice privata — rispose Lamia fissando il poeta.

Martin Sileno scrollò le spalle. — Hoyt è prete di una religione dimenticata, ma non significa che dobbiamo genufletterci, quando dice messa.

— D’accordo — sospirò Brawne Lamia. — Ti darò una ragione migliore. — La donna si mosse con tale rapidità che il Console quasi si perse l’azione. Un attimo prima era ferma accanto all’oblò, un attimo dopo era in mezzo alla cabina, con un braccio sollevava in aria Martin Sileno e con la mano robusta gli stringeva il collo sottile. — Che ne pensi di fare la cosa più logica perché è l’unica da fare?

— Gkkrgghh — riuscì a emettere Martin Sileno.

— Bene — disse Lamia, senza emozione. Lo lasciò cadere a terra. Sileno barcollò per un metro e quasi andò a sedersi in grembo a padre Hoyt.

— Ecco qui — disse Kassad. Era andato a prendere due piccoli stordi tori neurali. Ne tese uno a Sol Weintraub. — Lei che cos’ha? — domandò a Lamia.

Da una tasca dell’ampia veste la donna tirò fuori un’antica pistola.

Per un istante Kassad fissò la reliquia, poi annuì. — Resti insieme al suo compagno — disse. — Non spari a niente, se non è sicura di cosa sia, e che rappresenti una chiara minaccia.

— L’esatta descrizione della puttana a cui intendo sparare — disse Sileno, massaggiandosi ancora la gola.

Brawne Lamia mosse un passo in direzione del poeta. Fedmahn Kassad intervenne: — Chiuda il becco. Piantiamola qui. — Sileno seguì il colonnello fuori della cabina.

Sol Weintraub si avvicinò al Console e gli diede lo storditore. — Non voglio tenere Rachel e questa roba. Saliamo?

Il Console prese l’arma e annuì.


Il carro a vela non conteneva altre tracce della Voce Templare dell’Albero Het Masteen. Dopo un’ora di ricerche, il gruppo si riunì nella cabina dello scomparso. Il sangue sembrò più scuro e più secco.

— Possibile che ci sia sfuggito qualcosa? — disse padre Hoyt. — Un passaggio segreto? Uno scomparto nascosto?

— La possibilità esiste — disse Kassad. — Ma ho esaminato la nave con sensori di calore e di movimento. Se a bordo c’è una creatura più grossa d’un topo, non l’ho trovata.

— Se aveva i sensori — disse Sileno — perché cazzo ci ha fatto strisciare per un’ora fra sentine e passaggi polverosi?

— Perché esistono apparecchiature in grado di nascondere un uomo ai sensori.

— Allora, in risposta alla mia domanda — disse Hoyt esitando un secondo, visibilmente colpito da un’ondata di dolore — con i congegni adatti il capitano Masteen potrebbe tuttora essere nascosto in uno scomparto segreto chissà dove.

— Possibile, ma improbabile — disse Brawne Lamia. — Secondo me, non si trova più a bordo.

— Lo Shrike — disse Martin Sileno, in tono disgustato. Non era una domanda.

— Forse — ammise Lamia. — Colonnello, lei e il Console eravate di guardia, in quelle quattro ore. Siete sicuri di non avere visto e sentito nulla?

I due annuirono.

— La nave era silenziosa — disse Kassad. — Avrei sentito dei rumori di lotta, prima di montare di guardia.

— E io non ho dormito, dopo il mio turno — disse il Console. — La mia cabina è adiacente a quella di Masteen. Non ho sentito niente.

— Bene — disse Sileno. — Abbiamo ascoltato la testimonianza dei due che si aggiravano armati nel buio, mentre il povero stronzo veniva ucciso. Dicono d’essere innocenti. Avanti il prossimo!

— Se Masteen è stato ucciso — disse Kassad — non hanno usato una neuroverga. Non conosco armi moderne e silenziose che provochino tanto spargimento di sangue. Nessuno ha sentito dei colpi d’arma da fuoco, né ha trovato fori di proiettile: quindi presumo che l’automatica della signora Lamia non sia sospetta. Se questo è il sangue del capitano Masteen, direi che è stata usata un’arma bianca.

— Lo Shrike stesso è un’arma bianca — disse Martin Sileno.

Lamia si accostò al piccolo mucchio di bagagli. — Discutere non risolverà niente. Vediamo se c’è qualcosa nei bagagli di Masteen.

Padre Hoyt alzò la mano, esitando. — Sono cose… come dire, private, no? Non ne abbiamo il diritto.

Brawne Lamia incrociò le braccia. — Senta, padre, se Masteen è morto per lui non cambia niente. Se è ancora vivo, guardare nella sua roba potrebbe darci un’idea di dove è stato portato. In tutt’e due i casi, dobbiamo cercare un indizio.

Hoyt sembrò dubbioso, ma annuì. Alla fine, la violazione dell’intimità di Masteen fu minima: la prima cassa conteneva solo qualche cambio di biancheria e una copia del Libro di vita del Muir; la seconda, un centinaio di piantine di semenzaio, confezionate separatamente, sottoposte a essiccamento rapido e conservate in terriccio umido.

— I Templari devono piantare, in ogni nuovo mondo che visitano, almeno un centinaio di germogli dell’Albero Eterno — spiegò il Console. — Raramente le piantine attecchiscono, ma loro devono seguire il rituale.

Brawne Lamia si accostò alla grossa scatola metallica in fondo al mucchio.

— Non la tocchi! — esclamò, brusco, il Console.

— Perché no?

— È un cubo di Moebius — spiegò il colonnello Kassad. — Un guscio carbonio-carbonio posto intorno a un campo di contenimento a impedenza zero e ripiegato su se stesso.

— E allora? — replicò Lamia. — I cubi di Moebius racchiudono manufatti e altre cose. Non esplodono né fanno brutti scherzi.

— No — ammise il Console — ma quel che contengono può esplodere. Anzi, il contenuto potrebbe già essere esploso, per quanto ne sappiamo.

— Un cubo di questa grandezza potrebbe tenere in iscacco un’esplosione nucleare di un chilotone, se imprigionata nel nanosecondo dell’accensione — aggiunse Fedmahn Kassad.

Accigliata, Lamia fissò la scatola metallica. — Allora come facciamo a stabilire che non è stato il contenuto a uccidere Het Masteen?

Kassad indicò una striscia fiocamente illuminata di verde, lungo l’unico segno di giunzione della scatola. — È ancora sigillato. Una volta aperto, un cubo di Moebius dev’essere riattivato in un ambiente in cui sia possibile generare un campo di contenimento. Qualunque cosa ci sia lì dentro, non ha danneggiato il capitano Masteen.

— Allora è impossibile scoprire il contenuto? — rifletté Lamia.

— Io ho un sospetto attendibile — disse il Console.

Gli altri lo fissarono. Rachel si mise a piangere e Sol tirò la linguetta di riscaldamento di un biberon.

— Ricordate che ieri, a Limito, Masteen ha fatto un po’ di chiasso, a proposito del cubo? — disse il Console. — Ne parlava come se fosse un’arma segreta.

— Un’arma? — disse Lamia.

— Elementare! — esclamò all’improvviso Kassad. — Un erg!

— Un erg? — Martin Sileno fissò la cassa. — Credevo che gli erg fossero quei campi di forza semicoscienti che i Templari usano nelle loro navi-albero.

— Infatti — disse il Console. — Queste creature furono scoperte circa tre secoli fa, sugli asteroidi intorno ad Aldebaran. Corpo grosso come una spina dorsale di gatto, sistema nervoso in gran parte piezoelettrico incapsulato in una cartilagine di silicio; ma si cibano, e si avvalgono, di campi di forza grandi come quelli generati da piccole spin-navi.

— Ma come si fa a infilare tutto questo in una cassa così piccola? — domandò Martin Sileno, fissando il cubo di Moebius. — Con gli specchi?

— In un certo senso — disse Kassad. — Il campo della creatura viene smorzato… non basta a nutrirla, ma non la lascia morire di fame. Un po’ come la crio-fuga per noi. Inoltre, questo erg dovrebbe essere piuttosto piccolo. Un cucciolo, per così dire.

Lamia passò la mano sul rivestimento metallico. — I Templari controllano queste creature? Comunicano con loro?

— Sì — rispose Kassad. — Nessuno sa esattamente come. È un segreto della Confraternita. Ma Het Masteen certo confidava che l’erg l’avrebbe aiutato contro…

— Lo Shrike — terminò Martin Sileno. — Il Templare pensava che questo spiritello d’energia sarebbe stato la sua arma segreta, quando si fosse trovato di fronte al Signore della Sofferenza. — Si mise a ridere.

Padre Hoyt si schiarì la voce. — La Chiesa ha accettato l’ordinanza dell’Egemonia secondo la quale queste… creature… questi erg, non sono esseri coscienti… e quindi non sono candidati alla salvezza eterna.

— Oh, sono coscienti eccome, padre — disse il Console. — Percepiscono le cose molto meglio di quanto non immaginiamo. Ma se lei intende intelligenti… consapevoli di sé… allora si trova di fronte a qualcosa sul genere della cavalletta intelligente. Le cavallette sono candidate alla salvezza eterna?

Hoyt non rispose. Brawne Lamia disse: — Bene, è chiaro che, secondo il capitano Masteen, questa creatura sarebbe stata la sua salvezza. Ma qualcosa è andato storto. — Girò lo sguardo sulle paratie insanguinate e le macchie di sangue rappreso per terra. — Usciamo di qui.


Il carro a vela bordeggiò sotto le raffiche di vento sempre più violente della tempesta che si avvicinava da nordest. Sbrindellati pavesi di nuvole correvano, bianchi, sotto il soffitto basso e grigio del fronte temporalesco. L’erba si agitava e si piegava sotto il vento gelido. Arabeschi di fulmini illuminavano l’orizzonte ed erano seguiti dal brontolio di tuoni simili a spari d’avvertimento davanti alla prua del carro. I pellegrini rimasero a guardare in silenzio finché le prime gocce di pioggia gelida non li costrinsero a rifugiarsi nell’ampia cabina di poppa.

— Questa era nella tasca della sua veste — disse Brawne Lamia, mostrando una strisciolina di carta con il numero 5.

— Quindi sarebbe toccato a Masteen raccontare la sua storia — brontolò il Console.

Martin Sileno inclinò la sedia fino a toccare con la spalliera la lunga finestra. I lampi davano un’aria lievemente demoniaca ai suoi lineamenti da satiro. — C’è un’altra possibilità — disse Sileno. — Forse qualcuno che non ha ancora raccontato la sua storia ha ucciso il Templare per cambiare l’ordine.

Lamia fissò il poeta. — In questo caso, si tratterebbe del Console o di me — disse, con voce inespressiva.

Sileno scrollò le spalle.

Brawne Lamia tirò fuori la sua strisciolina. — Ho il 6. Cosa avrei concluso? Toccherebbe sempre a me.

— Allora forse quel che Masteen avrebbe detto ha reso necessario zittirlo per sempre — disse Sileno. Scrollò di nuovo le spalle.

— Secondo me, lo Shrike ha iniziato a mietere fra noi. Perché dovrebbe lasciarci arrivare alle Tombe del Tempo, quando massacra la gente a metà strada tra qui e Keats?

— È diverso — disse Sol Weintraub. — Questo è il Pellegrinaggio allo Shrike.

— E allora?

Nel silenzio che seguì, il Console si accostò alle finestre. Torrenti di pioggia spinti dal vento oscuravano il mare e risuonavano contro i vetri piombati. Il carro scricchiolò e s’inclinò pesantemente a dritta, mentre iniziava un altro tratto di percorso.

— Signora Lamia — disse Kassad — ha voglia di raccontare la sua storia adesso?

Lamia incrociò le braccia e guardò il vetro rigato di pioggia. — No. Aspettiamo di lasciare questa maledetta nave. Puzza di morte.


A metà pomeriggio il carro a vela arrivò al porto di Riposo del Pellegrino, ma la tempesta e la luce stanca diedero agli esausti passeggeri l’impressione che fosse già tarda sera. Il Console s’aspettava che dei rappresentanti del Tempio Shrike fossero lì ad accoglierli: dopotutto erano all’inizio della penultima tappa del viaggio. Ma Riposo del Pellegrino sembrava deserto come Limito. L’avvicinarsi alle alture pedemontane e la prima vista della Briglia erano uno spettacolo entusiasmante quanto quello di qualsiasi atterraggio, e spinse sul ponte i sei futuri pellegrini nonostante la pioggia gelida che continuava a cadere. Le alture pedemontane erano brulle e sensuali: il marrone delle curve e degli improvvisi sollevamenti contrastava con il verde monocromatico del mare d’Erba. Più in là, i picchi alti novemila metri erano solo suggeriti da piani grigi e bianchi presto intersecati da basse nubi; ma, anche così tronchi, erano uno spettacolo grandioso. La linea delle nevi scendeva fino a un punto appena al di sopra dell’ammasso di baracche bruciate e di alberghetti scadenti che era stato Riposo del Pellegrino.

— Se hanno distrutto la funivia, siamo fritti — brontolò il Console. Il pensiero, trattenuto fino a quel momento, gli strinse lo stomaco.

— Vedo i primi cinque — disse il colonnello Kassad, usando il binocolo elettronico. — Sembrano intatti.

— Segni di cabine?

— No… un momento, sì. Ce n’è una al cancello della piattaforma della stazione.

— Nessuna in movimento? — domandò Martin Sileno, che chiaramente capiva quanto sarebbe stata disperata la loro situazione se la funivia non era intatta.

— No.

Il Console scosse la testa. Anche con le peggiori condizioni atmosferiche e in assenza di passeggeri, le cabine erano tenute sempre in movimento per mantenere flessibili e privi di ghiaccio i grossi cavi.

I sei avevano portato i bagagli sul ponte ancor prima che il carro terzalorasse le vele e spingesse fuori la passerella. Ora ognuno indossava un pesante cappotto per difendersi dagli elementi: Kassad aveva un termomantello mimetico della FORCE; Brawne Lamia portava un lungo indumento, chiamato termotrench per ragioni ormai dimenticate; Martin Sileno era avvolto in una folta pelliccia che s’increspava ora in nero, ora in grigio, secondo i capricci del vento; padre Hoyt indossava un lungo cappotto nero che lo rendeva ancora più simile a uno spaventapasseri; Sol Weintraub era infagottato con la figlia in uno spesso piumone; il Console portava il leggero ma caldo cappotto regalatogli alcuni decenni prima dalla moglie.

— E le cose del capitano Masteen? — domandò Sol, mentre erano fermi all’estremità della passerella. Kassad era andato avanti a fare il sopralluogo del villaggio.

— Le ho prese io — rispose Lamia. — Le porteremo con noi.

— Non mi sembra giusto — disse padre Hoyt. — Proseguire così, intendo. Dovrebbe esserci una sorta di… di servizio funebre, ecco. L’attestazione della morte d’un uomo.

— Della presunta morte — gli ricordò Lamia, sollevando con facilità e con una sola mano quaranta chili di zaino.

Hoyt la fissò, incredulo. — Pensa davvero che Masteen sia ancora vivo?

— No — rispose Lamia. Fiocchi di neve si posarono sui suoi capelli neri.

In fondo al pontile, Kassad agitò il braccio e loro scaricarono dal silenzioso carro a vela i bagagli. Nessuno si guardò indietro.

— Deserto? — gridò Lamia, mentre si avvicinavano al colonnello. Il mantello di Kassad, come un camaleonte, passava continuamente dal grigio al nero.

— Deserto.

— Cadaveri?

— No. — Kassad si rivolse a Sol e al Console. — Avete preso le cose in cambusa?

Tutt’e due annuirono.

— Quali cose? — chiese Sileno.

— Cibo per una settimana — rispose Kassad girandosi a guardare la stazione della funivia più in alto sulla collina. Per la prima volta il Console notò che l’uomo teneva nell’incavo del braccio un lungo fucile d’assalto, appena visibile sotto il mantello. — Non sappiamo se da qui in poi c’è la possibilità di rifornirsi.

“Saremo ancora vivi, da qui a una settimana?” si chiese il Console. Ma non disse niente.

In due viaggi trasportarono alla stazione i bagagli. Il vento sibilava tra le finestre senza vetri e le cupole cadenti degli edifici bui. Nel secondo viaggio trasportarono il cubo di Moebius: il Console lo reggeva da una parte; Hoyt, ansimando e sbuffando, dall’altra.

— Perché portiamo con noi l’erg? — chiese Hoyt con il fiato grosso quando arrivarono alla base della scala di metallo che portava alla stazione. Ruggine simile a licheni arancione striava e macchiava la piattaforma.

— Non so — rispose il Console, anche lui a corto di fiato. Dalla piattaforma del terminal si aveva una buona visuale del mare d’Erba. Il carro a vela era rimasto dove si era fermato, con le vele terzarolate: un oggetto buio e privo di vita. Turbini di neve si muovevano sulla prateria e davano l’illusione di creste d’onda sugli innumerevoli steli d’erba alta.

— Portate tutto a bordo — disse Kassad. — Vado a vedere se dalla cabina dell’operatore, lassù, si può rimettere in funzione il meccanismo di movimento.

— Non è automatico? — domandò Martin Sileno, con la testa quasi persa nella folta pelliccia. — Come il carro a vela?

— Non credo — rispose Kassad. — Andate dentro, mentre io vedo se riesco a farlo funzionare.

— E se parte senza di lei? — disse Lamia, mentre il colonnello si allontanava.

— Non accadrà.


L’interno della cabina era freddo e spoglio, a parte le panche metalliche dello scompartimento anteriore e una decina di rozze cuccette nella zona posteriore, meno ampia. La cabina era molto grande, almeno otto metri per cinque. Una sottile paratia di metallo, con un’apertura senza battente, separava lo scompartimento posteriore da quello anteriore. Un piccolo gabinetto grosso quanto un armadio occupava un angolo di quello posteriore. Finestre che inziavano all’altezza della vita e arrivavano al soffitto erano disposte lungo quello anteriore.

I pellegrini ammucchiarono al centro i bagagli e si misero a battere i piedi e a muovere le braccia per scaldarsi. Martin Sileno si distese su una panca: un mucchio di pelliccia dal quale spuntavano solo i piedi e la testa. Disse: — Non ricordo più come cazzo s’accende il riscaldamento, in questo trabiccolo.

Il Console lanciò un’occhiata ai pannelli con le spie spente. — Funziona a elettricità. Si accenderà quando il colonnello farà muovere la cabina.

— Se ci riesce — replicò Sileno.

Sol Weintraub, che aveva cambiato il pannolino a Rachel, la avvolse di nuovo nella tuta termica per neonati e la cullò fra le braccia. — Qui non ci sono mai stato, ovviamente — disse. — Voi due sì, invece?

— Già — rispose il poeta.

— No — disse il Console. — Ma ho visto delle foto della funivia.

— Kassad ha detto di essere tornato a Keats con questo mezzo una volta — intervenne Lamia dall’altro scompartimento.

— Credo… — iniziò Sol Weintraub, ma fu interrotto da un rumoroso sferragliare di meccanismi e da uno scarto improvviso della lunga cabina che si mise a dondolare tanto da dare la nausea e poi scivolò in avanti sotto l’improvvisa trazione del cavo. Tutti si precipitarono alla finestra sul lato rivolto alla piattaforma.

Kassad, che aveva portato a bordo i suoi bagagli prima di salire la lunga scaletta fino alla postazione dell’operatore, comparve sulla soglia del gabbiotto, scese rapidamente i gradini e corse verso la cabina che stava già passando al di là dell’area di caricamento della piattaforma.

— Non ce la farà — mormorò padre Hoyt.

Negli ultimi dieci metri Kassad accelerò, muovendo le lunghe gambe incredibilmente in fretta, come un cartone animato.

La cabina scivolò oltre la piattaforma di carico e si staccò dalla stazione, lasciando uno spazio vuoto di otto metri sopra le rocce. Il pavimento della piattaforma era striato di ghiaccio. Kassad corse a tutta velocità mentre la cabina s’allontanava.

— Forza! — gridò Brawne Lamia. Gli altri si unirono al grido.

Il Console alzò gli occhi verso la crosta di ghiaccio che si rompeva e cadeva dal cavo mentre la cabina cominciava a salire. Guardò indietro. Il varco era troppo ampio. Kassad non ce l’avrebbe mai fatta.

Fedmahn Kassad correva a una velocità incredibile, quando raggiunse l’orlo della piattaforma. Per la seconda volta ricordò al Console il ghepardo della Vecchia Terra visto in uno zoo di Lusus. Il Console quasi si aspettava di vedere i piedi del colonnello scivolare sopra una lastra di ghiaccio, le lunghe gambe volare orizzontalmente, l’uomo cadere senza un grido sulle rocce sottostanti coperte di neve. Invece Kassad sembrò volare per un istante senza fine, con le braccia allargate e il mantello svolazzante. Sparì dietro la cabina.

Si sentì un tonfo sordo, seguito da un lungo minuto in cui nessuno si mosse né aprì bocca. Ora si trovavano solo a quaranta metri d’altezza e salivano verso il primo pilone. Un istante dopo, Kassad comparve all’angolo della cabina: si arrampicava sfruttando una serie di appigli ghiacciati infissi nel metallo. Brawne Lamia spalancò la porta. Dieci mani lo aiutarono a entrare.

— Grazie a Dio — disse padre Hoyt.

Il colonnello inspirò a fondo e sorrise con aria torva. — C’era un freno di sicurezza. Ho dovuto bloccare con un sacchetto di sabbia la leva. Non volevo riportare indietro la cabina per un secondo tentativo.

Martin Sileno indicò il pilone di sostegno che s’avvicinava rapidamente e il tetto di nubi appena più in là. Il cavo si tendeva in alto, nell’oblio. — Credo che ora, lo vogliamo o no, attraverseremo le montagne.

— Quanto occorre per compiere la traversata? — domandò Hoyt.

— Dodici ore. Un po’ meno, forse. A volte gli operatori fermano la cabina, se il vento diventa troppo forte o se c’è molto ghiaccio.

— In questo viaggio non ci saranno fermate — disse Kassad.

— A meno che il cavo non si spezzi — replicò il poeta. — O che si vada a sbattere contro una sporgenza rocciosa.

— Chiudi il becco — disse Lamia. — A chi interessa scaldare un po’ di cena?

— Guardate — disse il Console.

Si accostarono tutti alla finestra anteriore. La cabina si alzò d’un centinaio di metri sopra l’ultima curva marrone delle alture ai piedi delle montagne. Chilometri più in basso e più indietro, colsero l’ultima fuggevole vista della stazione, delle tormentate baracche di Riposo del Pellegrino e dell’immobile carro a vela.

Poi furono avvolti dalla neve e dalle fitte nubi.


La cabina della funivia non aveva vere e proprie attrezzature per cucinare, ma nella paratia anteriore c’erano un frigo e un forno a microonde. Lamia e Weintraub misero insieme un po’ di carne e di verdura che avevano preso nella cambusa del carro a vela e prepararono uno stufato passabile. Martin Sileno aveva portato con sé delle bottiglie di vino, prese sia dalla Benares sia dal carro: per accompagnare lo stufato scelse un borgogna d’Hyperion.

Avevano quasi terminato di cenare, quando il buio che premeva contro le finestre si diradò e poi svanì del tutto. Il Console si girò sulla panca a guardare l’improvvisa ricomparsa del sole, che riempì di un’irreale luce dorata la cabina.

Dal gruppetto si alzò un sospiro collettivo. Era sembrato che l’oscurità fosse già scesa da ore; ma adesso, mentre s’innalzavano al di sopra d’un mare di nubi dal quale si levava una catena di montagne, godevano la vista di un luminoso tramonto. Il cielo d’Hyperion si era incupito dal glauco splendore del giorno all’azzurro profondo della sera, mentre il sole color oro rosso accendeva le torri di nubi e le grandi vette di ghiaccio e di roccia. Il Console si guardò intorno. Gli altri pellegrini, grigi e piccoli nella fioca luce di mezzo minuto prima, risplendevano adesso dell’oro del tramonto.

Martin Sileno alzò il bicchiere. — Così è meglio, perdio!

Il Console alzò gli occhi verso la traiettoria del viaggio, il massiccio cavo che più avanti rimpiccioliva fino a sembrare filiforme e poi si perdeva nel nulla. Sulla vetta a parecchi chilometri di distanza, la luce dorata si rifletteva contro il successivo pilone di sostegno.

— Centonovantadue piloni — disse Sileno, con la stanca cantilena di una guida turistica. — Ogni pilone, in lega pesante e fibro-carbonio, è alto ottantatré metri.

— Siamo molto in alto — disse Brawne Lamia, a voce bassa.

— Il punto più alto dei novantasei chilometri del percorso di questa funivia si trova al di sopra di monte Dryden, il quinto picco della Briglia con i suoi 9146 metri — continuò, monotono, Martin Sileno.

Il colonnello Kassad si guardò in giro. — La cabina è pressurizzata. Ho sentito la conversione, poco fa.

— Guardate — disse Brawne Lamia. Per un lungo momento il sole era rimasto come sospeso sulla linea di nubi all’orizzonte. Ora si tuffò al di sotto, sembrò incendiare dal basso la distesa delle nuvole temporalesche e gettare una panoplia di colori lungo l’intero orlo occidentale del mondo. Cornici di neve e di ghiaccio trasparente brillavano ancora sopra le pareti occidentali delle vette che s’innalzavano un chilometro e più al di sopra della funivia in ascesa. Nella cupola sempre più scura del cielo spuntarono le prime stelle, quelle più luminose.

Il Console si rivolse a Brawne Lamia. — Perché non ci racconta adesso la sua storia, signora Lamia? Dormiremo più tardi, prima d’arrivare al Castello.

Lamia bevve le ultime gocce di vino. — Volete ascoltarla adesso?

Nella luce rosata tutti annuirono, tranne Martin Sileno che scrollò le spalle.

— E va bene — disse Brawne Lamia. Posò il bicchiere vuoto, tirò sulla panca i piedi in modo da appoggiare i gomiti alle ginocchia e iniziò a raccontare.

IL RACCONTO DELL’INVESTIGATRICE Il lungo addio

Capii che sarebbe stato un caso particolare nel momento stesso in cui lui entrò nel mio ufficio. Era un uomo molto bello. Con questo non voglio dire che fosse effeminato o “carino” come un divo o un modello della TVE: era semplicemente… bello.

Arrivava appena alla mia altezza, e io sono nata e cresciuta su Lusus, in un campo gravitazionale di 1,3 g. Capii alla prima occhiata che il mio visitatore non era lusiano: il suo fisico compatto, ben proporzionato secondo gli standard della Rete, era atletico ma snello. Il viso rivelava energia e determinazione: fronte bassa, zigomi sporgenti, naso diritto, mascella solida, bocca grande che suggeriva un carattere sensuale e ostinato. Gli occhi, grandi, erano castani. Sembrava sulla trentina standard.

Sia ben chiaro, non notai tutti questi particolari nel momento in cui entrò. Il mio primo pensiero fu: “Sarà un cliente?” Il mio secondo: “Merda, è davvero un bell’uomo!”

«La signora Lamia?»

«Già.»

«La Brawne Lamia delle Investigazioni Inter-Rete?»

«Già.»

Si guardò intorno come se non riuscisse a crederci. Lo capivo molto bene. Il mio ufficio si trova al ventiduesimo piano d’un vecchio alveare industriale nel settore Vecchi Meublé di Ghisa Grezza, su Lusus. Ha tre grandi finestre che guardano sulla Fossa di Servizio 9, dove è sempre buio e pioviggina in continuazione grazie al forte gocciolio dei filtri dell’alveare superiore. Il panorama consiste soprattutto in banchine automatiche di carico abbandonate e travature arrugginite.

Non me ne frega niente, costa poco. E poi la maggior parte dei miei clienti telefona, non si presenta di persona.

«Posso sedermi?» domandò, evidentemente soddisfatto che un’agenzia investigativa seria operasse da bassifondi del genere.

«Certo» risposi, indicandogli una poltrona. «Signor… ah?»

«Johnny» rispose lui.

Non sembrava uno di quei tipi cui fa comodo tralasciare il cognome. Qualcosa, in lui, puzzava di denaro. Non per gli abiti (casual grigio e nero di tipo abbastanza comune, anche se di una stoffa migliore della media), ma perché dava la sensazione di essere un tipo di classe. Qualcosa nel modo di parlare. Sono brava, a indovinare dalla pronuncia la provenienza delle persone (è utile, nel mio mestiere); ma nel caso di quel visitatore non riuscivo a stabilire il mondo d’origine, né tantomeno la regione.

«In cosa posso esserle d’aiuto, Johnny?» Gli allungai la bottiglia di scotch che stavo per mettere via quando era entrato.

Johnny-boy scosse la testa. Forse pensò di dover bere direttamente dalla bottiglia. Diavolo, non sono così priva di tatto. Tengo dei bicchieri di carta sopra il refrigeratore dell’acqua. «Signora Lamia» disse con un’intonazione colta che ancora non riuscivo a inquadrare «mi occorre un investigatore.»

«È il mio lavoro.»

Esitò. Timido. Un mucchio di clienti esita a parlare dell’incarico. Non c’è da stupirsi: il novantacinque per cento dei miei casi riguarda divorzi e faccende di famiglia. Aspettai che continuasse.

«Si tratta di una questione alquanto delicata» disse alla fine.

«Già, signor… ah, Johnny: gran parte del mio lavoro rientra in questa categoria. Sono vincolata all’Inter-Rete; qualsiasi cosa riguardi i clienti ricade sotto la Legge per la Protezione della Riservatezza. Tutto è riservato, compresa questa chiacchierata. Anche se deciderà di non affidarmi l’incarico.» Era la solita sparata che si fa in questi casi, perché le autorità potevano accedere ai miei archivi in un secondo, se volevano; ma avevo l’impressione di doverlo tranquillizzare in qualche modo. Dio, era un tipo davvero bello!

«Ah, ah» disse lui, guardandosi di nuovo intorno. Si sporse verso di me. «Signora Lamia, vorrei che indagasse su un omicidio.»

La parola risvegliò la mia attenzione. Me ne stavo seduta con la schiena contro la parete e i piedi sul piano della scrivania, ma mi tirai subito su e mi sporsi verso di lui. «Un omicidio? Ne è sicuro? E gli sbirri?»

«Non sono coinvolti.»

«Impossibile» dissi, con la sconsolante impressione di parlare a uno svitato, anziché a un cliente. «Nascondere alle autorità un omicidio è di per sé un crimine.» Il mio pensiero era: “Sei tu l’assassino, Johnny?”

Lui sorrise e scosse la testa. «Non in questo caso.»

«Si spieghi.»

«Voglio dire, signora Lamia, che è stato commesso davvero un omicidio, ma che la polizia, sia quella locale sia quella dell’Egemonia, non è a conoscenza del delitto e non ha nessuna giurisdizione su di esso.»

«Impossibile» ripetei. Fuori, la cascata di scintille di un saldatore industriale si unì alla pioggerella rugginosa. «Mi faccia capire.»

«Un omicidio è stato commesso all’esterno della Rete. All’esterno del Protettorato. Non esistono autorità locali, lì.»

Aveva senso. Fino a un certo punto. Però non riuscivo a immaginare di cosa parlasse. Anche gli insediamenti periferici e i mondi coloniali hanno i loro sbirri. A bordo d’una nave spaziale? Ah, ah. L’Ente Transiti Interstellari ha giurisdizione sulle navi.

«Capisco» dissi. Da qualche settimana non avevo casi in corso. «D’accordo, mi racconti i particolari.»

«E la conversazione rimarrà riservata, anche se non accetterà l’incarico?»

«Certamente.»

«E se accetterà l’incarico, farà rapporto solo a me?»

«Naturalmente.»

Il mio potenziale cliente esitò sfregandosi il mento. Aveva mani bellissime. «Va bene» disse infine.

«Proceda dal principio» dissi. «Chi è stato assassinato?»

Johnny drizzò la schiena, come uno scolaro attento. Impossibile dubitare della sua sincertià. «Io» rispose.


Ci vollero dieci minuti per tirargli fuori la storia. Al termine, non pensavo più che fosse pazzo. La pazza ero io. O lo sarei stata se avessi accettato l’incarico.

Johnny (il nome completo era un codice di numeri, lettere e bande cifrate più lungo del mio braccio) era un cìbrido.

Avevo sentito parlare dei cìbridi. Come tutti, del resto. Una volta avevo accusato il mio primo marito d’essere un cyborg ibrido. Ma non mi sarei mai aspettata di sedere nella stessa stanza con uno di loro. Né di trovarlo così attraente, maledizione.

Johnny era un’Intelligenza Artificiale. La sua consapevolezza, o ego, o come diavolo volete chiamarla, galleggiava chissà dove in una megasfera dati dell’ennesimo piano dati del TecnoNucleo. Come chiunque altro, esclusi forse i PFE del Senato o gli spazzini delle IA, non avevo la minima idea di dove si trovasse il TecnoNucleo. Le IA si erano pacificamente staccate dal controllo umano già da tre secoli; e, pur continuando a servire l’Egemonia come alleato — consigliando la Totalità e sorvegliando le sfere dati, oltre a sfruttare di tanto in tanto le sue doti precognitive per aiutarci a evitare errori gravi o disastri naturali — in genere il TecnoNucleo si occupava privatamente dei suoi affari indecifrabili e chiaramente non umani.

Abbastanza giusto, secondo me.

Di solito le IA trattano con gli esseri umani e le macchine umane tramite sfera dati. Possono fabbricare un ologramma interattivo, se occorre… ricordo benissimo che durante l’annessione di Patto-Maui, gli ambasciatori del TecnoNucleo presenti alla firma del trattato erano sospettosamente somiglianti alla vecchia stella di olofilm Tyrone Bathwaite.

I cìbridi sono una faccenda tutta diversa. Confezionati dal ceppo genetico umano, sono molto più umani nell’aspetto e nel comportamento esteriore di quanto non sia consentito agli androidi. Accordi fra il TecnoNucleo e l’Egemonia permettono l’esistenza di un numero limitato di cìbridi.

Guardai Johnny. Dal punto di vista IA, il bel corpo e l’interessante personalità sulla sedia di fronte a me potevano anche essere solo un altro strumento, un meccanismo telecomandato, molto più complicato ma per il resto non più importante di uno qualsiasi dei diecimila tipi di sensori, manipolatori, unità automatiche, e altri comandi a distanza che le IA usano nel lavoro quotidiano. Buttare via “Johnny” non avrebbe turbato le IA più di quanto a me turbi tagliarmi un’unghia.

“Che spreco” pensai.

«Un cìbrido» dissi.

«Sì. Autorizzato. Ho il visto per servirmene nella Rete dei Mondi.»

«Magnifico» dissi, come se a parlare fosse un’altra. «E qualcuno… ha ucciso il suo cìbrido e lei vuole che io scopra chi è stato?»

«No» replicò il giovanotto. Aveva riccioli castani. Anche il taglio di capelli, come l’intonazione della voce, mi riusciva nuovo. Sembrava piuttosto antiquato, ma l’avevo già visto da qualche parte. «L’assassino non ha ucciso semplicemente questo corpo. Ha ucciso me.»

«Lei?»

«Sì.»

«Lei inteso come… ah… IA?»

«Precisamente.»

Non riuscivo a capire. Le Intelligenze Artificiali non muoiono. Per quanto nella Rete si sappia. «Non capisco» dissi.

«A differenza di una personalità umana che… mi pare sia accettato da tutti… può essere distrutta con la morte, la mia coscienza non può essere uccisa. Tuttavia, in seguito all’attacco, si è verificata una… interruzione. Per quanto possedessi… ah… chiamiamole registrazioni duplicate di ricordi, personalità, eccetera, c’è stata una perdita. Alcuni dati sono andati distrutti. È in questo senso che l’assalitore ha commesso un omicidio.»

«Capisco» dissi. Ma non era vero. Inspirai a fondo. «E le autorità IA… se esistono? I cybersbirri dell’Egemonia? Non dovrebbe rivolgersi a loro?»

«Per motivi personali» rispose l’attraente giovanotto che cercavo di vedere nei panni di cìbrido «è importante, addirittura indispensabile, che non consulti queste fonti.»

Inarcai un sopracciglio. Questa frase si adattava di più alla mia solita clientela.

«Le garantisco» continuò lui «che non c’è niente d’illegale. Né di contrario all’etica. Solo… la cosa mi imbarazza a un livello che non so spiegare.»

Incrociai le braccia. «Senta, Johnny. Questa storia mi sembra una mezza fregatura. Voglio dire, ho solo la sua parola che lei è un cìbrido. Per quanto ne so, potrebbe essere un artista della truffa.»

Sembrò sorpreso. «Non ci avevo pensato. Come vuole che le dimostri che sono quello che dico di essere?»

Non esitai un secondo. «Trasferisca sul mio conto corrente nella TransRete un milione di marchi.»

Johnny sorrise. Nello stesso istante, squillò il telefono e l’immagine d’un uomo affannato, con il blocco codice della TransRete che galleggiava alle sue spalle, disse: «Mi scusi, signora Lamia, ma ci chiedevamo se… ehm… con un deposito di questa entità, non sarebbe interessata a esaminare le nostre opzioni di risparmio a lungo termine o le possibilità del mercato mutuamente assicurato».

«Ne parliamo un altro giorno» risposi.

Il dirigente di banca annuì e scomparve.

«Poteva essere una simulazione» obiettai.

Il sorriso di Johnny era piacevole. «Certo, ma anche in questo caso sarebbe una dimostrazione convincente, no?»

«Non è detto.»

Lui scrollò le spalle. «Se io fossi quello che sostengo di essere, accetterebbe il caso?»

«Sì» sospirai. «Una cosa, però. La mia tariffa non è un milione di marchi. Becco cinquecento al giorno più le spese.»

Il cìbrido annuì. «Con questo vuol dire che accetta il caso?»

Mi alzai, calzai il cappello e staccai dal piolo vicino alla finestra un vecchio soprabito. Mi chinai sull’ultimo cassetto della scrivania e con un gesto disinvolto misi nella tasca del cappotto la pistola di mio padre. «Andiamo» dissi.

«Sì» rispose Johnny. «Dove?»

«Voglio vedere dove è stato assassinato.»


Secondo gli stereotipi, chi è nato su Lusus odia lasciare l’Alveare e soffre di agorafobia istantanea se visita qualcosa di più aperto agli elementi d’un viale di negozi. La realtà è diversa: gran parte dei miei affari riguarda altri mondi e richiede la mia presenza. Rintracciare scrocconi che si servono del teleporter e d’un cambio d’identità per cercare di rifarsi una vita. Trovare mogli infedeli che per non essere scoperte devono solo prendere su un pianeta diverso gli appuntamenti amorosi. Riportare a casa bambini Smarriti e genitori scomparsi.

Eppure, rimasi sorpresa al punto da esitare per un secondo, quando dal teleporter del parco di Ghisa Grezza uscimmo in un pianoro roccioso e deserto che sembrava estendersi all’infinito. A parte il rettangolo di bronzo del teleporter alle nostre spalle, non c’era segno di civiltà. L’aria puzza va di uova marce. Il cielo era un calderone giallo scuro di nuvole dall’aria malata. Intorno a noi, il terreno grigio e incrostato non presentava segni di vita, neppure licheni. Non avevo idea di quanto lontano fosse in realtà l’orizzonte, ma ci sentivamo in alto e l’orizzonte sembrava lontano, e nemmeno più avanti c’era traccia di alberi, cespugli o di vita animale.

«Dove diavolo siamo?» domandai. Fino a quel momento ero sicura di conoscere tutti i mondi della Rete.

«Su Madhya» rispose Johnny.

«Mai sentito» replicai. Misi in tasca la mano e sfiorai il calcio di madrcperla dell’automatica di papà.

«Ufficialmente non fa ancora parte della Rete» disse il cìbrido. «È una colonia di Parvati. Ma si trova a qualche minuto-luce dalla base della FORCE e hanno effettutato le connessioni teleporter in attesa che Madhya faccia parte del Protettorato.»

Guardai la desolazione circostante. Il puzzo d’acido solfidrico mi dava la nausea e cominciavo a temere di rovinarmi il vestito. «Colonie? Nelle vicinanze?»

«No. Ci sono alcune piccole città, sull’altro lato del pianeta.»

«La zona abitata più vicina?»

«Nanda Devi. Un paese di circa trecento persone. Più di duemila chilometri a sud.»

«Allora perché hanno installato proprio qui un teleporter?»

«Potenziale zona mineraria» rispose Johnny. Indicò l’altopiano grigio. «Metalli pesanti. Il consorzio ha autorizzato più di cento teleporter in questo emisfero, per facilitare i collegamenti appena avrà inizio lo sviluppo.»

«D’accordo. Un buon posto per un omicidio. Perché lei è venuto qui?»

«Non lo so. Fa parte dei ricordi perduti.»

«Con chi è venuto?»

«Non so neppure questo.»

«Che cosa sa, allora?»

Il giovanotto mise le belle mani nelle tasche. «Chi… o che cosa… mi ha assalito, ha usato un’arma che nel Nucleo è nota col nome di virus AIDS II.»

«E sarebbe?»

«L’AIDS era una malattia infettiva della razza umana, molto tempo prima dell’Egira» rispose Johnny. «Annullava il sistema immunitario. Questo… virus… funziona allo stesso modo, nei confronti delle IA. In meno d’un secondo penetra nel sistema di sicurezza e scatena contro l’ospite programmi fagociti letali… contro l’IA stessa. Contro di me.»

«Non potrebbe aver contratto il virus in modo naturale?»

Johnny sorrise. «Impossibile. Sarebbe come chiedere alla vittima di una sparatoria se per caso non è caduta sui proiettili.»

Scrollai le spalle. «Senta, se vuole un esperto in rete dati o in IA, si è rivolto alla persona sbagliata. A parte accedere alla sfera, come venti miliardi di altri zucconi, non so un tubo del mondo degli spiriti.» Usai quel termine antico per vedere se ottenevo da lui una reazione.

«Capisco» rispose Johnny, imperturbabile. «Non è questo che voglio da lei.»

«E cosa vorrebbe che facessi, in realtà?»

«Scoprire chi mi ha fatto venire qui e mi ha ucciso. E perché.»

«Benissimo. Cosa le fa credere che sia questo, il luogo del delitto?»

«Perché è questo il posto in cui ho ripreso il controllo del cìbrido quando sono stato… ricostituito.»

«Vuol dire che il cibrido era disattivato, mentre il virus la distruggeva?»

«Sì.»

«E per quanto tempo è durato?»

«La mia morte? Almeno un minuto, prima che la mia personalità di riserva fosse attivata.»

Mi misi a ridere. Non riuscii a evitarlo.

«Cosa la diverte, signora Lamia?»

«La sua concezione dell’idea di morte» risposi.

Gli occhi nocciola sembrarono intristirsi. «Forse per lei è divertente, ma non immagina che cosa significhi, per un elemento del TecnoNucleo, un minuto di… di sconnessione. Sono eoni di tempo e di dati. Millenni di non-comunicazione.»

«Già» dissi. Riuscii a non mettermi a piangere senza sforzarmi troppo. «Allora, cos’ha fatto il suo corpo, il suo cìbrido, durante il cambio dei nastri di personalità o di quel che diavolo sono?»

«Presumo che sia rimasto in stato comatoso.»

«Non riesce a gestirsi autonomamente?»

«Sì, certo, se non c’è un crollo totale del sistema.»

«Allora dov’è andato?»

«Prego?»

«Quando il cìbrido è stato riattivato, dove si trovava?»

Johnny capì. Indicò un masso a meno di cinque metri dal teleporter. «Laggiù.»

«Da questo o dall’altro lato?»

«Dall’altro.»

Andai a esaminare il punto esatto. Niente sangue. Niente tracce. Niente arma del delitto abbandonata nelle vicinanze. Nemmeno un’orma, né un indizio che il corpo di Johnny fosse rimasto disteso lì per l’eternità d’un minuto. Una squadra di medici legali della polizia avrebbe ricavato libri interi dagli indizi microscopici e biotici lasciati lì, ma io vedevo solo dei sassi.

«Se i suoi ricordi sono davvero svaniti» dissi «come fa a sapere che qui con lei è venuto un altro?»

«Ho esaminato le registrazioni del teleporter.»

«Si è preso la briga di controllare la persona misteriosa, o il suo nome, nell’addebito sulla carta universale?»

«Ci siamo serviti tutt’e due della mia carta» rispose Johnny.

«C’era solo un’altra persona?»

«Sì.»

Annuii. Le registrazioni del teleporter risolverebbero qualsiasi crimine interplanetario, se i portali fossero dei veri e propri macchinari di teletrasporto; il registro dati di transito avrebbe ricreato il soggetto in tutti i particolari, fino all’ultimo grammo e all’ultimo follicolo. Invece il teleporter è solo un rozzo foro praticato nello spaziotempo da un’anomalia in fase. Se un criminale non usa la sua carta di credito, gli unici dati ottenibili sono il luogo di partenza e di destinazione.

«Dove avete preso il teleporter?» domandai.

«Su Tau Ceti Centro.»

«Ha il codice del portale?»

«Certo.»

«Andiamo a terminare là la nostra conversazione» dissi. «Qui c’è una puzza da morire.»


TC2, il vecchissimo soprannome di Tau Ceti Centro, è senza dubbio il mondo più affollato dell’intera Rete. In aggiunta ai cinque miliardi di persone che s’arrabbattano per trovare spazio in un’area pari alla metà della Vecchia Terra, ha un anello ecologico orbitale abitato da un altro mezzo miliardo di anime. Oltre a essere la capitale dell’Egemonia e la sede del Senato, TC2 è il nesso degli affari commerciali della Rete. Ovviamente, il numero trovato da Johnny ci portò a un terminex di seicento portali, in una delle guglie più vaste di Nuova Londra, una delle sezioni più antiche e più vaste della città.

«Diavolo» dissi. «Andiamo a bere un goccio.»

Nelle vicinanze del terminex c’era un’ampia scelta di bar: entrammo in un locale relativamente tranquillo, che simulava una taverna marinara, buia, fresca, piena di finto legno e finto ottone. Ordinai una birra. Non bevo mai roba forte, e non uso Flashback, quando lavoro a un caso. A volte penso che la necessità di autodisciplina sia quel che mi tiene in affari.

Anche Johnny ordinò una birra: scura, tedesca, imbottigliata su Vettore Rinascimento. Chissà quali erano i vizi di un cìbrido, mi chiesi.

Dissi: «Ha trovato altro, prima di venire da me?»

Il giovanotto allargò le mani. «Niente.»

«Merda» esclamai, in tono reverenziale. «È uno scherzo. Con tutti i poteri dell’IA a sua disposizione, non riesce a ricostruire l’ambiente e le azioni del suo cìbrido nei giorni precedenti… l’incidente?»

«No.» Johnny sorseggiò la birra. «Anzi, potrei; ma ho dei motivi per non volere che i miei colleghi IA scoprano che indago.»

«Sospetta di uno di loro?»

Invece di rispondere, Johnny mi diede il rendiconto degli acquisti fatti con la sua carta universale. «L’interruzione causata dal mio omicidio ha lasciato scoperti cinque giorni standard. Ecco le spese del periodo.»

«Non aveva detto che la sconnessione era durata solo un minuto?»

Johnny si grattò la guancia con un dito. «Sono stato fortunato a perdere solo cinque giorni di dati» rispose.

Chiamai con un gesto il cameriere umano e ordinai un’altra birra. «Senta» dissi «Johnny… chiunque lei sia, non riuscirò mai a farmi un’idea di questo caso senza avere altri dati su di lei e sulla sua situazione. Perché qualcuno avrebbe voluto ucciderla, pur sapendo che sarebbe stato ricostituito o come diavolo si dice?»

«A mio parere, i motivi possibili sono due» rispose Johnny, da sopra il bicchiere di birra.

Annuii. «Uno sarebbe quello di creare proprio la perdita di ricordi che hanno già realizzato. Possiamo presumere che, qualsiasi cosa abbiano voluto farle dimenticare, si sia verificata o sia arrivata alla sua attenzione nell’ultima settimana, più o meno. Qual è il secondo motivo?»

«Inviarmi un messaggio» rispose Johnny. «Ma non so quale sia. O da chi provenga.»

«Non sa chi vorrebbe la sua morte?»

«No.»

«Nessun sospetto?»

«Nessuno.»

«Molti omicidi sono la conseguenza d’improvvisi e irrazionali scoppi d’ira da parte di persone che la vittima conosce bene. Familiari. Amici. Amanti. La maggior parte degli omicidi premeditati è compiuta da persone vicine alla vittima.»

Johnny non disse niente. Nel suo viso c’era qualcosa che trovavo oltremodo attraente… una sorta di forza mascolina combinata con un senso femminile di consapevolezza. Forse erano gli occhi.

«Le IA hanno famiglia?» domandai. «Litigi? Battibecchi? Bisticci d’innamorati?»

«No.» Accennò a un sorriso. «Esistono accomodamenti quasi familiari, ma non hanno nessuna pretesa di emozioni e di responsabilità come avviene nelle famiglie umane. Le “famiglie” IA sono in primo luogo convenienti gruppi di codice per mostrare dove hanno avuto origine certi processi tendenziali.»

«Allora non pensa che ad assalirlo sia stata un’altra IA?»

«Può darsi.» Johnny rigirò fra le dita il bicchiere. «Solo, non capisco perché mi avrebbe assalito attraverso il mio cìbrido.»

«Accesso più facile?»

«Forse. Ma complica le cose, per l’aggressore. Un attacco al piano dati sarebbe stato infinitamente più micidiale. Inoltre, non vedo nessun movente, per un’IA. Non ha senso. Non rappresento una minaccia per nessuno.»

«Perché ha un cìbrido, Johnny? Forse se riesco a capire il suo ruolo nella faccenda, riuscirò a immaginare un movente.»

Lui prese una ciambellina croccante salata e ci giocherellò. «Ho un cìbrido… in un certo senso, sono un cìbrido, perché la mia… funzione… è quella di osservare gli esseri umani e reagire alla loro presenza. In un certo senso, io stesso un tempo ero umano.»

Scossi la testa, accigliata. Finora niente di quel che aveva detto aveva senso.

«Ha mai sentito parlare del progetto di recupero di personalità?» mi chiese.

«No.»

«Un anno standard fa i simulatori della FORCE ricrearono la personalità di Horace Glennon-Height per scoprire che cosa lo rendeva un generale così brillante. Era in tutti i notiziari.»

«Già.»

«Bene, sono, o ero, un progètto di recupero, più antico e più complesso. Il nucleo della mia personalità si basava su un poeta della Vecchia Terra pre-Egira. Nato nel tardo Diciottesimo secolo dell’Antico Calendario.»

«Come diavolo fanno, a ricostruire una personalità così perduta nel tempo?»

«Scritti. Le sue lettere. Diari. Biografie critiche. Testimonianze d’amici. Il sim ricrea l’ambiente, inserisce i fattori noti e funziona a ritroso a partire dai prodotti creativi. Et voilà… un nucleo di personalità. Grezzo, all’inizio; ma relativamente raffinato quando cominciai a esistere io. Il nostro primo tentativo fu un poeta del Ventesimo secolo, un certo Ezra Pound. La nostra personalità era caparbia al limite dell’assurdità e funzionalmente insana. Fu necessario un anno di rabberciamenti, prima di scoprire che la personalità era esatta: quell’uomo era pazzo. Un genio, ma pazzo.»

«E poi? Le costruiscono una personalità sulla base di un antico poeta. E dopo?»

«Diventa lo stampo nel quale l’IA si sviluppa» disse Johnny. «Il cìbrido mi consente di continuare il mio ruolo nella comunità del piano dati.»

«Come poeta?»

Johnny sorrise di nuovo. «Come poema, piuttosto» rispose.

«Come poema?»

«Un’opera d’arte in evoluzione… ma non nel senso umano. Un rompicapo, forse. Un enigma variabile che di tanto in tanto offre intuizioni insolite in linee d’analisi più serie.»

«Non capisco.»

«Probabilmente non ha importanza. Non sono affatto sicuro che il mio… scopo… sia stato la causa dell’aggressione.»

«Quale ritiene sia stata la causa?»

«Non ne ho la minima idea.»

Mi sembrava un giro vizioso. «E va bene. Cercherò di scoprire che cosa faceva e con chi era durante quei cinque giorni perduti. C’è altro, oltre al rendiconto delle spese, che ritiene possa essermi utile?»

Johnny scosse la testa. «Capisce, vero, perché è importante per me conoscere l’identità di chi mi ha assalito e il suo movente?»

«Certo. Potrebbero riprovarci.»

«Infatti.»

«Come posso mettermi in contatto con lei, all’occorrenza?»

Johnny mi tese un chip d’accesso.

«Linea sicura?» domandai.

«Al massimo.»

«D’accordo. La chiamo se e quando ho delle novità.»

Uscimmo dal bar e ci avviammo al terminex. Si era appena allontanato, quando con tre rapidi passi lo raggiunsi e lo afferrai per il braccio. Era la prima volta che avevo un contatto fisico con lui. «Johnny. Come si chiama l’antico poeta della Vecchia Terra che hanno resuscitato…»

«Recuperato.»

«Come vuole. Quello su cui è costruita la sua personalità IA?»

L’avvenente cìbrido esitò. Notai che aveva le ciglia molto lunghe. «Non credo che abbia importanza» replicò.

«Nessuno sa cos’è importante.»

Annuì. «Keats. Nato nell’a.D. 1795. Morto di tubercolosi nel 1821. John Keats.»


Seguire qualcuno attraverso una serie di cambi di teleporter è quasi impossibile, maledizione. Soprattuto se non vuoi che se ne accorga. Gli sbirri della Rete possono farlo, se rifilano l’incarico a una cinquantina di agenti provvisti di giocattoli d’alta tecnologia molto costosi e di limitata diffusione, per non parlare dell’aiuto dell’Ente Transiti. Per chi lavora da solo, il compito è quasi impossibile.

Eppure per me era abbastanza importante scoprire dove il mio nuovo cliente era diretto.

Johnny non si guardò indietro, mentre attraversava la piazza del terminex. Mi spostai accanto a un chiosco lì vicino; servendomi della mia olocamera tascabile, lo guardai battere i codici su un diskey manuale, inserire la carta e varcare il rettangolo luminoso.

L’uso del diskey manuale probabilmente significava che Johnny era diretto a un portale pubblico, perché i codici di teleporter privati di solito sono impressi in chip riservati. Magnifico. Avevo limitato la sua destinazione a due milioni di portali su più di centocinquanta mondi e settantacinque lune della Rete.

Con una mano tirai fuori del soprabito la mia “fodera” rossa, mentre azionavo il replay dell’olocamera e guardavo l’ingrandimento della sequenza battuta sul diskey. Tolsi di tasca un cappello rosso intonato alla mia nuova giacca rossa e mi abbassai sugli occhi la tesa. Attraversai rapidamente la piazza e interrogai il mio comlog sul codice di trasferimento di nove cifre appena visto nell’olocamera. Sapevo che le prime tre cifre indicavano il mondo di Tsingtao-Hsishuang Panna (avevo imparato a memoria tutti i prefìssi planetari) e un istante dopo seppi che il portale si trovava in un distretto residenziale della città della Prima Espansione Wansiehn.

Mi diressi rapidamente alla prima cabina libera e mi teleportai lì; uscii in una piccola piazza terminex, con il selciato di mattoni consunti. Antichi negozietti orientali s’addossavano l’uno all’altro; le gronde dei tetti a pagoda sovrastavano le strette vie laterali. La gente affollava la piazza e stava ferma sulla porta degli edifici; e, mentre la maggior parte delle persone che vedevo discendeva chiaramente degli esuli della Lunga Fuga che si erano stabiliti su THP, parecchi erano senza dubbio forestieri di altri mondi. L’aria odorava di vegetazione aliena, di fogna, di riso bollito.

«Maledizione» mormorai. Lì c’erano altri tre portali e nessuno era in attività. Forse Johnny si era teleportato immediatamente.

Invece di tornare su Lusus, passai qualche minuto a controllare la piazza e le vie laterali. Intanto, la pillola di melanina inghiottita poco prima aveva fatto effetto: sembravo una ragazza negra… o un ragazzo (difficile dirlo, considerato l’ampio giaccone rosso alla moda e il visore polarizzato) che girava oziosamente e scattava fotografie con la sua olocamera da turista.

La pillola tracciante che avevo sciolto nella seconda birra di Johnny aveva avuto tutto il tempo di entrare in funzione. Le microspore positive agli ultravioletti erano ancora nell’aria… potevo quasi seguire la scia delle esalazioni lasciate da Johnny. Invece, su una parete scura scoprii l’impronta giallo vivo di una mano (giallo vivo grazie al mio visore opportunamente adattato, è ovvio, ma invisibile al di fuori dello spettro ultravioletto) e seguii una pista di macchie sbiadite nei punti in cui i suoi abiti saturi avevano sfiorato i banchi del mercato o la pietra.

Johnny stava mangiando in un ristorante cantonese a meno di due isolati dalla piazza del terminex. Il cibo fritto aveva un profumino delizioso, ma non entrai: guardai i prezzi affissi ai banchi del vicolo e mi trattenni nel mercato per un’ora almeno, prima che Johnny terminasse, tornasse nella piazza e usasse il teleporter. Questa volta si servì di un chip in codice (un portale privato, forse una casa privata) e io corsi due rischi, usando la mia carta pesce-pilota per seguirlo. Due rischi: prima di tutto perché la carta è assolutamente illegale e un giorno o l’altro mi costerà la licenza, se mi beccano (cosa men che probabile se continuo a usare il chip cambiaforma, disgustosamente costoso ma esteticamente perfetto, di papà Silva); e in secondo luogo perché avevo ottime possibilità di emergere nel soggiorno di Johnny… situazione da cui non è mai facile venire fuori solo a parole.

Non era il suo soggiorno. Ancora prima di individuare le targhe stradali, avevo riconosciuto la pressione ben nota della gravità superiore, la fosca luce color bronzo, l’odore di benzina e di ozono nell’aria, e avevo capito di trovarmi sul mio mondo natale, Lusus.

Johnny si era teleportato in una torre privata residenziale di media sicurezza, in uno degli Alveari di Bergson. Forse proprio per questo aveva scelto la mia agenzia: eravamo quasi vicini di casa, separati da meno di seicento chilometri.

Il cìbrido non era in vista. Camminai a passo deciso per non mettere in allarme qualche schermo di sicurezza programmato per reagire ai perditempo. Non c’era l’elenco degli inquilini, e neppure numeri o nomi sulla porta degli alloggi, né una guida accessibile al comlog. Calcolai che l’Alveare Bergson Est comprendeva almeno ventimila minialloggi residenziali.

La traccia diventava meno visibile a mano a mano che la coltura di spore si esauriva, ma dovetti controllare solo due corridoi radiali prima di trovare la pista buona. Johnny abitava piuttosto fuori, in un’ala pavimentata in vetro nei pressi di un lago di metano. La serratura a impronta del palmo mostrava una debole traccia luminosa. Mi servii dei miei arnesi da scasso per effettuare una rapida lettura del lucchetto, poi mi teleportai a casa.

Tutto sommato, avevo visto il mio uomo andare a pranzo in un ristorante cinese e poi tornare a casa per la notte. Per il primo giorno poteva bastare.


BB Surbringer era il mio esperto in IA. BB lavorava al Controllo Flusso Registrazioni e Statistiche: passava la maggior parte della vita sdraiato su una cuccetta a caduta libera, con cinque o sei microcavi che gli spuntavano dal cranio, in comunicazione con altri burocrati in piano dati. L’avevo conosciuto al college, quando era un puro cyberpuke, cybervomito, un hacker della ventesima generazione, corticalmente shuntato già a dodici anni standard. In realtà si chiamava Ernest, ma si era guadagnato il nomignolo BB quando era uscito con la mia amica Shayla Toyo. Al secondo appuntamento Shayla l’aveva visto nudo e aveva riso per mezz’ora buona: Ernest era, ed è, alto quasi due metri, ma pesa meno di cinquanta chili. Shayla aveva detto che aveva le chiappe che sembravano due B e, come avviene per molte cose crudeli, a Ernest il nomignolo era rimasto.

Andai a trovarlo in uno dei monoliti da lavoro privi di finestre di TC2. Niente torri di nuvole, per BB e la sua genia.

«Allora, Brawne» disse. «Come mai, alla tua età, cerchi informazioni erudite? Sei troppo vecchia per cercare un lavoro vero.»

«Voglio solo informazioni sulle IA, BB.»

«Solo uno degli argomenti più complessi dell’universo conosciuto» sospirò lui lanciando un’occhiata piena di desiderio allo shunt neurale staccato e ai cavi metacorticali. I cyberpuke non smontano mai, ma i funzionari civili sono obbligati a farlo per il pranzo. BB era come la maggior parte dei cyberpuke: non si sentiva mai a proprio agio se doveva scambiare informazioni senza cavalcare un’onda dati. «Allora, cosa vuoi sapere?» disse.

«Perché le IA sono se ne sono andate?» Da qualche parte dovevo pur iniziare.

BB mosse le mani in un gesto complicato. «Corre voce che i loro progetti non fossero compatibili con il coinvolgimento totale nelle sue faccende… leggi la razza umana… che l’Egemonia richiede. La verità è che nessuno lo sa.»

«Però sono ancora in circolazione. Continuano a trafficare?»

«Certo. Il sistema non funzionerebbe, senza le IA. Lo sai benissimo, Brawne. Perfino la Totalità non funzionerebbe, se le IA non dirigessero il modellamento Swarzchild in tempo reale…»

«D’accordo» dissi, interrompendolo prima che scivolasse nel suo incomprensibile linguaggio cyberpuke. «Ma quali sono i loro “progetti alternativi”?»

«Nessuno lo sa. Branner e Swayze, su alla Intel-Art Corp, ritengono che le IA perseguano l’evoluzione della consapevolezza su scala galattica. Sappiamo che hanno le proprie sonde, molto al di là della Periferia…»

«E i cìbridi?»

«Cìbridi?» BB si alzò a sedere, interessato per la prima volta. «Perché parli di cìbridi?»

«Come mai sei così sorpreso che ne parli, BB?»

Con aria distratta si fregò la presa dello shunt. «Be’, prima di tutto molti dimenticano che esistono. Due secoli fa c’era un grande allarmismo: gente in provetta che prendeva il potere e fesserie del genere; ma ora nessuno pensa più a loro. Inoltre, ieri mi è capitato di leggere su un promemoria di anomalie la notizia che i cìbridi vanno scomparendo.»

«Scomparendo?» Toccò a me, mostrarmi sorpresa.

«Sì, eliminazione graduale. Le IA solevano mantenere nella Rete un migliaio di cìbridi autorizzati. Metà dei quali con base proprio qui su TC2. Il censimento della scorsa settimana mostra che nel giro di un paio di mesi circa i due terzi sono stati richiamati.»

«Cosa succede, quando una IA richiama il suo cìbrido?»

«Non so. Lo distrugge, immagino. Alle IA non piacciono gli sprechi, quindi il materiale genetico sarà in qualche modo riciclato.»

«E perché lo riciclano?»

«Nessuno lo sa, Brawne. Ma la maggior parte di noi non sa perché le IA fanno la maggior parte delle cose che fanno.»

«Gli esperti ritengono che le IA siano… una minaccia?»

«Scherzi? Seicento anni fa, forse. Due secoli fa, la Secessione ci rese diffidenti. Ma se volevano danneggiare l’umanità l’avrebbero fatto già da un pezzo. Temere che le IA si rivoltino contro di noi sarebbe come temere una ribellione degli animali domestici.»

«A parte il fatto che le IA sono più intelligenti di noi.»

«Già, be’, quest’è vero.»

«BB, hai sentito parlare di progetti per il recupero di personalità?»

«Come l’affare Glennon-Height? Certo. Tutti ne sono al corrente. Ho anche lavorato a un progetto del genere, alla Reichs University, qualche anno fa. Ma ormai sono passés. Nessuno se ne interessa più.»

«Come mai?»

«Cristo, non sai proprio una merda di niente, Brawne! I progetti di recupero di personalità sono stati tutti dei fallimenti. Anche con il miglior controllo sim… coinvolsero la rete FORCE SCO-RTS… è impossibile scomporre in fattori tutte le variabili e ottenere risultati soddisfacenti. Lo stampo della personalità diventa autocosciente… non mi riferisco alla semplice coscienza del proprio essere» come nel caso tuo e mio, ma alla consapevolezza d’essere una personalità artificiale cosciente di sé… e questo porta al ciclo iterativo terminale di stranezza e ai labirinti non armonici che vanno direttamente nello spazio Escher.»

«Traduci.»

BB sospirò e diede un’occhiata alla banda segnatempo, azzurra e oro, sulla parete. Mancavano cinque minuti al termine dell’ora obbligatoria per il pranzo. Poi finalmente sarebbe tornato nel mondo reale. «In altre parole» disse «la personalità recuperata si disgrega. Impazzisce. Va a farsi fottere.»

«Tutte?»

«Tutte.»

«Ma le IA sono ancora interessate al procedimento?»

«Oh, già, chissà? Non ne hanno mai fatto uno! Tutti i tentativi di recupero di cui sono a conoscenza erano gestiti da esseri umani… progetti universitari pasticciati, per lo più. Accademici senza cervello che spendevano fortune per riportare alla vita cervelli accademici morti.»

Feci un sorriso forzato. Mancavano tre minuti prima che tornasse a inserirsi. «Tutte le personalità recuperate sono state dotate di estensioni cìbride?»

«Ah, ah. Come t’è venuta, quest’idea? No, non funzionava.»

«Come mai?»

«Incasinava lo stim-sim. Inoltre occorrevano ceppi clonali perfetti e un ambiente interattivo esatto fino al minimo particolare. Vedi, bambina, a una personalità recuperata permetti di vivere nel suo mondo tramite un simulatore in grande scala, poi gli fai arrivare subdolamente qualche domanda, per mezzo di sogni o di scenari interattivi. Estrarre una personalità dalla realtà simulata per immetterla nel tempo lento…»

Quest’ultimo era il termine, vecchio di secoli, usato dai cyberpuke per definire — scusate l’espressione — il mondo reale.

«…riuscirebbe solo a fotterla più in fretta» terminò lui.

Scossi la testa. «Già. Be’, grazie, BB.» Andai alla porta. Rimanevano trenta secondi, prima che il mio vecchio amico di college sfuggisse al “tempo lento”.

«BB» dissi, come per un ripensamento. «Hai mai sentito parlare del recupero della personalità di un poeta della Vecchia Terra, un certo John Keats?»

«Keats? Oh, certo, c’era un’ampia recensione nei testi universitari. Autore del recupero fu Marti Carollus, una cinquantina d’anni fa, a Nuova Cambridge.»

«Cosa accadde?»

«Il solito. La personalità s’impigliò nel ciclo iterativo. Ma prima di disgregarsi morì di morte simulata. Per non so quale antica malattia.» Lanciò un’occhiata all’orologio, sorrise, alzò lo shunt. Prima d’inserirselo nella presa cranica, mi guardò con un’espressione quasi beata. «Ora ricordo» disse, con un sorriso sognante. «Tubercolosi.»


Se l’umanità avesse scelto il sistema sociale orwelliano del Grande Fratello, lo strumento dell’oppressione sarebbe stato di sicuro la carta di credito. In un’economia totalmente priva di denaro liquido, con semplici residui di un mercato nero basato sul baratto, le attività di un individuo possono essere rintracciate in tempo reale tenendo d’occhio la traccia della sua carta di credito universale. Esistono leggi severe per la protezione della segretezza della carta, ma le leggi hanno la brutta abitudine d’essere ignorate o abrogate, quando una società cade nel totalitarismo.

La traccia della carta di credito di Johnny, nei cinque giorni che avevano preceduto il suo omicidio, mostrava un individuo abitudinario e parco nelle spese. Prima di seguire questa traccia, passai due noiosissimi giorni a seguire Johnny.

Dati: abitava da solo nell’Alveare Bergson Est. Un normale controllo mostrò che stava lì da sette mesi locali, meno di cinque mesi standard. La mattina faceva colazione in un caffè della zona, poi si teleportava su Vettore Rinascimento — dove lavorava per circa cinque ore negli archivi stampa a raccogliere informazioni di chissà che genere — consumava un pasto leggero nel chiosco del venditore nel cortile, passava poi altre due ore in biblioteca, e tornava a casa su Lusus o andava a cena in uno dei suoi ristoranti preferiti su un altro pianeta. Per le dieci era nel suo appartamento. Usava il teleporter più di un comune perditempo lusiano di classe media, ma per il resto seguiva un programma ben poco interessante. I rendiconti confermavano che aveva seguito il solito tran-tran nella settimana in cui era stato assassinato, con l’aggiunta di qualche spesa extra (un giorno un paio di scarpe, quello dopo generi alimentari) e di una sosta in un bar di Vettore Rinascimento, il giorno stesso del suo “assassinio”.

Lo raggiunsi a cena nel piccolo ristorante di via del Drago Rosso, nelle vicinanza del portale Tsingtao-Hsishuang Panna. Il cibo era caldissimo, molto piccante, davvero buono.

«Come va?» mi chiese.

«A meraviglia. Sono di mille marchi più ricca di quando ci siamo conosciuti e ho scoperto un buon ristorante cantonese.»

«Sono lieto che il mio denaro serva a qualcosa d’importante.»

«A proposito di denaro… da dove le arriva? Ciondolare nella biblioteca di Vettore Rinascimento non rende molto.»

Johnny inarcò il sopracciglio. «Vivo di una… piccola eredità.»

«Non troppo piccola, mi auguro. Voglio essere pagata.»

«Basterà per il suo onorario, signora Lamia. Ha scoperto qualcosa d’interessante?»

Scrollai le spalle. «Mi dica cosa va a fare in quella biblioteca.»

«Lo ritiene pertinente?»

«Già, potrebbe esserlo.»

Mi fissò con curiosità. Qualcosa, nel suo sguardo, mi fece diventare molli le ginocchia. «Lei mi ricorda una persona» disse piano.

«Oh?» Detta da chiunque altro, quella frase sarebbe stata l’inizio della fine. «Chi?» domandai.

«Una… una donna che ho conosciuto. Molto tempo fa.» Si strofinò la fronte, come se all’improvviso si sentisse stanco o confuso.

«Come si chiamava?»

«Fanny.» La parola fu quasi un sussurro.

Sapevo di chi parlava. John Keats aveva avuto una fidanzata di nome Fanny. Il loro romanzetto d’amore era stato una serie di frustrazioni romantiche che aveva quasi spinto alla pazzia il poeta. Quando era morto in Italia, solo, a parte un compagno di viaggio, sentendosi abbandonato dagli amici e dall’amata, Keats aveva chiesto che con lui fossero sepolte le lettere non aperte di Fanny e un ricciolo dei suoi capelli.

Soltanto una settimana prima non avevo mai sentito parlare di John Keats: mi ero procurata quelle stronzate grazie al comlog. Dissi: «Allora, cosa fa nella biblioteca?».

Il cìbrido si schiarì la voce. «Cerco un poema. Frammenti dell’originale.»

«Un poema di Keats?»

«Sì.»

«Non sarebbe più facile accedere a una banca dati?»

«Certo. Ma per me è importante vedere l’originale… toccarlo.»

Riflettei su quelle parole. «Di cosa parla, il poema?»

Sorrise… o almeno, le sue labbra si schiusero in un sorriso. Gli occhi color nocciola sembravano ancora turbati. «Si intitola Hyperion. Difficile dire di cosa… di cosa parli. Fallimento artistico, immagino. Keats non lo terminò.»

Scostai il piatto e sorseggiai il tè caldo. «Lei dice che Keats non lo terminò. Intende dire che lei non l’ha mai terminato?»

La sua aria sorpresa era senz’altro genuina… a meno che le IA non siano attori consumati. Per quanto ne sapevo, era possibile. «Buon Dio» disse. «Io non sono John Keats. Il fatto di avere una personalità basata sul suo stampo recuperato non mi fa essere Keats, come il fatto che lei si chiami Lamia non la fa essere un mostro. Ci sono milioni di induzioni che mi separano da quel genio povero e triste.»

«Ha detto che le ricordavo Fanny.»

«L’eco d’un sogno. Meno. Lei ha preso la medicina di apprendimento RNA, vero?»

«Sì.»

«È la stessa cosa. Ricordi che sembrano… vuoti.»

Un cameriere umano portò i biscotti della fortuna.

«Le interessa visitare il vero Hyperion?» domandai.

«Sarebbe?»

«Il pianeta periferico. Da qualche parte al di là di Parvati, mi pare.»

Johnny sembrò perplesso. Aveva spezzato in due il biscotto, ma ancora non aveva letto il bigliettino.

«Mi pare che una volta lo chiamassero il Mondo dei Poeti» dissi. «Ha perfino una città con il nome del suo… di Keats.»

Il giovanotto scosse la testa. «Mi spiace, ma non ne ho mai sentito parlare.»

«Possibile? Le IA non sanno tutto?»

La sua risata fu breve e acuta. «Questa qui sa ben poco.» Lesse il bigliettino: DIFFIDATE DEGLI IMPULSI IMPROVVISI.

Incrociai le braccia. «Sa, a parte quel trucchetto con l’ologramma del direttore di banca, non ho alcuna prova che lei sia quel che sostiene di essere.»

«Mi dia la mano.»

«La mano?»

«Sì, una o l’altra. Grazie.»

Johnny strinse fra le sue la mia destra. Le sue dita erano più lunghe delle mie. Le mie erano più forti.

«Chiuda gli occhi» disse.

Li chiusi. Non ci fu transizione: un istante prima ero seduta dentro il Loto Azzurro in via del Drago Rosso e l’istante dopo ero… da nessuna parte. Da qualche parte. Andavo come un lampo attraverso un piano dati grigiazzurro, curvavo lungo strade d’informazione giallo cromo, passavo sopra sotto attraverso grandi città di lucenti depositi dati, rossi grattacieli incapsulati nell’oscuro “ghiaccio” di protezione, entità semplici come conti personali o file aziendali che ardevano nella notte, simili a raffinerie in fiamme. Al di sopra di tutto, appena fuori vista, come sospesi in spazio contorto, incombevano le gigantesche masse delle IA, le loro comunicazioni che pulsavano come violenti fulmini di calore lungo orizzonti infiniti. Da qualche parte, in lontananza, quasi perduto nel labirinto di neon tri-di che divideva un solo minuscolo secondo d’arco nell’incredibile sfera dati di un solo piccolo mondo, percepii, più che vedere, i tranquilli occhi nocciola che mi fissavano.

Johnny mi lasciò la raano. Spezzò il mio biscotto. Sulla strisciolina di carta c’era scritto: INVESTITE SAGGIAMENTE IN NUOVE SPECULAZIONI.

«Oddio» mormorai. BB mi aveva già portato a volare nel piano dati, ma sènza uno shunt quell’esperienza era stata l’ombra di questa: come guardare uno spettacolo di fuochi artificiali in un ologramma in bianco e nero o essere presenti di persona. «Come ha fatto?»

«Domani farà progressi nella soluzione del caso?» domandò lui.

Riacquistai la mia compostezza. «Domani» dissi «conto di risolverlo.»


Be’, non proprio di risolverlo, forse, ma almeno di mettere in movimento le cose. L’ultima spesa sulla velina di Johnny riguardava il bar su Vettore Rinascimento. Avevo controllato il primo giorno, ovviamente; avevo parlato con parecchi clienti abituali, dal momento che il barista non era umano, ma avevo scoperto che nessuno si ricordava di Johnny. Ci ero tornata due volte senza maggior fortuna, ma il terzo giorno ero decisa a restare finché non fosse successo qualcosa.

Il bar non apparteneva di sicuro al genere tutto legno e ottone come quello dov’era andata con Johnny su TC2. Questo era un locale al primo piano di un edificio malandato, in un quartiere cadente a due isolati dalla biblioteca in cui Johnny passava le giornate. Non era il genere di locale in cui si sarebbe fermato lungo il percorso per raggiungere la piazza, solo il tipo di bar in cui poteva finire se incontrava qualcuno nella biblioteca o nelle vicinanze… qualcuno che volesse parlargli in privato.

Ero lì dentro da sei ore e cominciavo a essere maledettamente stufa di noccioline salate e di birra, quando entrò un anziano rottame umano. Immaginai che fosse un cliente abituale perché non si soffermò sulla soglia e non si guardò intorno, ma puntò direttamente a un tavolino sul fondo e ordinò un whisky prima ancora che il mecc di servizio si fermasse. Quando mi avvicinai al suo tavolo, capii che era non un vero rottame, ma piuttosto un campione degli individui esausti che avevo visto nei negozi di paccottiglia e nei banchetti stradali del quartiere. Mi fissò con due occhi velati dalla disfatta.

«Posso sedermi?»

«Dipende, sorella. Cosa vendi?»

«Compro.» Mi sedetti, posai sul tavolo il boccale di birra e lasciai scivolare sul piano una foto di Johnny che entrava nella cabina del teleporter su TC2. «Hai mai visto questo tipo?»

Il vecchio diede un’occhiata alla foto e si concentrò di nuovo sul suo whisky. «Può darsi.»

Chiamai il mecc per un altro giro. «Se l’hai visto, è il tuo giorno fortunato.»

Il vecchio sbuffò e col dorso della mano si strofinò la guancia mal rasata. «Sarebbe la prima volta da un merdoso mucchio di tempo.» Si concentrò su di me. «Quanto? Per cosa?»

«Informazioni. Quanto, dipende dall’informazione. L’hai visto?» Tirai fuori di tasca una banconota da mercato nero, un cinquanta marchi.

«Sì.»

La banconota scese sul tavolo, ma rimase nella mia mano. «Quando?»

«Martedì scorso. Martedì mattina.»

Il giorno era giusto. Spinsi verso di lui i cinquanta marchi e presi un’altra banconota. «Era solo?»

Il vecchio si leccò le labbra. «Fammi pensare… Non credo… no, era là.» Indicò un tavolo in fondo. «Con due tizi. Uno di loro… be’, è per questo che me ne ricordo.»

«Cioè?»

Il vecchio fregò pollice e indice in un gesto antico come l’avidità.

«Parlami dei due uomini» incalzai.

«Il giovanotto… il tuo uomo… era con uno di loro. Sai, quegli scherzi di natura con la tonaca. Li vedi alla TVE ogni momento. Loro e i loro maledetti alberi.»

“Alberi?” «Un Templare?» esclami, stupita. Che cosa ci faceva un Templare in un bar di Vettore Rinascimento? Se dava la caccia a Johnny, perché indossava la tonaca? Era come se un assassino andasse a compiere il delitto vestito da pagliaccio.

«Sì. Un Templare. Tonaca marrone, aspetto vagamente orientale.»

«Uomo?»

«Sì, l’ho già detto.»

«Puoi descriverlo meglio?»

«No. Era un Templare. Un figlio di puttana altissimo. Non l’ho visto bene in faccia.»

Il vecchio si strinse nelle spalle. Presi un’altra banconota e la misi vicino alla prima accanto al mio boccale.

«Sono arrivati insieme?» lo spronai. «Tutt’e tre?»

«Non so… non posso… No, un momento. Il tuo uomo e il Templare sono entrati per primi. Mi ricordo di aver notato la tonaca prima che l’altro si sedesse.»

«Descrivimi l’altro uomo.»

Il vecchio chiamò il mecc e ordinò un terzo whisky. Usai la mia carta e il servitore scivolò via sui respingenti rumorosi.

«Come te» disse il vecchio. «Sul tuo genere.»

«Basso? Braccia e gambe robuste? Lusiano?»

«Già. Credo. Mai visto qui prima.»

«E poi?»

«Niente capelli. Solo una comesichiama che mia nipote portava sempre. Una coda di cavallo.»

«Un codino» dissi.

«Sì. Chiamalo come ti pare.» Allungò la mano verso le banconote.

«Ancora un paio di domande. Hanno avuto discussioni?»

«No, non mi sembra. Parlavano a voce molto bassa. Il locale è quasi vuoto, a quell’ora.»

«Che ore erano?»

«Mattina. Circa le dieci.»

Coincideva con il codice segnato sulla velina di credito.

«Hai sentito qualche brano di conversazione?»

«Ah-ah.»

«Chi parlava di più?»

Il vecchio bevve un sorso e corrugò la fronte, riflettendo. «Prima il Templare. Il tuo uomo sembrava che rispondesse e basta. Mi è sembrato che avesse un’aria sorpresa, una volta che l’ho guardato.»

«Sconvolto?»

«No, solo sorpreso. Come se il tipo con la tonaca avesse detto qualcosa che lui non si aspettava.»

«All’inizio ha parlato soprattutto il Templare, hai detto. E poi? Il mio uomo?»

«Ah-ha, quello con la coda di cavallo. Poi sono, usciti.»

«Tutt’e tre?»

«No. Il tuo, e coda di cavallo.»

«Il Templare è rimasto dentro?»

«Sì. Mi pare. Sono andato al cesso. Al ritorno, non credo che fosse ancora qui.»

«Da che parte sono andati, gli altri due?»

«Non lo so, maledizione. Non ci stavo attento. Bevevo, non giocavo alle spie!»

Annuii. Il mecc rotolò di nuovo dalla nostra parte. Con un cenno lo allontanai. Il vecchio, accigliato, gli fissò la schiena.

«Allora, non discutevano, uscendo? Nessun segno di disaccordo? Uno non costringeva l’altro a uscire?»

«Chi?»

«Il mio tipo e Codino.»

«Merda, non lo so.» Diede un’occhiata alle banconote strette fra le dita sudice e al whisky nella vetrinetta del mecc: capì, forse, che da me non avrebbe più ottenuto né soldi né liquore. «E poi, perché vuoi sapere tutte queste stronzate?»

«Cerco il giovanotto» risposi. Diedi un’occhiata al bar. Ai tavolini sedeva una ventina di clienti. La maggior parte sembrava gente del quartiere, clienti abituali. «Qui c’è qualcun altro che possa averli visti? O qualcuno che ti ricordi di avere visto qui dentro?»

«Ah-ah» rispose lui, ottusamente. Mi accorsi in quel momento che gli occhi del vecchio erano dell’esatto colore del whisky che beveva.

Mi alzai e misi sul tavolo un’ultima banconota da venti. «Grazie, amico.»

«Sempre a tua disposizione, sorella.»

Prima che arrivassi alla porta, il mecc stava già ruotando verso di lui.

Tornai a piedi verso la biblioteca e mi fermai un attimo nella piazza affollata del teleporter. Ci rimasi un minuto. Scenario fino a quel momento: Johnny incontra il Templare o viene avvicinato da lui, nella biblioteca o all’esterno, la mattina appena arriva. Vanno a parlare in privato, nel bar. Una frase del Templare sorprende Johnny. Un uomo col codino, forse un lusiano, arriva e prende in mano la conversazione. Johnny e Codino escono insieme. In un imprecisato momento successivo, Johnny si teleporta su TC2 e poi da lì, con un’altra persona — forse Codino, o il Templare — va su Madhya, dove qualcuno cerca d’assassinarlo. Anzi, lo assassina.

Troppi buchi. Troppi “qualcuno”. Troppo poco da riferire, per una giornata di lavoro.

Ero incerta se tornare subito su Lusus, quando il comlog trillò sulla frequenza protetta che avevo riservato a Johnny.

Aveva la voca rauca. «Signora Lamia. Venga subito, per favore. Credo che ci abbiano appena riprovato. A uccidermi.» Le coordinate che seguirono erano quelle dell’Alveare Bergson Est.

Corsi al teleporter.


La porta del minialloggio di Johnny era socchiusa. Non c’era nessuno nel corridoio e dall’interno non arrivavano rumori. Qualsiasi cosa fosse accaduto, non aveva ancora richiamato le autorità.

Con un unico movimento, estrassi dalla tasca della giacca la pistola di papà, misi il colpo in canna e accesi il laser di puntamento.

Entrai tenendomi bassa, con le braccia tese in avanti, mentre il puntino rosso scivolava sulle pareti scure, su una stampa a buon mercato appesa alla parete opposta, in un corridoio più buio che portava nel minialloggio. L’anticamera era deserta. Il soggiorno e la piazzuola per gli ologrammi erano vuoti.

Johnny giaceva sul pavimento della camera da letto, con la testa contro il materasso. Il sangue inzuppava le lenzuola. Cercò di alzarsi e ricadde. Dietro di lui la porta scorrevole era aperta: dal viale sottostante soffiava un’aria umida di vapori industriali.

Controllai l’unico armadio, il breve corridoio, l’angolo cottura; tornai indietro e uscii sul balcone. La vista era spettacolare, da quel posatoio a duecento e passa metri sulla parete ricurva dell’Alveare, sopra i dieci, venti chilometri del Trench Mall. Il tetto dell’alveare era una massa scura di travi, un altro centinaio di metri più in alto. Migliaia di luci, di ologrammi pubblicitari e di neon, splendevano dal Mall e formavano nella nebbiolina della distanza un’immagine elettrica, vivida e confusa.

In quella parete dell’Alveare c’erano centinaia di balconi identici, tutti deserti. Il più vicino distava venti metri. Erano quel genere di accessorio che gli agenti immobiliari indicano come extra (Dio solo sa quanto Johnny pagasse di supplemento, per una stanza sull’esterno); ma ogni balcone era del tutto impraticabile per via della forte corrente d’aria che si precipitava verso i ventilatori in alto e portava con sé la solita polvere e i detriti, oltre all’eterno odore di benzina e ozono dell’Alveare.

Misi in tasca la pistola e andai a controllare Johnny.

Il taglio andava dall’attaccatura dei capelli a un sopracciglio: era superficiale, ma brutto. Johnny si era alzato a sedere, mentre tornavo dal bagno portando un tampone sterile che poi premetti sulla ferita. «Cos’è successo?» domandai.

«Due uomini… aspettavano in camera da letto, quando sono entrato. Avevano evitato l’allarme passando dalla porta del balcone.»

«Merita un rimborso della tassa sulla sicurezza. E poi?»

«Abbiamo lottato. Sembrava volessero trascinarmi verso la porta. Uno aveva una siringa, ma sono riuscito a fargliela cadere di mano.»

«Cosa li ha fatti scappare?»

«Ho azionato l’allarme interno.»

«Ma non l’allarme di sicurezza dell’Alveare?»

«No. Non volevo coinvolgere la sicurezza.»

«Chi l’ha colpita?»

Johnny sorrise, imbarazzato. «Io. Quando mi hanno lasciato andare, li ho inseguiti. Ho inciampato nel comodino.»

«Una zuffa mediocre da una parte e dall’altra» commentai. Accesi la luce, esaminai il tappeto e alla fine trovai la siringa: era rotolata sotto il letto.

Johnny la fissò come se fosse una vipera.

«Cosa ne pensa?» dissi. «Ancora AIDS II?»

Scosse la testa.

«Conosco un posto dove farla analizzare» dissi. «Secondo me, è un semplice calmante ipnotico. Volevano solo che lei andasse con loro… non volevano ucciderla.»

Johnny scostò il tampone. Fece una smorfia. Il sangue colava ancora. «Perché dovrebbero rapire un cìbrido?»

«Me lo dica lei. Comincio a pensare che il suo cosiddetto assassinio sia stato solo un tentativo di rapimento malriuscito.»

Di nuovo Johnny scosse la testa.

Chiesi: «Uno di loro aveva il codino?»

«Non so. Portavano dei berretti e delle maschere osmotiche.»

«Uno dei due era abbastanza alto da poter essere un Templare o abbastanza robusto da poter essere un lusiano?»

«Un Templare?» Johnny sembrò sorpreso. «No. Uno era di altezza media. Quello con la siringa poteva anche essere un lusiano. Era molto robusto.»

«E così lei avrebbe inseguito a mani nude un delinquente lusiano! Ha per caso dei bioprocessori o impianti migliorativi di cui sono all’oscuro?»

«No. Ero solo folle di rabbia.»

Lo aiutai a mettersi in piedi. «E così le IA si arrabbiano pure?»

«Io, sì.»

«Venga. Conosco una clinica automatizzata a prezzi scontati. Poi si fermerà da me per un po’.»

«Da lei? E perché?»

«Perché adesso non ha più bisogno d’un investigatore. Ha fatto carriera: le serve una guardia del corpo.»


Nello schema zonale dell’Alveare il mio alloggio non era registrato come appartamento; ero subentrata in un loft ristrutturato nel sottotetto, di proprietà d’un amico caduto nelle grinfie degli usurai. Il mio amico aveva deciso in età matura di emigrare in una delle colonie periferiche e io avevo fatto un buon affare, occupando un locale nello stesso corridoio del mio ufficio, solo un chilometro più avanti. L’ambiente era poco raffinato, a volte il rumore proveniente dai moli di carico soffocava la conversazione, ma mi forniva uno spazio almeno dieci volte superiore a quello di un normale minialloggio e mi permetteva di usare in casa i pesi e l’attrezzatura d’allenamento.

A essere sinceri, Johnny sembrò impressionato quando vide il loft, e io avrei dovuto prendermi a calci per essermi compiaciuta della sua reazione: la mossa seguente sarebbe stata quella di mettermi rossetto e fondotinta per quel cìbrido!

«Dunque, perché vive su Lusus?» gli domandai. «La maggior parte degli extraplanetari trova insopportabile la sua gravità e monotono il suo panorama. Inoltre la sua ricerca si svolge nella biblioteca di Vettore Rinascimento. Perché ha scelto questo mondo?»

Mi ritrovai a guardarlo e ad ascoltarlo con grande attenzione. Aveva capelli lisci in cima, con la riga in mezzo, che scendevano fino al colletto in riccioli castano rossicci. Aveva l’abitudine di parlare tenendo la guancia appoggiata alla mano. Fui colpita dall’idea che il suo modo di esprimersi era in realtà quello di chi ha imparato alla perfezione una lingua nuova, e non conosce le pigre scorciatoie di chi la usa dalla nascita. E in sottofondo c’era l’accenno di una cadenza ritmica che mi ricordava le sfumature di un ladro acrobata da me conosciuto, originario di Asquith, un mondo della Rete, tranquillo e arretrato, colonizzato da immigranti della Prima Espansione, giunti da quelle che un tempo erano le Isole Britanniche.

«Ho vissuto su molti mondi» disse Johnny. «Il mio scopo è quello di osservare.»

«Come poeta?»

Scosse la testa, trasalì, si toccò con cautela i punti. «No. Non sono un poeta. Lui lo era.»

Nonostante le circostanze, in Johnny c’erano un’energia e una vitalità che avevo riscontrato in troppo pochi uomini. E difficile da descrivere, ma ho visto locali pieni di personaggi importanti dove le posizioni cambiavano in modo da orbitare intorno a una personalità come la sua. Non si trattava semplicemente della sua reticenza e della sua sensibilità: Johnny sembrava emanare una sorta d’aura, anche quando si limitava a guardare.

«E lei perché vive qui?» mi chiese.

«Ci sono nata.»

«Sì, ma ha trascorso l’infanzia su Tau Ceti Centro. Suo padre era senatore.»

Non risposi.

«Molti si aspettavano che entrasse anche lei in politica» disse. «È stato il suicidio di suo padre, a dissuaderla?»

«Non è stato un suicidio.»

«No?»

«Tutti i servizi giornalìstici e le inchieste l’hanno definito suicidio» dissi, con voce atona. «Sbagliavano. Mio padre non si sarebbe mai tolto la vita.»

«Allora è stato un omicidio.»

«Sì.»

«Nonostante il fatto che non ci fosse un movente, nessuna traccia di un presunto colpevole?»

«Sì.»

«Capisco» disse Johnny. La luce giallastra delle lampade sul molo di carico entrava dai vetri impolverati e gli faceva risplendere i capelli come se fossero di rame nuovo. «Le piace fare l’investigatrice?»

«Quando ho successo» risposi. «Ha fame?»

«No.»

«Allora riposiamoci un poco. Prenda pure il lettino.»

«Le accade sovente di avere successo nelle indagini?»

«Vedremo domani.»


Al mattino Johnny andò su Vettore Rinascimento all’incirca alla solita ora; attese un momento nella piazza e poi si teleportò nel Museo degli Antichi Coloni, su Sol Draconis Septem. Da lì balzò nel terminex principale di Nordholm e poi nel mondo dei Templari, Bosco Divino.

Avevamo stabilito in anticipo il programma; lo aspettavo su Vettore Rinascimento, all’ombra del colonnato.

L’uomo con il codino era il terzo della fila, dietro Johnny. Era senza dubbio lusiano: con quel pallore dovuto all’Alveare, quella muscolatura, quella massa corporea e quel modo arrogante di muoversi, avrebbe potuto essere un mio fratello perduto da tempo.

Non guardò mai Johnny ma notai subito che quando il cìbrido si diresse verso i portali esterni parve sorpreso. Rimasi indietro e vidi solo di sfuggita la sua carta, ma avrei scommesso anche la camicia che si trattava di un tracciatore.

Nel Museo degli Antichi Coloni, Codino si comportò con prudenza: non perse mai di vista Johnny ma si guardò anche alle spalle. Io indossavo una tuta da meditazione degli gnostici Zen, compreso il visore isolante e tutto il resto, e non guardai mai dalla loro parte, mentre facevo il giro del portale esterno del museo e mi teleportavo direttamente su Bosco Divino.

Mi sentii a disagio quando lasciai Johnny da solo nel museo e nel terminex di Nordholm, ma erano luoghi pubblici e quindi si trattava di un rischio calcolato.

Al momento previsto, Johnny varcò il portale d’arrivo del Mondo Albero e acquistò un biglietto per il giro turistico. La sua ombra fu costretta ad affrettarsi per non perderlo, uscì allo scoperto e s’imbarcò sullo skimmer omnibus un attimo prima della partenza. Io mi ero già sistemata sul sedile posteriore del ponte superiore e Johnny trovò un posto nella parte anteriore, secondo i piani. Ora indossavo l’abbigliamento base del turista; la mia olocamera era una delle dieci in azione, quando Codino si affrettò a prendere posto tre file dietro Johnny.

Il giro turistico del Mondo Albero è sempre divertente (papà mi ci portò per la prima volta quando avevo solo tre anni standard) ma stavolta, mentre lo skimmer si muoveva sopra i rami grandi come autostrade e girava in alto intorno al tronco che ha il diametro di Mons Olympus, reagii alla vista dei Templari incappucciati con qualcosa che s’avvicinava molto all’ansia.

Johnny e io avevamo discusso diversi modi astuti e sofisticati per seguire fin nel suo covo Codino, se si fosse fatto vedere, ed eravamo pronti a perdere settimane intere, se occorreva, per scoprire il suo gioco. Ma alla fine optai per un approccio tutt’altro che sofisticato.

L’omnibus ci aveva scaricati nei pressi del Museo Muir; la gente girava nella piazza, incerta se spendere dieci marchi nell’acquisto di un biglietto per educarsi, o puntare direttamente al negozio di regali. Raggiunsi Codino, lo afferrai per un braccio e gli dissi, in tono familiare: «Ehi, ti spiace dirmi che diavolo vuoi dal mio cliente?»

Un vecchio stereotipo dice che i lusiani sono sagaci come una sonda gastrica e quasi altrettanto spiacevoli. Se da parte mia contribuivo a confermare la prima parte di questo luogo comune, Codino andò vicinissimo a rinforzare la seconda.

Fu rapido. Anche se la mia stretta dall’aria casuale gli paralizzava i muscoli del braccio destro, il coltello nella mano sinistra entrò in azione in meno di un secondo.

Mi lasciai cadere a destra mentre la lama tagliava l’aria a un centimetro dalla mia guancia, colpii il lastrico e rotolai, poi mentre mi alzavo in ginocchio per affrontare la minaccia impugnai lo stordi tore neurale.

Nessun pericolo. Codino correva. Lontano da me. Lontano da Johnny. Spinse da parte i turisti, scantonò dietro di loro, si diresse all’ingresso del museo.

Rimisi nella fondina da polso lo storditore e presi a correre anch’io» Gli storditori sono armi ottime, a distanza ravvicinata (facili da puntare quanto il fucile a canne mozze, ma senza effetti terribili se la rosa incontra spettatori innocenti) però non valgono un fico a una decina di metri. A piena intensità, potevo procurare a tutti i turisti della piazza un brutto mal di testa, ma Codino era già troppo lontano per fermarlo. Lo inseguii.

Johnny corse verso di me. Gli feci segno di stare indietro. «A casa mia!» gli gridai. «E spranga tutto!»

Codino aveva raggiunto l’ingresso del museo e ora si era girato verso di me. Impugnava sempre il coltello.

Mi lanciai alla carica provando una sorta di gioia al pensiero dei minuti successivi.

Codino superò con un balzo il cancelletto girevole e spinse da parte i turisti per infilare la porta. Lo seguii.

Solo quando fui nella Grande Sala e lo vidi farsi largo a spintoni sull’affollata scala mobile che portava al Mezzanino dell’Escursione, capii dove era diretto.

Mio padre mi aveva portato a fare l’Escursione Templare quando avevo tre anni. I portali dei teleporter erano sempre aperti; occorrevano circa tre ore per compiere il giro turistico dei trenta mondi in cui gli ecologi templari avevano conservato parti di natura che secondo loro avrebbero compiaciuto il Muir. Non lo ricordavo con sicurezza, ma mi sembrava che i sentieri fossero piste a spirale coi portali abbastanza vicini per facilitare il transito delle guide templari e dei tecnici della manutenzione.

Merda.

Una guardia in uniforme, accanto al portale del giro turistico, vide il trambusto provocato dal passaggio di Codino e cercò di bloccare quell’intruso incivile. Anche da quindici metri vidi l’espressione d’incredulità e stupore che si dipinse sul viso della guardia di mezz’età, mentre barcollava all’indietro: il manico del lungo coltello gli sporgeva dal petto.

La guardia, probabilmente uno sbirro locale in pensione, abbassò lo sguardo; pallida in viso, toccò cautamente il manico d’osso, come se fosse uno scherzo, e crollò bocconi sulle piastrelle del mezzanino. Strilli di turisti. Qualcuno gridò di chiamare un medico. Codino diede uno spintone a una guida templare e si lanciò attraverso il portale luminoso.

La cosa non rientrava affatto nei piani.

Mi precipitai verso il portale senza rallentare.

Dall’altra parte, quasi scivolai sull’erba sdrucciolevole di un pendio. Cielo color giallo limone, su di noi. Profumi tropicali. Facce stupite si girarono dalla mia parte. Codino era a metà strada dall’altro portale; stava tagliando fra le aiuole ben curate e toglieva di mezzo a calci i bonsai potati in fogge bizzarre. Riconobbi il mondo di Fuji; sbandai lungo il pendio, tornai ad arrampicarmi fra le aiuole e seguii la pista devastata lasciata da Codino. «Fermate quell’uomo!» urlai, rendendomi conto di quanto doveva sembrare ridicolo. Nessuno si mosse, tranne un turista giapponese che alzò l’olocamera per registrare la scena.

Codino si guardò indietro, si fece largo fra un gruppo di turisti a bocca aperta, varcò il portale.

Agitai lo storditore verso la folla. «Indietro! Indietro!» gridai. Tutti si affrettarono a togliersi di mezzo.

Varcai con prudenza il portale, arma in pugno. Codino non aveva più il coltello, ma non sapevo quali altri giocattoli portasse con sé.

Luce brillante sull’acqua. Le onde violacee di Mare Infinitum. Il sentiero era una stretta passerella di legno a dieci metri sopra i sostegni galleggianti. S’allontanava con una curva dolce sopra una barriera corallina da regno delle fate e isole di sargassi e fuchi gialli, prima di curvare ancora; ma una stretta passerella tagliava verso il portale al termine del sentiero. Codino aveva scavalcato il cancello con la scritta: ACCESSO VIETATO ed era già a metà della passerella.

Superai di corsa i dieci passi che mi separavano dall’orlo della piattaforma, selezionai il raggio compresso, misi lo storditore sull’automatico totale e sventagliai intorno con il raggio invisibile come se maneggiassi una pompa da giardino.

Codino sembrò inciampare, ma poi percorse gli ultimi dieci metri e si tuffò. Imprecando m’arrampicai sul cancello senza badare alle grida d’una guida templare dietro di me. Colsi la fuggevole visione di un cartello che ricordava ai turisti di indossare l’equipaggiamento termico e poi fui al di là del portale, accorgendomi appena del formicolio che accompagna il passaggio dello schermo teleporter.

Una tempesta di neve ruggiva, frustava il campo di contenimento ad arco che trasformava il sentiero turistico in un tunnel nel candore abbagliante. Sol Draconis Septem: l’avamposto settentrionale in cui le pressioni politiche dei Templari sulla Totalità avevano fermato il progetto di riscaldamento planetario, allo scopo di salvare gli spettri artici. Sulle spalle la gravità di 1,7 g mi pesava come il giogo del mio attrezzo d’allenamento. Era un peccato che anche Codino fosse lusiano: se avesse avuto il fisico d’un normale individuo della Rete, lì non ci sarebbe stata nessuna lotta. Adesso avremmo visto chi di noi due era più in forma.

Codino, cinquanta metri più avanti, si guardava indietro da sopra la spalla. L’altro teleporter era vicino, ma la tempesta rendeva invisibile e inaccessibile qualsiasi cosa non si trovasse sulla pista. Considerata la gravità, questo era il sentiero dell’escursione più breve e tornava indietro dopo appena duecento metri. Sentivo l’ansimare di Codino, mentre mi avvicinavo. Correvo con facilità: impossibile che riuscisse a precedermi al teleporter successivo. Sul sentiero non c’erano turisti e per il momento nessuno ci dava la caccia. Mi dissi che non sarebbe stato un brutto posto per interrogarlo.

Codino era a trenta metri dal portale d’uscita; si girò, si lasciò cadere su un ginocchio e puntò una pistola a energia. Il primo colpo fu corto, forse per via dell’insolito peso dell’arma nella gravità di Sol Draconis, ma abbastanza vicino da lasciare a un metro da me uno sfregio bruciacchiato di passerella scorificata e di ghiaccio fuso. Codino aggiustò la mira.

Mi infilai nel campo di contenimento; mi aprii la strada a spallate per vincerne la resistenza elastica e barcollai fra cumuli di neve che mi arrivavano alla vita. L’aria gelida mi bruciò i polmoni; nel giro di qualche secondo, la neve spinta dal vento mi ricoprì il viso e le braccia nude. Codino mi cercava, dall’interno del sentiero illuminato, ma la foschia della tormenta lavorava a mio favore, adesso, mentre avanzavo nella sua direzione fra cumuli di neve.

Codino spinse nel campo di contenimento testa, spalle e braccio destro, e strinse gli occhi sotto il fuoco di sbarramento delle particelle di ghiaccio che gli coprirono subito le guance e la fronte. Il suo secondo colpo fu alto: sentii il calore della saetta, quando mi passò sopra la testa. Adesso ero a meno di dieci metri da lui. Regolai lo storditore sull’ampiezza massima e lo azionai senza sollevare la testa dal mucchio di neve in cui mi ero lasciata cadere.

Codino mollò nella neve la pistola a energia e cadde all’indietro, al di là del campo di contenimento.

Feci un grido di trionfo che si perse nel ruggito del vento e barcollai verso la parete del campo. Ora mani e piedi mi sembravano cose staccate da me, al di là del dolore provocato dal freddo. Le guance e le orecchie mi bruciavano. Scacciai dalla mente la paura di congelare e mi lanciai contro il campo.

Era un campo di terza classe, progettato per tener fuori gli elementi e cose gigantesche come gli spettri artici, ma consentire ai turisti o ai Templari in missione il rientro sul sentiero; però, indebolita dal freddo, mi ritrovai a battere per mezzo secondo contro la parete, come una mosca contro la plastica, scivolando sulla neve e sul ghiaccio. Alla fine mi lanciai in un tuffo, atterrai goffamente e mi tirai dietro le gambe.

L’improvviso tepore del sentiero mi fece tremare in maniera incontrollabile. Schegge di ghiaccio caddero per terra mentre mi costringevo ad alzarmi in ginocchio e poi in piedi.

Codino, con il braccio destro penzoloni come se fosse rotto, fece di corsa gli ultimi cinque metri che lo separavano dal portale d’uscita. Sapevo che razza di dolore provoca uno storditore neurale e non lo invidiai. Codino si guardò indietro una volta sola, mentre mi lanciavo al suo inseguimento; poi varcò il portale.

Patto-Maui. L’aria tropicale profumava d’oceano e di vegetazione. Il cielo era di un azzurro Vecchia Terra. Vidi immediatamente che la pista portava su una delle poche isole mobili che i Templari avevano salvato all’addomesticamento dell’Egemonia. Era un’isola grande, forse mezzo chilometro da un capo all’altro; dal portale d’accesso, su una larga tolda che circondava il tronco con la vela principale, vedevo le ampie foglie-vela gonfiarsi nel vento e le liane-timone color indaco lasciare una lunga scia. Il portale d’uscita si trovava a soli quindici metri, in fondo a una scalinata; ma vidi subito che Codino si era diretto di corsa dall’altra parte, lungo il sentiero principale, verso un gruppo di capanne e di banchi di vendita sul bordo dell’isola.

Solo lì, a metà del giro d’escursione, era concesso agli edifici umani di accogliere i viaggiatori stanchi che acquistavano rinfreschi o souvenir a beneficio della Confraternita Templare. Cominciai a scendere in fretta l’ampia scalinata verso il sentiero inferiore: tremavo ancora e i miei vestiti s’inzuppavano rapidamente con lo sciogliersi della neve. Perché Codino correva verso quel gruppetto di gente laggiù?

Notai l’esposizione di vistosi tappeti a noleggio e capii. In molti mondi della Rete le stuoie Hawking erano illegali, ma su Patto-Maui erano ancora una tradizione a causa della leggenda di Siri: lunghi meno di due metri e larghi uno, gli antichi giocattoli erano allineati in attesa di portare i turisti sul mare aperto e poi di nuovo sull’isola mobile. Se Codino arrivava a un tappeto volante… Mi lanciai a tutta velocità, lo raggiunsi a qualche metro dall’esposizione dei tappeti e lo urtai subito sotto le ginocchia. Rotolammo dalla parte dei banchi di vendita. I pochi turisti strillarono e si sparpagliarono.

Mio padre mi ha insegnato una cosa che ogni bambino ignora a suo rischio: un grosso può sempre picchiare un piccolo. Nel nostro caso, eravamo quasi pari. Con una torsione Codino si liberò, saltò in piedi e assunse la posizione a braccia tese e,dita allargate tipica dei combattimenti in stile orientale. Adesso avremmo visto chi era il migliore.

Codino andò a segno per primo, fintando con la sinistra un colpo di punta a dita tese e vibrando invece un calcio laterale. Tentai di schivarlo, ma non riuscii a evitare la botta, abbastanza forte da intorpidirmi spalla e braccio sinistri.

Codino danzò all’indietro. Lo seguii. Vibrò un pugno di destro. Parai. Con la sinistra colpì di taglio. Bloccai con l’avambraccio destro. Codino arretrò, girò su se stesso, menò un fendente di piede. Lo schivai, gli afferrai al volo la gamba e lo sbattei sulla sabbia.

Codino balzò in piedi. Lo atterrai con un corto gancio sinistro. Lui rotolò lontano e si alzò in ginocchio. Con un calcio lo colpii dietro l’orecchio sinistro, ma non abbastanza forte da fargli perdere conoscenza.

Era fin troppo sveglio, mi accorsi un attimo dopo, mentre eludeva la mia guardia e tentava un colpo di punta al cuore. Riuscì solo a farmi un livido nei muscoli sotto il seno destro. Gli diedi un pugno sui denti con tutta la mia forza; schizzando sangue, rotolò fino alla linea di galleggiamento e rimase immobile. Alle nostre spalle, la gente correva verso il portale d’uscita gridando di chiamare la polizia.

Afferrai per la coda il potenziale assassino di Johnny, lo trascinai al limitare dell’isola e gli tuffai la faccia nell’acqua finché non vidi che rinveniva. Allora lo rigirai e lo sollevai afferrandolo per la camicia lacera e macchiata. Forse avevamo un paio di minuti, prima che arrivasse qualcuno.

Codino mi fissò con gli occhi vitrei. Gli diedi una scrollata e me lo tirai più vicino. «Stammi a sentire, amico» dissi a bassa voce. «Adesso faremo quattro chiacchiere, brevi ma sincere. Per cominciare, dimmi chi sei e perché infastidisci il tizio che inseguivi.»

Sentii l’impulso di corrente prima ancora di vedere l’azzurro. Con un’imprecazione lo lasciai andare. Subito un nimbo elettrico sembrò circondare l’intero corpo di Codino. Feci un salto indietro, ma non prima che mi si rizzassero i peli e che l’allarme del comlog si mettesse a squillare. Codino aprì la bocca per urlare e vidi l’azzurro all’interno, simile a un effetto speciale mal riuscito. Il davanti della camicia sfrigolò, si annerì, prese fuoco. Sul petto, sotto la stoffa, spuntarono delle chiazze azzurre, come su un’antica pellicola che si fonde per il calore. Le chiazze si allargarono, si unirono, si allargarono ancora. Nella cavità toracica, gli organi si fusero nella fiamma azzurrina. Codino gridò di nuovo, mentre gli occhi e i denti gli cadevano nel fuoco azzurro.

Feci un altro passo indietro.

Ora Codino bruciava e le fiamme rosso arancione coprivano il bagliore azzurro. La carne esplose come se le ossa avessero preso fuoco. Nel giro d’un minuto, era la caricatura fumante di un uomo; un corpo rattrappito e rimpicciolito, come se fosse stato vittima di un incendio. Mi girai e mi portai la mano alla bocca. Scrutai il viso dei pochi spettatori, per capire se quello che era successo si poteva attribuire a uno di loro. Incrociai sguardi attoniti e spaventati. Più in alto, dal teleporter, sbucarono all’improvviso alcune guardie della sicurezza in uniforme grigia.

Maledizione! Mi guardai intorno. Le vele-albero ondeggiavano e si gonfiavano. Ragnatelidi sfolgoranti, belli anche di giorno, svolazzavano fra la vegetazione tropicale dalle cento sfumature. La luce del sole danzava sull’oceano azzurro. La strada verso tutti e due i portali era bloccata. La guardia di sicurezza che guidava il gruppetto impugnava un’arma.

In tre passi arrivai alla prima stuoia Hawking, cercando di ricordare, in base alla mia unica esperienza di vent’anni prima, come si attivavano le fibre di volo. Disperata, diedi qualche colpo al disegno.

Il tappeto volante s’irrigidì e si sollevò di dieci centimetri sopra la spiaggia. Ora sentivo le grida degli uomini della sicurezza che si facevano largo tra la folla. Una donna con l’abbigliamento vistoso di Rinascimento Minore tese il braccio nella mia direzione. Saltai giù dal tappeto, afferrai gli altri sette e tornai a bordo del mio. Riuscii a stento a trovare i disegni di volo, sotto quel mucchio: smanacciai i comandi di partenza finché il tappeto non si alzò bruscamente in volo e quasi mi sbatté per terra.

Cinquanta metri più avanti e trenta metri più in alto, gettai a mare gli altri tappeti e mi girai a guardare che cosa stava succedendo sulla spiaggia. Alcune guardie in uniforme grigia circondavano i resti bruciati. Un’altra puntava nella mia direzione una verga argentata.

Delicati aghi di dolore mi formicolarono nel braccio, nelle spalle e nel collo. Le palpebre mi si abbassarono di colpo. Quasi scivolai giù dal tappeto, sulla mia destra. Con la sinistra afferrai l’orlo opposto, mi lasciai cadere in avanti e con dita che sembravano di legno toccai il disegno di salita. Mentre salivo di nuovo, mi frugai nella manica destra per prendere lo storditore. La fondina da polso era vuota.

Un minuto più tardi mi misi a sedere e mi liberai di gran parte degli effetti della scarica, anche se le dita ancora mi bruciavano e avevo un feroce mal di testa. L’isola mobile, molto indietro, rimpiccioliva a ogni secondo. Un secolo prima, l’isola sarebbe stata guidata dai branchi di delfini portati originariamente lì durante l’Egira, ma il programma di pacificazione dell’Egemonia durante la Rivolta Siri aveva ucciso gran parte dei mammiferi acquatici e ora le isole vagavano senza una meta precisa, con il loro carico di turisti della Rete e di proprietari di stazioni di villeggiatura.

Controllai l’orizzonte in cerca di un’altra isola, della traccia di una delle rare estensioni di terraferma. Niente. O, meglio, cielo azzurro, oceano senza confini, morbide pennellate di nubi lontano a ovest. O era est?

Sganciai dalla cintura il comlog e composi l’ordine d’accesso generico alla sfera dati, ma mi bloccai subito. Se le autorità mi avevano seguito fin qui, come prossimo passo avrebbero localizzato la mia posizione e mandato uno skimmer o un VEM della sicurezza. Non ero certa che potessero rintracciare il mio comlog durante il collegamento, ma non vedevo motivo di facilitare loro il compito. Misi in posizione d’attesa la richiesta d’accesso e mi guardai di nuovo intorno.

Ottima mossa, Brawne: gironzolare a duecento metri d’altezza, su un tappeto volante vecchio di tre secoli, con Dio sa quante, o quanto poche, ore di carica nei fili di volo, a mille e forse più chilometri da una terra di qualsiasi genere! E persa. Magnifico.

Incrociai le braccia e mi sedetti a riflettere.

«Signora Lamia?» La voce dolce di Johnny rischiò di farmi cadere dal tappeto.

«Johnny?» Fissai il comlog. Era sempre in posizione d’attesa. L’indicatore generale di frequenza di trasmissione era spento. «Johnny, è lei?»

«Certo. Pensavo che non si sarebbe più decisa ad accendere il comlog.»

«Come ha fatto a rintracciarmi? Su quale frequenza chiama?»

«Non ci pensi. Dov’è diretta?»

Con una risata gli risposi che non ne avevo la minima idea. «Può aiutarmi?»

«Aspetti.» Una pausa brevissima. «Bene, la vedo sullo schermo di uno dei satelliti meteorologici… una baracchetta davvero primitiva. Per fortuna il suo tappeto ha un radarfaro passivo.»

Fissai il tappeto, l’unica cosa fra me e una lunga caduta in mare. «Davvero? Gli altri possono rintracciarmi?»

«Potrebbero, ma ho schermato questo particolare segnale. Allora, dove vuole andare?»

«A casa.»

«Non sono sicuro che sia una mossa saggia, dopo la morte del… ah… della nostra persona sospetta.»

Strinsi gli occhi, di colpo diffidente. «E lei come lo sa? Io non le ho detto nulla.»

«Sia seria, signora Lamia. Le frequenze della sicurezza non fanno che parlarne, su sei mondi. Hanno una buona descrizione di lei.»

«Merda.»

«Infatti. Allora, dove vuole andare?»

«Lei dove si trova? Nel mio alloggio?»

«No. L’ho lasciato quando ho sentito parlare di lei sulle frequenze della sicurezza. Sono… nelle vicinanze di un teleporter.»

«Proprio dove mi farebbe comodo trovarmi.» Mi guardai intorno di nuovo. Oceano, cielo, una traccia di nubi. Almeno, niente flotta di VEM.

«D’accordo» disse la voce incorporea di Johnny. «C’è un multi-portale motorizzato della FORCE a meno di dieci chilometri dalla sua posizione attuale.»

Mi schermai gli occhi con una mano e feci un completo giro d’orizzonte. «Col cavolo che c’è» dissi. «Non so quanto sia lontano da qui l’orizzonte, ma ci saranno almeno quaranta chilometri e non vedo un tubo.»

«Base sommergibile» disse Johnny. «Si regga forte. Prendo io i comandi.»

Il tappeto sbandò di nuovo, fece una picchiata e poi planò a velocità costante. Mi aggrappai con tutt’e due le mani e resistetti all’impulso di urlare.

«Sommergibile?» gridai per superare il frastuono del vento. «A che distanza?»

«Intende a che profondità?»

«Sì!»

«Otto braccia.»

Cambiai in metri l’antica unità di misura. Questa volta strillai davvero. «Sono circa quattordici metri sotto la superficie!»

«Dove si aspetta che si trovi, un sommergibile?»

«E lei cosa diavolo si aspetta che faccia? Che trattenga il fiato?» L’oceano si precipitò verso di me.

«Non è necessario» disse il comlog. «Il tappeto ha un primitivo campo antiurto. Dovrebbe resistere facilmente, per sole otto braccia. Si regga forte, prego.»

Mi ressi.


Johnny mi stava aspettando. Il sommergibile, buio e umido del sudore dell’abbandono, conteneva un teleporter di tipo militare che non avevo mai visto. Provai un gran sollievo quando uscii nella luce del sole di una via cittadina dove Johnny mi aspettava.

Gli raccontai che cos’era accaduto con Codino. Percorremmo vie deserte fra edifici vecchi. L’azzurro chiaro del cielo svaniva nella sera. Non c’era nessuno in vista. «Ehi» dissi, fermandomi. «Dove siamo?» Quel mondo somigliava in modo incredibile alla Terra, ma il cielo, la gravità, la consistenza del posto non mi ricordavano niente che avessi già visitato.

Johnny sorrise. «Provi a indovinare. Camminiamo ancora un po’.»

Mentre percorrevamo un ampio viale, vedemmo delle rovine alla nostra sinistra. Mi fermai a guardarle. «Quello è il Colosseo» dissi. «Il Colosseo romano di Vecchia Terra.» Guardai gli edifici invecchiati, le vie acciottolate, gli alberi che si muovevano lievemente nella dolce brezza. «Questa è la ricostruzione di una città della Vecchia Terra, l’antica Roma» dissi, cercando di non far vedere che ero stupita. «Nuova Terra?» Ma capii subito che non era quel mondo. In diverse occasioni ero stata su Nuova Terra: le sfumature del cielo, gli odori, la gravità non erano gli stessi.

Johnny scosse la testa. «Non si trova nella Rete.»

Mi fermai. «Impossibile.» Per definizione, ogni mondo a portata di teleporter si trovava nella Rete.

«Eppure non è nella Rete.»

«Dove, allora?»

«Vecchia Terra.»

Riprendemmo a camminare. Johnny indicò altre rovine. «Il Foro.» Mentre scendevamo una lunga scalinata, disse: «Più avanti c’è Piazza di Spagna, dove passeremo la notte.»

«Vecchia Terra» ripetei. Il mio primo commento in venti minuti. «Viaggio nel tempo?»

«Questo è impossibile, signora Lamia.»

«Un parco a tema, allora?»

Johnny rise. Era una risata piacevole, non impacciata, facile. «Può darsi. In realtà non ne conosco lo scopo né la funzione. È… è un analogo.»

«Un analogo.» Socchiusi gli occhi per guardare il sole rosso al tramonto, appena visibile in fondo alla stretta via. «Assomiglia alle olografie della Vecchia Terra. Mi dà la sensazione giusta, anche se non ci sono mai stata.»

«È molto accurato.»

«Dove si trova? Cioè, intorno a quale stella?»

«Non conosco la sigla. Una stella nell’ammasso Ercole.»

Riuscii a non ripetere le sue parole, ma mi fermai e mi sedetti sullo scalino. Con il motore Hawking l’umanità aveva esplorato, colonizzato e collegato via teleporter pianeti nel raggio di molte migliaia di anni-luce. Ma nessuno aveva tentato di raggiungere i soli che esplodevano nel Nucleo. Avevamo oltrepassato solo un braccio della spirale. L’ammasso Ercole.

«Perché il TecnoNucleo ha costruito una riproduzione di Roma nell’ammasso Ercole?» domandai.

Johnny si sedette accanto a me. Guardammo insieme uno stormo di piccioni alzarsi in volo e roteare sopra i tetti. «Non lo so, signora Lamia. Sono molte, le cose che non ho imparato… un po’ perché finora non hanno suscitato il mio interesse.»

«Brawne» dissi.

«Prego?»

«Chiamami Brawne.»

Johnny sorrise e piegò di lato la testa. «Grazie, Brawne. C’è una cosa, però. Non credo che sia una ricostruzione della sola Roma. Ma di tutta la Vecchia Terra.»

Posai le mani sul gradino caldo di sole. «Di tutta la Vecchia Terra? Di tutti i continenti, di tutte le città?»

«Ne sono convinto. Non sono mai stato fuori dell’Italia e dell’Inghilterra, se si esclude il viaggio per andare dall’una all’altra; ma credo che l’analogo sia completo.»

«Perché, per l’amor di Dio?»

Johnny annuì lentamente. «Forse è proprio questa la ragione. Perché non andiamo dentro, ceniamo e continuiamo a parlarne? Può darsi che abbia a che fare con i due che hanno tentato di uccidermi e con i loro motivi.»


“Dentro” era un appartamento di una grande casa ai piedi della scalinata di marmo. Le finestre guardavano su quella che Johnny chiamava “la piazza”; con lo sguardo potevo risalire la scalinata fino a una grande chiesa giallomarrone e scendere fino alla piazza in cui una fontana a forma di barca faceva zampillare l’acqua nella quiete della sera. Johnny disse che la fontana era opera del Bernini, ma quel nome non mi disse niente.

La stanze erano piccole, ma avevano un soffitto alto e mobili rozzi ma riccamente intagliati, di un’epoca che non riconobbi. Non c’era segno di elettricità, né di apparecchiature moderne. La casa non reagì alla mia voce, né alla porta esterna né a quella dell’appartamento al piano superiore. Mentre il crepuscolo scendeva sulla piazza e sulla città, l’unica luce che entrava dalle alte finestre era quella di alcuni lampioni a gas, o qualche altro combustibile primitivo.

«Escono dal passato della Vecchia Terra» dissi, toccando gli spessi cuscini. Alzai la testa: di colpo capii. «Keats morì in Italia. All’inizio del Diciannovesimo o del Ventesimo secolo. Siamo… in quell’epoca.»

«Sì. Inizio del Diciannovesimo secolo. 1821, per l’esattezza.»

«L’intero pianeta è un museo?»

«Oh, no. In zone diverse ci sono epoche diverse, ovviamente. Dipende dall’analogo che si vuole ottenere.»

«Non capisco.» Eravamo passati in una stanza piena di mobili pesanti. Mi sedetti su un divano bizzarramente intagliato, accanto alla finestra. Un velo di luce dorata toccava ancora la guglia della chiesa marrone chiaro in cima alla scalinata. I piccioni roteavano, bianchi, nel cielo azzurro. «Ci sono milioni di persone… di cìbridi… su questa falsa Vecchia Terra?»

«Non credo» rispose Johnny. «Solo il numero necessario a questo particolare progetto analogico.» Si accorse che ancora non capivo e fece un profondo respiro prima di continuare. «Quando mi… mi svegliai qui, c’erano analoghi cìbridi di Joseph Severn, del dottor Clark, della padrona di casa Anna Angeletti, del giovane sottotenente Elton e di alcuni altri. Bottegai italiani, il proprietario della trattoria in fondo alla piazza che ci portava il pranzo, passanti, questo genere di persone. Una ventina, al massimo.»

«E a loro cos’è successo?»

«Probabilmente sono stati… riciclati. Come l’uomo con il codino.»

«Codino…» Di colpo fissai Johnny, nella stanza sempre più buia. «Era un cìbrido?»

«Senza dubbio. L’autodistruzione che mi hai descritto è proprio il modo in cui mi libererei di questo cìbrido, se fosse necessario.»

La mia mente correva all’impazzata. Ero stata davvero sciocca, avevo imparato ben poco. «Allora a tentare di ucciderla è stata un’altra IA.»

«Sembrerebbe di sì.»

«Perché?»

Johnny mosse le mani. Forse per cancellare quel quanto di conoscenza morto con il mio cìbrido. Qualcosa che io avevo appreso solo di recente, e che l’altra IA… o le altre IA sapevano sarebbe scomparso con il crollo del mio sistema.

Mi alzai, andai avanti e indietro, mi fermai alla finestra. Ora l’oscurità scendeva sul serio. Nella stanza c’erano alcuni lumi, ma Johnny non si mosse per accenderli e io preferivo la penombra. Rendeva ancor meno reale l’irrealtà di quello che sentivo. Guardai nella stanza da letto. Le finestre esposte a ovest lasciavano entrare l’ultima luce. Le lenzuola brillavano, bianche. «Sei morto qui» dissi.

«Lui morì in quella stanza» rispose Johnny. «Non sono lui.»

«Ma hai i suoi ricordi.»

«Sogni per metà dimenticati. Ci sono dei vuoti.»

«Ma sai che cosa sentiva

«Ricordo quel che il progettista pensava che lui sentisse.»

«Dimmelo.»

«Eh?» La pelle di Johnny era pallidissima, nella luce scarsa. I corti riccioli sembravano neri.

«Cosa si prova a morire. Cosa si prova a rinascere.»

Johnny me lo spiegò, con una voce molto bassa, quasi melodiosa, che scivolava a volte in un inglese troppo antico per essere capito, ma molto più bello all’orecchio della lingua ibrida che parliamo al giorno d’oggi.

Mi spiegò che cosa significava essere un poeta ossessionato dalla perfezione, più duro, verso le proprie poesie, perfino dei critici più maligni. E i critici erano stati spietati. Avevano messo in ridicolo le sue poesie, le avevano definite insulse e prive d’originalità. Troppo povero per sposare la donna che amava, aveva prestato del denaro a suo fratello in America, perdendo così l’ultima possibilità di sicurezza economica… e poi provò la breve gloria della piena maturazione della sua vena poetica, proprio quando cadeva preda dello stesso “mal sottile” che aveva già reclamato sua madre e il fratello Tom. Poi era partito per l’esilio in Italia, secondo l’opinione generale “per motivi di salute”, pur sapendo che significava una morte penosa in solitudine all’età di ventisei anni. Johnny mi spiegò la sofferenza nel vedere la scrittura di Fanny sulle lettere che trovava troppo doloroso aprire; la fedeltà del giovane artista Joseph Severn, scelto come compagno di viaggio di Keats da “amici” che alla fine avevano abbandonato il poeta; descrisse come Severn avesse assistito il moribondo e fosse rimasto con lui negli ultimi giorni. Le emorragie notturne, i salassi del dottor Clark e le sue prescrizioni a base di “esercizio fisico e aria buona”, la finale disperazione religiosa e personale che aveva condotto Keats a chiedere che sulla sua tomba fosse scritto questo epitaffio: “Qui giace un uomo il cui nome fu scritto sull’acqua”.

Solo la fioca luce della via metteva in rilievo le alte finestre. La voce di Johnny sembrava galleggiare nell’aria profumata di notte. Parlò del risveglio dopo la morte nel letto in cui era morto, ancora assistito dal fedele Severn e dal dottor Clark; spiegò che ricordava di essere il poeta John Keats così come ci si ricorda della propria identità in un sogno che rapidamente svanisce, pur sapendo per tutto il tempo di essere qualcosa d’altro.

Parlò del seguito dell’illusione, del viaggio di ritorno in Inghilterra, della riunione con la famiglia di Fanny che non era Fanny, del quasi collasso mentale generato dall’incontro. Parlò della sua incapacità a scrivere altre poesie, del crescente estraniamento dagli impostori cìbridi, della sua ritirata in qualcosa che sembrava catatonia combinata con “allucinazioni” della sua vera esistenza come IA nel quasi incomprensibile (per un poeta del XIX secolo) TecnoNucleo, del crollo finale dell’illusione e dell’abbandono del “Progetto Keats”.

«In verità» disse «l’intera, malefica sciarada m’indusse solo a pensare al brano d’una lettera da me scritta… da lui scritta… al fratello George, qualche tempo prima della malattia. Keats scrisse:


Possono non esistere esseri superiori divertiti da qualcuna delle graziose, per quanto istintive, attitudini in cui cade la mia mente, mentre considero la prontezza d’un Ermellino o il timore d’un Cervo? Per quanto una zuffa per strada sia cosa da odiare, le energie che mostra sono belle. Per un essere superiore, i nostri ragionamenti forse assumono lo stesso tono… per quanto errati, forse sono belli. Ed è questa, la vera essenza della poesia.


«Ritieni che il “Progetto Keats” fosse male?» domandai.

«Tutto ciò che inganna è male, credo.»

«Forse sei John Keats più di quanto non ti piaccia ammettere.»

«No. L’assenza d’istinto poetico si è manifestata in altri modi, anche nel corso delle illusioni più elaborate.»

Guardai i contorni scuri degli oggetti nella casa buia. «Le IA sanno che siamo qui?»

«Probabile. Quasi certo. Non posso andare in nessun posto senza che il TecnoNucleo mi rintracci e mi segua. Ma siamo riusciti a sfuggire alle autorità della Rete e ai delinquenti, no?»

«Però adesso sai che ad assalirti è stato qualcuno… qualche intelligenza nel TecnoNucleo.»

«Sì, ma solo nella Rete. Una simile violenza non sarebbe tollerata, nel Nucleo.»

Dalla strada provenne un rumore. Un piccione, mi augurai. Il vento che spingeva spazzatura sui ciottoli, forse. Dissi: «Come reagirà il TecnoNucleo alla mia presenza qui?».

«Non ne ho idea.»

«Sarà certo un posto segreto.»

«È qualcosa che… che considerano irrilevante per l’umanità.»

Scossi la testa. Un gesto inutile, nel buio. «Creare di nuovo la Vecchia Terra… riportare in vita tante persone sotto forma di cìbridi su questo mondo ricreato… IA che uccidono altre IA… irrilevante!» Scoppiai a ridere, ma riuscii a dominare la risata. «Gesù pianse, Johnny.»

«Quasi certamente.»

Mi accostai alla finestra, senza curarmi di offrire un bersaglio a chi si trovasse nella via sottostante, e mi frugai addosso alla ricerca di una sigaretta. Erano ancora umide per l’inseguimento sotto la tempesta di neve; ma una si accese, quando la sfregai. «Johnny, poco fa, quando hai detto che l’analogo della Vecchia Terra era completo, ti ho domandato: “Perché, per l’amor di Dio?” e tu hai risposto qualcosa come: “Forse è proprio questa la ragione”. Era solo un commento sciocco, o intendevi qualcosa di ben definito?»

«Intendevo che forse era proprio per l’amor di Dio.»

«Spiegati meglio.»

Nel buio, Johnny sospirò. «Non capisco lo scopo esatto del “Progetto Keats” e degli altri analoghi della Vecchia Terra, ma ho il sospetto che queste attività facciano parte di un altro progetto del TecnoNucleo, quello di tornare indietro di almeno sette secoli standard per realizzare l’Intelligenza Definitiva.»

«L’Intelligenza Definitiva» ripetei, soffiando una boccata di fumo. «Allora il TecnoNucleo tenta di… mmm… di costruire Dio.»

«Sì.»

«Perché?»

«Non c’è una risposta semplice, Brawne. Proprio come non c’è una semplice risposta alla domanda: perché gli uomini per diecimila generazioni hanno cercato Dio sotto un milione di aspetti? Ma per il Nucleo l’interesse sta più nella ricerca di una maggiore efficienza, di modi più sicuri per trattare… le variabili.»

«Ma il TecnoNucleo può attingere a se stesso e alla megasfera dati di duecento mondi.»

«E ci sarebbero ancora dei vuoti, nei… poteri profetici.»

Gettai dalla finestra la sigaretta e guardai la brace accesa cadere nella notte. Di colpo la brezza era diventata fredda. Mi strinsi nelle braccia. «Tutto questo… la Vecchia Terra, i progetti di resurrezione, i cìbridi… come porta alla creazione dell’Intelligenza Definitiva?»

«Non lo so, Brawne. Otto secoli standard fa, all’inizio della prima Epoca dell’Informazione, un certo Norbert Wiener scrisse: “Può Dio giocare con la sua stessa creatura un gioco significativo? Può, un creatore, anche se limitato, giocare con la propria creatura un gioco significativo?” L’umanità trattò questo problema, senza giungere a risultati conclusivi, con le prime IA. Il Nucleo lo affronta con i suoi progetti di resurrezione. Forse il programma dell’ID è stato completato e di tutto questo rimane una funzione del definitivo Creato/Creatore, una personalità i cui motivi sono molto al di là della comprensione del Nucleo, come quelli del Nucleo sono al di là della comprensione dell’umanità.»

Mi mossi nel buio, urtai con il ginocchio un tavolino basso, mi fermai. «Tutto questo non ci dice chi cerca di ucciderti» commentai.

«No.» Johnny si alzò e si accostò alla parete opposta. Accese un fiammifero e poi una candela. La nostra ombra tremolò sulle pareti e sul soffitto.

Johnny mi venne vicino e mi strinse piano le braccia. La luce fioca gli colorava di rame i riccioli e le ciglia, gli illuminava gli zigomi alti e il mento volitivo. «Perché sei così tenace?» mi chiese.

Lo fissai. Il suo viso era a qualche centimetro dal mio. Le sue labbra erano morbide e calde, e il bacio sembrò durare ore intere. “È una macchina”, mi dissi. “Umano, ma artificiale.” Chiusi gli occhi. La sua mano morbida mi sfiorò la guancia, il collo, la nuca.

«Senti…» mormorai, mentre ci staccavamo per un attimo.

Johnny non mi lasciò terminare. Mi sollevò fra le braccia e mi portò nell’altra camera. Il letto alto. Il materasso morbido, la spessa trapunta. Dall’altra camera la luce della candela tremolò e danzò, mentre ci spogliavamo l’un l’altro, con un’urgenza improvvisa.

Quella notte facemmo l’amore tre volte, ogni volta in risposta ai lenti e dolci imperativi del contatto e del calore e della vicinanza e della crescente intensità delle sensazioni. Ricordo d’averlo guardato, la seconda volta: aveva gli occhi chiusi, i riccioli gli ricadevano mollemente sulla fronte, la luce della candela rivelava un arrossamento sul torace pallido; le braccia e le mani, sorprendentemente forti, erano tese a tenermi ferma. In quel momento aveva aperto gli occhi per incontrare il mio sguardo e io vi lessi solo il riflesso dell’emozione e della passione di quel momento.

Prima dell’alba ci addormentammo. Mentre mi giravo e mi perdevo nel sonno, sentii sulla coscia il tocco fresco della sua mano, un gesto protettivo e casuale che non aveva niente di possessivo.


Ci assalirono alle prime luci dell’alba. Erano cinque uomini, non lusiani ma molto robusti e abili nel lavoro di squadra.

Con un calcio spalancarono la porta dell’appartamento. Rotolai giù dal letto, mi appostai alla porta, li guardai arrivare. Johnny si alzò a sedere e gridò qualcosa, quando il primo lo prese di mira con uno storditore. Si era messo un paio di slip di cotone, prima di addormentarsi; io ero nuda. Ci sono svantaggi effettivi, a combattere nudi se gli avversari sono vestiti, ma quello maggiore è di natura psicologica. Se si riesce a superare l’impressione di essere più vulnerabile, gli altri si compensano facilmente.

Il primo mi vide, decise comunque di stordire Johnny e pagò l’errore: con un calcio gli feci saltare di mano l’arma e con un colpo dietro l’orecchio sinistro lo abbattei. Altri due entrarono nella stanza. Furono abbastanza intelligenti da affrontare prima me. Gli ultimi due saltarono addosso a Johnny.

Bloccai un colpo a dita tese, parai un calcio che mi avrebbe causato seri danni e arretrai. Alla mia sinistra c’era un cassettone alto: il primo, pesante cassetto venne via con facilità. L’uomo robusto davanti a me alzò le braccia per proteggersi il viso, e il legno spesso andò in pezzi; per un attimo la sua reazione istintiva mi diede una buona occasione e ne approfittai, dandogli un calcio con tutta la mia forza. L’uomo numero due mandò un gemito e cadde all’indietro contro il collega.

Johnny lottava, ma uno degli aggressori lo aveva afferrato per il collo e lo stava soffocando, mentre l’altro gli bloccava le gambe. Mi acquattai per terra, mi lasciai colpire dal numero due, poi con un balzo scavalcai il letto. Il tizio che bloccava le gambe di Johnny volò senza un grido dalla finestra, fra vetri e schegge di legno.

Un altro uomo mi saltò sulla schiena: rotolai al di là del letto e sbattei il mio avversario contro la parete. Era in gamba: con la spalla ammortizzò l’urto e cercò di premermi il nervo sotto l’orecchio. Per un secondo si trovò in difficoltà per via del mio strato supplementare di muscoli: gli piantai una gomitata allo stomaco e rotolai via. L’altro uomo mollò Johnny e mi vibrò alle costole un calcio da manuale. Lo assorbii in parte, rimettendoci come minimo una costola; gli girai sotto, senza tante finezze, e con la sinistra gli schiacciai i testicoli. L’uomo gridò. Era fuori combattimento.

Non avevo dimenticato lo storditore caduto per terra, ma anche l’ultimo avversario se ne ricordò: girò intorno al letto, fuori portata, e si buttò a terra per ricuperarlo. Provai una fitta di dolore quando sollevai il letto massiccio, con Johnny ancora sopra, e lo lasciai cadere di colpo sulla testa e sulle spalle dell’uomo. Avevo una costola rotta.

M’infilai sotto il letto, dalla mia parte, recuperai lo storditore e arretrai in un angolo libero.

Uno dei cinque era volato dalla finestra. Quattro metri buoni. Il primo che era entrato era steso ancora sulla soglia. Quello che si era beccato il calcio era riuscito ad alzarsi su un ginocchio e sui gomiti: dal sangue che gli macchiava labbra e mento dedussi che una costola gli avesse trapassato un polmone. Respirava a fatica. Il quarto aveva il cranio fracassato. L’ultimo, rannicchiato accanto alla finestra, si reggeva l’inguine e vomitava. Lo stordii in modo che stesse tranquillo e mi accostai a quello che avevo colpito con un calcio. Lo afferrai per i capelli e lo sollevai. «Chi vi ha mandati?»

«Vaffanculo.» Mi schizzò in faccia goccioline di saliva rossa.

«Dopo, forse. Te lo ripeto: chi vi ha mandati?» Gli piazzai tre dita nel punto in cui la cassa toracica sembrava ammaccata, e spinsi.

L’uomo urlò e diventò livido. Tossì e sputò sangue.

«Chi vi ha mandati?» Avvicinai quattro dita al torace.

«Il vescovo!» Tentò di scansarsi.

«Quale vescovo?»

«Tempio Shrike… Lusus… no, ti prego… oh, merda…»

«Cosa dovevate fare, di lui… di noi?»

«Niente… oh, maledizione… non farlo! Ho bisogno di un medico!»

«Certo. Rispondi.»

«Stordire lui, riportarlo… al Tempio… su Lusus. Per favore, non respiro più.»

«E io?»

«Ucciderti, se opponevi resistenza.»

«Bene» dissi, sollevandolo per i capelli. «Così va bene. Perché lo volevano?»

«Non lo so.» Il grido fu fortissimo. Tenni d’occhio la porta d’ingresso. Impugnavo sempre lo storditore, sotto la manciata di capelli. «Non… lo… so…» ansimò l’uomo. Adesso aveva una forte emorragia. Il sangue mi colava sul braccio e sul seno sinistro.

«Come siete arrivati qui?»

«VEM… sul tetto.»

«Da quale portale?»

«Non lo so… lo giuro… una città sull’acqua. Il VEM è predisposto per tornare lì… ti prego!»

Gli strappai i vestiti. Niente comlog. Niente armi. All’altezza del cuore, un tridente azzurro tatuato. «Sei un goonda?» dissi.

«Sì… Confraternita di Parvati.»

Fuori della Rete. Probabilmente molto difficile da rintracciare. «Tutt’e cinque?»

«Sì… per favore… aiutami… oh, merda… per favore…» Si lasciò andare, semisvenuto.

Lo mollai, arretrai d’un passo, lo spruzzai con lo storditore.

Johnny si era messo a sedere e si massaggiava la gola. Mi fissava con uno sguardo strano.

«Mettiti i vestiti» gli dissi. «Ce ne andiamo.»


Il VEM era un vecchio Vikken panoramico, trasparente, senza serratura a impronta del palmo sulla piastra d’accensione e senza diskey. Raggiungemmo il terminatore prima di avere attraversato la Francia e guardammo giù nel buio quello che Johnny chiamò l’oceano Atlantico. A parte le luci di qualche città galleggiante o di qualche piattaforma di perforazione, l’unica illuminazione proveniva dalle stelle e dal riflesso delle colonie sottomarine, simile a quello d’una piscina illuminata.

«Perché abbiamo preso il loro veicolo?» domandò Johnny.

«Voglio vedere da dove si sono teleportati.»

«Ha detto il Tempio Shrike di Lusus.»

«Già. Ora lo sapremo.»

Il viso di Johnny si scorgeva appena, mentre fissava il mare buio venti chilometri più in basso. «Credi che moriranno?»

«Uno era già morto» risposi. «Quello con il polmone perforato avrà bisogno di assistenza. Altri due stanno bene. Non so che fine ha fatto quello che è volato dalla finestra. A te importa?»

«Sì. La violenza era… barbara.»

«“Per quanto una zuffa per strada sia cosa da odiare, le energie ,che mostra sono belle”» citai. «Non erano cìbridi, vero?»

«Non credo.»

«Quindi almeno due gruppi vogliono mettere le mani su di te: le IA e il vescovo del Tempio Shrike. E continuiamo a non sapere perché.»

«Ora mi sono fatto un’idea.»

Mi girai di scatto sul sedile di flussoschiuma. Le costellazioni in alto — diverse sia da quelle della Vecchia Terra viste in ologramma, sia da quelle dei mondi della Rete da me visitati — emanavano luce sufficiente a permettermi di vedere gli occhi di Johnny. «Sentiamola» dissi.

«Citando Hyperion, mi hai dato una traccia» rispose. «Se non lo conoscevo, vuol dire che è importante.»

«Il bizzarro caso del cane che abbaia nella notte» commentai.

«Eh?»

«Niente. Continua.»

Johnny si sporse verso di me. «C’è una sola spiegazione al fatto che ignori l’esistenza di Hyperion: alcuni elementi del TecnoNucleo mi hanno cancellato l’informazione.»

«Il tuo cìbrido…» Era strano parlare a Johnny in questo modo, ora. «Tu trascorri la maggior parte del tempo nella Rete. Giusto?»

«Sì.»

«Ti sarà capitato di sentir nominare Hyperion. Di tanto in tanto nei notiziari se ne parla, soprattutto a proposito del Culto Shrike.»

«Forse l’ho sentito. Forse proprio per questo sono stato ucciso.»

Tornai a stendermi e guardai le stelle. «Andiamo a chiederlo al vescovo» dissi.

Johnny disse che le luci più avanti erano un analogo di New York nella metà del Ventunesimo secolo. Non sapeva per quale progetto di resurrezione la città fosse stata ricostruita. Staccai l’automatico e ridussi la quota del VEM.

Alti edifici di architettura urbana, appartenenti all’epoca del simbolismo fallico, si alzavano dalle paludi e dalle lagune del litorale nordamericano. Parecchi avevano le luci accese. Johnny indicò un edificio decrepito che conservava una bizzarra eleganza. «L’Empire State Building» disse.

«Bene. Qualunque cosa sia, è lì che il VEM vuole atterrare.»

«È pericoloso?»

Sogghignai. «Tutto, nella vita, è pericoloso.» Lasciai che il veicolo seguisse il percorso pre-programmato. Scendemmo su una piccola piattaforma sotto la guglia dell’edificio. Uscimmo sulla terrazza piena di crepe. Era buio, a parte qualche luce di edifici molto lontani, più in basso, e le stelle. A qualche passo di distanza, un vago bagliore azzurrino contornava il vano d’un teleporter, nel punto dove un tempo c’era forse la porta dell’ascensore.

«Passo prima io» dissi. Ma Johnny l’aveva già varcato. Impugnai lo storditore e seguii Johnny.

Non ero mai stata nel Tempio Shrike di Lusus, ma non avevo dubbi che ora ci trovassimo proprio lì. Johnny mi precedeva di qualche passo, ma non c’era nessun altro. Il luogo era fresco, buio, cavernoso, ammesso che le caverne siano davvero così vaste. Una terrificante scultura policroma appesa a cavi invisibili ruotava in una brezza di cui non ci si accorgeva. Johnny e io ci girammo, quando con un tremolio il portale smise di esistere.

«Be’, abbiamo fatto il lavoro al loro posto, no?» mormorai a Johnny. Anche il mormorio sembrò echeggiare nel salone illuminato di rosso. Non era nei miei piani che Johnny si teleportasse con me nel Tempio.

In quel momento la luce sembrò aumentare: non illuminava realmente l’ampio locale, ma permetteva alla vista di arrivare più lontano, tanto da scorgere il semicerchio di uomini in attesa. Alcuni, ricordai, erano chiamati esorcisti; altri, lettori; e c’erano anche altre categorie di cui non ricordavo il nome. Fossero quel che fossero, era allarmante vederli lì fermi, venti e passa, vestiti in rosso e nero, l’alta fronte illuminata dalla luce rossa che scendeva dall’alto. Riconobbi senza difficoltà il vescovo. Era del mio mondo, anche se era più basso e più grasso della maggior parte di noi lusiani. La sua veste era d’un rosso intenso.

Non tentai di nascondere lo storditore. Era sempre possibile, se cercavano d’assalirci, abbatterli tutti. Possibile, ma non probabile. Non vedevo armi, ma le lunghe vesti potevano nascondere arsenali interi.

Johnny avanzò verso il vescovo, con me a ruota. Ci fermammo a dieci passi da lui. Il vescovo era l’unico seduto: la poltrona, di legno, sembrava pieghevole, in modo da rendere possibile il trasporto senza che i suoi intricati elementi, braccioli, sostegni, schienale, gambe si scomponessero. Non si poteva dire altrettanto della massa di muscoli e di grasso, evidente sotto la veste del vescovo.

Johnny avanzò ancora d’un passo. «Perché ha cercato di rapire il mio cìbrido?» Parlò al sant’uomo del Culto Shrike come se tutti gli altri non esistessero.

Il vescovo ridacchiò e scosse la testa. «Mia cara… entità, è vero che volevamo la sua presenza nel nostro luogo di culto, ma non ha nessuna prova che siamo coinvolti in un tentativo di rapirla.»

«Le prove non m’interessano. Sono curioso di sapere perché mi vuole qui.»

Udii un fruscio alle nostre spalle e mi girai di scatto, lo storditore carico e puntato; ma l’ampio cerchio di sacerdoti dello Shrike rimase immobile. La maggior parte di loro era fuori dalla portata dello storditore. Rimpiansi di non avere con me l’arma a proiettili di mio padre.

La voce del vescovo, profonda e corposa, sembrava riempire l’enorme sala. «Certo non ignora che la Chiesa della Redenzione Finale ha un interesse profondo e costante nel mondo di Hyperion.»

«Sì.»

«E certo si rende conto che nei secoli scorsi la personalità del poeta della Vecchia Terra, Keats, è stata intessuta nei miti culturali della colonia di Hyperion.»

«Sì. E allora?»

Con un grosso anello rosso il vescovo si strofinò la guancia. «Allora, quando si offrì di partecipare al Pellegrinaggio allo Shrike, fummo d’accordo. Rimanemmo male, quando si ritirò.»

L’occhiata di stupore di Johnny fu davvero umana. «Mi sono offerto? E quando?»

«Otto giorni locali fa. In questa sala. Ci ha esposto la sua idea.»

«Ho detto perché volevo compiere il… il Pellegrinaggio allo Shrike?»

«Ha spiegato che era… credo siano le sue parole esatte… “importante per la sua educazione”. Se vuole, le mostriamo il chip registrato. Ogni conversazione del genere che avviene nel Tempio viene registrata. Oppure possiamo dargliene una copia da esaminare con comodo.»

«Sì» disse Johnny.

Il vescovo annuì. Un accolito, o che diavolo era, scomparve nel buio per qualche istante e tornò portando un videochip standard. Il vescovo annuì di nuovo. L’uomo in tonaca nera si avvicinò per dare a Johnny il chip. Tenni pronto lo storditore, finché l’uomo non tornò al suo posto nel semicerchio.

«Perché ha mandato i goonda a darci la caccia?» domandai. Era la prima volta che parlavo di fronte al vescovo: la mia voce suonò troppo forte e rauca.

Con la mano grassoccia il sant’uomo dello Shrike fece un gesto. «Il signor Keats ha espresso l’interesse di unirsi al nostro più sacro pellegrinaggio. Dal momento che la Redenzione Finale si fa ogni giorno più vicina, questo fatto riveste per noi un’importanza non trascurabile. In seguito, i nostri agenti ci hanno riferito che il signor Keats forse era stato vittima di uno o più attacchi, e che una certa investigatrice privata… lei, signora Lamia… era responsabile della distruzione del cìbrido guardia del corpo fornito al signor Keats dal TecnoNucleo.»

«Guardia del corpo!» Adesso toccò a me essere stupita.

«Naturalmente» disse il vescovo. Si rivolse a Johnny. «L’uomo con il codino, ucciso di recente nell’Escursione Templare, non era lo stesso che ci ha presentato come guardia del corpo, una settimana fa? Compare nella registrazione.»

Johnny non rispose. Sembrava che si stesse sforzando di ricordare qualcosa.

«A ogni modo» continuò il vescovo «dobbiamo avere la sua risposta a proposito del pellegrinaggio prima che termini la settimana. Fra nove giorni locali, la Sequoia Sempervirens lascia la Rete.»

«Ma è una nave-albero templare» disse Johnny. «I Templari non fanno il lungo balzo fino a Hyperion.»

Il vescovo sorrise. «In questo caso, sì. Abbiamo motivo di ritenere che forse questo sarà l’ultimo pellegrinaggio patrocinato dalla Chiesa. Abbiamo preso a nolo la nave templare per permettere al maggior numero di fedeli di compiere il viaggio.» A un suo gesto, gli uomini dalle vesti nere e rosse sparirono nell’oscurità. Due esorcisti avanzarono a ripiegare il seggio, quando il vescovo si alzò. «Per favore, ci dia la sua risposta al più presto possibile.» E se ne andò. Rimase un esorcista per accompagnarci all’uscita.

Non ci furono altri teleporter. Uscimmo dalla porta principale del Tempio e ci fermammo in cima alla lunga scalinata, davanti al Concourse Mall di Alveare Centro, a respirare l’aria fredda e puzzolente di petrolio.


L’automatica di mio padre era nel cassetto in cui l’avevo lasciata. Mi assicurai che avesse il caricatore pieno di flechette, tornai a inserirlo e mi portai l’arma in cucina, dove la colazione stava cuocendo. Johnny, seduto al lungo tavolo, fissava dai vetri grigiastri la banchina di carico. Portai in tavola le omelette e ne misi una davanti a lui. Johnny alzò gli occhi, mentre versavo il caffè.

«Gli credi?» domandai. «Che è stata un’idea tua, intendo.»

«Hai visto la videoregistrazione.»

«Le registrazioni si possono falsificare.»

«Sì. Ma questa è autentica.»

«Allora perché ti sei offerto di partecipare al pellegrinaggio? E perché la tua guardia del corpo ha cercato di ucciderti, dopo che hai parlato alla Chiesa Shrike e al capitano templare?»

Johnny assaggiò l’omelette, annuì e ne prese un altro boccone. «La… guardia del corpo… è un perfetto sconosciuto, per me. Me l’avranno assegnato nella settimana di cui non ricordo niente. Ovviamente il suo vero scopo era quello d’assicurarsi che non scoprissi niente… e, in caso contrario, di eliminarmi.»

«Qualcosa nella Rete o nel piano dati?»

«Nella Rete, penso.»

«Dobbiamo sapere per chi lavorava e perché ti è stato assegnato.»

«Lo so» disse Johnny. «Ho chiesto. Il Nucleo dice cho ho chiesto una guardia del corpo. Il cìbrido era controllato da un nesso di IA che corrisponde ai servizi di sicurezza.»

«Chiedi perché ha tentato di ucciderti.»

«Già fatto. Negano enfaticamente che una cosa del genere sia possibile.»

«Allora perché questa cosiddetta guardia del corpo ti stava alle calcagna, una settimana dopo l’omicidio?»

«Dicono che, pur non avendo chiesto di nuovo protezione dopo il periodo di… ah… discontinuità, le autorità del Nucleo hanno ritenuto prudente fornirmela lo stesso.»

Scoppiai a ridere. «Bella protezione! Perché diavolo si è dato alla fuga, quando sul mondo dei Templari l’ho fermato? Johnny, non hanno nemmeno tentato di darti da bere una storia plausibile.»

«No.»

«Nemmeno il vescovo ha spiegato come mai la Chiesa Shrike aveva accesso teleporter alla Vecchia Terra, o come diavolo lo chiami tu, quel mondo da palcoscenico.»

«E noi non l’abbiamo domandato.»

«Io non l’ho domandato perché volevo uscire tutta intera da quel maledetto Tempio.»

Johnny sembrò non sentire. Sorseggiava il caffè e teneva lo sguardo puntato su qualcos’altro.

«Cosa c’è?» dissi.

Si girò a guardarmi, battendosi sul labbro inferiore l’unghia del pollice. «Qui c’è un paradosso, Brawne.»

«Eh?»

«Se intendevo davvero andare su Hyperion… mandarci il mio cìbrido… non sarei rimasto nel TecnoNucleo. Avrei dovuto trasferire tutta la mia consapevolezza nel cìbrido stesso.»

«E perché?» Ma avevo già capito la ragione.

«Rifletti. Il piano dati in sé è un’astrazione. Una mescolanza di sfere dati generate da computer e IA, e della matrice gibsoniana quasi percettuale progettata in origine per operatori umani, che ora è accettata come base comune per uomo, macchina e IA.»

«Ma l’ossatura delle IA esiste da qualche parte nello spazio reale» replicai. «In un punto del TecnoNucleo.»

«Sì, però questo è irrilevante per la consapevolezza delle IA. Non posso “essere” in tutti i posti in cui la sovrapposizione di sfere dati mi consente di andare: i mondi della Rete, ovviamente, il piano dati, le ricostruzioni del TecnoNucleo come per esempio la Vecchia Terra. Ma solo in questo ambiente posso reclamare “coscienza” o azionare meccanismi sensori e telecomandati come questo cìbrido.»

Posai la tazza di caffè e fissai la cosa che solo la notte scorsa avevo amato come se fosse un uomo. «Sì?»

«I mondi coloniali hanno sfere dati limitate» disse Johnny. «Esiste un certo contatto con il TecnoNucleo grazie alle trasmissioni astrotel, ma si tratta solo di uno scambio di dati… un po’ come le interfacce dei computer della Prima Età dell’Informazione… non di un flusso di consapevolezza. La sfera dati di Hyperion è talmente primitiva che in pratica non esiste. E per quanto ne so, il Nucleo non ha con quel mondo contatti d’alcun genere.»

«È normale? Voglio dire, nel caso di un mondo così lontano?»

«No. Il Nucleo ha contatti con ogni mondo coloniale, con barbari interstellari come gli Ouster, e con altre fonti che l’Egemonia non immagina neppure.»

Rimasi sbigottita. «Con gli Ouster?» Dai tempi della guerra su Bressia, alcuni anni prima, gli Ouster erano diventati il principale spauracchio della Rete. L’idea che il Nucleo… la stessa conventicola di IA che consiglia il Senato e la Totalità e che consente il funzionamento della nostra intera economia, del sistema teleporter e della civiltà tecnologica… l’idea che il Nucleo fosse in contatto con gli Ouster metteva i brividi. E a chi diavolo si riferiva, Johnny, con le parole “altre fonti”? In quel momento non avevo proprio voglia di scoprirlo.

«Ma non hai detto che per un cìbrido è possibile arrivare fin lì?» replicai. «Cosa significa, “trasferire tutta la consapevolezza nel tuo cìbrido”? Una IA può diventare… umana? Tu esisti solo nel tuo cìbrido?»

«L’hanno già fatto» disse piano Johnny. Una volta. Una personalità ricostruita, non molto diversa dalla mia. Un poeta del XX secolo, Ezra Pound. Abbandonò la sua personalità IA e nel suo cìbrido fuggì dalla Rete. Ma la ricostruzione Pound era pazza.»

«O sana di mente» replicai.

«Sì.»

«Perciò tutti i dati e la personalità di una IA possono sopravvivere nel cervello organico di un cìbrido.»

«No, è ovvio, Brawne. Nemmeno l’un per cento dell’un per cento della mia coscienza totale sopravvivrebbe al trasferimento. I cervelli organici non possono elaborare al nostro livello neppure le informazioni più elementari. La personalità risultante non sarebbe una IA… e nemmeno una vera coscienza umana o cìbrida…» Johnny si bloccò a metà della frase e si girò di scatto a guardare dalla finestra.

Dopo un lungo momento, dissi: «Cosa c’è?» Allungai la mano, ma non lo toccai.

Lui parlò senza girarsi. «Forse sbagliavo, dicendo che la coscienza non sarebbe umana» mormorò. «È possibile che la personalità risultante sia umana, toccata da una certa divina pazzia e da una prospettiva meta-umana. Potrebbe darsi… se purgata di ogni ricordo della nostra epoca, di ogni consapevolezza del Nucleo… potrebbe darsi che la persona per cui il cìbrido era stato programmato…»

«John Keats» dissi.

Johnny girò le spalle alla finestra e chiuse gli occhi. La voce era rauca per l’emozione. Era la prima volta che lo sentivo recitare una poesia:

I fanatici hanno i loro sogni, con cui intessono

un paradiso per una setta; anche il selvaggio

dalla più sublime foggia del suo sonno

indovina il cielo; peccato che non abbiano

tracciato su pergamena o ali di farfalle d’India

le ombre dalla melodiosa espressione.

Ma spogli di lauro vivono, sognano e muoiono;

solo la Poesia può narrare i suoi sogni,

con l’incanto delle parole da sola può salvare

l’immaginazione dal fosco sortilegio

e dalla muta malia. Chi, vivo, può dire:

«Tu non sei poeta… non puoi narrare i tuoi sogni»?

Poiché ogni uomo la cui anima non sia materia bruta

ha visioni, e parlerebbe, se avesse amato,

e se fosse ben educato nella lingua madre.

Se il sogno ora inteso a esser narrato

sia di Poeta o di Fanatico, si saprà

quando la mia mano d’autore sarà nella tomba.


«Non capisco» dissi. «Cosa significa?»

«Significa» rispose Johnny, con un garbato sorriso «che so quale decisione ho preso, e perché l’ho presa. Volevo smettere di essere un cìbrido e diventare un uomo. Volevo andare su Hyperion. Voglio ancora andarci.»

«Una settimana fa, per questa decisione, qualcuno ti ha ucciso.»

«Sì.»

«E intendi riprovarci?»

«Sì.»

«Perché non trasferisci qui la tua consapevolezza nel cìbrido? E diventi umano nella Rete?»

«Non funzionerebbe» rispose Johnny. «Quella che tu vedi come una complessa società interstellare, è solo una piccola parte della matrice di realtà del Nucleo. Mi troverei ad affrontare di continuo le IA, sarei alla loro mercé. La persona Keats… la realtà… non sopravvivrebbe.»

«E va bene, devi essere fuori della Rete. Ma esistono altre colonie. Perché proprio Hyperion?»

Johnny mi prese la mano. Aveva dita lunghe, calde, forti. «Non capisci, Brawne? Lì c’è una sorta di connessione. Può anche darsi che i sogni di Keats riguardanti Hyperion fossero una sorta di comunicazione trans-temporale fra la sua persona di allora e la sua persona di adesso. E se non bastasse, Hyperion è il mistero chiave della nostra epoca… fisico e poetico… ed è assai probabile che lui… che io sia nato, morto e rinato per sondarlo.»

«A me sembra follia pura. Megalomania.»

«Ah, certo» rise Johnny. «E non sono mai stato più felice!» Mi prese per le braccia, mi tirò in piedi, mi strinse a sé. «Verrai con me, Brawne? Con me su Hyperion?»

Battei le palpebre, sorpresa sia per la sua domanda sia per la mia risposta, che mi riempì di calore. «Sì» dissi «verrò con te.»

Passammo nella zona letto e facemmo l’amore per il resto del giorno; alla fine ci addormentammo; ci svegliammo alle luci basse del Terzo Turno nel fossato industriale esterno. Johnny era disteso sulla schiena, perso nei suoi pensieri, gli occhi color nocciola fissi al soffitto. Ma non era tanto concentrato da non sorridere e da non circondarmi con il braccio. Appoggiai contro di lui la guancia, nel lieve incavo tra la spalla e il torace, e mi riaddormentai.


Indossavo il mio abito migliore (completo di saia nera, blusa di seta di Rinascimento, eliotropia Carvnel al collo, tricorno di Eulin Bré) quando, il giorno seguente, Johnny e io ci teleportammo su TC2. Lasciai Johnny nel bar tutto legno e ottoni accanto al terminex centrale, ma prima gli passai l’automatica di papà nascosta in un sacchetto di carta, dicendogli di sparare a chiunque lo guardasse anche solo storto.

«L’inglese della Rete è una lìngua così sottile» commentò lui.

«Questo modo di dire è più antico della Rete. Spara e basta.» Gli diedi una stretta alla mano e uscii senza guardarmi indietro.

Con un aerotaxi arrivai al Complesso Amministrativo e superai nove controlli di sicurezza, prima che mi lasciassero entrare nel Centro. Percorsi a piedi il mezzo chilometro del Deer Park, ammirando i cigni del laghetto e i bianchi edifici sulla collina lontana; poi superai altri nove posti di controllo prima che una donna della sicurezza del Centro mi accompagnasse sul viale di pietra fino al palazzo del Governo, un basso edificio grazioso fra giardini in fiore e colline panoramiche. Dentro c’era una sala d’attesa arredata con eleganza, ma ebbi appena il tempo di sedermi su un autentico de Kooning pre-Egira che un aiutante mi introdusse nell’ufficio privato del PFE.

Meina Gladstone girò intorno alla scrivania per stringermi la mano e farmi accomodare. Era strano vederla di nuovo di persona, dopo averla vista per tanti anni solo in TVE. In carne e ossa era ancora più impressionante: capelli corti che però sembravano volare all’indietro in onde grigie e bianche; guance e mento magri e lincolniani, come dicevano gli eruditi in storia; ma erano gli occhi, grandi, castani, tristi, a dominare il viso e a dare l’impressione di trovarsi di fronte a una persona davvero fuori del comune.

Scoprii di avere la bocca secca. «Grazie per avermi ricevuto, signor presidente. So quant’è occupato.»

«Per te, Brawne, ho sempre un momento libero. Proprio come tuo padre per me, quando ero solo un giovane senatore.»

Papà una volta aveva detto che Meina Gladstone era l’unico genio politico dell’Egemonia. Sapeva che un giorno sarebbe diventata PFE, anche se si era dedicata tardi alla politica. Rimpiansi che papà non fosse vissuto abbastanza da vederla.

«Come sta tua mamma, Brawne?»

«Bene, grazie, signor presidente. Ormai lascia di rado la residenza estiva su Freeholm, ma la vedo ogni Natale.»

Gladstone annuì. Si era seduta con noncuranza sul bordo della massiccia scrivania appartenuta, secondo i tabloid, a un presidente assassinato (no, non Lincoln) degli USA pre-Errore; ma ora sorrise e fece il giro per sedersi sulla semplice poltrona. «Sento la mancanza di tuo padre, Brawne. Vorrei che fosse ancora in questa amministrazione. Hai visto il laghetto, venendo qui?»

«Sì.»

«Ricordi quando tu e la mia Kresten, ancora bambine, giocavate con le barchette?»

«Lo ricordo appena, signor presidente. Ero piccolissima.»

Meina Gladstone sorrise. Un intercom suonò, ma con un gesto lei zittì l’apparecchio. «Cosa posso fare per te, Brawne?»

Inspirai a fondo. «Signor presidente, probabilmente sa che lavoro come investigatore privato…» Non aspettai il suo cenno d’assenso. «Un caso recente mi ha riportato al suicidio di papà…»

«Brawne, sai che le indagini sono state molto approfondite. Ho letto il rapporto della commissione.»

«Sì» risposi. «L’ho letto anch’io. Ma di recente ho scoperto alcune cose singolari, riguardo il TecnoNucleo e il suo atteggiamento verso il pianeta Hyperion. Lei e papà non lavoravate a una legge che avrebbe incluso Hyperion nel Protettorato dell’Egemonia?»

Gladstone annuì. «Sì, Brawne, ma c’erano più di dieci altre colonie da prendere in esame, quell’anno. Nessuna è entrata nel Protettorato.»

«Esatto. Ma il Nucleo o la Commissione di Consulenza IA non avevano un interesse speciale per Hyperion?»

Con uno stilo il PFE si picchiettò il labbro inferiore. «Che genere d’informazioni hai, Brawne?» Aprii bocca per rispondere, ma lei alzò il dito per ammonirmi. «Aspetta!» Premette i tasti di un interattivo. «Thomas, esco per qualche minuto. Per favore, bada che la delegazione commerciale di Sol Draconis sia intrattenuta adeguatamente, se resto un po’ indietro sul programma.»

Non la vidi premere altri tasti, ma a un tratto un teleporter azzurro e oro si materializzò con un ronzio accanto alla parete più lontana. Lei mi fece segno di passare per prima.

Una pianura dorata, erba che arrivava al ginocchio fino a un orizzonte che sembrava più lontano di altri. Cielo di un giallo chiarissimo, con strisce color rame brunito che forse erano nuvole. Non riconobbi il pianeta.

Meina Gladstone varcò il teleporter e toccò il ricamo comlog sulla manica. Il teleporter tremolò e scomparve. Una brezza tiepida ci portò un profumo di spezie.

Gladstone si toccò di nuovo la manica, lanciò un’occhiata al cielo e annuì. «Chiedo scusa per il fastidio, Brawne. Kastrop-Rauxel non ha sfera dati né satelliti di qualsiasi tipo. Ora continua pure. Di quali informazioni sei entrata in possesso?»

Guardai la prateria deserta. «Niente che esiga un simile grado di sicurezza… forse. Ho appena scoperto che il TecnoNucleo sembra molto interessato a Hyperion. Ha perfino costruito una sorta di analogo della Vecchia Terra… un mondo intero!»

Se m’aspettavo sorpresa o stupore, rimasi delusa. Gladstone annuì. «Sì. Siamo al corrente dell’analogo della Vecchia Terra.»

Adesso fui io a essere stupita. «Allora perché non se n’è mai parlato? Se il Nucleo può ricostruire la Vecchia Terra, un mucchio di gente sarebbe interessata.»

Gladstone si mise a camminare e io l’accompagnai, muovendomi in fretta per tenermi al passo con le sue lunghe gambe. «Brawne, non sarebbe nell’interesse dell’Egemonia divulgare una notizia del genere. Le nostre migliori fonti umane non hanno la minima idea del motivo per cui il Nucleo ha fatto una cosa del genere. E non hanno avanzato ipotesi. Per il momento, la linea di condotta migliore è l’attesa. Che informazioni hai, su Hyperion?»

Non sapevo se fidarmi di Meina Gladstone, vecchi tempi o meno. Ma se volevo informazioni, dovevo prima dame qualcuna. «Hanno fabbricato la ricostruzione analogica di un poeta della Vecchia Terra» dissi. «Pare che abbiano l’ossessione di tenerlo all’oscuro di tutto quello che riguarda Hyperion.»

Gladstone strappò un filo d’erba e si mise a mordicchiarlo. «Il cìbrido John Keats» disse.

«Sì.» Questa volta badai bene a restare impassibile. «So che papà si è impegnato molto, per far avere a Hyperion lo stato di protettorato. Se il Nucleo ha particolari interessi in quel pianeta, forse le IA sono state costrette a fare qualcosa… a manipolare…»

«Il suo suicidio?»

«Già.»

Il vento increspava in onde l’erba gialla. Una creaturina zampettò al riparo fra gli steli ai nostri piedi. «Una possibilità del genere esiste sempre, Brawne. Ma non c’era la minima prova. Dimmi cosa intende fare, questo cìbrido.»

«Prima vorrei sapere perché il Nucleo s’interessa tanto a Hyperion.»

L’anziana donna allargò le mani. «Se lo sapessimo, Brawne, la notte dormirei meglio. Da quanto ci risulta, sono secoli che il TecnoNucleo ha l’ossessione di Hyperion. Quando il PFE Yevshensky concesse a re Billy di Asquith il permesso di colonizzare di nuovo il pianeta, rischiò la secessione delle IA dalla Rete. Di recente, anche l’impianto del nostro trasmettitore astrotel su Hyperion ha causato una crisi simile.»

«Ma le IA non si sono staccate dalla Rete.»

«No, Brawne. Sembra che, per non si sa quale motivo, abbiano bisogno di noi almeno quanto noi di loro.»

«Ma se sono così interessate a Hyperion, perché non permettono al pianeta di entrare nella Rete, in modo che sia accessibile anche a loro?»

Gladstone si passò una mano tra i capelli. In alto, le nuvole color bronzo si sfilacciarono in quella che era certo una fantastica corrente d’aria. «Sono inflessibili, sulla decisione di non ammettere Hyperion nella Rete» rispose la donna. «Un paradosso interessante. Dimmi quali sono le intenzioni del cìbrido.»

«Prima vorrei sapere perché il Nucleo è ossessionato da Hyperion.»

«Non lo sappiamo con certezza.»

«L’ipotesi più attendibile, allora.»

Il PFE Gladstone si tolse di bocca lo stelo d’erba e lo fissò. «Pensiamo che il Nucleo si sia imbarcato in un progetto davvero incredibile che permetterebbe di predire… qualsiasi cosa. Di manipolare, come un quanto dati, qualsiasi variabile di spazio, di tempo e di storia.»

«Il loro Progetto Intelligenza Definitiva» dissi. Sapevo che era un’imprudenza, ma me ne fregavo.

Stavolta il PFE Gladstone si mostrò stupita. «Come fai a esserne al corrente?»

«Cosa c’entra con Hyperion, il progetto?»

Gladstone sospirò. «Non lo sappiamo con certezza, Brawne. Ma sappiamo che su Hyperion c’è un’anomalia che non sono stati in grado di includere nelle loro analisi di previsione. Hai sentito parlare delle cosiddette Tombe del Tempo che la Chiesa Shrike considera sacre?»

«Certo. Da un po’ di tempo in qua sono vietate ai turisti.»

«Infatti. In seguito a un incidente capitato a un ricercatore alcuni decenni fa, i nostri scienziati hanno confermato che i campi anti-entropici intorno alle Tombe non sono una semplice protezione contro gli effetti erosivi del tempo, come generalmente si riteneva.»

«E cosa sono?»

«I resti di un campo… o di una forza… che ha realmente spinto le Tombe e il loro contenuto a ritroso nel tempo, a partire da chissà quale remoto futuro.»

«Il loro contenuto?» riuscii a dire. «Ma le Tombe sono vuote. Fin da quando le hanno scoperte.»

«Vuote adesso» disse Meina Gladstone. «Ma c’è la prova che erano piene… che saranno piene… quando si apriranno. Nel prossimo futuro.»

La fissai. «Quanto, prossimo?»

Gli occhi scuri rimasero amichevoli, ma il gesto della testa fu definitivo. «Ti ho già detto molto, Brawne. Hai la proibizione di ripeterlo. Ci garantiremo il tuo silenzio, se occorre.»

Nascosi la confusione spelando uno stelo d’erba per masticarlo. «D’accordo» dissi poi. «Cosa uscirà dalle Tombe? Alieni? Bombe? Una sorta di capsula temporale a rovescio?»

Gladstone sorrise a denti stretti. «Se lo sapessimo, Brawne, saremmo più avanti del Nucleo. Ma non lo siamo.» Il sorriso svanì. «Una teoria ipotizza che le Tombe abbiano a che fare con una guerra futura. Un regolamento di conti futuri. Mediante la ristrutturazione del passato, forse.»

«Una guerra fra chi, per l’amor di Dio?»

Lei allargò di nuovo le mani. «Dobbiamo tornare, Brawne. Ora, per favore, ti spiace dirmi quali sono le intenzioni del cìbrido Keats?»

Abbassai lo sguardo, poi tornai a guardarla negli occhi. Non potevo fidarmi di nessuno, ma il Nucleo e la Chiesa Shrike conoscevano già i piani di Johnny. Se era una partita a tre, forse era meglio che ogni giocatore fosse informato che nel gruppo c’era un buono. «Ha intenzione di trasferire tutta la sua consapevolezza nel cìbrido» dissi, piuttosto goffamente. «Di diventare umano, signora Gladstone, e poi di andare su Hyperion. Io andrò con lui.»

Il Primo Funzionario Esecutivo del Senato e della Totalità, presidente di un governo esteso su quasi duecento mondi e su miliardi di individui, mi fissò a lungo in silenzio. Poi disse: «Allora intende imbarcarsi sulla nave templare per il pellegrinaggio».

«Sì.»

«No» disse Meina Gladstone.

«Cosa significa?»

«Significa che la Sequoia Sempervirens non avrà il permesso di lasciare lo spazio dell’Egemonia. Non ci sarà nessun pellegrinaggio, a meno che il Senato non stabilisca che è nel nostro interesse.» La sua voce era dura come l’acciaio.

«Johnny e io andremo con una spin-nave» dissi. «Il pellegrinaggio è comunque un gioco di perdenti.»

«No» disse lei. «Per qualche tempo non ci saranno più spin-navi civili per Hyperion.»

La parola “civili” mi colpì. «Guerra?»

Gladstone strinse le labbra e annuì. «Prima che gran parte delle spin-navi raggiunga quel settore.»

«Guerra con… gli Ouster?»

«Inizialmente. Vedila come un mezzo per forzare una soluzione fra il TecnoNucleo e noi, Brawne. O incorporiamo nella Rete il sistema di Hyperion perché sia protetto dalla FORCE, oppure cadrà preda di una razza che nutre disprezzo e diffidenza per il Nucleo e le IA.»

Non dissi che secondo Johnny il Nucleo era in contatto con gli Ouster. «Un modo per forzare una soluzione. Magnifico. Ma chi ha spinto gli Ouster ad attaccare?»

Gladstone mi guardò. Se in quel momento il suo viso era lincolniano, allora il Lincoln della Vecchia Terra era un gran figlio di puttana con le palle quadrate. «È ora di tornare, Brawne. Ti rendi conto di quanto sia importante che non trapeli niente della nostra conversazione ?»

«Mi rendo conto che non ne saprei niente se non ci fossero motivi ben precisi» replicai. «Non so a chi deve arrivare il messaggio, ma capisco d’essere un messaggero, non un confidente.»

«Non sottovalutare il nostro proposito di mantenere il segreto su tutto, Brawne.»

Mi misi a ridere. «Signora, non sottovaluterei il suo proposito in nessuna cosa.»

Gladstone mi invitò a varcare per prima il teleporter.


«So un modo per scoprire che cosa combina il Nucleo» disse Johnny, mentre su un jet a nolo volavamo su Mare Infinitum. «Ma sarebbe pericoloso.»

«Non è una novità.»

«Parlo sul serio. Dovremmo tentarlo solo se riteniamo che sia di vitale importanza capire che cosa teme il Nucleo da Hyperion.»

«Lo ritengo importantissimo.»

«Ci occorre un operativo. Qualcuno abilissimo in operazioni sul piano dati. Un tipo intelligente, ma non tanto da impedire che loro rinuncino a correre il rischio. E che sia un tipo coraggioso, capace di mantenere il segreto solo per amore della burla finale cyberpuke

Sogghignai. «Conosco proprio l’uomo adatto.»


BB viveva da solo in un appartamento a buon mercato, alla base di una torre a buon mercato in un quartiere a buon mercato di TC2. Ma non c’era niente a buon mercato, nelle apparecchiature che riempivano gran parte delle quattro stanze. Quasi tutto lo stipendio di BB, nell’ultimo decennio standard, era finito in giocattoli cyberpuke d’avanguardia.

Cominciai col dire che volevamo fargli fare qualcosa d’illegale. BB rispose che in qualità di pubblico impiegato non poteva nemmeno prendere in considerazione l’idea. Domandò di che cosa si trattava. Johnny cominciò a spiegare. BB si sporse per seguirlo con attenzione; nei suoi occhi vidi l’antico brillio cyberpuke che ricordavo dai giorni del college. Mi aspettavo quasi che si mettesse a vivisezionare Johnny lì per lì solo per vedere come funziona un cìbrido. Poi Johnny arrivò alla parte interessante e negli occhi di BB il brillio si trasformò in una specie di bagliore verde.

«Quando autodistruggo la mia persona IA, il passaggio alla coscienza cìbrida richiede solo alcuni nanosecondi» disse Johnny. «Ma in quel momento la mia sezione di difese perimetriche del Nucleo verrà meno. I fagi di sicurezza riempiranno il vuoto prima che passi un numero eccessivo di nanosecondi; ma in quel lasso di tempo…»

«Ingresso nel Nucleo» mormorò BB, con occhi che brillavano come un antico VDT.

«Sarebbe davvero pericoloso» insistette Johnny. «Per quanto ne so, nessun operatore umano è mai penetrato nella periferia del Nucleo.»

BB si strofinò il labbro superiore. «La leggenda dice che Cowboy Gibson ci sia riuscito, prima della secessione del Nucleo» borbottò. «Ma nessuno ci crede. E Cowboy sparì.»

«Anche se riusciamo a penetrare, non ci sarebbe tempo sufficiente per accedere; ma possiedo le coordinate dei dati.»

«Fan-ta-sti-co» sussurrò BB. Si girò verso la console e allungò la mano verso lo shunt. «Facciamolo subito.»

«Ora?» obiettai. Anche Johnny sembrò colto alla sprovvista.

«Perché aspettare?» BB innestò lo shunt, collegò i cavetti meta-corticali, ma lasciò in folle il ponte. «Lo facciamo o ne parliamo soltanto?»

Mi spostai accanto a Johnny sul divano e gli presi la mano. Aveva la pelle fredda. Sembrava impassibile, ma immaginavo benissimo come ci si poteva sentire ad affrontare l’imminente distruzione della propria personalità e della propria esistenza precedente. Anche se il trasferimento funzionava, l’essere umano con la personalità di John Keats non sarebbe stato più “Johnny”.

«Ha ragione» disse Johnny. «Perché aspettare?»

Gli diedi un bacio. «D’accordo. Vado con BB.»

«No!» protestò Johnny, stringendomi la mano. «Non puoi aiutarlo e corri un rischio tremendo.»

La mia voce suonò decisa come quella di Meina Gladstone. «Può darsi. Ma non posso chiedere a BB di fare una cosa che io non farei. E non ti lascerò lì da solo.» Gli strinsi la mano un’ultima volta e mi andai a sedere alla console, a fianco di BB. «Come mi collego a questo maledetto aggeggio, BB?»

Avete letto tutti dei cyberpuke. Conoscete tutti la terribile bellezza del piano dati, delle strade tri-di con il loro panorama di ghiaccio nero, dei perimetri al neon, degli strani anelli e dei grattacieli luccicanti di blocchi-dati sotto le nubi sospese delle IA. Anch’io vidi questo panorama, correndo a cavalluccio sull’onda portante di BB. Fu quasi eccessivo. Troppo intenso. Troppo terrificante. Sentivo persino le nere minacce dei corpulenti fagi di sicurezza; sentivo l’odore di morte nell’alito dei virus tenia in controspinta, anche attraverso gli schermi di ghiaccio; sentivo il peso della collera delle IA sopra di noi… eravamo come insetti sotto una zampa d’elefante, e non avevamo ancora fatto nient’altro che viaggiare su vie dati approvate in una regolare missione d’accesso inventata da BB, una sorta di lavoro a casa per l’ufficio Controllo Flusso Registrazioni e Statistiche.

E portavo cavetti piantati nel cranio, vedevo cose in una versione piano dati simile a un confuso apparecchio TV in bianco e nero, mentre Johnny e BB ne vedevano la piena versione olo stim-sim così com’era.

Non so come fecero a resistere.

«Bene» mormorò BB, nell’equivalente piano dati di un sussurro. «Ci siamo.»

«Dove?» Vedevo solo un infinito labirinto di vivide luci e di ombre anche più vivide, diecimila città schierate in quattro dimensioni.

«Periferia del Nucleo» sussurrò BB. «Reggiti forte. È quasi ora.»

Non avevo braccia con cui reggermi e niente di fisico da afferrare, in quell’universo. Ma mi concentrai sulle tonalità a forma d’onda che erano il nostro camion dati e mi aggrappai.

Johnny morì in quel momento.

Ho già visto di persona un’esplosione nucleare. Quando papà era senatore, portò mamma e me alla Scuola Comando Olympus per assistere a una dimostrazione della FORCE. Come ultima esercitazione, lo scomparto panoramico degli spettatori fu teleportato su chissà quale mondo abbandonato da Dio… Armaghast, credo… e un plotone di ricognizione della FORCE:terra lanciò un’atomica tattica pulita contro un finto nemico a nove chilometri di distanza. Lo scomparto panoramico era schermato da un campo di contenimento classe 10, polarizzato, e l’atomica era solo un ordigno tattico da 50 kiloton, ma non dimenticherò mai l’esplosione, l’onda d’urto che sbatacchiò come una foglia lo scomparto da ottanta tonnellate su repulsori, l’urto fisico della luce così oscenamente vivida da costringere il polarizzatore a un buio da mezzanotte e, nonostante questo, farci venire le lacrime agli occhi.

Era peggio.

Una sezione di piano dati sembrò lampeggiare e poi implodere, mentre la realtà si riversava in uno scarico di un nero purissimo.

«Tieniti forte!» gridò BB per superare le statiche del piano dati che mi raschiavano le ossa e roteavano e rotolavano, risucchiate nel vuoto come insetti in un vortice oceanico.

In qualche modo, incredibile, impossibile, in quel frastuono pazzesco due fagi in armatura nera si spinsero verso di noi. BB ne evitò uno e gli rivolse contro le membrane acide dell’altro. Eravamo risucchiati in qualcosa di più gelido e più nero di qualsiasi vuoto possibile nella nostra realtà.

«Là!» gridò BB: l’analogo voce andò quasi perduto nel tornado d’aria della sfera dati che si lacerava.

“Là, dove?” Poi vidi una sottile linea gialla che s’increspava nella turbolenza come una bandiera nell’uragano. BB ci fece ruotare, trovò la nostra onda per portarci contro la tempesta, pareggiò coordinate che danzarono sorpassandomi troppo velocemente perché potessi vederle bene, ci ritrovammo a cavalcare la banda gialla dentro…

… dentro cosa? Fontane congelate di fuochi d’artificio. Diafane catene montuose di dati, infiniti ghiacciai di ROM, gangli d’accesso ramificati come crepe, nuvole ferrigne di bolle di processo interno semisenzienti, luminose piramidi di materiale di fonte primaria, ciascuna sorvegliata da laghi di ghiaccio nero e da eserciti di fagi.

«Merda» mormorai, a nessuno in particolare.

BB seguì la banda gialla, giù, dentro, attraverso. Sentii una connessione, come se a un tratto qualcuno ci avesse dato da trasportare un grande peso.

«Eccolo!» gridò BB. All’improvviso si sentì un suono più intenso e più esteso del frastuono turbinoso che ci circondava e ci consumava. Non era né un clacson né una sirena, ma aveva un tono aggressivo e di avvertimento che li ricordava entrambi.

Ci stavamo arrampicando fuori da tutto. Nel vivido caos vedevo una vaga muraglia di grigio; in qualche modo intuii che si trattava della periferia: il vuoto si riduceva, ma irrompeva ancora nella muraglia come una macchia nera sempre più piccola. Ci stavamo arrampicando fuori.

Ma non abbastanza in fretta.

I fagi ci colpirono da cinque lati. Nei dodici anni in cui ho fatto l’investigatore, mi hanno sparato una volta e accoltellato due. Ho avuto ben più dell’attuale costola rotta. Quest’esperienza faceva più male di tutte le altre messe insieme. BB lottava e si arrampicava nello stesso tempo.

Il mio contributo alla situazione d’emergenza fu un urlo. Sentii su di noi gelidi artigli che ci tiravano sotto, che ci riportavano nel bagliore, nel frastuono, nel caos. BB usava un qualche programma, una sorta di formula magica, per tenerli a bada. Ma non bastava. Sentivo i colpi andare a segno… non solo contro di me, ma soprattutto contro l’analogo matrice che era BB.

Affondavamo. Forze inesorabili ci avevano a rimorchio. A un tratto sentii la presenza di Johnny, come se una mano enorme e possente ci avesse raccolti e sollevati al di là della muraglia periferica, un istante prima che la macchia spezzasse la nostra linea vitale d’esistenza e che il campo difensivo si chiudesse come i denti d’acciaio di una tagliola.

Ci muovemmo a velocità impossibile lungo vie dati congestionate, oltrepassammo corrieri di piano dati e altri analoghi operativi, simili a un VEM che sorpassa in un lampo un carro trainato dai buoi. Poi ci avvicinammo a una porta di tempo-lento, saltammo come ranocchi oltre gli analoghi d’uscita con la griglia bloccata, in una sorta di salto in alto tetradimensionale.

Sentii l’inevitabile nausea di transizione, quando uscimmo dalla matrice. La luce mi bruciò le retine. Luce reale. Poi il dolore mi travolse e mi accasciai con un gemito sulla console.

«Forza, Brawne.» Johnny… o qualcuno che assomigliava a Johnny… mi stava aiutando a reggermi in piedi e a muovermi verso la porta.

«BB» ansimai.

«No.»

Aprii gli occhi doloranti quanto bastava per vedere BB Surbringer steso sulla console. Lo Stetson era caduto e rotolato per terra. La testa di BB era esplosa e aveva schizzato di grigio e di rosso quasi tutta la console. Dalla bocca spalancata usciva ancora una densa schiuma bianca. Gli occhi sembravano essersi liquefatti.

Johnny mi afferrò, quasi mi sollevò. «Dobbiamo andarcene» disse in un sussurro. «Da un momento all’altro può arrivare qualcuno.»

Chiusi gli occhi e lasciai che mi portasse via di lì.


Mi svegliai in una fioca luce rossa, al rumore di uno sgocciolio. Sentii odore di fogna, di muffa, dell’ozono di’ cavi a fibra ottica non isolati. Aprii un occhio.

Eravamo in un ambiente basso, una grotta più che che una stanza: dal soffitto scoperchiato scendevano dei cavi, sulle piastrelle infangate del pavimento c’erano delle pozze d’acqua. Una luce rossa proveniva da un punto al di là della grotta, forse un pozzo d’accesso per la manutenzione o un tunnel per automecc. Gemetti piano. Johnny era lì, si stava alzando dal rozzo giaciglio di coperte al mio fianco. Aveva il viso annerito di grasso o di polvere e almeno una ferita recente.

«Dove siamo?»

Mi sfiorò la guancia. Con l’altro braccio mi circondò le spalle e mi aiutò a mettermi seduta. Il panorama sgradevole mutò e s’inclinò: per un attimo pensai che avrei vomitato. Johnny mi aiutò a bere un sorso d’acqua da un bicchiere quadrato di plastica.

«Alveare Sedimento» disse.

L’avevo intuito ancora prima di tornare del tutto cosciente. Alveare Sedimento è il pozzo più profondo di Lusus, una terra di nessuno fatta di tunnel e di gallerie illegali, abitato da metà dei reietti e dei fuorilegge della Rete. Proprio ad Alveare Sedimento mi avevano sparato, parecchi anni fa: sul fianco sinistro avevo ancora la cicatrice del laser.

Tesi il bicchiere per avere altra acqua. Johnny andò a prenderne un po’ da un thermos metallico e tornò a portarmela. Per un secondo fui presa dal panico, mentre mi frugavo in tasca e nella cintura: l’automatica di papà era sparita. Poi Johnny mi mostrò l’arma e mi rilassai; presi il bicchiere e bevvi come un’assetata. «BB?» gli chiesi, sperando per un momento di avere avuto un’orribile allucinazione.

Johnny scosse la testa. «C’erano difese che nessuno di noi due aveva previsto. L’incursione di BB è stata brillante, ma non poteva sconfiggere i fagi omega del Nucleo. Comunque metà degli operatori di piano dati ha sentito l’eco della battaglia. BB è già una leggenda.»

«Sai che soddisfazione!» esclamai, con una risata che somigliava in modo sospetto all’inizio di un singhiozzo. «Una leggenda. BB è morto! Morto per niente, merda!»

Johnny mi strinse a sé. «No, non per niente, Brawne. Ha fatto il colpo. E mi ha passato i dati, prima di morire.»

Mi rizzai a sedere e lo guardai bene in faccia. Sembrava identico a prima: stessi occhi dolci, stessi capelli, stessa voce. Ma c’era una sottile differenza, in profondità? Era più umano? «Tu?» dissi. «Ti sei trasferito? Sei…»

«Umano?» John Keats mi sorrise. «Sì, Brawne. Almeno, quanto più umano è possibile per un essere forgiato nel Nucleo.»

«Ma ricordi… me… BB… quello che è successo.»

«Sì. E ricordo la prima volta che lessi l’Omero di Chapman. E gli occhi di mio fratello Tom, la notte in cui ebbe l’emorragia. E la voce gentile di Severn, quand’ero troppo debole per aprire gli occhi e affrontare il destino. E la nostra notte in Piazza di Spagna, quando ho toccato le tue labbra e ho immaginato di avere la guancia di Fanny contro la mia. Ricordo, Brawne.»

Mi sentii confusa, poi addolorata; ma quando lui mi mise una mano sulla guancia, e mi toccò - lui, non un altro — capii. Chiusi gli occhi. «Perché siamo qui?» mormorai contro la sua camicia.

«Non potevo correre il rischio di usare un teleporter. Il Nucleo ci avrebbe rintracciati subito. Ho pensato allo spazioporto, ma non eri in condizione di viaggiare. Ho preferito l’Alveare Sedimento.»

Annuii contro il suo petto. «Cercheranno di ucciderti.»

«Sì.»

«Pensi che gli sbirri locali ci daranno la caccia? 0 i poliziotti dell’Egemonia? 0 i piedipiatti dell’Ente Transito?»

«No, non credo. Per il momento siamo stati minacciati solo da due bande di goonda e da alcuni abitanti di Sedimento.»

Aprii gli occhi. «Cos’è successo ai goonda?» Forse nella Rete c’erano delinquenti e sicari più pericolosi, ma io non ne avevo mai incontrati.

Johnny mi mostrò l’automatica di papà e sorrise.

«Non ricordo niente, dopo BB» dissi.

«Sei stata ferita dalla reazione dei fagi. Riuscivi a camminare, ma abbiamo attirato non poche occhiate di curiosità, nel Concourse.»

«Lo credo. Dimmi cosa ha scoperto BB. Perché Hyperion ossessiona il Nucleo?»

«Prima mangia un boccone. Sei a digiuno da più di ventotto ore.» Attraversò l’umida caverna e tornò con un contenitore autotermico. Era il cibo base del fanatico d’ologrammi: bue clonale surgelato e riscaldato, patate che non avevano mai visto la terra; carote che sembravano una sorta di lumaconi degli abissi marini. Mai assaggiato niente di meglio.

«D’accordo» dissi. «Raccontami tutto.»


«Da quando esiste, il TecnoNucleo è sempre stato diviso in tre gruppi» disse Johnny. «Gli Stabili sono le IA della vecchia linea, alcune delle quali risalgono ai giorni pre-Errore, e almeno una di loro acquistò coscienza nella prima Età dell’Informazione. Gli Stabili sostengono che sia necessario un certo livello di simbiosi fra l’umanità e il Nucleo. Hanno promosso il Progetto Intelligenza Definitiva, come modo per evitare decisioni avventate, per rimandarle finché tutte le variabili non siano scomposte in fattori. I Volatili sono la forza che stava dietro la Secessione di tre secoli fa. I Volatili hanno compiuto studi conclusivi che mostrano come l’utilità della razza umana è superata e come, da questo punto in poi, gli esseri umani costituiscono una minaccia per il Nucleo. Ne propugnano l’estinzione totale e immediata.»

«Estinzione» dissi. Dopo un attimo gli chiesi: «Possono farlo?»

«Per quanto riguarda gli esseri umani della Rete, sì» rispose Johnny. «Le intelligenze del Nucleo non solo creano le infrastrutture per la società dell’Egemonia, ma sono indispensabili per ogni cosa, dall’impiego della FORCE ai meccanismi di sicurezza negli arsenali di bombe nucleari e al plasma.»

«Ne eri al corrente, quando facevi parte del Nucleo?»

«No» disse Johnny. «Come progetto di recupero di uno pseudopoeta cìbrido, ero uno scherzo di natura, un giocattolo, una cosa insignificante a cui era concesso di andare a zonzo nella Rete come un cagnolino viene portato ogni giorno fuori di casa. Non avevo idea che esistessero tre campi d’influenza IA.»

«Tre campi» dissi. «Qual è il terzo? E a quale punto Hyperion entra in gioco?»

«A metà strada fra gli Stabili e i Volatili ci sono i Finali. Negli ultimi cinque secoli ì Finali sono stati ossessionati dal Progetto ID. L’esistenza o l’estinzione della razza umana interessa loro soltanto dal punto di vista del Progetto. A tutt’oggi sono stati una forza moderata, alleata agli Stabili, perché secondo loro i progetti di ricostruzione e di recupero, come l’esperimento della Vecchia Terra, sono necessari per culminare nell’ID.

«Di recente, tuttavia, la questione Hyperion ha spinto i Finali ad avvicinarsi al punto di vista dei Volatili. Da quando, quattro secoli fa, Hyperion è stato esplorato, il Nucleo è preoccupato e perplesso. Si è capito subito che le cosiddette Tombe sono manufatti lanciati indietro nel tempo, da un’epoca almeno diecimila anni nel futuro della galassia. Tuttavia è ancora più preoccupante il fatto che le formule di previsione del Nucleo non sono mai state in grado di scomporre in fattori la variabile Hyperion.

«Brawne, per capire questo fatto, devi renderti conto di quanto il Nucleo si affidi alle previsioni. Già ora, senza l’input dell’ID, il Nucleo conosce i particolari del futuro fisico, umano e IA, con un margine del 98,995 per cento, per un periodo di almeno due secoli. La Commissione di Consulenza IA per la Totalità, con le sue predizioni vaghe, delfiche… considerate tanto indispensabili dagli esseri umani… è una burla. Il Nucleo lascia cadere briciole d’informazioni all’Egemonia, quando fa comodo agli scopi del Nucleo… a volte per aiutare i Volatili, a volte gli Stabili, ma sempre per compiacere i Finali.

«Hyperion è uno strappo nel tessuto profetico dell’esistenza del Nucleo. È il penultimo ossimoro… una variabile che non si può scomporre in fattori. Per quanto sembri impossibile, Hyperion risulta esente dalle leggi della fisica, della storia, della psicologia umana, nonché dalla predizione IA come la pratica il Nucleo.

«Ne risultano due futuri… due realtà, se vuoi: in una, il flagello Shrike, che fra breve si scatenerà nella Rete e tra l’umanità interstellare, è un’arma proveniente da un futuro dominato dal Nucleo, un primo colpo retroattivo dei Volatili che domineranno la galassia fra qualche millennio. L’altra realtà vede l’invasione Shrike, la prossima guerra interstellare e gli altri prodotti dell’apertura delle Tombe, come un primo colpo umano vibrato attraverso il tempo, un incerto sforzo finale degli Ouster, degli ex coloniali e di altri piccoli gruppi di esseri umani sfuggiti al programma di estinzione dei Volatili.»


L’acqua gocciolava sulle piastrelle. Chissà dove, nei tunnel vicini, la sirena d’avvertimento di un cauterizzatore mecc echeggiò contro ceramica e pietra. Mi appoggiai alla parete e fissai Johnny.

«Guerra interstellare» dissi. «Tutt’e due i programmi richiedono una guerra interstellare?»

«Sì. Da questo non si scappa.»

«Le previsioni dei due gruppi del Nucleo non potrebbero essere errate?»

«No. Ciò che accade su Hyperion è problematico; ma la disgregazione, nella Rete e altrove, è chiarissima. I Finali sfruttano questa conoscenza come argomento principale per affrettare il prossimo passo dell’evoluzione del Nucleo.»

«E i dati rubati da BB che cosa dicono di noi, Johnny?»

Johnny sorrise, mi toccò la mano, ma non la tenne stretta. «Dicono che in qualche modo faccio parte del mistero di Hyperion. La creazione di un cìbrido di Keats è stato un terribile azzardo. Solo la mia apparente mancanza di successo come analogo di Keats ha permesso agli Stabili di conservarmi. Quando ho preso la decisione di andare su Hyperion, i Volatili mi hanno ucciso, con la chiara intenzione di annullare la mia esistenza IA se il mio cìbrido avesse preso di nuovo la stessa decisione.»

«E tu l’hai fatto. Cos’è successo?»

«Hanno fallito. Nell’illimitata arroganza del Nucleo, non hanno preso in considerazione due cose. Primo, che potessi trasferire nel cìbrido la mia consapevolezza e cambiare così la natura dell’analogo Keats. Secondo, che sarei venuto da te.»

«Da me!»

Mi prese la mano. «Sì, Brawne. Sembra che anche tu faccia parte del mistero di Hyperion.»

Scossi la testa. Notai un intorpidimento nel cuoio capelluto, sopra e dietro l’orecchio sinistro. Mi toccai, aspettandomi una ferita causata dalla lotta nel piano dati, invece sotto le dita trovai la plastica di una presa di shunt neurale.

Strappai bruscamente l’altra mano dalla stretta di Johnny e lo fissai inorridita. Mi aveva fatto applicare i cavi, mentre ero in stato d’incoscienza.

Johnny allargò le mani. «Ho dovuto, Brawne. Può essere necessario per la sopravvivenza di entrambi.»

Strinsi il pugno. «Merdoso figlio di puttana! Perché dovrei avere bisogno di interfacciarmi direttamente, bastardo contaballe?»

«Non con il Nucleo» disse piano Johnny. «Con me.»

«Con te?» Il braccio e il pugno mi tremavano per la voglia di fracassare quella faccia clonata. «Con te!» ripetei, in tono di scherno. «Tu sei umano, ora, ricordi?»

«Sì. Ma conservo alcune funzioni di cìbrido. Ricordi che qualche giorno fa ti ho presa per mano e mi sono trasferito con te nel piano dati?»

Lo fissai. «Non ci torno mai più.»

«No. E io neppure. Ma forse avrò bisogno di trasmetterti in brevissimo tempo un’incredibile quantità di dati. Ieri notte ti ho portata da un chirurgo illegale, qui a Sedimento. Quella donna ti ha impiantato un disco Schrön.»

«Perché?» L’iterazione Schrön era un disco minuscolo, non più grande di un’unghia, e molto costoso. Conteneva innumerevoli bolle di memoria, ciascuna capace di racchiudere un numero di dati pressoché infinito. Alle iterazioni Schrön non si poteva accedere tramite una portante biologica, quindi quei dischi venivano usati come corrieri. Un individuo poteva trasportare personalità IA o un’intera sfera dati planetaria, in una iterazione Schrön. Diamine, anche un cane poteva fare da corriere.

«Perché?» ripetei, con il dubbio che Johnny, o qualche forza dietro Johnny, si servissero di me a questo scopo. «Perché?»

Johnny mi si avvicinò e con la mano mi strinse il pugno. «Abbi fiducia in me, Brawne.»

Non credo d’essermi più fidata di nessuno, da quando a papà fecero saltare le cervella vent’anni fa e mamma si ritirò nel puro egoismo del suo isolamento. E non c’era ragione al mondo perché ora mi fidassi di Johnny.

Ma mi fidai.

Allentai il pugno e gli presi la mano.

«Bene» disse lui. «Finisci di mangiare e ci daremo da fare per salvarci la vita.»


Armi e droghe erano le due cose più facili da comprare, a Sedimento. Johnny aveva una considerevole provvista di marchi del mercato nero: la spendemmo tutta nell’acquisto di armi.

Alle dieci di sera indossavamo tutti e due un’armatura in fibra di polititanio. Johnny aveva un elmetto goonda a specchio nero, io una maschera comando, un’eccedenza della FORCE. I guanti elettronici di Johnny erano massicci e di color rosso vivo. Io calzavo guanti a osmosi con l’orlo letale. Johnny aveva una frusta Ouster recuperata su Bressia e portava infilata nella cintura una vergalaser. Oltre all’automatica di papà, ora avevo un minicannone Steiner-Ginn con un’imbracatura giroscopica fissata alla cintura. Era collegato al visore comando, perciò mi lasciava libere le mani mentre sparava.

Johnny e io ci guardammo e cominciammo a ridacchiare. Quando smettemmo, seguì un lungo silenzio.

«Sei sicuro che la nostra migliore possibilità sia il Tempio Shrike qui su Lusus?» gli chiesi per la terza o quarta volta.

«Non possiamo usare il teleporter» disse Johnny. «Al Nucleo basta registrare un cattivo funzionamento e siamo morti. Non possiamo neppure prendere un ascensore. Dobbiamo trovare scale non controllate da monitor e salire a piedi i centoventi piani. Il modo migliore di arrivare al Tempio è percorrere direttamente il Concourse Mall.»

«Sì, ma la gente della Chiesa Shrike ci lascerà entrare?»

Johnny si strinse nelle spalle: la tenuta da combattimento gli dava una strana aria da insetto. Il casco goonda dava alla voce un suono metallico. «È l’unico gruppo che ha un interesse legittimo nella nostra sopravvivenza. E un peso politico sufficiente a proteggerci dall’Egemonia, mentre cerchiamo di arrivare su Hyperion.»

Sollevai il visore. «Meina Gladstone ha detto che non saranno più permessi voli di pellegrinaggio su Hyperion.»

La calotta di specchio nero annuì. «Be’, al diavolo Meina Gladstone» disse il mio amante poeta.

Inspirai a fondo e andai all’apertura della nicchia, caverna, ultimo rifugio. Johnny mi seguì. La sua armatura strusciò contro la mia. «Pronta, Brawne?»

Annuii, girai sul perno il minicannone e mi avviai all’uscita.

Con un gesto, Johnny mi fermò. «Ti amo, Brawne.»

Risposi con un cenno d’assenso, facendo finta di essere ancora arrabbiata. Ma non mi ero accorta di avere il visore sollevato e quindi lui vide le lacrime.


L’Alveare era sveglio per tutte le ventotto ore del giorno ma, grazie a chissà quale tradizione, il Terzo Pozzo era il più tranquillo e meno popolato. Avremmo avuto possibilità migliori se avessimo approfittato dell’ora di massimo traffico del Primo Pozzo, lungo le soprelevate pedonali; ma se i goonda e i thug ci aspettavano, ci sarebbe stato un numero impressionante di vittime innocenti.

Impiegammo più di tre ore per salire fino al Concourse Mall, non per una singola scala, ma attraverso una serie infinita di corridoi per mecc, di pozzi verticali ripuliti dalle sommosse dei Ludditi ottant’anni prima, e di un’ultima scaletta più ruggine che metallo. Sbucammo in un corridoio di servizio a meno di mezzo chilometro dal Tempio Shrike.

«Non posso credere che sia stato così facile» mormorai a Johnny attraverso l’intercom.

«Probabilmente concentrano gente allo spazioporto e nei grappoli di teleporter privati.»

Prendemmo il marciapiede meno esposto del Concourse, trenta metri sotto il primo livello di negozi e quattrocento metri più in basso del tetto. Il Tempio Shrike era un edificio isolato, ricco di ornamenti. Alcuni individui che andavano fuori orario a fare spese e alcuni fanatici di jogging ci guardarono e s’allontanarono in fretta. Ero sicura che avrebbero avvertito la polizia del Mall, ma mi sarei stupita se gli sbirri fossero comparsi presto.

Da un pozzo di sollevamento spuntò una banda di thug di strada dipinti a colori vivaci, che saltavano e lanciavano grida di esultanza. Avevano vibrocoltelli, catene, guanti energizzati. Sorpreso, Johnny si girò verso di loro e con la frustalaser lanciò una ventina di raggi di puntamento. Ronzando, il minicannone si mosse da bersaglio a bersaglio seguendo il movimento degli occhi.

La banda si bloccò: i sette ragazzi che la componevano alzarono le mani e indietreggiarono con gli occhi sbarrati. S’infilarono nel pozzo di sollevamento e sparirono.

Guardai Johnny. Lo specchio nero mi restituì l’occhiata. Nessuno dei due rise.

Attraversammo per immetterci nel viale di negozi che portava a nord. I pochi pedoni s’affrettarono a cercare rifugio nei negozi già aperti. Eravamo a meno di cento metri dalla scalinata del Tempio. Sentivo davvero il battito del cuore, negli auricolari dell’elmetto della FORCE. Eravamo a cinquanta metri dalla scalinata. Come se fosse stato chiamato, un accolito o chissà che sacerdote comparve sulla porta alta dieci metri del Tempio e ci guardò avvicinarci. Trenta metri. Se intendevano intercettarci, l’avrebbero fatto ora.

Mi girai verso Johnny per dirgli una battuta. Almeno venti raggi e dieci proiettili ci colpirono nello stesso istante. Lo strato esterno di polititanio esplose e così deviò quasi tutta l’energia dei proiettili. Lo strato inferiore a specchio rifletté la maggior parte dei raggi letali. La maggior parte.

L’impatto gettò a terra Johnny. Mi piegai su un ginocchio e lasciai che il minicannone colpisse la sorgente laser.

Dieci piani più in alto, lungo la parete residenziale dell’Alveare. Il mio visore diventò opaco. L’armatura bruciò, emettendo un vapore riflettente. Il rumore del minicannone assomigliava a quello di una sega a catena, di quelle che si vedono negli olodrammi storici. Dieci piani più in alto, una sezione di balcone e di parete larga cinque metri si disintegrò in una nuvola di flechette esplosive e di scariche perforanti.

Tre pesanti pallottole mi colpirono da dietro. Atterrai sulle mani, spensi il minicannone e mi girai di scatto su me stessa. Su ogni livello c’erano almeno dieci avversari: si muovevano secondo una rapida e precisa coreografia di combattimento. Johnny si era alzato in ginocchio e con la frustalaser scagliava esplosioni di luce ben orchestrate: si apriva la strada attraverso l’arcobaleno per battere le difese a riflessione.

Una figura in corsa esplose in una fiammata, mentre la vetrina alle sue spalle diventava vetro fuso e lanciava schizzi di cinquanta metri nel Concourse. Altri due uomini si affacciarono alla ringhiera del livello, ma li ricacciai indietro con una scarica del mini.

Uno skimmer aperto scese dai falsi puntoni, con i repulsori che faticavano mentre passava a zigzag fra i tralicci. Razzi colpirono il cemento intorno a Johnny e a me. Le vetrine vomitarono miliardi di schegge di vetro. Guardai, battei due volte le palpebre, mirai, sparai. Lo skimmer sbandò lateralmente, colpì un ascensore nel quale era rannicchiata una decina di civili, rotolò in una massa di metallo contorto e in un’esplosione di materiali militari. Vidi un cliente in fiamme saltare sul pavimento dell’Alveare ottanta metri più sotto.

«A sinistra!» gridò Johnny, nell’intercom a raggio compatto.

Quattro uomini in armatura da combattimento erano scesi da un livello superiore, usando monorepulsori. L’armatura polarizzata camaleontica tentava di adeguarsi alle variazioni dello sfondo, ma riusciva solo a trasformare ogni uomo in un vivido caleidoscopio di riflessi. Mentre gli altri tre assalivano Johnny, il quarto entrò nell’arco di fuoco del minicannone per neutralizzarmi.

Si avventò impugnando un vibrocoltello, stile ghetto. Lasciai che intaccasse la mia armatura pur sapendo che avrebbe raggiunto la carne dell’avambraccio e guadagnai così il secondo che mi occorreva. Lo uccisi con l’orlo rigido del guanto e concentrai il fuoco del mini sui tre che stavano assalendo Johnny.

La loro armatura diventò rigida; usai il minicannone per spingerli indietro come chi spazza con un getto d’acqua un marciapiede ingombro di rifiuti. Solo uno dei tre riuscì a rimettersi in piedi prima che li sbattessi giù dal livello.

Johnny era di nuovo a terra. Aveva perso pezzi dell’armatura toracica, che si erano fusi. Sentii un odore di carne bruciata, ma non vidi ferite mortali. Tenendomi acquattata, lo sollevai di peso.

«Lasciami, Brawne. Corri. La scalinata.» Il raggio compatto cominciava a cedere.

«Vaffanculo» risposi. Lo sostenni con il braccio sinistro, ma lasciai campo libero al minicannone. «Becco ancora lo stipendio per farti da guardia del corpo.»

Ci prendevano di mira dalle due pareti dell’Alveare, dai puntoni, dai piani di negozi più in alto. Sui marciapiedi contai almeno venti cadaveri: la metà era di civili in abiti vistosi. L’aiuto elettronico nella gamba sinistra dell’armatura cominciava a grattare. Con le gambe rigide, trascinai goffamente me stessa e Johnny per altri dieci metri verso la scalinata del Tempio. Ora in cima c’erano diversi sacerdoti Shrike, apparentemente incuranti della sparatoria.

«Sopra!»

Ruotai su me stessa, mirai e sparai in un solo istante. Dopo il colpo, il mini si scaricò; il secondo skimmer lanciò i missili un istante prima di diventare un turbine di pezzi metallici e di brandelli di carne. Buttai a terra Johnny e mi gettai su di lui, nel tentativo di proteggere con il mio corpo le parti esposte del suo.

I missili scoppiarono tutti insieme, diversi a mezz’aria e alcuni dopo essere penetrati nelle strutture, Johnny e io fummo sollevati e scagliati per una ventina di metri lungo il marciapiede in pendenza. Fu una fortuna. La striscia pedonale in lega e ferrocemento, dove eravamo un attimo prima, bruciò, ribollì, s’incurvò e precipitò sul marciapiede in fiamme più in basso. Ora c’era un fossato naturale, un vuoto fra noi e gran parte degli assalitori.

Mi alzai, sbattei via l’inutile bardatura col minicannone, mi staccai di dosso alcuni inservibili frammenti d’armatura e, con tutt’e due le braccia sollevai Johnny. Aveva perduto l’elmetto ed era conciato molto male. Il sangue filtrava da una serie di squarci nell’armatura. Il braccio destro e il piede sinistro erano tagliati di netto. Mi girai e cominciai a portarlo su per la scalinata del Tempio Shrike.

Ora si sentivano le sirene. Skimmer della sicurezza riempivano lo spazio aereo del Concourse. I goonda piazzati sui livelli superiori e sul lato più lontano del marciapiede crollato corsero a mettersi al riparo. Due dei commando scesi con i monorepulsori si lanciarono al nostro inseguimento sulla scalinata. Non mi girai. A ogni gradino dovevo sollevare la gamba sinistra, ormai rigida e inutilizzabile. Sapevo di avere gravi ustioni alla schiena e al fianco e ferite di shrapnel in altri punti.

Gli skimmer si tuffarono in picchiata e girarono tutt’intorno, ma evitarono la scalinata del Tempio. Sparatorie risuonavano per tutto il Mall. Passi metallici stavano arrivando rapidamente alle mie spalle. Riuscii a salire altri tre gradini. Venti gradini più in alto, lontanissimo, il vescovo era fermo fra un centinaio di sacerdoti del Tempio.

Salii un altro gradino, guardai Johnny. Un occhio, aperto, mi fissava; l’altro era gonfio e coperto di sangue. «Va tutto bene» mormorai, accorgendomi solo allora di aver perso l’elmetto. «Va tutto bene. Ci siamo quasi.» Salii un altro gradino.

Due uomini con un’armatura da combattimento nera mi bloccarono la strada. Avevano i visori striati di cicatrici da deflessione e una faccia decisa.

«Mettilo giù, puttana, e forse ti lasceremo in vita.»

Annuii, troppo stanca per salire un altro gradino: riuscivo solo a stare lì, ferma con Johnny fra le braccia. Il suo sangue gocciolava sulla pietra bianca.

«Ti ho detto di mettere giù quel figlio di puttana e…»

Li colpii tutti e due, uno all’occhio sinistro, l’altro al destro, senza spostare da sotto il corpo di Johnny l’automatica di papà.

Caddero a terra. Riuscii a salire un altro gradino. E poi un altro. Mi riposai un momento, sollevai il piede per il gradino successivo.

In cima alla scalinata, il gruppo di tonache rosse e nere si divise in due. Il vano della porta era altissimo e buio. Non mi guardai indietro, ma dal rumore capii che la folla sul Concourse doveva essere piuttosto numerosa. Il vescovo camminò al mio fianco, mentre varcavo la porta ed entravo nella penombra.

Posai Johnny sul pavimento freddo. Intorno a noi ci fu un fruscio di tonache. Mi tolsi, dove potevo, l’armatura e spogliai Johnny. In parecchi punti, la sua armatura era incollata alla carne. Con la mano buona gli toccai la guancia ustionata. «Scusa…»

Johnny mosse lievemente la testa, aprì l’occhio. Sollevò la sinistra per toccarmi la guancia, i capelli, la nuca. «Fanny…»

Lo sentii morire in quel momento. Sentii anche l’ondata, quando la sua mano trovò lo shunt neurale: il calore incandescente dell’ondata diretta all’iterazione Schrön, mentre tutto ciò che John Keats era stato o sarebbe stato esplodeva in me. Sembrava, quasi, il suo orgasmo dentro di me due notti prima: l’ondata, la pulsazione, l’improvviso calore, la successiva immobilità con l’eco della sensazione.

Lo posai a terra e lasciai che gli accoliti portassero via il cadavere e lo presentassero alla folla, alle autorità, a coloro che aspettavano di sapere.

E lasciai che mi portassero via.


Passai due settimane in una culla di ricupero del Tempio Shrike. Le ustioni guarirono, le cicatrici scomparvero, il metallo fu estratto, la pelle fu ricucita, la carne ricrebbe, i nervi furono ricollegati. Ma sentivo ancora il dolore.

Tutti, tranne i sacerdoti Shrike, si disinteressarono di me. Il Nucleo si accertò che Johnny fosse morto, che la sua presenza nel Nucleo non avesse lasciato traccia, che il suo cìbrido fosse morto.

Le autorità accettarono la mia dichiarazione, mi revocarono la licenza e coprirono l’accaduto meglio che potevano. I giornali della Rete riferirono che uno scontro fra bande dell’Alveare Sedimento era arrivato fino al Concourse Mall. Numerosi banditi e passanti innocenti erano rimasti uccisi. La polizia aveva riportato l’ordine.

Una settimana prima d’apprendere la notizia che l’Egemonia avrebbe permesso alla Yggdrasill di portare i pellegrini nella zona di guerra intorno a Hyperion, usai un teleporter del Tempio per andare su Vettore Rinascimento, dove passai un’ora negli archivi locali.

Le carte erano tenute sotto vuoto, quindi non potevo toccarle. La calligrafia l’avevo già vista: era quella di Johnny. La pergamena era ingiallita e friabile per l’antichità. C’erano due frammenti. Il primo diceva:

Il giorno è andato, andate tutte le sue dolcezze!

Dolce voce, dolci labbra, morbida mano, seno più morbido,

alito caldo, mormorio lieve, tenero sussurro,

occhi lucenti, forma perfetta, languidi fianchi!

Svanì il fiore e tutti i suoi incanti in boccio,

svanì la vista della beltà dai miei occhi,

svanì la forma della beltà dalle mie braccia,

svanì la voce, calore, candore, paradiso…

Svaniti senza ragione sul far della sera,

quando l’imbrunito dì di festa… o notte di festa…

d’amore dai fragranti veli comincia a tessere

la lana del buio profondo, per celare delizia;

ma, letto per tutto oggi il messale dell’amore,

mi lascerà dormire, poiché digiuno e prego.

Il secondo frammento era scritto con una grafia meno precisa e su carta più rozza, come se fosse stato vergato in fretta su un bloc notes:

Questa mano viva, ora calda e in grado

d’afferrare con gioia, se fosse fredda

e gelida nel silenzio della tomba,

tormenterebbe i tuoi giorni e gelerebbe le notti sognanti

tanto da farti desiderare d’avere il cuore esangue

perché nelle mie vene scorra ancora la rossa vita,

e la tua coscienza sia in pace… vedi, eccola qui…

a te la tendo.

Sono incinta. Credo che Johnny lo sapesse, ma non ne sono sicura.

Sono doppiamente incinta. Una volta, del figlio di Johnny; e una volta del ricordo Schrön di ciò che egli era. Non so se i due sono destinati a essere collegati. Passeranno mesi, prima che il bambino nasca; e solo pochi giorni, prima che affronti lo Shrike.

Ma ricordo quei minuti, dopo che il corpo massacrato di Johnny fu portato davanti alla folla e prima che mi conducessero via per curarmi. Erano tutti lì nel buio, a centinaia, sacerdoti, accoliti, esorcisti, ostiari, fedeli… e cominciarono a salmodiare all’unisono, lì nella penombra rossastra sotto la scultura girevole dello Shrike, dove la loro voce echeggiava nelle volte gotiche. E la loro salmodia diceva pressappoco:

BENEDETTA SIA LEI

BENEDETTA SIA LA MADRE DEL NOSTRO SALVATORE

BENEDETTO SIA LO STRUMENTO DELLA NOSTRA REDENZIONE

BENEDETTA SIA LA SPOSA DELLA NOSTRA CREAZIONE

BENEDETTA SIA LEI

Ero ferita, sotto choc. Allora non capii. Neppure adesso capisco.

Ma so che, quando sarà il momento e arriverà lo Shrike, io e Johnny lo affronteremo insieme.

Il buio era calato da tempo. La funivia correva fra stelle e ghiaccio. Il gruppetto rimase in silenzio: l’unico rumore era lo scricchiolio del cavo.

Dopo un certo tempo, Lenar Hoyt disse a Brawne Lamia: — Anche lei porta il crucimorfo.

Lamia fissò il prete.

Il colonnello Kassad si sporse verso la donna. — Crede che Het Masteen fosse il Templare che parlò a Johnny?

— Può darsi — rispose Brawne Lamia. — Non l’ho mai saputo.

Kassad non batté ciglio. — È stata lei a uccidere Het Masteen?

— No.

Martin Sileno si stiracchiò e sbadigliò. — Mancano alcune ore all’alba — disse. — Chi ha voglia di dormire un poco? Alcuni annuirono.

— Monterò la guardia — disse Fedmahn Kassad. — Non sono stanco.

— Le terrò compagnia — disse il Console.

— Scalderò un po’ di caffè da mettere nel thermos — disse Brawne Lamia.

Mentre gli altri dormivano e la piccola Rachel gemeva sommessamente nel sonno, loro tre rimasero a guardare la luce fredda delle stelle lontane nel cuore della notte.

Загрузка...