Il Console si svegliò con i sintomi tipici: mal di testa, gola secca e l’impressione d’avere dimenticato mille sogni che solo un periodo di crio-fuga poteva generare. Batté le palpebre, si alzò a sedere sulla bassa cuccetta e con movimenti ancora intorpiditi spinse via gli ultimi nastri sensori ancora attaccati alla pelle. Con lui, nella stanza ovoidale e priva di finestre, c’erano due cloni dell’equipaggio, molto bassi, e un Templare incappucciato, molto alto. Un clone offrì al Console il tradizionale bicchiere di succo d’arancia del dopo-fuga. Il Console lo accettò e bevve avidamente.
— L’Albero si trova a due minuti-luce e a cinque ore di viaggio da Hyperion — disse il Templare. Il Console vide che l’uomo era Het Masteen, capitano della nave-albero dei Templari e Vera Voce dell’Albero. Confusamente si rese conto che era un grande onore essere svegliato dal capitano in persona, ma era troppo disorientato e intontito dalla crio-fuga per apprezzarlo.
— Gli altri sono svegli da qualche ora — disse Het Masteen, ordinando con un gesto ai cloni di uscire. — Sono riuniti nella piattaforma da pranzo principale.
— Hhrghn — fece il Console. Bevve un sorso, si schiarì la gola e tentò di nuovo. — Grazie, Het Masteen — riuscì a dire. Si guardò intorno nella stanza ovoidale, vide il tappeto d’erba verde, le pareti trasparenti, le centine di supporto in legno ricurvo privo di giunzioni e capì di trovarsi in un piccolo scomparto ambientale. Chiuse gli occhi e cercò di ricordare l’appuntamento avvenuto appena prima che la nave templare passasse al balzo quantico.
Rammentò la prima occhiata alla nave-albero lunga un chilometro quando aveva accostato. I particolari erano confusi dalla macchina di ridondanza e dai campi di contenimento generati dagli erg che la circondavano come una nebbia sferica, ma la massa frondosa era chiaramente illuminata da migliaia di luci che risplendevano pallide tra le foglie e nei reparti ambientali dalle pareti sottili, o lungo le innumerevoli piattaforme, le passerelle, i ponti di comando, le scalette e i pergolati. Attorno alla base della nave-albero, sfere di manovra e di deposito simili a vesciche gonfie formavano un grappolo; in coda, i pennoni di propulsione azzurri e viola formavano una scia, come radici lunghe dieci chilometri.
— Gli altri attendono — disse piano Het Masteen, accennando ai bassi cuscini sui quali il bagaglio del Console era pronto ad aprirsi al suo comando. Il Templare si mise a fissare pensierosamente i travetti di legno weir, mentre il Console indossava un abbigliamento da mezza sera: ampi calzoni neri, lucidi stivali, camicia bianca di seta con maniche e cintola a sbuffo, colletto duro color topazio, giubbetto nero con le spalline a banda cremisi dell’Egemonia, floscio tricorno dorato. Una sezione della parete ricurva diventò uno specchio e il Console si osservò: un uomo che aveva già passato la mezz’età, abbronzato ma curiosamente pallido sotto gli occhi tristi. Si accigliò, annuì, distolse lo sguardo.
Het Masteen fece un gesto e il Console seguì l’alta figura dalla veste lunga, varcò il vano a dilatazione e percorse un passaggio pedonale in salita che s’incurvava fuori vista attorno alla massiccia parete-corteccia del fusto della nave-albero. Esitò, si accostò al bordo del passaggio pedonale, arretrò in fretta. C’era uno strapiombo di almeno seicento metri, privo di ringhiera… la sensazione di basso era data dalla gravità standard di 0,16 g prodotta dalle anomalie imprigionate alla base dell’albero.
Ripresero la salita in silenzio e, dopo trenta metri e mezza spirale, lasciarono il passaggio principale del tronco e attraversarono un fragile ponte sospeso che portava a una diramazione larga cinque metri. La seguirono verso l’esterno, fino al punto in cui la massa di foglie prendeva il sole di Hyperion.
— La mia nave è stata portata fuori del magazzino? — domandò il Console.
— Si trova nella sfera 11, pronta e rifornita di carburante — rispose Het Masteen. Passarono nell’ombra del tronco e le stelle comparvero nelle chiazze nere fra lo scuro graticcio di foglie. — Gli altri pellegrini sono disposti a compiere il viaggio sulla sua nave, se le autorità della FORCE lo permettono — aggiunse il Templare.
Il Console si sfregò gli occhi e rimpianse di non avere avuto più tempo per riaversi dalla gelida prigione della crio-fuga. — Si è messo in contatto con il reparto operativo?
— Oh, certo. Ci hanno bloccato appena siamo emersi dal balzo quantico. Un incrociatore dell’Egemonia ci… scorta… in questo preciso momento. — Het Masteen indicò, in alto, una chiazza di cielo.
Il Console guardò a occhi socchiusi, ma in quell’attimo segmenti delle file superiori di rami girarono per uscire dall’ombra del tronco e acri di foglie si accesero delle sfumature del tramonto. Nelle zone ancora in ombra, uccelli lucenti annidati come lanterne giapponesi sopra passaggi illuminati, lucide liane mobili, rischiaravano i ponti sospesi, mentre lucciole provenienti dalla Vecchia Terra e splendenti ragnatelidi originari di Patto-Maui palpitavano e codificavano la propria strada nel labirinto di foglie, mischiandosi alle costellazioni quanto bastava a ingannare anche il più provetto viaggiatore.
Het Masteen entrò in un cesto di sollevamento che pendeva da un cavo di fibrocarbonio e scompariva nei trecento metri di albero più in alto. Il Console lo seguì e salirono in silenzio. Il Console notò che i passaggi pedonali, i reparti ambientali e le piattaforme erano deserti, a parte alcuni Templari e le loro minuscole controfigure clonate che fungevano da equipaggio. Ricordò di non avere visto passeggeri, durante l’ora fra l’appuntamento e la crio-fuga ma, data l’imminenza del balzo quantico della nave-albero, aveva pensato che i passeggeri si trovassero al sicuro nella loro cuccetta. Ora, però, la nave-albero viaggiava molto al di sotto delle velocità relativistiche e i suoi rami avrebbero dovuto brulicare di passeggeri ammirati. Ne parlò al Templare.
— Voi sei siete i soli passeggeri — rispose Het Masteen. Il cesto si fermò in un labirinto di fronde e il capitano precedette il Console su per una scala mobile di legno consumata dal tempo.
Il Console batté le palpebre, sorpreso. Una nave-albero dei Templari portava di norma da due a cinquemila passeggeri: era quello, senza dubbio, il più piacevole modo di viaggiare fra le stelle. Le navi-albero di rado accumulavano un debito temporale superiore ai quattro, cinque mesi; compivano brevi e spettacolari traversate nelle zone in cui i sistemi stellari distavano fra loro alcuni anni-luce, permettendo così ai ricchi passeggeri di trascorrere in crio-fuga il minimo periodo indispensabile. Il viaggio a Hyperion e il ritorno avrebbero accumulato un debito temporale pari a sei anni della Rete: la mancanza di passeggeri paganti rappresentava per i Templari una perdita finanziaria sbalorditiva.
Poi il Console capì, tardivamente, che la nave-albero sarebbe stata il mezzo ideale per l’evacuazione in programma e che alla fine l’Egemonia avrebbe rimborsato le spese. Tuttavia, portare in zona di guerra una nave-albero bella e vulnerabile come la Yggdrasill — ne esistevano solo cinque, di quel tipo — era un rischio terribile, per la Confraternita dei Templari.
— I pellegrini suoi colleghi — annunciò Het Masteen quando emerse con il Console in un’ampia piattaforma dove, all’estremità di un lungo tavolo di legno, era in attesa un gruppetto di persone. In alto le stelle ardevano e di tanto in tanto ruotavano, quando la nave cambiava l’angolo d’imbardata; ai lati, una sfera continua di fogliame s’incurvava come la buccia verde d’un grande frutto. Il Console riconobbe immediatamente il locale, ossia la piattaforma da pranzo del capitano, prima ancora che gli altri cinque passeggeri si alzassero per lasciare a Het Masteen il posto a capotavola. Il Console individuò la sedia vuota prevista per lui alla sinistra del capitano.
Quando tutti si furono accomodati in silenzio, Het Masteen passò alle presentazioni. Il Console non conosceva di persona nessuno degli altri, ma aveva già sentito parlare di loro e sfruttò il lungo addestramento da diplomatico per schedare nel cervello l’aspetto di ognuno e l’impressione che ne riportava.
Alla sinistra del Console sedeva padre Lenar Hoyt, un prete dell’antica setta cristiana conosciuta come Chiesa Cattolica. Per un attimo il Console non ricordò il significato dell’abito nero e del collare bianco, ma poi rammentò l’Ospedale di San Francesco, su Hebron, dove era stato curato dall’alcolismo, in seguito ai risultati disastrosi del suo primo incarico diplomatico su quel pianeta, quasi quattro decenni standard prima. E alla menzione del nome di Hoyt ricordò un altro prete, scomparso su Hyperion a metà del suo periodo di permanenza sul pianeta in qualità di ambasciatore.
Lenar Hoyt era un giovanotto, dal punto di vista del Console. Aveva appena superato la trentina, ma sembrava che in tempi recenti qualcosa l’avesse invecchiato terribilmente: viso smagrito, zigomi sporgenti sotto la pelle giallastra, occhi grandi ma segnati da profonde occhiaie, labbra sottili perennemente piegate in una smorfia troppo accentuata per essere anche solo un sorriso cinico, incipiente calvizie dovuta alle radiazioni. Questi tratti davano l’impressione che l’uomo fosse stato ammalato per anni. Eppure, con stupore del Console, dietro quella maschera di dolore segreto restava l’eco fisica del ragazzo: deboli residui d’un viso rotondo, di pelle rosea, di labbra morbide, appartenuti a un Lenar Hoyt più giovane, più sano, meno cinico.
Accanto al prete sedeva un uomo la cui immagine, alcuni anni prima, era ben nota a gran parte dei cittadini dell’Egemonia. Il Console si chiese se la durata dell’attenzione collettiva, nella Rete dei Mondi, fosse ancora così breve come nel periodo in cui lui era vissuto lì. Più breve, probabilmente; quindi il colonnello Fedmahn Kassad — il cosiddetto Macellaio di Bressia Sud — ormai non era più né famigerato, né famoso. Ma per la generazione del Console, e per tutti coloro che vivevano nella lenta frangia di tempo degli esuli, Kassad non era uno che fosse facile dimenticare.
Il colonnello Fedmahn Kassad era alto — quasi al punto di guardare negli occhi Het Masteen — e indossava l’uniforme nera della FORCE, priva di gradi e di decorazioni. Le tenuta nera era bizzarramente simile a quella di padre Hoyt, ma i due uomini non si somigliavano per niente. Kassad non aveva l’aspetto distrutto di Hoyt: scuro di pelle, chiaramente in buona forma fisica, era snello e scattante come un frustino, con fasci di muscoli evidenti sulle spalle, sui polsi, sul collo. Gli occhi piccoli e scuri, simili alla lente di una telecamera primitiva, non perdevano un particolare. Il viso era tutto angoli, ombre, piani, sfaccettature; non magro come quello di padre Hoyt, ma semplicemente scolpito nella fredda pietra. La sottile barbetta lungo la mascella accentuava l’asprezza dei lineamenti come sangue sulla lama di un coltello.
I movimenti lenti e intensi del colonnello ricordarono al Console un giaguaro nato sulla Terra che aveva ammirato parecchi anni prima in uno zoo da riproduzione privato, su Lusus. La voce di Kassad era bassa e calma, ma il Console non mancò di notare che anche i silenzi del colonnello meritavano attenzione.
Gran parte del lungo tavolo era vuota: il gruppo era radunato a un’estremità. Di fronte a Fedmahn Kassad sedeva un uomo che fu presentato come il poeta Martin Sileno.
Sileno sembrava l’esatto contrario del militare che gli stava di fronte. Mentre Kassad era alto e snello, Martin Sileno era basso e chiaramente fuori forma. La sua faccia non aveva lineamenti scolpiti nella ròccia, ma i tratti mobili ed espressivi di un primate terrestre. La voce era stridula e forte. C’era qualcosa di piacevolmente demoniaco, pensò il Console, in quelle guance rubizze, nell’ampia bocca, nelle sopracciglia marcate, nelle orecchie a punta, nelle mani sempre in movimento, nelle lunghe dita da pianista. O da strangolatore. I capelli argentei del poeta erano tagliati a ciocche irregolari.
Martin Sileno sembrava vicino ai sessanta, ma l’indicativa sfumatura azzurrastra della gola e del palmo delle mani faceva pensare che avesse subito un certo numero di trattamenti Poulsen. La vera età di Sileno poteva benissimo essere compresa fra i novanta e centocinquanta anni standard e, nel secondo caso, era facile che il poeta fosse completamente pazzo.
Se a prima vista Sileno sembrava turbolento e vivace, l’ospite seduto accanto a lui dava una sensazione immediata e altrettanto vivida d’intelligenza e riservatezza. Quando Sol Weintraub fu presentato e alzò gli occhi, il Console notò la barbetta sale e pepe, la fronte piena di rughe, gli occhi tristi e luminosi del celebre studioso. Aveva sentito parecchie storie sull’Ebreo Errante e la sua ricerca disperata, ma fu sconvolto nell’accorgersi che il vecchio teneva in braccio la bambina… sua figlia Rachel, di qualche settimana appena. Il Console distolse lo sguardo.
Il sesto pellegrino, unica donna al tavolo, era Brawne Lamia. Quando fu presentata, l’investigatrice fissò il Console con un’intensità tale che quest’ultimo continuò a sentire la pressione del suo sguardo anche quando la donna spostò gli occhi da un’altra parte.
Ex cittadina del pianeta a gravità 1,3 Lusus, Brawne Lamia non era più alta del poeta seduto due posti alla sua destra, ma perfino nell’ampia tuta di bordo di velluto a coste tradiva la robusta muscolatura del fisico compatto. Riccioli neri le arrivavano alle spalle, le sopracciglia erano due linee scure tracciate sull’ampia fronte, il naso forte e appuntito accentuava l’intensità dello sguardo. Lamia aveva una bocca grande ed espressiva, quasi sensuale, lievemente piegata agli angoli in un sorrisino che forse era crudele, forse solo allegro: sembrava che gli occhi scuri sfidassero l’osservatore a scoprirlo.
Il Console pensò che molti l’avrebbero ritenuta una donna bella.
Al termine delle presentazioni, il Console si schiarì la voce e si rivolse al Templare. — Het Masteen, lei ha parlato di sette pellegrini. Il settimo è forse la figlia del signor Weintraub?
Het Masteen mosse lentamente in un cenno di diniego la testa incappucciata. — No. Soltanto coloro che prendono coscientemente la decisione di cercare lo Shrike possono essere annoverati fra i pellegrini.
Gli altri intorno al tavolo si mossero leggermente. Certo ognuno di loro sapeva ciò che il Console non ignorava: solo un gruppo comprendente un numero primo di pellegrini poteva fare il viaggio a nord patrocinato dalla Chiesa Shrike.
— Il settimo sono io — disse Het Masteen, capitano della nave-albero templare Yggdrasill e Vera Voce dell’Albero. Nel silenzio che seguì, fece un cenno a un gruppo di cloni d’equipaggio che servirono ai pellegrini l’ultimo pasto prima dell’atterraggio sul pianeta.
— Allora gli Ouster non sono ancora entrati nel sistema? — domandò Brawne Lamia. La sua voce aveva una tonalità rauca, di gola, che eccitò bizzarramente il Console.
— No — rispose Het Masteen. — Ma al massimo li precediamo di qualche giorno standard. I nostri strumenti hanno scoperto scaramucce a fusione, nella nube di Oòrt.
— Sarà la guerra? — domandò padre Hoyt. Il suo tono sembrava stanco quanto la sua espressione. Visto che nessuno rispondeva, il prete si girò alla sua destra come se, ripensandoci, indirizzasse al Console la domanda.
Il Console sospirò. I cloni avevano servito del vino e lui rimpiangeva che non fosse whisky. — Come si fa a sapere cosa faranno gli Ouster? — rispose. — Ormai sembra che non seguano più nessuna logica umana.
Martin Sileno rise forte, con un gesto che lasciò cadere qualche goccia di vino. — Come se noi merdosi esseri umani avessimo mai seguito la logica umana! — disse. Bevve un lungo sorso, si asciugò le labbra e rise di nuovo.
Brawne Lamia si accigliò. — Se i combattimenti veri e propri dovessero iniziare troppo presto, forse le autorità non ci permetteranno di atterrare.
— Ci daranno il permesso di passare — disse Het Masteen. La luce del sole trovò un varco nelle pieghe del cappuccio e gli illuminò la pelle giallastra.
— Salvati da morte certa in guerra, solo per ottenere morte certa per mano dello Shrike — mormorò padre Hoyt,
— Non c’è morte in tutto l’universo! — intonò Martin Sileno, con voce che secondo il Console avrebbe risvegliato anche una persona profondamente immersa nella crio-fuga. Il poeta bevve le ultime gocce di vino e sollevò il bicchiere vuoto come se brindasse alle stelle.
Niente lezzo di morte… non ci sarà morte, gemi, gemi;
gemi, Cibele, gemi: i tuoi malefici Figli
han mutato un dio in tremante paralisi.
Gemi, sorella, gemi: a me forza non resta;
debole come il giunco… debole… fievole come la mia voce…
Oh, oh, il dolore, il dolore della debolezza.
Gemi, gemi, perché ancora mi sciolgo…
Sileno s’interruppe di colpo, si versò altro vino e nel silenzio che seguì la declamazione ruttò. Gli altri sei si scambiarono un’occhiata. Il Console notò che Sol Weintraub sorrideva lievemente, poi la piccina fra le sue braccia si agitò, distraendolo.
— Bene — disse padre Hoyt, esitante, come se cercasse di riprendere il filo di un pensiero precedente. — Se il convoglio dell’Egemonia se ne va e gli Ouster prendono Hyperion, forse l’occupazione avverrà senza spargimento di sangue e ci lasceranno andare per i fatti nostri.
Il colonnello Fedmahn Kassad rise piano. — Gli Ouster non vogliono occupare Hyperion — disse. — Se prenderanno il pianeta, saccheggeranno quel che vogliono e poi faranno quel che riesce loro meglio: bruceranno le città, ridurranno in frantumi le rovine carbonizzate e poi trasformeranno il tutto in braci ardenti. Faranno fondere i poli e bollire gli oceani, e dopo useranno i residui per salare quel che resta, in modo che non possa crescere più niente.
— Be’… — cominciò padre Hoyt, ma lasciò morire la frase.
Nessuno parlò, mentre i cloni portavano via la minestra e l’insalata e servivano il piatto principale.
— Lei diceva che avremmo avuto la scorta di un incrociatore dell’Egemonia — disse il Console a Het Masteen, quando terminarono l’arrosto e lo stufato di calamari.
Il Templare annuì e indicò il cielo. Il Console aguzzò lo sguardo, ma non vide nessun movimento contro lo sfondo rotante di stelle.
— Tenga — disse Fedmahn Kassad sporgendosi davanti a padre Hoyt per dare al Console un binocolo militare pieghevole.
Il Console gli fece un cenno di ringraziamento, premette il pulsante d’accensione e scrutò il tratto di cielo indicato da Het Masteen. Nel binocolo i cristalli giroscopici ronzarono piano, mentre stabilizzavano la messa a fuoco ed esaminavano la zona secondo uno schema di ricerca programmato, poi l’immagine si bloccò di colpo, si confuse, s’ingrandì e si definì.
Il Console non riuscì a evitare un ansito involontario, mentre l’astronave dell’Egemonia riempiva il visore. L’immagine non mostrava l’attesa e confusa forma allungata di una vedetta monoposto né quella a bulbo di una nave-torcia, ma il profilo elettronico nero opaco d’un veicolo d’assalto. L’oggetto era impressionante, come nel corso dei secoli sanno esserlo solo le navi da guerra. La spin-nave dell’Egemonia era assurdamente seguita dalla scia dei quattro bracci ritratti nella preparazione alla battaglia, aveva una sonda di comando di sessanta metri acuminata come una punta Clovis, e il motore Hawking e i bruciatori di fusione collocati molto indietro lungo il pozzo di lancio, come piume in fondo a una freccia.
Il Console restituì a Kassad il binocolo, senza fare commenti. Se il reparto operativo usava una portanavette d’attacco per scortare la Yggdrasill, che genere di potenza di fuoco avrebbe messo in campo per respingere l’invasione degli Ouster?
— Quanto manca all’atterraggio? — domandò Brawne Lamia. Aveva adoperato il comlog per accedere alla sfera dati della nave-albero ed era chiaramente irritata per quello che aveva trovato. O non trovato.
— Quattro ore all’ingresso in orbita — mormorò Het Masteen — e qualche altro minuto in navetta. Il nostro amico diplomatico ha offerto la sua nave privata per traghettarci sul pianeta.
— A Keats? — chiese Sol Weintraub. Era la prima volta che lo studioso prendeva la parola dall’inizio del pranzo.
Il Console annuì. — È tuttora l’unico spazioporto di Hyperion in grado di ricevere veicoli passeggeri — spiegò.
— Spazioporto? — Padre Hoyt sembrò irritato. — Credevo che andassimo diritto a nord, nel dominio dello Shrike.
Het Masteen scosse pazientemente la testa. — Il pellegrinaggio inizia sempre dalla capitale — spiegò. — Occorreranno alcuni giorni per arrivare alle Tombe del Tempo.
— Alcuni giorni? — esclamò Brawne Lamia. — Ma è assurdo!
— Forse — ammise Het Masteen. — Ma nel nostro caso non si può fare diversamente.
Padre Hoyt sembrava vittima di una pietanza indigesta, anche se non aveva mangiato quasi niente. — Non possiamo cambiare le regole, per questa volta? — disse. — Insomma, considerato il timore di una guerra e tutto il resto… potremmo atterrare direttamente nelle vicinanze delle Tombe del Tempo o in un punto da cui sia facile raggiungerle.
Il Console scosse la testa. — Sono quasi quattrocento anni che velivoli e veicoli spaziali cercano una scorciatoia per le paludi settentrionali — disse. — Non mi risulta che qualcuno ci sia riuscito.
— Posso chiedere — intervenne Martin Sileno alzando allegramente la mano come uno scolaretto — che cazzo accade a queste legioni di navi?
Padre Hoyt gli diede un’occhiataccia. Fedmahn Kassad sorrise.
— Il Console — disse Sol Weintraub — non intendeva suggerire che la zona è inaccessibile. Si può viaggiare per nave, o seguire diversi percorsi via terra. I veicoli e i velivoli non spariscono. Non hanno difficoltà ad atterrare nei pressi delle rovine o delle Tombe del Tempo, e possono tornare facilmente nel punto indicato ai computer di bordo. Sono i piloti e i passeggeri, quelli che nessuno rivede più. — Weintraub sollevò la bimbetta addormentata e l’adagiò nel marsupio che gli pendeva sul petto.
— Così dicono le vecchie leggende — commentò Brawne Lamia. — Ma le “scatole nere” delle navi?
— Niente — rispose il Console. — Nessuna violenza. Nessun ingresso forzato. Nessuna deviazione di rotta. Né inspiegabili intervalli di tempo. Né insoliti assorbimenti o emissioni d’energia. Nessun fenomeno fisico di nessun genere.
— E neppure passeggeri — concluse Het Masteen.
Il Console rifletté. Se Het Masteen aveva davvero tentato solo un gioco di parole, era il primo segno in assoluto, nei decenni in cui lui aveva avuto a che fare con i Templari, che uno di loro mostrava traccia di un nascente senso dell’umorismo; ma quel che il Console scorgeva dei lineamenti vagamente orientali sotto il capuccio non mostrava il minimo accenno che si fosse trattato di una battuta.
— Melodramma fantastico — rise Sileno. — Un vero Sargasso d’Anime, e noi vi siamo diretti. Comunque, chi orchestra questa stronzata di viaggio?
— Stia zitto — lo rimbeccò Brawne Lamia. — Lei è ubriaco, vecchio.
Il Console sospirò: il gruppo stava insieme da meno di un’ora standard.
I cloni d’equipaggio sparecchiarono e portarono i vassoi col dessert: sorbetti, caffè, frutti di nave-albero, draum, torte e bevande di cioccolato del Vettore Rinascimento. Martin Sileno rifiutò con un gesto i dessert e disse ai cloni di portargli un’altra bottiglia di vino. Il Console rifletté un istante e poi chiese un whisky.
— Ho il sospetto — disse Sol Weintraub mentre il gruppo terminava il dessert — che la nostra sopravvivenza possa dipendere dal fatto che parliamo fra noi.
— Cosa intende dire? — domandò Brawne Lamia.
Inconsciamente Weintraub cullò contro il petto la bimba addormentata. — Per esempio, qualcuno dei presenti sa per quale motivo è stato scelto dalla Chiesa Shrike e dalla Totalità per partecipare al viaggio?
Nessuno aprì bocca.
— Come pensavo… — continuò Weintraub. — Inoltre, ci sono fra noi seguaci della Chiesa Shrike? Io, da parte mia, sono ebreo e per quanto attualmente le mie nozioni religiose siano confuse, non includono l’adorazione di una macchina organica specializzata in uccisioni. — Weintraub sollevò le folte sopracciglia e lasciò girare lo sguardo intorno al tavolo.
— Io sono la Vera Voce dell’Albero — disse Het Masteen. — Per quanto parecchi Templari credano che lo Shrike sia l’Avatar del castigo per chi non si ciba della radice, la considero un’eresia che non si basa né sul Patto né sugli scritti del Muir.
Alla sinistra del capitano, il Console si strinse nelle spalle. — Io sono ateo — disse, sollevando controluce il bicchiere di whisky.
— Non ho mai avuto contatti con il culto Shrike.
Padre Hoyt sorrise a denti stretti. — Sono stato ordinato prete della Chiesa Cattolica — spiegò. — L’adorazione dello Shrike contraddice tutto quello che la Chiesa sostiene.
Il colonnello Kassad scosse la testa, ma non fu chiaro se era un rifiuto a rispondere o se voleva comunicare che non apparteneva alla Chiesa Shrike.
Martin Sileno fece un ampio gesto con la mano. — Per battesimo sono luterano — disse. — Una setta che non esiste più. Ho collaborato a creare lo gnosticismo Zen, prima che i vostri genitori nascessero. Sono stato cattolico, rivelazionista, neomarxista, zelota dell’interfaccia, sconfinatore, satanista, vescovo della Chiesa Jake’s Nada, socio sostenitore dell’Istituto della Reincarnazione Garantita. Al momento, mi compiaccio nel dirlo, sono un semplice pagano. — Sorrise a tutti. — Per un pagano — concluse — lo Shrike è una divinità del tutto accettabile.
— La religione non mi tocca — disse Brawne Lamia. — Io non mi faccio incantare da nessuno.
— Mi sembra di avere raggiunto qualcosa di significativo — commentò Sol Weintraub. — Nessuno di noi ammette di aderire al culto Shrike, eppure gli anziani di questo gruppo esclusivo hanno scelto proprio noi, fra milioni di fedeli che supplicano di visitare le Tombe del Tempo… e il loro dio crudele… in quello che potrebbe essere l’ultimo pellegrinaggio.
Il Console scosse la testa. — Forse ha segnato un punto, signor Weintraub — disse. — Ma non capisco quale.
Lo studioso si lisciò la barba con aria assente. — Sembrerebbe che le nostre ragioni per tornare su Hyperion siano così valide che perfino la Chiesa Shrike e i servizi segreti probabilistici dell’Egemonia sono d’accordo sul fatto che meritiamo di tornarvi — disse. — Alcune di queste ragioni, le mie per esempio, sembrano di pubblico dominio, ma sono sicuro che nessuno, tranne chi siede a questo tavolo, conosce ogni singolo motivo. Propongo che ciascuno racconti la sua storia, nei pochi giorni che ci restano.
— Perché? — replicò il colonnello Kassad. — Non servirebbe a niente.
Weintraub sorrise. — Al contrario. Se non altro, sarebbe interessante e permetterebbe di dare una fuggevole occhiata nell’anima dei nostri compagni di viaggio prima che lo Shrike o qualche altra calamità ci distraggano. Inoltre, forse ci fornirebbe informazioni sufficienti a salvare le nostre vite, se saremo così acuti da scoprire il filo comune che lega i nostri destini al capriccio dello Shrike.
Martin Sileno rise e chiuse gli occhi. Disse:
Ciascuno sul dorso d’un delfino,
e rafforzati da una pinna,
quest’Innocenti rivivono la morte,
aprendo di nuovo la ferite.
— Sono versi di Lenista, vero? — disse padre Hoyt. — In seminario ho studiato l’opera di questa poetessa.
— Quasi centro — rispose Sileno. Aprì gli occhi e si versò altro vino. — Sono di Yeats. Quella checca visse cinquecento anni prima che Lenista ciucciasse le tette metalliche di sua madre.
— Senta — disse Lamia — che vantaggio avremmo a raccontarci la nostra storia? Quando incontreremo lo Shrike, diremo a lui quel che vogliamo: uno sarà accontentato, gli altri moriranno. Giusto?
— Secondo la leggenda, sì — disse Weintraub.
— Lo Shrike non è una leggenda — intervenne Kassad. — E neppure il suo albero d’acciaio lo è.
— Allora perché annoiarci l’un l’altro con la nostra storia? — replicò Brawne Lamia, infilzando sulla forchetta l’ultimo pezzetto di dolce al cioccolato.
Weintraub sfiorò con gentilezza la nuca della piccina addormentata. — Viviamo in tempi bizzarri — disse. — Poiché siamo parte di quel decimo d’un decimo dell’un percento dei cittadini dell’Egemonia che viaggia fra le stelle anziché nella Rete, rappresentiamo epoche singolari del nostro recente passato. Io, per esempio, ho sessantotto anni standard, ma a causa del debito temporale dovuto ai miei viaggi forse ho vissuto più di un secolo di storia dell’Egemonia, in questi miei “tre ventine e otto” anni.
— E allora? — replicò la donna accanto a lui.
Weintraub aprì la mano in un gesto che includeva tutti quelli seduti al tavolo. — Noi rappresentiamo isole di tempo, oltre che diversi oceani di prospettiva. 0 forse, per esprimere meglio il concetto, può darsi che ciascuno di noi abbia una tessera del puzzle che, da quando per la prima volta l’umanità è scesa su Hyperion, nessuno è riuscito a risolvere. — Weintraub si grattò il naso. — È un mistero — aggiunse. — E, a dire il vero, i misteri mi appassionano, anche se questa dovesse essere l’ultima settimana in cui potrò apprezzarli. Mi accontenterei volentieri anche di un semplice barlume di comprensione ma, in mancanza di questo, mi basterà cercare di ricomporre il puzzle.
— Sono d’accordo — disse Het Masteen con un tono privo d’emozione. — Non mi era venuto in mente, ma capisco che è saggio raccontarci la nostra storia prima di affrontare lo Shrike.
— Che cosa ci impedirà di mentire? — obiettò Brawne Lamia.
— Niente — sogghignò Martin Sileno. — È il bello del gioco.
— La proposta andrebbe messa ai voti — disse il Console. Pensava all’insinuazione di Meina Gladstone, secondo cui uno del gruppo era un agente degli Ouster. Ascoltare la storia di ciascuno era forse un sistema per scoprire la spia? Il Console sorrise, al pensiero di un agente così stupido.
— Chi ha stabilito che siamo una piccola, felice democrazia? — chiese seccamente il colonnello Kassad.
— Meglio esserlo — disse il Console. — Per raggiungere la meta individuale, il gruppo deve arrivare tutto insieme nella zona dello Shrike. È necessario un sistema, per prendere le decisioni.
— Potremmo nominare un capo — suggerì Kassad.
— Ci piscio sopra — annunciò vivacemente il poeta. Gli altri scossero la testa.
— D’accordo — disse il Console. — Votiamo. La prima decisione si riferisce al suggerimento avanzato dal signor Weintraub: raccontare la storia del nostro coinvolgimento con Hyperion.
— O tutto, o niente — intervenne Het Masteen. — O raccontiamo tutti la nostra storia, o non la racconta nessuno. Ci atterremo al volere della maggioranza.
— D’accordo — convenne il Console. All’improvviso era curioso di ascoltare la storia degli altri, benché fosse sicuro che non avrebbe mai raccontato la sua. — Chi è favorevole?
— Io — rispose Sol Weintraub.
— Io — rispose Het Masteen.
— Senz’altro — disse Martin Sileno. — Non mi perderei questa piccola comica nemmeno per un mese di bagni d’orgasmo su Shote.
— Voto sì anch’io — disse il Console, e ne fu sorpreso. — Chi è contrario?
— Io — disse padre Hoyt, senza molta energia.
— A me sembra una stupidaggine — dichiarò Brawne Lamia.
Il Console si rivolse a Kassad. — Colonnello?
Fedmahn Kassad scrollò le spalle.
— Quattro voti a favore, due contro, un’astensione — ricapitolò il Console. — I sì vincono. Chi vuole iniziare?
Intorno al tavolo ci fu silenzio. Alla fine Martin Sileno alzò lo sguardo dal blocchetto di carta su cui aveva scritto qualcosa e divise il foglio in striscioline sottili. — Ho scritto i numeri dall’uno al sette — annunciò. — Tiriamo a sorte e procediamo nell’ordine?
— Mi sembra infantile — disse Lamia.
— Io sono un tipo infantile — replicò Sileno con un sorriso da satiro. Fece un cenno al Console. — Ambasciatore, posso prendere in prestito quel cuscino dorato che porta per cappello?
Il Console gli passò il tricorno, nel quale finirono le striscioline opportunamente piegate; poi il cappello fu fatto girare. Il primo a pescare fu Sol Weintraub, l’ultimo Martin Sileno.
Il Console aprì il proprio biglietto, accertandosi che nessun altro vedesse. Sentì la tensione diminuire, come aria che sibilasse da un pallone troppo gonfio. Era possibile, rifletté, che gli eventi gli impedissero di raccontare la sua storia. O che la guerra rendesse accademica l’intera questione. O che il gruppo perdesse interesse al gioco. O che il re morisse. O che il cavallo morisse. O che lui insegnasse a parlare al cavallo.
“Basta whisky” si disse.
— Chi è il primo? — chiese Martin Sileno.
Nel breve silenzio che seguì, il Console udì lo stormire delle foglie sotto una brezza che nessuno sentiva.
— Sono io — disse padre Hoyt. L’espressione del prete mostrava la stessa accettazione del dolore, appena celata, che il Console aveva già visto sul viso di amici vittime di malattie incurabili. Hoyt mostrò il biglietto sul quale era tracciato un grosso 1.
— Benissimo — disse Sileno. — Cominci pure.
— Ora? — obiettò il prete.
— E perché no? — replicò il poeta. L’unico segno che Sileno si fosse già scolato almeno due bottiglie di vino era un leggero arrossamento delle guance rubizze e l’aria un po’ più demoniaca che gli conferivano le sopracciglia inarcate. — Mancano alcune ore all’atterraggio — continuò. — E per quanto mi riguarda intendo farmi passare il gelo della crio-fuga con una dormita, ma solo dopo che saremo al sicuro fra i semplici indigeni.
— Il nostro amico ha ragione — disse piano Sol Weintraub. — Se dobbiamo raccontare la nostra storia, l’ora più adatta mi sembra proprio quella dopo cena.
Con un sospiro, padre Hoyt si alzò. — Solo un minuto — disse, e lasciò la piattaforma da pranzo.
Dopo qualche minuto, Brawne Lamia disse: — Credete che gli sia mancato il coraggio?
— No — rispose Lenar Hoyt sbucando dal buio in cima alla scala mobile di legno che serviva da scalinata principale. — Avevo bisogno di questi. — Lasciò cadere sul tavolo due libriccini macchiati e si sedette.
— Non è corretto leggere storie dal libro di preghiera — protestò Martin Sileno. — Ogni storia dev’essere personale, Mago!
— Stia zitto, maledizione! — sbottò Hoyt. Si passò la mano sul viso, poi si toccò il petto. Per la seconda volta in quella sera, il Console capì di avere di fronte un uomo gravemente ammalato.
— Scusate — riprese padre Hoyt. — Ma se devo raccontare la mia… la mia storia, devo raccontare anche la storia di un altro. Questi sono i diari dell’uomo che un tempo mi ha indotto a venire su Hyperion… e spiegano perché vi torno adesso. — Fece un respiro profondo.
Il Console toccò i diari. Erano sporchi e bruciacchiati come se fossero scampati a un incendio. Disse: — Il suo amico ha gusti all’antica, se tiene ancora un diario manoscritto.
— Sì — ammise Hoyt. — Se siete pronti, comincio.
Tutti annuirono. Sotto la piattaforma da pranzo, un chilometro di nave-albero correva nella notte fredda grazie alla robusta spinta di una creatura vivente. Sol Weintraub sollevò la bimbetta addormentata e con cautela l’adagiò sulla stuoia imbottita stesa per terra accanto alla sua sedia. Si tolse il comlog, lo mise accanto alla stuoia e programmò il diskey per il rumore bianco. La bimba di una settimana, distesa bocconi, continuò a dormire.
Il Console si appoggiò alla spalliera e trovò la stella azzurra e verde che era Hyperion. Sembrò diventare più grande, mentre lui la fissava. Het Masteen si tirò sugli occhi il cappuccio e il suo viso diventò una macchia d’ombra. Sol Weintraub si accese la pipa. Altri presero una seconda tazza di caffè e si accomodarono meglio sulle sedie.
Martin Sileno sembrò il più avido e il più ansioso degli ascoltatori, mentre si sporgeva a mormorare:
Diss’egli: “Poiché darò inizio al gioco,
ecco, benvenuto sia l’affronto, nome di dea!
Ora viaggiamo e ascoltiamo quel che dico”.
Con questo proseguimmo la strada;
e lui iniziò col giusto spirto allegro
il racconto e parlò come potete ascoltare.
— A volte una linea sottile divide lo zelo ortodosso dall’apostasia — disse padre Lenar Hoyt.
Iniziò così il racconto del prete. Più tardi, dettando la storia al comlog, il Console la ricordò come un tutto privo di giunzioni, a parte le pause, la voce rauca, le false partenze e le ripetizioni di scarsa importanza, gli eterni difetti, cioè, del linguaggio umano.
Lenar Hoyt era un giovane prete nato, cresciuto e da poco ordinato sul pianeta cattolico Pacem, quando fu incaricato della prima missione extraplanetaria: doveva scortare il rispettato padre gesuita Paul Duré al suo tranquillo esilio sul mondo coloniale di Hyperion.
In altri tempi, padre Duré sarebbe certo diventato vescovo e forse papa. Alto, magro, ascetico, coi capelli bianchi che si ritiravano dalla fronte spaziosa e occhi resi troppo acuti dall’esperienza per nascondere il dolore, padre Duré era un seguace di San Teilhard, oltre che archeologo, etnologo ed eminente teologo gesuita. Nonostante il declino del cattolicesimo, divenuto ormai un culto quasi dimenticato e tollerato solo a causa delle qualità pittoresche e del distacco dal sistema di vita principale dell’Egemonia, la logica dei gesuiti non aveva perso mordente. Né padre Duré aveva perso la convinzione che la Santa Chiesa Cattolica Apostolica fosse ancora l’ultima e migliore speranza d’immortalità rimasta all’uomo.
Per il giovane Lenar Hoyt, padre Duré era stato una figura quasi divina intravista durante le rare visite alle scuole di pre-seminario o in quelle, ancora più rare, effettuate dal futuro seminarista a Nuovo Vaticano. Poi, mentre Hoyt studiava in seminario, padre Duré aveva compiuto nel vicino pianeta Armaghast importanti scavi archeologici finanziati dalla Chiesa. Il ritorno del gesuita, alcune settimane dopo l’ordinazione di Hoyt, era stato oscurato da una nube. Nessuno, al di fuori dei più alti circoli di Nuovo Vaticano, sapeva con precisione che cosa fosse successo, ma si accennava sottovoce alla scomunica e persino a un’indagine del Sant’Uffizio d’Inquisizione, rimasto inattivo nei quattro secoli di confusione seguiti alla morte della Terra.
Invece padre Duré aveva chiesto un incarico su Hyperion, un pianeta che molti conoscevano solo a causa del bizzarro culto Shrike locale, e padre Hoyt era stato scelto per accompagnarlo; una mansione poco gratificante, in un ruolo che combinava i peggiori aspetti dell’apprendista, della scorta e della spia, senza neppure la soddisfazione di vedere un mondo nuovo: Hoyt aveva infatti l’ordine di depositare padre Duré allo spazioporto di Hyperion e di riprendere subito la medesima astronave per fare ritorno alla Rete dei Mondi. In pratica l’episcopato offriva a Hoyt venti mesi in crio-fuga, qualche settimana di viaggio interplanetario per l’andata e il ritorno, e un debito temporale che per il giovane prete significava, su Pacem, un ritardo di otto anni rispetto ai suoi compagni di studio nella ricerca di una carriera nel Vaticano e di incarichi nelle missioni.
Tenuto all’ubbidienza e ammaestrato alla disciplina, Lenar Hoyt aveva accettato senza discutere.
Il mezzo di trasporto, l’antiquata spin-nave AE Nadia Oleg, era una bagnarola metallica butterata, priva di gravità artificiale se non in fase d’accelerazione, di sale panoramiche e di impianti ricreativi, a parte gli stim-sim, simulatori di stimoli collegati alla banca dati perché i passeggeri se ne stessero tranquilli nelle brande e nelle cuccette di crio-fuga. Al risveglio dalla crio-fuga, i passeggeri — in massima parte lavoratori extraplanetari e turisti di classe economica, più alcuni mistici e futuri suicidi Shrike — dormivano nelle medesime brande e cuccette, mangiavano cibo riciclato negli scialbi ponti mensa e, nei dodici giorni di viaggio a gravità zero, in genere cercavano soprattutto di tener testa al mal di spazio e alla noia.
Durante questi giorni d’intimità forzata, padre Hoyt apprese da padre Duré ben poco; e, di quel poco, niente che riguardasse gli eventi occorsi su Armaghast, che avevano causato l’esilio del prete più anziano. Il giovane Hoyt trasmise al comlog impiantato nel braccio l’ordine di cercare il maggior numero possibile di dati su Hyperion: a tre giorni di distanza dal pozzo gravitazionale del pianeta, si considerava quasi un esperto di quel mondo.
«Esistono registrazioni riguardanti presenze di cattolici su Hyperion, ma non si parla di alcuna diocesi sul pianeta» disse Hoyt una sera, mentre chiacchieravano distesi sulle brande a g-0 e la maggior parte dei compagni di viaggio se ne stava collegata agli sim-stim erotici. «Immagino che lei ci vada per svolgere qualche opera missionaria.»
«Nient’affatto» replicò padre Duré. «I bravi abitanti di Hyperion non hanno fatto nulla per impormi le loro idee religiose, quindi non vedo motivo d’offenderli cercando di convertirli. A dire il vero, conto di viaggiare fino ad Aquila, il continente meridionale, e di trovare poi una via nell’entroterra dalla città di Port Romance. Ma non in veste di missionario. Ho intenzione di stabilire una stazione di ricerca etnologica lungo la Fenditura.»
«Ricerca?» ripeté sorpreso padre Hoyt. Chiuse gli occhi per collegarsi al comlog impiantato, poi tornò a guardare padre Duré e disse: «Quella sezione dell’altopiano Punta d’Ala non è abitata, padre. Le foreste di fuoco la rendono del tutto inaccessibile per gran parte dell’anno».
Padre Duré sorrise e annuì. Non portava impianti: il suo antiquato comlog sarebbe rimasto per tutto il viaggio nel suo bagaglio. «Non proprio inaccessibile» replicò piano. «E non del tutto disabitata. I Bikura vivono lì.»
«I Bikura» ripeté padre Hoyt. Chiuse gli occhi. «Ma sono solo una leggenda» disse poco dopo.
«Uhm» disse padre Duré. «Provi a controllare i rimandi a Mamet Spedling.»
Padre Hoyt richiuse gli occhi. L’indice generale gli disse che Mamet Spedling era un esploratore d’importanza secondaria, un membro dell’Istituto Shackleton su Rinascimento Minore. Quasi un secolo e mezzo standard prima, aveva inviato all’Istituto un breve rapporto in cui sosteneva d’essersi aperto la strada dal recente insediamento di Port Romance fino all’entroterra, tra le paludi poi reclamate per le piantagioni di fibroplastica, e tra le foreste di fuoco durante un raro periodo di calma; di aver scalato l’altopiano Punta d’Ala e scoperto la Fenditura e una piccola tribù d’esseri umani che corrispondeva alla descrizione dei leggendari Bikura.
Nella breve nota, Spedling ipotizzava che quegli esseri umani fossero i superstiti di una nave coloniale dispersa tre secoli prima e descriveva con chiarezza un gruppo afflitto da tutti gli effetti culturali retrogradi dovuti all’estremo isolamento, al continuo incrocio fra consanguinei e al sovradattamento. Citando le parole di Spedling: ”… sono bastati meno di due giorni per capire che i Bikura sono troppo stupidi, letargici e idioti per sprecare del tempo a descriverli”. Alla fine, la foresta di fuoco aveva cominciato a mostrare segni di risveglio e Spedling non aveva sprecato altro tempo a studiare la tribù da lui scoperta. Si era affrettato a raggiungere la costa e, nei tre mesi che gli erano occorsi per mettersi in salvo, aveva perso nella foresta “in quiete” quattro portatori indigeni, tutto l’equipaggiamento, le registrazioni e il braccio sinistro.
«Mio Dio» disse padre Hoyt, disteso sulla branda della Nadia Oleg. «Perché i Bikura?»
«Perché no?» rispose con calma padre Duré. «Si sa ben poco, di loro.»
«Si sa ben poco di quasi tutto Hyperion» replicò il prete più giovane, un poco agitato. «E le Tombe del Tempo, allora? E il leggendario Shrike, a nord della Briglia, sul continente Equus? Tombe e Shrike sono famosi!»
«Precisamente» ribatté padre Duré. «Lenar, quanti studi sono stati scritti sulle Tombe e sullo Shrike? Cento? Mille?» L’anziano prete aveva pressato del tabacco nel fornello e acceso la pipa: impresa non da poco, a gravità zero. Hoyt l’osservò. «Inoltre» riprese padre Duré «anche se lo Shrike è reale, non è umano. E io preferisco gli esseri umani.»
«Sì» disse Hoyt, saccheggiando il proprio arsenale mentale in cerca d’argomentazioni efficaci. «Ma i Bikura sono un mistero piccolissimo! Al massimo troverà alcune decine d’indigeni che vivono in una regione così piena di nubi e di fumo e… così priva d’importanza che perfino i satelliti cartografici della colonia non l’hanno notata. Perché scegliere i Bikura, quando su Hyperion esistono misteri ben più importanti… i labirinti, per esempio!» Hoyt s’illuminò. «Sa, padre, che Hyperion è uno dei nove mondi labirinto?»
«Certo, Lenar» rispose padre Duré. Intorno a lui si allargò una semisfera irregolare di fumo che subito le correnti d’aria dispersero in tentacoli e volute. «Ma i labirinti hanno studiosi e ammiratori in tutta la Rete, e poi da quanto tempo esistono i tunnel lì e negli altri otto mondi? Mezzo milione di anni standard? Secondo me da un’epoca più vicina ai tre quarti di milione d’anni. Il loro segreto durerà, ma quanto durerà la civiltà Bikura, prima che il gruppo sia assorbito dalla società coloniale o, più probabilmente, sia spazzato via dalle circostanze?»
Hoyt scrollò le spalle. «Forse i Bikura sono già scomparsi. Da quando Spedling li ha incontrati è trascorso moltissimo tempo e non ci sono state altre relazioni che confermino la loro esistenza. Se sono ormai estinti, allora tutto il debito temporale, la fatica e la difficoltà per recarsi in quella zona non serviranno a niente.»
«Precisamente» rispose padre Duré, con calma, tirando boccate per mantenere accesa la pipa.
Nell’ultima ora trascorsa in compagnia del gesuita, durante la discesa sul pianeta, padre Hoyt riuscì a intuire, per un attimo e in parte, i pensieri di padre Duré. In alto, da quattro ore il lembo di Hyperion ardeva di luce bianca, verde e celeste, quando all’improvviso l’antiquata navetta penetrò negli strati superiori dell’atmosfera con un breve lampo di fiamma e poi sorvolò silenziosamente, a circa sessanta chilometri di quota, le masse scure di nubi e i mari illuminati dalle stelle, mentre l’accecante terminatore del sole sorgente di Hyperion si precipitava verso di loro come una spettrale e luminosa onda di marea.
«Meraviglioso» aveva mormorato Paul Duré, più a se stesso che al giovane compagno. «Meraviglioso. Proprio in occasioni come questa mi rendo conto, per quel poco che mi è possibile, di quale grande sacrificio sia stato per il Figlio di Dio accettare di divenire il Figlio dell’Uomo.»
Hoyt avrebbe voluto parlare ancora, ma padre Duré aveva continuato a guardare dall’oblò, perso nei suoi pensieri. Dieci minuti dopo erano atterrati nello spazioporto interstellare di Keats e, subito dopo, padre Duré era stato travolto dal turbine delle formalità doganali; dopo altri venti minuti un Lenar Hoyt totalmente deluso si alzava verso lo spazio e raggiungeva di nuovo la Nadia Oleg.
— Cinque settimane dopo, tempo personale, tornai su Pacem — disse padre Hoyt. — Avevo perduto otto anni, ma per qualche ragione il senso di perdita era più intenso di quanto fosse giustificabile. Subito dopo il ritorno, il vescovo m’informò che non si erano avute notizie di padre Duré, nel corso dei suoi quattro anni di permanenza su Hyperion. Il Nuovo Vaticano aveva speso una fortuna in indagini a mezzo astrotel, ma né le autorità coloniali, né il consolato a Keats erano riusciti a localizzare il prete scomparso.
Hoyt s’interruppe per bere un sorso d’acqua.
— Ricordo quell’indagine — disse il Console. — Non ho mai incontrato Duré, naturalmente, ma abbiamo fatto del nostro meglio per rintracciarlo. Theo, il mio segretario, ha speso un mucchio d’energie nel corso degli anni per risolvere il caso del prelato scomparso. A parte alcuni rapporti contraddittori sulla sua presenza a Port Romance, non c’era traccia di lui. E questi rapporti risalivano alle prime settimane successive al suo arrivo. Sul pianeta c’erano centinaia di piantagioni sprovviste di radio e di mezzi di comunicazione, soprattutto perché, oltre alla fibroplastica, producevano droghe distillate illegalmente. Ma forse non c’è accaduto di parlare alla gente della piantagione giusta. So soltanto che, quando me ne andai, la pratica di padre Duré era ancora aperta.
Padre Hoyt annuì. — Atterrai a Keats un mese dopo che il nuovo console le diede il cambio. Il vescovo rimase sorpreso quando mi offrii di tornare a Hyperion. Sua Santità in persona mi concesse udienza. Rimasi su Hyperion per meno di sette mesi locali e quando lo lasciai per fare ritorno alla Rete avevo scoperto la sorte di padre Duré. — Diede un colpetto ai due libriccini rilegati in pelle e macchiati, sul tavolo. — Se voglio completare la storia — aggiunse, con voce greve — devo leggerne alcuni brani.
La nave-albero Yggdrasill si era girata; la massa del tronco oscurava il sole, tanto che la piattaforma da pranzo e il baldacchino di foglie erano sprofondati nella notte. Però il cielo non era punteggiato di migliaia di stelle come quello di un pianeta, ma di milioni di soli, sopra, accanto e sotto il gruppetto seduto al tavolo. Hyperion era adesso una sfera chiarissima che si precipitava diritta verso di loro come un missile micidiale.
— Legga pure — disse Martin Sileno.
Giorno 1
Comincia così il mio esilio.
Non so esattamente come datare i miei appunti. Secondo il calendario monastico di Pacem, oggi è il 17 del Mese di Thomas, Anno del Signore 2732. Secondo il calendario standard dell’Egemonia, è il 12 ottobre del 589 p.C. Secondo il conteggio di Hyperion, a quanto m’ha detto il piccolo e rugoso portiere del vecchio albergo in cui alloggio, oggi è il 23 di Lycius (l’ultimo dei loro sette mesi di quaranta giorni) dell’anno 426 dal Disastro della Navetta, oppure dell’anno 128 del regno di Billy il Triste, che non è più re da almeno uno dei loro secoli.
Al diavolo la data! Lo chiamerò Giorno 1 del mio esilio.
Giorno estenuante. (Strano, sentirsi stanchi dopo mesi di sonno; ma sembra che sia una reazione comune, al risveglio dalla crio-fuga. Le mie cellule sentono la fatica dei mesi di viaggio anche se io non me ne ricordo. E non ricordo neppure d’avere provato stanchezza per i viaggi quand’ero più giovane.)
Rimpiango di non avere conosciuto meglio il giovane Hoyt. Sembra una persona per bene, tutto catechismo e fervore. Non è colpa di un giovanotto come lui, se la Chiesa si avvicina alla fine. Solo, quel suo tipo d’ingenuità non può fare niente per arrestare la lenta caduta nell’oblio cui la Chiesa sembra destinata.
Be’, neppure il mio contributo ha fatto niente.
Splendida, la vista del mio nuovo mondo, mentre la navetta ci porta giù. Ho scorto due dei tre continenti: Equus e Aquila. Il terzo, Ursa, non era visibile.
Atterraggio a Keats. Ore di fatica per le formalità doganali e per l’arrivo via terra alla città. Immagini confuse: la catena montuosa a nord con la sua mutevole foschia azzurrina; alture coperte di foreste d’alberi gialli e arancione; cielo livido sullo sfondo verdazzurro; sole troppo piccolo, ma più luminoso di quello di Pacem. I colori sembrano più vividi da lontano: si dissolvono e si disperdono, quando ci si avvicina, come sulle tele dei divisionisti. La grande statua di re Billy il Triste, della quale ho sentito parlare moltissimo, è stata stranamente una delusione. Vista dalla strada appariva rozza e grezza; un abbozzo frettoloso scalpellato nella montagna scura, anziché la figura regale che m’aspettavo. Sovrasta, pensierosa, la sgangherata città di mezzo milione d’anime in un modo che sarebbe certo piaciuto al nevrotico re poeta.
La città stessa sembra divisa in due: l’ampio labirinto di bassifondi e di bar che i locali chiamano Jacktown, e la Keats vera e propria, chiamata Città Vecchia anche se ha solo quattro secoli, tutta pietra levigata e studiata sterilità. Presto ne farò il giro.
Ho previsto di trascorrere a Keats un mese, ma sono già impaziente di andare avanti. Ah, Monsignor Edouard, se tu potessi vedermi adesso! Castigato, ma tuttora impenitente. Più solo che mai, ma curiosamente soddisfatto dell’esilio. Se il castigo dei passati eccessi per troppo zelo dev’essere l’esilio nel settimo cerchio di desolazione, allora Hyperion è stato un’ottima scelta. Potrei dimenticare la missione scelta di mia iniziativa, la ricerca dei Bikura (sono reali? Stasera credo di no) e accontentarmi di vivere per il resto dei miei anni in questa capitale di un mondo arretrato e dimenticato da Dio. Non per questo il mio esilio sarebbe meno completo.
Ah, Edouard! Ragazzi insieme, compagni di scuola (anche se non ero brillante e ortodosso quanto te), e ora vecchi insieme. Ma adesso tu sei di quattro anni più saggio di me, e io sono sempre l’incorreggibile birbante che hai conosciuto. Mi auguro che tu stia bene e che preghi per me.
Stanco. Ora dormo. Domani faccio il giro turistico di Keats e un buon pasto, poi mi procuro un trasporto fino ad Aquila e punto a sud.
Giorno 5
C’è una cattedrale, a Keats. Per meglio dire, c’era. È stata abbandonata da almeno due secoli standard. Giace in rovina, con il transetto aperto al cielo verdazzurro, una delle torri occidentali ancora incompiuta e l’altra ridotta a uno scheletro di pietre crollate e a un’intelaiatura di sbarre di sostegno arrugginite.
L’ho scoperta per caso, mentre vagavo, smarrito, lungo la riva dell’Hoolie nella zona scarsamente popolata dove la Citta Vecchia si riduce a Jacktown, fra una confusione di alti magazzini che impediscono anche solo un’occhiata alle torri in rovina, finché non si svolta in uno stretto vicolo cieco e ci si trova davanti al guscio dell’edificio. Mezza sala capitolare è crollata nel fiume; la facciata è butterata dagli avanzi delle sculture tristi e apocalittiche del periodo espansionistico post-Egira.
Vagai nel graticcio di ombre e di pietre cadute, fin dentro la navata. L’episcopato di Pacem non aveva parlato di una presenza cattolica su Hyperion, tanto meno di una cattedrale. È quasi inconcepibile che la colonia fondata quattro secoli fa contasse un gruppo di fedeli abbastanza numeroso da richiedere la presenza d’un vescovo, per non parlare di una cattedrale. Eppure, eccola lì.
Frugai fra le ombre della sacrestia. Polvere e cemento sgretolato aleggiavano come incenso nell’aria e mettevano in risalto due raggi di sole che penetravano dalle finestrelle poste molto in alto. Avanzai in una chiazza più ampia di luce e mi accostai all’altare disadorno, se non per le crepe e le scheggiature provocate dal crollo delle parti in muratura. La grande croce un tempo appesa alla parete orientale dietro l’altare era caduta e adesso giaceva in schegge di ceramica fra i cumuli di pietre. Senza pensarci, andai dietro l’altare, alzai le braccia e iniziai la celebrazione dell’eucaristia. Con questo non intedevo parodiare nulla, né compiere un gesto drammatico. Il mio comportamento era privo di simbolismi, di seconde intenzioni. Era soltanto la reazione automatica di un prete che, per oltre quarantasei anni, aveva detto Messa quasi ogni giorno e che ora affrontava la prospettiva di non partecipare mai più a questo rito confortante.
Con stupore mi accorsi di non essere solo. C’era una vecchia, inginocchiata nella quarta fila di banchi. Il nero del vestito e dello scialle si fondevano perfettamente con le ombre: si vedeva solo il pallido ovale del viso rugoso e vecchio che sembrava galleggiare privo di corpo nelle tenebre. Sorpreso, smisi di recitare la litania della consacrazione. La donna mi guardava; ma qualcosa nei suoi occhi, anche da lontano, mi convinse subito che era cieca. Per un attimo non riuscii a parlare e rimasi lì, ammutolito, socchiudendo gli occhi nella luce polverosa che bagnava l’altare; cercai di spiegarmi quell’immagine spettrale e di trovare nello stesso tempo una spiegazione per la mia stessa presenza e il mio comportamento.
Quando ritrovai la voce e la chiamai (le parole echeggiarono nella vasta navata) mi resi conto che la donna si era mossa. Sentivo un fruscio di piedi sul pavimento di pietra. Ci fu uno strofinio e poi un breve lampo le illuminò il viso, all’estrema destra dell’altare. Mi schermai gli occhi per proteggerli dai raggi di sole e cominciai a farmi strada fra i detriti, nel punto in cui un tempo c’era la balaustra. Chiamai di nuovo la donna, la rassicurai, le dissi di non avere paura, anche se ero io stesso a sentire lungo la schiena brividi gelidi. Mi mossi in fretta, ma quando arrivai all’angolo riparato della navata la donna era scomparsa. Una porticina portava alla sala capitolare diroccata e alla riva del fiume. La donna non si vedeva. Tornai nell’interno buio. Avrei attribuito volentieri la sua comparsa all’immaginazione, a un sogno a occhi aperti dopo tanti mesi privi di sogni in crio-fuga, se non fosse stato per una singola, tangibile prova della sua presenza: nelle gelide tenebre ardeva una solitaria candela votiva, rossa, la cui minuscola fiammella tremolava agli invisibili spifferi.
Sono stufo di questa città. Sono stufo delle presunzioni pagane e delle false storie. Hyperion è il mondo d’un poeta, privo di poesia. La stessa Keats è un miscuglio di falso classicismo di cattivo gusto e di sciocca energia dedicata allo sviluppo della città. Ci sono tre congregazioni di gnostici Zen e quattro moschee di Gran Musulmani, ma le vere case di culto sono gli innumerevoli bar e bordelli, gli enormi mercati che trattano le spedizioni di fibroplastica prodotta nel sud e i templi del culto Shrike, dove anime perdute nascondono la propria disperazione suicida dietro un paravento di vuoto misticismo. L’intero pianeta puzza di misticismo senza rivelazione.
Vada al diavolo.
Domani punto a sud. Ci sono skimmer e altri velivoli, su questo mondo assurdo, ma per la gente comune il modo di viaggiare fra queste maledette isole continentali sembra limitato all’uso di barche (e richiede un’eternità, a quanto dicono), o di dirigibili-passeggeri che partono da Keats solo una volta a settimana.
Parto domani, in dirigibile.
Giorno 10
Animali.
La prima squadra scesa sul pianeta aveva certo la fissazione per gli animali. Cavallo, Orsa, Aquila. Per cinque giorni abbiamo sorvolato la costa orientale di Equus, una linea irregolare chiamata la Criniera. Abbiamo impiegato l’ultimo giorno nella traversata di un breve tratto del mar Medio fino a un’ampia isola chiamata Gatto. Oggi scarichiamo passeggeri e merci a Felix, la “città principale” dell’isola. Da quel che posso vedere dal ponte panoramico e dalla torre d’attracco, in questo raggruppamento disordinato di catapecchie e di baracche non devono esserci più di cinquemila persone.
Successivamente il dirigibile compirà un percorso di ottocento chilometri lungo una serie di isole più piccole, le Nove Code; poi affronterà il gran salto: settecento chilometri di mare aperto, al di là dell’equatore. Allora vedremo la costa nordovest di Aquila, il cosiddetto Becco.
Animali.
Chiamare “dirigibile-passeggeri” questo mezzo di trasporto è un esercizio di semantica creativa. Si tratta di un enorme mercantile aereo, con ampie stive che basterebbero a trasportare sul mare l’intera città di Felix e avrebbero ancora posto per migliaia di balle di fibroplastica. Nel frattempo, il carico meno importante — noi passeggeri — si sistema come può. Accanto al portello di carico di poppa ho piazzato una branda e, sfruttando i miei bagagli e tre grandi casse d’attrezzature, ho ottenuto una comoda nicchia. Vicino a me c’è una famiglia di otto persone: lavoratori indigeni delle piantagioni che tornano da Keats al termine del viaggio biennale per acquisti personali. Non m’importa del rumore e della puzza dei loro maiali in gabbia, né degli strilli dei loro criceti da carne ma, certe notti, l’incessante e confuso chioccolio del loro povero e intontito pollaio è più di quanto riesca a sopportare.
Animali!
Giorno 11
Stasera ho cenato nel salone sopra il ponte panoramico, con il cittadino Heremis Denzel, professore in pensione di un piccolo collegio per piantatori nelle vicinanze di Endymion. Mi ha rivelato che, in realtà, la prima squadra scesa su Hyperion non aveva feticci animali: il nome ufficiale dei tre continenti non è Equus, Ursa e Aquila, ma Creighton, Allensen e Lopez. In ricordo, mi ha spiegato, di tre burocrati di medio livello dell’antico Servizio Esplorazioni. Meglio il feticcio animale!
Dopo cena. Sono da solo sul ponte panoramico e ammiro il tramonto. Il passaggio è riparato dai container di prua, perciò il vento è poco più d’una brezza lievemente salmastra. Sopra di me s’incurva il guscio arancione e verde del dirigibile. Ci troviamo fra le isole. Il mare è d’un azzurro intenso, con un substrato verdeggiante, l’esatto contrario del cielo. Molto in alto, alcuni cirri riflettono l’ultima luce del sole troppo piccolo di Hyperion e si accendono come corallo infuocato. L’unico rumore è il debole ronzio delle turbine elettriche. Trecento metri più in basso, l’ombra di un’enorme creatura marina simile a una manta si tiene al passo con il dirigibile. Un attimo fa un insetto o uccello della grandezza e del colore dei colibrì, ma con un metro d’ali esili come ragnatela, si è fermato a ispezionarmi prima di tuffarsi verso il mare.
Edouard, mi sento davvero solo, stanotte. Mi conforterebbe saperti in vita, ancora al lavoro nell’orto o a scrivere di sera nel tuo studio. Pensavo che i viaggi avrebbero rinfocolato la mia antica fede nell’idea di San Teilhard, il Dio in Cui s’uniscono il Cristo dell’Evoluzione, il Personale e l’Universale, l’En Haut e l’En Avant; ma non mi sta succedendo niente del genere.
Diventa buio. Divento vecchio. Provo qualcosa… non ancora rimorso… per il peccato di falsificazione delle prove negli scavi su Armaghast. Ma, Edouard, Eccellenza, se i manufatti scoperti sul pianeta avessero indicato davvero la presenza d’una civiltà d’orientamento cristiano, a seicento anni-luce da Vecchia Terra, quasi tremila anni prima che l’uomo lasciasse il suo mondo natale…
Fu un peccato così grave interpretare dei dati tanto ambigui in un modo che forse poteva significare la rinascita del cristianesimo nel giro di alcuni decenni?
Sì, certo. Però, ritengo, il peccato non consisteva nel pasticciare con i dati ma, ed è più grave, nel ritenere possibile la salvezza del cristianesimo. La Chiesa muore, Edouard. E non solo il nostro amato ramo dell’Albero Santo, ma tutti i suoi germogli, le vestigia, le malattie. L’intero Corpo di Cristo muore, con la stessa certezza di questo mio corpo mal usato, Edouard. Tu e io l’abbiamo saputo su Armaghast, dove il sole color sangue illuminava solo polvere e morte. L’abbiamo saputo in quella fresca e verdeggiante estate al Collegio, quando prendemmo i voti. L’abbiamo saputo, da ragazzi, nei tranquilli campi di gioco di Villefranche-sur-Saône. Lo sappiamo adesso.
La luce è svanita. Devo scrivere al tenue riflesso delle finestre del salone superiore. Le stelle sono disposte in curiose costellazioni. Il mar Medio, di notte, risplende di una fosforescenza verdastra e sovrannaturale. All’orizzonte, verso sudest, c’è una massa scura. Forse è una tempesta, forse la prossima isola della catena, la terza delle nove “code”. (In quale mitologia compare un gatto con nove code? Non lo so.)
Per amore dell’uccello visto poco fa, se uccello era, prego che davanti a noi ci sia un’isola, non una tempesta.
Giorno 28
Da otto giorni mi trovo a Port Romance e ho già visto tre morti.
Il primo, la sera del mio arrivo in città: un cadavere gettato a riva, una parodia d’uomo, enfiato e biancastro, arenato sulle secche fangose al di là della torre d’attracco. I bambini lo prendevano a sassate.
Il secondo è stato estratto, sotto i miei occhi, dai rottami di un negozio di apparecchiature a metano, nella zona più povera della città, poco distante dal mio albergo. Il cadavere, irriconoscibile per le ustioni e incartapecorito dal calore, aveva braccia e gambe strette al corpo, nella posizione da pugile che le vittime degli incendi assumono da tempo immemorabile. Ero digiuno dal giorno precedente e confesso con vergogna d’avere sentito l’acquolina in bocca, quando l’aria si riempì dell’intenso, grasso odore di carne bruciata.
Il terzo fu assassinato a meno di tre metri da me. Ero appena uscito dall’albergo, sul labirinto di tavole impiastrate di fango che in questa miserabile città fungono da marciapiede, quando risuonarono degli spari e l’uomo che mi precedeva di qualche passo cadde come se fosse scivolato, ruotò dalla mia parte con un’espressione perplessa e giacque su un fianco, nella fanghiglia e nei liquami.
Era stato colpito tre volte, con una sorta d’arma a proiettile. Due pallottole l’avevano centrato al petto, l’altra appena sotto l’occhio sinistro. Per quanto sembri incredibile, respirava ancora quando mi accostai a lui. Senza pensarci, tirai fuori dalla borsa la stola, cercai a tentoni la boccetta d’acqua santa che portavo con me da tanto tempo e gli somministrai l’estrema unzione. Nessuno, nella folla che si radunava intorno a noi, ebbe da ridire. L’uomo si agitò una volta sola, si schiarì la gola come se stesse per parlare, e morì. La folla si allontanò prima ancora che rimuovessero il cadavere.
L’uomo era di mezz’età, biondastro, un poco sovrappeso. Non aveva documenti, nemmeno la carta universale né un comlog. Nella tasca, sei monete d’argento.
Per chissà quale ragione, decisi di restare accanto al cadavere. Il medico, un uomo tozzo e cinico, mi permise di assistere all’autopsia di legge. Sospetto che morisse dalla voglia di fare quattro chiacchiere.
«Ecco cosa vale» disse mentre apriva il ventre del poveraccio come se fosse stato un sacchetto roseo, ripiegava i lembi di pelle e di muscoli e li fissava come fossero i lembi di una tenda.
«Cosa?» domandai.
«La vita di questo disgraziato» rispose il medico, mentre tirava la pelle del viso del cadavere in alto e all’indietro come una maschera untuosa. «La sua vita. La mia vita.» Le strisce rosse e bianche di muscoli sovrapposti diventavano d’un azzurro livido, attorno al foro frastagliato appena sopra lo zigomo.
«Dev’esserci qualcosa di più» dissi.
Il medico sollevò lo sguardo dal suo lavoro sinistro, con un sorriso divertito. «Davvero?» rispose. «Me lo mostri, la prego.» Sollevò nella mano il cuore del morto e sembrò soppesarlo. «Nei mondi della Rete, questo avrebbe un certo valore, al mercato libero. C’è gente troppo povera per tenere colture in vasca o parti clonate di scorta, ma abbastanza benestante da non morire per la semplice mancanza di un cuore di ricambio. Quassù invece è solo immondizia.»
«Dev’esserci di più» dissi ancora, anche se non mi sentivo molto convinto. Ricordavo il funerale di Sua Santità Urbano XV, poco prima che lasciassi Pacem. Secondo la tradizione che risaliva all’epoca precedente l’Egira, la salma non era stata imbalsamata. Attendeva, nell’anticamera della basilica principale, d’essere preparata per la semplice bara di legno. Mentre aiutavo Edouard e Monsignor Frey a vestire il cadavere irrigidito, avevo notato che la pelle diventava scura e la bocca si rilassava.
Il medico scrollò le spalle e terminò l’autopsia eseguita per forza d’abitudine. Seguì la più breve delle inchieste formali. Non furono trovate persone sospette, né furono ipotizzati dei moventi. La descrizione della vittima fu inviata a Keats, ma il cadavere fu seppellito il giorno seguente in una fossa comune a metà strada fra le secche fangose e la giungla gialla.
Port Romance è un guazzabuglio di edifici gialli in legno weir, situati sopra un labirinto d’impalcature e di assi esteso fino alle secche fangose alla foce del Kans. Il fiume è largo quasi due chilometri, nel punto dove si getta nella baia Toschahai, ma solo alcuni canali sono navigabili e li dragano in continuazione. Ogni notte, nella mia camera a buon mercato, me ne sto disteso senza dormire mentre dalla finestra aperta mi arriva il tonfo delle draghe, simile al battito del cuore abietto della città, e il lontano sussurro dei frangenti che ricorda il suo umido fiato. Stanotte ascolto il respiro della città e non posso fare a meno di attribuirlo alla faccia scorticata dell’uomo assassinato.
Le compagnie tengono in funzione, al limite della città, un porto per skimmer per trasportare nell’entroterra uomini e materiali destinati alle piantagioni più estese, ma io non ho denaro sufficiente per comprarmi sottobanco un passaggio. Per meglio dire, potrei salire a bordo, ma non posso permettermi il trasporto delle mie tre casse di apparecchiature mediche e scientifiche. Sono ancora tentato, ma la missione fra i Bikura mi sembra più assurda e irrazionale che mai. Solo il bizzarro bisogno d’avere una meta, e una certa determinazione masochistica a rispettare i termini dell’esilio che mi sono imposto, mi spingono ancora a risalire il fiume.
Fra due giorni un battello fluviale risale il Kans. Ho prenotato un posto e domani porterò a bordo le casse. Non avrò rimpianti a lasciarmi alle spalle Port Romance.
Giorno 41
La Emporotic Girandole continua la lenta risalita del fiume. Non ho visto abitazioni umane, da quando, due giorni fa, abbiamo lasciato l’approdo Melton. Ora la giungla preme sulle rive come una solida muraglia; anzi, sporge addirittura sopra di noi, nei punti dove l’ampiezza del fiume si riduce a una quarantina di metri soltanto. La luce stessa è gialla, densa come burro fuso, perché filtra attraverso il baldacchino di rami e di fronde, ottanta metri sopra l’acqua scura del Kans. Seduto sul tetto di lamiera arrugginita della zattera centrale passeggeri, aguzzo lo sguardo per scorgere il mio primo albero tesla. Il vecchio Kady, seduto lì vicino, smette per un attimo di tagliuzzare un pezzo di legno, sputa oltre la murata e ride mostrando il vuoto fra i denti. «Non ci sono alberi fiamma, così lontano quaggiù» dice. «Se fossero la foresta, sicuro come l’inferno che non sarebbe così. Deve salire sulla Punta d’Ala, prima di vedere un tesla. Ancora non siamo fuori della foresta pluviale, padre.»
Piove ogni pomeriggio. A dire il vero, pioggia è un termine troppo gentile per indicare il diluvio che ci colpisce tutti i giorni, che oscura la riva, batte con un frastuono assordante il tetto delle zattere e rallenta la nostra avanzata al punto da farci credere d’essere fermi. Sembra quasi che ogni pomeriggio il fiume diventi un torrente verticale, una cascata che il battello deve scalare, se vuole procedere.
La Girandole, un antiquato rimorchiatore a fondo piatto, trascina cinque zattere simili a bambini cenciosi attaccati alle gonne della madre esausta. Delle zattere a due piani, tre trasportano balle di merci da scambiare o vendere nelle scarse piantagioni e negli insediamenti lungo il fiume. Le altre due offrono una parvenza d’alloggiamento per i nativi che risalgono il fiume, ma sospetto che alcuni passeggeri delle zattere vi risiedano in permanenza. Il mio posto letto vanta un materasso macchiato, steso per terra, e insetti simili a lucertole sulle pareti.
Dopo la pioggia, ci raduniamo tutti sul ponte per osservare le nebbie serali che si alzano dal fiume rinfrescato. Ora, per gran parte della giornata, l’aria è molto calda e satura di vapore. Il vecchio Kady mi dice che sono arrivato troppo tardi per compiere la risalita tra le foreste pluviali e di fuoco prima che i tesla diventino attivi. Staremo a vedere.
Stanotte le nebbie si levano come gli spiriti di tutti i morti che dormono sotto la superficie scura del fiume. Gli ultimi resti sbrindellati delle nuvole del pomeriggio si disperdono fra le cime degli alberi e il colore torna sul mondo. La fitta foresta passa dal giallo cromo a un trasparente zafferano; poi sbiadisce a poco a poco nell’ocra, fino al terra d’ombra e al nero. Sulla Girandole, il vecchio Kady accende le lanterne e i lumi tondi che pendono dalla seconda fila incurvata; quasi per non essere da meno, la giungla scura comincia a brillare della debole fosforescenza del marciume, mentre gli uccelli luminosi e i ragnatelidi multicolori si librano di ramo in ramo nelle zone buie più in alto.
Stanotte la piccola luna di Hyperion non è visibile, ma questo mondo si muove fra un numero maggiore di detriti celesti di quanto non avvenga per un pianeta altrettanto vicino al suo sole, e i cieli notturni sono illuminati da frequenti piogge di meteoriti. Stanotte i cieli sono particolarmente fertili: mentre ci muoviamo nelle sezioni più ampie del fiume vediamo scie di meteore collegare di vivida luce le stelle. Dopo un poco, l’immagine brucia la retina e sposto lo sguardo sul fiume, solo per vedere nelle acque scure l’identica eco ottica.
Nell’orizzonte orientale c’è un riflesso vivido; il vecchio Kady mi dice che proviene dagli specchi orbitali che illuminano le piantagioni più estese.
Fa troppo caldo per tornare in cabina. Allargo sul tetto della zattera la stuoia sottile e ammiro lo spettacolo di luci celesti, mentre famiglie di nativi intonano canzoni ossessive in un dialetto che non ho nemmeno provato a imparare. Penso con meraviglia ai Bikura, ancora lontanissimi da qui, e mi sento prendere da un’ansia strana.
Nella foresta, chissà dove, un animale strilla con una voce da donna atterrita.
Giorno 60
Arrivato piantagione Perecebo. Malato.
Giorno 62
Molto malato. Febbre, crisi di tremito. Tutto ieri ho vomitato bile nera. La pioggia è assordante. Di notte gli specchi orbitali illuminano da sopra le nuvole. Il cielo sembra in fiamme. Ho febbre altissima.
Una donna si prende cura di me. Mi fa il bagno. Sto troppo male per vergognarmi. Ha capelli più scuri della maggior parte dei nativi. Parla poco. Occhi neri, gentili.
Oh, Dio mio, star male così lontano da casa!
Giorno
aspetta spiando entra dalla pioggia la sottile camicia
allo scopo di tentarmi, sa chi sono la pelle mi brucia capezzoli di cotone sottile scuri contro la stoffa so loro chi sono mi osservano sento la loro voce di notte mi bagnano nel veleno che mi brucia pensano che non so ma sento la loro voce al di sopra della pioggia quando le urla smettono smettono smettono
la pelle m’è quasi scomparsa, rosso di sotto sento il buco nella guancia, quando trovo il proiettile lo sputo, agnus dei qui tollis peccata mundi miserere nobis miserere nobis miserere
Giorno 65
Grazie, Signore, d’avermi liberato dal male.
Giorno 66
Oggi mi sono fatto la barba. Sono riuscito ad arrivare alla doccia.
Semfa mi ha aiutato a prepararmi per la visita dell’amministratore. Mi aspettavo un tipo grosso e sgarbato, come quelli che vedevo dalla finestra al lavoro nello spiazzo di selezione, invece era un nero tranquillo, con la pronuncia lievemente blesa. Mi è stato di grande aiuto. Ero preoccupato per il pagamento delle spese mediche, ma mi ha rassicurato che non ce n’erano. Meglio ancora: mi assegnerà un uomo che mi farà da guida nelle terre alte! Dice che la stagione è abbastanza inoltrata, ma che se fra dieci giorni sono in grado di viaggiare potrei attraversare la foresta di fuoco fino alla Fenditura, prima che gli alberi tesla siano in piena attività.
Quando se n’è andato, mi sono seduto a parlare un poco con Semfa. Suo marito è morto qui tre mesi locali fa, in un incidente di mietitura. Semfa viene da Port Romance: il matrimonio con Mikel è stata la sua salvezza e preferisce stare qui a fare lavori saltuari, invece di ridiscendere il fiume. Non la biasimo.
Dopo un massaggio, dormirò. Di recente ho sognato molto mia madre.
Dieci giorni. Sarò pronto, fra dieci giorni.
Giorno 75
Prima di partire con Tuk, sono sceso alle risaie matrici per dire addio a Semfa. Non ha parlato molto, ma nei suoi occhi si leggeva la tristezza per la mia partenza. Senza premeditazione, l’ho benedetta e poi l’ho baciata sulla fronte. Tuk, lì vicino, sorrideva e si agitava. Poi siamo partiti tirandoci dietro due ibridi da soma. Il sovrintendente Orlandi è venuto fino in fondo alla strada e ci ha salutati agitando il braccio, mentre imboccavamo lo stretto viottolo aperto tra il fogliame dorato.
Domine, dirige nos.
Giorno 82
Dopo una settimana di pista… pista?… dopo una settimana nella foresta pluviale, gialla e impervia, dopo una settimana di faticosa scalata del rilievo sempre più ripido dell’altopiano Punta d’Ala, stamattina siamo sbucati su un affioramento roccioso che ci ha permesso di dare un’occhiata al cammino percorso, al tratto di giungla verso il Becco e il mar Medio. Qui l’altopiano raggiunge quasi i tremila metri sul livello del mare: uno spettacolo impressionante. Nuvole gonfie di pioggia si estendevano sotto di noi fino ai piedi dei monti Punta d’Ala, ma tra gli squarci nel tappeto di nubi bianche e grigie si scorgevano tratti del Kans che fluiva lento verso Port Romance e il mare, scampoli giallo cromo della foresta attraversata con tanta fatica e un tocco rosso magenta in fondo, a oriente, che secondo Tuk era senza dubbio la risaia matrice inferiore delle coltivazioni di fibroplastica vicino a Perecebo.
Abbiamo continuato a salire fino a sera inoltrata. Tuk è chiaramente preoccupato per il rischio di essere sorpresi nelle foreste di fuoco quando gli alberi tesla diverranno attivi. Mi sforzo di tenere il suo passo, tirandomi dietro l’ibrido carico, e prego in silenzio per distogliere il pensiero da tutti i dolori che mi affliggono.
Giorno 83
Carico e partenza prima dell’alba. Nell’aria c’è odore di fumo e di cenere.
Sull’altopiano, il cambiamento della vegetazione è sorprendente. Non si vedono più gli onnipresenti alberi di weir e i fronzuti chalma. Attraversata una zona intermedia di bassi sempreverdi e semprazzurri, abbiamo proseguito la salita tra fitti boschetti di pini a ombrello mutati e di tripioppi tremuli; poi siamo entrati nella foresta di fuoco vera e propria, con le sue macchie d’alti prometei, i tralci dell’onnipresente fenice rampicante, i tondi boschetti dai guizzanti color ambra. Di tanto in tanto abbiamo incontrato faglie insuperabili di piante di besto bianche, fibrose e biforcute che, secondo la pittoresca descrizione di Tuk, «…sembrano uccelli marci di giganti morti e sepolti a fior di terra». La mia guida ha un modo d’esprimersi tutto suo.
Solo nel tardo pomeriggio abbiamo visto il primo tesla. Da mezz’ora avanzavamo a fatica sul terreno coperto di cenere, attenti a non calpestare i teneri germogli di fenice e di frustafuoco che si aprivano coraggiosamente un varco nel terriccio fuligginoso, quando Tuk si è fermato di colpo e mi ha indicato un albero.
Il tesla, distante ancora mezzo chilometro, s’alzava per cento metri buoni, una volta e mezzo il più alto prometeo. In prossimità della cima presentava il caratterisco rigonfiamento a forma di cipolla: la galla accumulatore. Dai rami radiali al di sopra della galla pendevano decine di liane aureola color argento metallizzato, contro il cielo verde chiaro e celeste. Sembrava un’elegante moschea Gran Maomettana di Nuova Mecca empiamente inghirlandata d’orpelli.
«Dobbiamo sbrigarci a portare via di qui chiappe e ibridi» ha brontolato Tuk, insistendo per indossare subito l’equipaggiamento adatto alla foresta di fuoco. Abbiamo trascorso il resto del pomeriggio e la sera a camminare con le maschere osmotiche e i robusti stivali dalla suola di gomma, sudando sotto strati di gamma-tela simile a cuoio. I due ibridi, nervosi, drizzavano le lunghe orecchie al minimo rumore. Nonostante la maschera, sentivo odore d’ozono; mi ricordava i trenini elettrici con cui giocavo da bambino nei pigri pomeriggi di Natale a Villefranche-sur-Saône.
Questa notte ci accampiamo il più vicino possibile a una faglia di besto. Tuk mi ha mostrato come disporre il cerchio di barre parascariche, borbottando fra sé terribili ammonimenti e scrutando il cielo della sera in cerca di nubi.
Conto di farmi un buon sonno, nonostante tutto.
Giorno 84
Le quattro…
Santa Madre di Dio.
Per tre ore ci siamo trovati nel mezzo della fine del mondo.
Le esplosioni sono iniziate poco dopo mezzanotte: semplici schianti di fulmine, sulle prime. E contro ogni buonsenso, Tuk e io abbiamo sporto la testa dal lembo della tenda per guardare lo spettacolo pirotecnico. Sono abituato alle tempeste monsoniche del mese Matteo, su Pacem, perciò la prima ora di fulmini non mi ha fatto grande impressione. Solo lo spettacolo dei tesla lontani, infallibili punti focali delle scariche, dava un certo nervosismo. Ma in breve i giganti della foresta si sono messi ad ardere e a schizzare l’energia accumulata; e allora, proprio mentre tornavo a scivolare nel sonno nonostante il frastuono continuo, si è scatenata l’Apocalisse.
Nei primi dieci secondi di spasmi di scarica di violenta energia, gli alberi tesla hanno liberato almeno cento archi elettrici. A trenta metri da noi, un prometeo è esploso e ha lasciato cadere per terra, da cinquanta metri, dei tizzoni ardenti. Le barre parascariche sono diventate incandescenti e, fra i sibili, hanno deviato uno dopo l’altro archi di morte biancazzurra sopra e intorno il nostro piccolo accampamento. Tuk ha urlato qualcosa, ma la semplice voce umana non poteva superare quella furia di luce e di rumore. Una macchia di fenici rampicanti è esplosa in fiamme nelle vicinanze degli ibridi impastoiati e un animale atterrito — per quanto legato e incappucciato — si è liberato e si è lanciato oltre il cerchio di barre incandescenti. Subito una decina di fulmini scagliati dai tesla più vicini ha raggiunto lo sventurato animale. Per un secondo di follia giurerei d’avere scorto lo scheletro brillare dentro la carne ribollente; poi l’ibrido è schizzato in aria e ha semplicemente cessato d’esistere.
Per tre ore abbiamo visto la fine del mondo. Due barre parascariche sono cadute, ma le altre otto continuano a funzionare. Tuk e io ce ne stiamo rincantucciati nella rovente grotta della nostra tenda, mentre le maschere osmotiche filtrano ossigeno fresco dall’aria surriscaldata e piena di fumo, consentendoci di respirare. Solo la mancanza di sottobosco e l’abilità di Tuk nel sistemare la tenda lontano da altri bersagli, e al riparo delle piante di besto, ci permettono di sopravvivere. Solo questo, e le otto barre di fibrolega, si frappongono fra noi e l’eternità.
«Sembra che resistano bene!» grido a Tuk, più forte dei sibili e degli scoppiettii, degli schianti e delle schegge della tempesta.
«Sono fatte per durare un’ora, forse due» brontola la mia guida. «Appena saltano, forse da un momento all’altro, siamo morti.»
Annuisco e sorseggio acqua tiepida dalla cannula della maschera osmotica. Se passerò la notte, ringrazierò sempre Iddio per avermi generosamente concesso d’assistere a questo spettacolo.
Giorno 87
A mezzogiorno di ieri, Tuk e io siamo usciti dal margine fumante di nordest della foresta di fuoco, ci siamo subito accampati sulla riva di un ruscello e abbiamo dormito diciotto ore filate per compensare le tre notti insonni e i due faticosi giorni di cammino senza un attimo di sosta in quell’incubo di fuoco e di cenere. Da qualsiasi parte guardassimo mentre ci avvicinavamo alla cresta a schiena d’asino che segnava il confine della foresta, c’erano baccelli e pigne esplosi a nuova vita per le diverse specie morte nella conflagrazione delle due notti precedenti. Cinque barre parascariche funzionavano ancora, anche se né io né Tuk avevamo voglia di sperimentarle per un’altra notte. L’ibrido sopravvissuto è crollato a terra, morto, nell’istante stesso in cui gli abbiamo tolto di groppa il pesante carico.
Stamane all’alba mi sono svegliato a un mormorio d’acqua corrente. Ho seguito il ruscello per un chilometro verso nordest, richiamato dal rumore che diventava sempre più intenso poi, all’improvviso, il corso d’acqua è scomparso.
La Fenditura! Avevo quasi dimenticato la nostra destinazione. Stamattina, inciampando nella nebbia, saltando da una roccia umida all’altra lungo il ruscello sempre più ampio, ho raggiunto l’ultimo macigno, ho ripreso l’equilibrio e ho visto sotto di me una cascata che precipitava per almeno tremila metri nella nebbia, nelle rocce e nel fiume sottostante.
La Fenditura non era stata provocata dal sollevarsi dell’altopiano, come nel caso del leggendario Gran Canyon di Vecchia Terra o dello Squarcio Planetario di Hebron. Nonostante gli oceani attivi e i continenti di tipo terrestre, dal punto di vista tettonico Hyperion è totalmente morto, più simile a Marte, a Lusus o ad Armaghast per l’assoluta mancanza di deriva continentale. E, come Marte e Lusus, Hyperion è afflitto dalle Grandi Glaciazioni, la cui periodicità però raggiunge i trentasette milioni di anni, a causa della lunga ellisse della stella nana binaria attualmente lontana. Il comlog paragona la Fenditura alla Vallis Marineris di Marte prima del terraforming, perché entrambe sono state provocate dall’indebolimento della crosta planetaria dovuto alle fasi periodiche di glaciazione e disgelo nel corso degli eoni, e al flusso di fiumi sotterranei come il Kans. Poi l’enorme crollo, che corre come una lunga cicatrice nella zona montagnosa del continente Aquila.
Tuk mi ha raggiunto sull’orlo della Fenditura. Ero nudo, per togliere dagli abiti da viaggio e dalla tonaca l’odore di cenere. Mi sono spruzzato d’acqua fredda e ho riso forte mentre gli echi del grido di Tuk rimbalzavano dalla Parete Nord, distante settecento metri. Per quanto pericolosamente esposti ritenevamo che la cornice rocciosa, che aveva sfidato la gravità per milioni di anni, avrebbe resistito ancora un poco, mentre ci bagnavamo, ci rilassavamo, gridavamo di gioia fino a diventare rauchi e ci comportavamo più o meno come bambini appena liberati dalla scuola. Tuk ha confessato di non avere mai attraversato tutta la foresta di fuoco e di non conoscere nessuno che l’abbia fatto in questa stagione; poi ha detto che avrebbe dovuto aspettare almeno tre mesi prima di fare ritorno, ora che gli alberi tesla cominciavano a diventare pienamente attivi. Non mi è sembrato molto dispiaciuto ed ero contento d’averlo con me.
Nel pomeriggio abbiamo trasportato un po’ alla volta il mio equipaggiamento, ci siamo accampati accanto al ruscello, a un centinaio di metri dalla cornice, e abbiamo ammucchiato le casse di flussoschiuma contenenti le apparecchiature scientifiche, riservandoci di fare un controllo il mattino seguente.
La sera faceva freddo. Dopo cena, appena prima del tramonto, ho tirato fuori la giacca termica e sono andato da solo fino alla cornice rocciosa, a sudovest del punto dove avevo incontrato per la prima volta la Fenditura. Da quella posizione favorevole, molto al di sopra del fiume, il panorama era memorabile. La nebbia s’alzava da invisibili cascate che precipitavano nel fiume sottostante, gli spruzzi si levavano in mobili cortine e moltiplicavano il sole al tramonto in una decina di sfere viola e in una ventina d’arcobaleni. Guardavo ogni spettro formarsi, alzarsi verso la cupola sempre più buia del cielo, morire. Mentre l’aria più fredda si assestava nelle fessure e nelle caverne dell’altopiano, e l’aria calda si precipitava verso il cielo sollevando una tempesta verticale di foglie, rametti e volute di nebbia, un suono emerse dalla Fenditura, come se il continente stesso chiamasse con la voce di giganti di pietra, con lo zufolio di enormi flauti di bambù, con organi di chiesa grandi come palazzi, con note chiare e perfette che andavano dal soprano più acuto al basso più profondo. Ho fatto delle congetture sull’effetto dei vettori di vento contro le scanalature nelle pareti di roccia, in eventuali caverne molto più in basso che costituivano grosse voragini nell’immota crosta, sull’illusione di voci umane che le armoniche casuali a volte generano, ma alla fine le ho messe da parte e mi sono limitato ad ascoltare la Fenditura che cantava il suo inno d’addio al sole.
Sono tornato alla tenda e al suo cerchio di lanterne bioluminose quando la prima salva di piogge meteoriche ha acceso il cielo e le lontane esplosioni della foresta di fuoco hanno increspato l’orizzonte meridionale e occidentale, come cannonate d’antiche guerre sulla Vecchia Terra pre-Egira.
Appena dentro la tenda, ho provato le bande lunghe del comlog, ma ho trovato solo statica. Anche ammesso che i primitivi satelliti di comunicazione al servizio delle piantagioni di fibroplastica possano trasmettere così lontano verso est, sospetto che ogni emissione, a parte il raggio dei laser più concentrati e degli astro-tei, sarebbe bloccata dalle montagne e dall’attività dei tesla. Su Pacem, pochi di noi nel monastero possedevano e portavano comlog personali, ma la sfera dati era sempre disponibile se avevamo bisogno di collegarci. Qui non c’è scelta.
Mi siedo e ascolto le ultime note del vento del canyon; guardo il cielo che nello stesso tempo si scurisce e s’infiamma, sorrido al russare di Tuk nel sacco a pelo fuori della tenda e mi dico: Se questo è esilio, esilio sia.
Giorno 88
Tuk è morto. Assassinato.
Ho trovato il suo cadavere uscendo dalla tenda, allo spuntar del sole. Dormiva fuori, a meno di quattro metri da me. Aveva detto che voleva dormire sotto le stelle.
Gli assassini gli hanno tagliato la gola nel sonno. Non ho sentito nessun grido, ma ho sognato. Ho sognato Semfa che mi curava durante la febbre: mani fresche che mi toccavano il collo e il petto, che sfioravano il crocifisso che porto su di me da quand’ero bambino. Mi sono fermato accanto al cadavere di Tuk, a fissare l’ampio cerchio scuro dove il suo sangue ha inzuppato il suolo indifferente di Hyperion e ho avuto un brivido al pensiero che il sogno fosse stato più d’un sogno… che mani sconosciute mi avessero toccato davvero durante la notte.
Confesso d’avere reagito più da vecchio sciocco che da prete. Gli ho somministrato l’estrema unzione, ma poi mi sono lasciato prendere dal panico e ho abbandonato il cadavere della mia povera guida per cercare disperatamente un’arma fra le provviste. Ho preso un machete che avevo usato nella foresta pluviale e il maser a basso voltaggio che intendevo adoperare per la caccia alla piccola selvaggina, ma non so se avrei usato davvero un’arma contro un essere umano, anche solo per difesa. Però, preso dal panico, ho portato il machete, il maser e il binocolo elettronico fino a un grosso macigno nei pressi della Fenditura e ho scrutato la zona alla ricerca degli assassini. Niente si muoveva, a parte i minuscoli arboricoli e i ragnatelidi che ieri abbiamo visto svolazzare fra gli alberi. La foresta stessa sembrava anormalmente fitta e tenebrosa. La Fenditura mostrava a nordest centinaia di terrazze, di ripiani, di sporgenze rocciose sufficienti a intere bande di selvaggi. Un esercito si sarebbe potuto nascondere fra gli spuntoni di roccia e l’onnipresente nebbia.
Dopo trenta minuti di vigilanza infruttuosa e di sciocca codardia, sono tornato all’accampamento e ho preparato il cadavere di Tuk per la sepoltura. Ho impiegato più di due ore a scavare una fossa decente nel terreno sassoso dell’altopiano. Riempita la fossa e recitato il servizio funebre, non mi è venuto in mente niente di personale da dire dell’ometto rozzo e buffo che mi aveva fatto da guida. «Veglia su di lui, Signore» ho detto alla fine, disgustato per l’ipocrisia, sicuro nell’intimo di parlare solo a me stesso. «Aprigli le Tue porte. Amen.»
Stasera ho spostato il campo mezzo chilometro più a nord. La tenda è piantata in una zona sgombra a dieci metri da me, ma io sto con la schiena contro il macigno, avvolto nelle vesti da letto, con machete e maser a portata di mano. Dopo il funerale di Tuk ho fatto l’inventario delle provviste e delle attrezzature: non manca niente, a parte le ultime barre parascariche. Subito mi sono chiesto se qualcuno ci ha seguiti nella foresta di fuoco per uccidere Tuk e lasciarmi qui da solo, ma non mi viene in mente nessun motivo per un’azione del genere. Qualsiasi individuo della piantagione avrebbe potuto ucciderci nel sonno quando eravamo nella foresta pluviale, oppure — soluzione assai migliore, dal punto di vista d’un assassino — nel profondo della foresta di fuoco dove nessuno si sarebbe stupito per la presenza di due cadaveri carbonizzati. Rimanevano i Bikura. L’oggetto del mio interesse di partenza.
Ho pensato di tornare indietro e attraversare senza barre la foresta di fuoco, ma ho scartato subito l’idea. Restare qui significa morte probabile; tornare indietro, morte certa.
Mancano tre mesi, prima che i tesla tornino in stato di quiescenza. Centoventi dei giorni locali di ventisei ore. Un’eternità.
Buon Dio, perché è toccato a me? E perché sono stato risparmiato la notte scorsa, solo per essere sacrificato stanotte… o domani?
Siedo nel burrone sempre più buio e tendo l’orecchio all’improvviso gemito di malaugurio che sale con il vento notturno dalla Fenditura. Prego, mentre il cielo s’accende delle scie rosso sangue di meteoriti.
Impreco fra me.
Giorno 95
I terrori della scorsa settimana sono considerevolmente diminuiti. Anche la paura si affievolisce e diventa banale, dopo alcuni giorni di distensione.
Ho usato il machete per tagliare alberelli e costruirmi una capanna a una falda, coperta di tela-gamma e calafatata col fango. Si appoggia alla solida roccia del macigno. Ho fatto la cernita del mio equipaggiamento e ho tirato fuori alcuni attrezzi, anche se sospetto che per il momento non li userò.
Ho iniziato a rovistare in giro, per integrare la provvista di cibo liofilizzato che scema a vista d’occhio. A quest’ora, secondo l’assurdo programma stilato tanto tempo fa su Pacem, dovrei trovarmi già da qualche settimana fra i Bikura e dar loro delle cianfrusaglie in cambio di cibo locale. Pazienza. Per integrare la blanda dieta a base radici di chalma, facili da bollire, ho trovato cinque o sei tipi di bacche e frutti più grossi, garantiti commestibili dal comlog. Fino a questo momento, solo uno mi ha fatto male e mi ha costretto a stare accucciato tutta la notte sul bordo del burrone più vicino.
Percorro i confini della regione, irrequieto come uno di quei pelopi in gabbia tanto apprezzati dai padiscià di Armaghast. Un chilometro a sud e quattro a ovest, le foreste di fuoco sono in piena attività. Al mattino, il fumo gareggia con le mobili cortine di nebbia nell’oscurare il cielo. Solo le forre semisolide di besto, il suolo roccioso qui sulla sommità del pianoro e le creste a schiena d’asino che corrono come scaglie di corazza verso nordest, tengono a bada i tesla.
A nord, per una quindicina di chilometri, l’altopiano si allarga e la boscaglia diventa più fitta in vicinanza della Fenditura, finché la strada non si blocca di colpo di fronte a un burrone profondo un terzo e largo metà della Fenditura stessa. Ieri ho raggiunto questa punta estrema e con una certa rabbia ho fissato lo strapiombo. Proverò ancora, un giorno o l’altro, deviando a est per trovare un passaggio; ma dai segni rivelatori delle fenici al di là del baratro e dalla cappa di fumo all’orizzonte verso nordest, sospetto di trovare solo i canyon pieni di chalma e le steppe di foresta di fuoco rozzamente indicati nella mappa orbitale che porto con me.
Stanotte ho fatto visita alla tomba di sassi di Tuk, mentre il vento della sera iniziava a emettere il suo eolico lamento funebre. Mi sono inginocchiato e ho cercato di pregare, ma non ci sono riuscito.
Edouard, non sono riuscito a pregare! Sono vuoto come quei falsi sarcofaghi che tu e io abbiamo portato alla luce a decine nelle sterili sabbie desertiche vicino a Tarum bel Wadi.
Gli gnostici Zen direbbero che questo vuoto è buon segno, presagio d’apertura a un nuovo livello di consapevolezza, a nuove intuizioni, a nuove esperienze.
Merde.
Il mio vuoto è soltanto… vuoto.
Giorno 96
Ho trovato i Bikura. Per meglio dire, loro hanno trovato me. Scrivo quel che posso, prima che vengano a svegliarmi dal “sonno”.
Oggi eseguivo delle rilevazioni particolareggiate, a soli quattro chilometri dal campo, quando per il calore del mezzogiorno la nebbia si è alzata e mi ha permesso di scorgere sul mio lato della Fenditura una serie di terrazze fino a quel momento nascoste alla vista. Le stavo ispezionando con il binocolo elettronico (si trattava in realtà di una serie irregolare di cornici, guglie, ripiani e cespugli che si estendeva molto lontano sulla sporgenza) quando mi sono accorto d’avere sotto gli occhi alcune abitazioni costruite dall’uomo: una decina di rozze capanne… catapecchie di frasche di chalma, di pietra e di zolle spugnose… d’inconfondibile origine umana.
Sono rimasto lì, esitante, con il binocolo a mezz’aria, indeciso se scendere sui cornicioni non più nascosti dalla nebbia e affrontare gli abitanti o ritirarmi al campo, quando ho sentito lungo la nuca e la spina dorsale quel brivido che rivela con assoluta certezza la presenza di qualcuno. Ho abbassato il binocolo e mi sono girato lentamente. I Bikura erano lì, fermi. Erano una trentina e formavano un semicerchio che mi tagliava la ritirata nella foresta.
Non so cosa mi aspettavo. Selvaggi nudi, forse, con un’espressione feroce e collane di denti. O forse quel genere di eremiti scarmigliati e barbuti che i viaggiatori a volte incontrano sui monti Mosè di Hebron. Qualsiasi cosa avessi in mente, non quadrava affatto con i Bikura.
Gli individui, che mi si erano avvicinati senza fare il minimo rumore, erano bassi (m’arrivavano al massimo alla spalla) e avviluppati in vesti scure rozzamente intessute che li coprivano dal collo alla punta dei piedi. Quando si muovevano, come in quel momento, sembravano scivolare sul terreno come fantasmi. Da lontano, mi ricordavano un branco di piccoli gesuiti in un enclave di Nuovo Vaticano.
Sono stato lì lì per scoppiare a ridere come uno sciocco, ma ho capito che una simile reazione poteva essere un segno di panico crescente. I Bikura non mostravano segni d’aggressività che giustificassero il panico e non avevano armi: le loro piccole mani erano vuote. Vuote come la loro espressione.
È difficile descrivere in poche parole la loro fisionomia. Sono calvi. Tutti. La calvizie, l’assenza di peli sul viso e l’ampia veste che cade dritta a terra, rendono difficile distinguere i maschi dalle femmine. Il gruppo di fronte a me in questo momento (più di cinquanta individui, stavolta) sembra formato da persone più o meno della stessa età, fra i quaranta e i cinquanta anni standard. Hanno la faccia liscia e la pelle di una sfumatura giallastra che ritengo sia dovuta alla continua ingestione dei minerali presenti in tracce nei chalma e in altre piante locali.
Si potrebbe essere tentati di attribuire ai Bikura una faccia da cherubino ma, dopo esame più attento, l’impressione di dolcezza svanisce, sostituita da un’altra interpretazione: placida idiozia. Come prete, ho trascorso abbastanza tempo su pianeti arretrati per riconoscere gli effetti di un antico disordine genetico variamente chiamato sindrome di Down, mongolismo o ereditarietà d’astronave generazionale. Comunque, l’impressione generica prodotta su di me dalla sessantina di piccoli individui dalla veste scura è stata questa: di essere accolto da un branco di silenziosi, sorridenti, calvi bambini mentalmente ritardati.
Subito ho ricordato a me stesso che quasi certamente quelli erano gli stessi “bambini sorridenti” che avevano tagliato nel sonno la gola a Tuk e l’avevano lasciato morire come un maiale sgozzato.
Il Bikura più vicino è venuto avanti, si è fermato a cinque passi da me e ha detto qualcosa con una voce bassa e monotona.
«Un momento solo» ho risposto, frugando alla ricerca del comlog, poi ho predisposto l’apparecchio sulla funzione di traduttore.
«Beyetet ota menna lot cresfem ket?» ha domandato il piccoletto di fronte a me.
Mi sono messo l’auricolare appena in tempo per sentire la traduzione del comlog. Non c’è stato intervallo. Quella lingua apparentemente straniera era solo una corruzione dell’inglese arcaico delle navi coloniali, non molto diversa dal dialetto indigeno delle piantagioni. «Sei l’uomo che appartiene alla croce/crucimorfo?» ha tradotto il comlog, offrendo due varianti per l’ultimo sostantivo.
«Sì» ho risposto. Ora sapevo che erano stati loro a toccarmi durante il sonno, mentre Tuk veniva assassinato. Quindi erano stati loro, a ucciderlo.
Ho aspettato. Il maser da caccia era nello zaino. Lo zaino era posato contro un piccolo chalma, a meno di dieci passi. Fra me e lo zaino c’erano cinque o sei Bikura, ma non aveva importanza. Ho capito in quell’istante che non sarei mai stato capace di usare un’arma contro un altro essere umano, anche se aveva assassinato la mia guida e da un momento all’altro avrebbe potuto uccidere pure me. Ho chiuso gli occhi e ho recitato mentalmente l’atto di dolore. Quando li ho riaperti, erano arrivati altri Bikura. Ma non si muovevano, come se avessero raggiunto un quorum, preso una decisione.
«Sì» ho ripetuto, nel silenzio. «Sono l’uomo che porta la croce.» L’ultima parola del comlog suonava come “cresfem”.
I Bikura hanno annuito all’unisono e, quasi avessero una lunga pratica da chierichetti, con un fruscio di stoffa hanno piegato tutti insieme le ginocchia in una genuflessione perfetta.
Sono rimasto a bocca aperta. Non ho trovato niente da dire.
I Bikura si sono alzati. La brezza ha mosso le fragili fronde e le foglie di chalma provocando un fruscio secco, da fine dell’estate. Il Bikura più vicino a me sulla sinistra si è accostato, mi ha afferrato il braccio con le dita fredde e forti, e ha pronunciato una breve frase che il comlog ha tradotto così: «Vieni. È ora di entrare in casa e dormire».
Era metà pomeriggio. Mi sono chiesto se il comlog avesse tradotto correttamente il termine “dormire”, o se non si trattasse invece di una parola idiomatica, di una metafora per “morire”; ma ho annuito e li ho seguiti al villaggio sull’orlo della Fenditura.
Ora me ne sto seduto nella capanna e aspetto. Sento dei fruscii. Qualcun altro è sveglio. Me ne sto seduto e aspetto.
Giorno 97
I Bikura si definiscono le “Tre ventine e dieci”.
Ho trascorso le ultime ventisei ore a parlare con loro, a fare osservazioni, a prendere note (quando a metà pomeriggio vanno a “dormire” per due ore) e a registrare il maggior numero possibile di dati prima che decidano di tagliarmi la gola.
Ma ormai comincio a credere che non mi faranno alcun male.
Ieri ho parlato con loro, dopo la “dormita”. A volte non rispondono alle domande e, se lo fanno, le risposte sono poco più che borbottii e frasi da bambini lenti di comprendonio. Dopo la loro domanda iniziale e l’invito al primo incontro, nessuno di loro mi ha rivolto una sola domanda né ha espresso commenti sul mio modo di fare.
Li ho interrogati sottilmente, con cautela, con precauzione, con la calma professionale dell’etnologo addestrato. Ho fatto le domande più semplici, più elementari, per essere sicuro che il comlog funzionasse in modo corretto. Funzionava, ma la somma totale delle risposte mi ha lasciato ignorante come venti e passa ore prima.
Alla fine, stanco nel corpo e nello spirito, ho abbandonato la sottigliezza professionale e ho chiesto al gruppo col quale sedevo: «Avete ucciso il mio compagno?»
I miei tre interlocutori non hanno sollevato lo sguardo dall’ordito del rozzo telaio. «Sì» ha detto quello che tra me chiamavo Alfa, perché era stato il primo ad avvicinarmi nella foresta. «Gli abbiamo tagliato la gola con una pietra affilata e l’abbiamo tenuto fermo e zitto mentre si dibatteva. È morto della vera morte.»
«Perché?» ho domandato dopo un istante, con la voce secca come un cartoccio di granturco sbriciolato.
«Perché è morto della vera morte?» ha detto Alfa, sempre senza sollevare lo sguardo. «Perché ha perso tutto il sangue e ha smesso di respirare.»
«No» ho detto. «Perché l’avete ucciso?»
Alfa non ha risposto. Ma Betty — che forse è femmina e compagna di Alfa, forse no — ha sollevato gli occhi dal telaio e Ha detto con semplicità: «Per farlo morire».
«Perché?»
Davano sempre una risposta, ma non riuscivano mai a illuminarmi d’uno iota. Dopo un mucchio di domande, ho accertato che hanno ucciso Tuk per farlo morire e che è morto perché è stato ucciso.
«Qual è la differenza fra morte e vera morte?» ho domandato. A quel punto non mi fidavo più del comlog né del mio temperamento.
Il terzo Bikura, Del, ha brontolato una risposta che il comlog ha reso così: «Il tuo compagno è morto della vera morte. Tu no».
Allora, quasi rabbioso, sono sbottato: «Perché? Perché non mi avete ucciso?».
Tutti e tre hanno interrotto il loro lavoro meccanico e mi hanno guardato. «Non puoi essere ucciso perché non puoi morire» ha detto Alfa. «Non puoi morire perché tu appartieni al crucimorfo e segui la via della croce.»
Non ho idea del perché la maledetta macchina traduca “croce” una volta e “crucimorfo” quella dopo. Perché tu appartieni al crucimorfo.
Ho sentito un brivido, seguito dall’impulso di ridere. Mi ero per caso imbattuto in quel vecchio cliché degli ologrammi d’avventura… la tribù perduta che adorava il “dio” trovato nella giungla finché il povero bastardo non si tagliava facendosi la barba, o in qualche altro modo, e i selvaggi, certo un po’ sollevati per l’evidente natura mortale del visitatore, non sacrificavano colui che fino a poco prima avevano considerato una divinità?
Sarebbe stato buffo, se l’immagine del viso esangue di Tuk e della sua ferita dai bordi laceri non fosse stata così fresca.
La loro reazione alla croce suggeriva senza dubbio che avevo incontrato un gruppo di sopravvissuti di una colonia un tempo cristiana (cattolica?), anche se i dati del comlog insistevano sul fatto che la navetta di settanta coloni, schiantatasi quattrocento anni fa su questo altopiano, trasportava solo marxisti di Nuova Kerwin, tutti certo indifferenti, se non apertamente ostili, alle antiche religioni.
Ho considerato l’opportunità di lasciar perdere con la scusa che poteva essere pericoloso continuare con quell’argomento, ma il mio sciocco bisogno di sapere mi ha spinto a proseguire. «Adorate Gesù?» ho chiesto.
La loro espressione vacua non aveva bisogno di negazioni verbali.
«Cristo?» ho riprovato. «Gesù Cristo? Cristiani? Chiesa Cattolica?»
Nessun segno d’interesse.
«Cattolici? Gesù? Maria? San Pietro? San Paolo? San Teilhard?»
Il comlog emetteva dei suoni, ma sembrava che per loro quelle parole non avessero nessun significato.
«Seguite la croce?» ho detto, cercando alla cieca un punto di contatto.
M’han guardato tutti e tre. «Apparteniamo al crucimorfo» ha detto Alfa.
Ho annuito senza capire.
Stasera mi sono addormentato poco prima del tramonto; sono stato svegliato dalla musica d’organo dei venti serali nella Fenditura. Era molto più forte, qui sulle cornici del villaggio. Anche le capanne sembravano unirsi al coro, mentre le raffiche nascenti fischiavano e gemevano tra le fessure delle pietre, le fronde sbattute, i rozzi camini.
C’era qualcosa di sbagliato. Intontito com’ero, ho impiegato un minuto per capire che il villaggio era deserto. Le capanne erano tutte vuote. Seduto su un sasso freddo, mi sono chiesto se la mia presenza non avesse generato un esodo in massa. La musica del vento era cessata e le meteoriti avevano iniziato il loro grandioso spettacolo d’ogni notte, fra gli squarci delle nubi basse, quando ho sentito un rumore alle mie spalle; mi sono girato e mi sono trovato di fronte tutti i settanta Tre Ventine e Dieci.
Mi sono passati accanto senza una parola, diretti alle capanne. Non si è accesa nessuna luce, e ho immaginato che ciascuno sedesse nella propria capanna con lo sguardo fisso.
Sono rimasto fuori ancora un poco, prima di rientrare anch’io. Qualche tempo dopo, sono andato fino all’orlo della cornice erbosa e mi sono fermato dove la parete di roccia sprofonda nell’abisso. Un grappolo di liane e di radici aderiva alla parete del precipizio, ma sembrava terminare qualche metro più sotto e penzolare sul nulla. Nessuna liana è così lunga da arrivare al fiume, due chilometri più in basso.
Eppure i Bikura erano arrivati da quella direzione.
Niente aveva senso. Ho scosso la testa e sono tornato nella capanna.
Seduto qui, mentre scrivo alla luce del diskey del comlog, penso alle precauzioni da prendere per essere sicuro di rivedere il sole.
Non me ne viene in mente nessuna.
Giorno 103
Più apprendo, meno comprendo.
Ho trasferito la maggior parte dell’equipaggiamento nella capanna che lasciano vuota per me, qui nel villaggio.
Ho scattato fotografie, ho registrato chip video e audio, ho fatto una completa oloscansione del villaggio e dei suoi abitanti. Sembra che a loro non importi. Proietto le loro immagini e i Bikura si limitano ad attraversarle senza mostrare il minimo interesse. Faccio ascoltare loro le frasi registrate: sorridono e se ne tornano alle capanne dove restano seduti per ore senza far niente, senza dire niente. Offro cianfrusaglie da scambio: le prendono senza commenti, controllano se sono commestibili, poi le lasciano per terra. L’erba è cosparsa di perline di plastica, specchietti, tagli di stoffa colorata, penne da quattro soldi.
Ho impiantato un laboratorio medico completo, ma senza risultati. I Tre Ventine e Dieci non si lasciano esaminare, non mi permettono di prelevare campioni di sangue anche se ho ripetutamente mostrato loro che il procedimento è indolore, e non si sottopongono all’apparecchiatura diagnostica… in poche parole, non collaborano in nessun modo. Non discutono. Non danno spiegazioni. Si limitano a voltare le spalle e ad andarsene per i nonaffari loro.
Dopo una settimana, ancora non distinguo i maschi dalle femmine. La loro faccia ricorda quei puzzle visivi che cambiano forma se li fissi: a volte il viso di Betty sembra innegabilmente femminile; dieci secondi dopo l’impressione svanisce e penso a lei (o a lui?) solo come Beta. La loro voce subisce la stessa trasformazione. Morbida, ben modulata, asessuata… mi ricorda quei computer da casa, programmati senza tante sofisticazioni, che ancora si vedono sui mondi più arretrati.
Mi capita di augurarmi di sorprendere per un attimo un Bikura nudo. Non è facile, per un gesuita di quarantotto anni standard, ammettere una cosa del genere; eppure non sarebbe un’impresa facile nemmeno per un voyeur incallito. Il tabù del nudo sembra assoluto. I Bikura indossano una lunga veste, sia da svegli sia durante il pisolino pomeridiano di due ore. Se devono orinare o defecare lasciano la zona del villaggio, e sospetto che neppure allora si tolgano l’ampia veste. Sembra che non facciano il bagno. Si può pensare che questo modo di vivere causi problemi d’olfatto, ma questi primitivi non hanno nessun odore, a parte il lieve aroma dolciastro del chalma. «Ti spoglierai pure qualche volta» dico un giorno ad Alfa, abbandonando la convenienza in favore della scienza. «No» risponde Al, e se ne va a sedersi e a non fare nulla, completamente vestito.
Non hanno nome. Sulle prime mi è sembrato incredibile, ma ora ne sono sicuro.
«Siamo tutto ciò che fu e che sarà» ha detto il Bikura più basso, che considero femmina e che chiamo Eppie. «Siamo i Tre Ventine e Dieci.»
Ho frugato nelle registrazioni del comlog per avere conferma a quel che già sospettavo: su più di sedicimila società umane conosciute, non ne esiste una che non abbia nomi individuali. Persino nella società tipo alveare di Lusus gli individui sono identificati con la categoria di classe, seguita da un semplice codice.
Dico il mio nome e loro mi fissano. «Padre Paul Duré, padre Paul Duré» ripete il traduttore del comlog, ma loro non fanno nessun tentativo, nemmeno una semplice ripetizione.
A parte la quotidiana scomparsa in massa prima del tramonto, e il comune sonnellino di due ore, in gruppo fanno ben poco. Anche la loro sistemazione sembra casuale. Alfa trascorre un periodo di sonno con Betty, quello dopo con Gam, l’altro ancora con Zelda o con Pete. Senza un piano o un programma visibile. Ogni tre giorni l’intero gruppo dei settanta va nella foresta per fare provviste e torna con bacche, radici e corteccia di chalma, frutta e qualsiasi altra cosa commestibile. Ero certo che fossero vegetariani, finché non ho visto Del sgranocchiare il corpo freddo di un arboricolo appena nato. Il piccolo primate era certo caduto dai rami più alti. A quanto pare, i Tre Ventine e Dieci non disdegnano la carne: sono semplicemente troppo stupidi per andare a caccia e procurarsela.
Quando hanno sete, i Bikura percorrono quasi trecento metri fino al torrente che si riversa nella Fenditura. Nonostante questa scomodità, non c’è segno di otri, brocche, terraglie di qualsiasi genere. Io tengo una riserva d’acqua, in contenitori di plastica da quaranta litri; ma loro non se ne accorgono nemmeno. Nel mio rispetto sempre meno accentuato per queste creature, non mi sembra più inverosimile che abbiano vissuto per generazioni intere in un villaggio senza una sorgente d’acqua a portata di mano.
«Chi ha costruito le case?» chiedo, visto che non hanno una parola per indicare il villaggio.
«I Tre Ventine e Dieci» risponde Will. Lo distinguo dagli altri perché ha un dito rotto che non si è saldato bene. Ciascuno di loro possiede una di queste caratteristiche distintive, anche se a volte penso che sarebbe più facile distinguere un corvo dall’altro.
«Quando le hanno costruite?» chiedo, anche se ormai dovrei sapere che una domanda che inizia con “quando” non riceve mai risposta.
Non ricevo risposta.
Vanno giù nella Fenditura ogni sera. Scendono lungo le liane. La terza sera ho provato a osservare l’esodo, ma sei di loro mi hanno spinto via dall’orlo e con gentilezza, ma con insistenza, mi hanno ricondotto alla capanna. È stata la prima azione visibile dei Bikura che suggerisse aggressività; dopo la loro partenza, mi è rimasta una certa apprensione.
La sera dopo, mentre se ne andavano, sono entrato in silenzio nella mia capanna senza dare nemmeno un’occhiata fuori; ma al loro ritorno ho recuperato l’olocamera e il cavalietto da dove li avevo lasciati, vicino all’orlo della Fenditura. Il timer ha funzionato alla perfezione. Le olografie mostrano i Bikura che afferrano le liane e si calano lungo la parete del precipizio con l’agilità dei piccoli arboricoli che riempiono la foresta di chalma e di alberi weir, e scompaiono poi sotto la sporgenza.
«Cosa fate, quando scendete nel precipizio ogni sera?» ho chiesto ad Alfa il giorno dopo.
Il nativo mi ha guardato con quel serafico sorriso da Buddha che ho imparato a odiare. «Tu appartieni al crucimorfo» ha detto, come se questo spiegasse tutto.
«Andate nel vostro luogo di culto, quando scendete di sotto?» ho domandato.
Nessuna risposta.
Ho riflettuto per qualche istante. «Anch’io seguo la croce» ho detto, ben sapendo che la frase sarebbe stata tradotta come “appartengo al crucimorfo”. Ormai per le necessità quotidiane posso fare a meno del traduttore, ma questa conversazione era troppo importante per correre rischi. «Significa che dovrei venire con voi, quando andate di sotto?»
Per un istante ho creduto che Al riflettesse. Sulla fronte gli è comparsa una ruga: è stata la prima volta che ho visto un Tre Ventine e Dieci mostrare un’espressione vicina alla perplessità. Poi Al ha detto: «Non puoi. Appartieni al crucimorfo ma non ai Tre Ventine e Dieci».
Ho capito che ha dovuto impegnare ogni neurone e ogni sinapsi del suo cervello, per formulare questa distinzione.
«Cosa fareste, se scendessi nel precipizio?» ho domandato, senza aspettarmi una risposta. Le domande ipotetiche quasi sempre hanno la stessa fortuna di quelle temporali.
Ma stavolta ha risposto. Ha ripreso il sorriso serafico e l’aria imperturbata, mentre diceva piano: «Se scendi nel precipizio, ti teniamo fermo sull’erba, prendiamo pietre affilate, ti tagliamo la gola e aspettiamo che il tuo sangue smetta di scorrere e il tuo cuore di battere».
Sono rimasto zitto. Mi sono chiesto se anche lui sentiva come mi batteva forte il cuore in quel momento. Bene, mi sono detto, almeno non devo più preoccuparmi che mi ritengano un dio.
Il silenzio si è protratto. Alla fine Al ha aggiunto una frase, sulla quale da allora non faccio che riflettere. «E se lo rifai» ha detto «dobbiamo ucciderti di nuovo.»
Ci siamo fissati a lungo; e, sono sicuro, ciascuno di noi era convinto che l’altro fosse un perfetto idiota.
Giorno 104
A ogni nuova scoperta sono sempre più confuso.
Fin dal primo giorno nel villaggio, l’assenza di bambini mi aveva lasciato perplesso. Ripassando gli appunti, trovo frequenti accenni a questo fatto, nelle osservazioni quotidiane dettate al comlog; ma ancora non ne ho fatto cenno in questo guazzabuglio personale che chiamo diario. Forse le implicazioni sono troppo spaventose.
Ai miei frequenti e goffi tentativi di penetrare il mistero, i Tre Ventine e Dieci hanno offerto i soliti chiarimenti: l’individuo interrogato sorride beatamente e risponde con qualche non sequitur al cui confronto il borbottio del peggior idiota del villaggio dei mondi della Rete sembrerebbe un aforisma pieno di saggezza. La maggior parte delle volte non risponde affatto.
Un giorno mi sono messo davanti al Bikura etichettato Del, sono rimasto lì finché non è stato costretto ad ammettere la mia presenza, poi gli ho chiesto: «Perché non ci sono bambini?»
«Siamo i Tre Ventine e Dieci» ha risposto calmo.
«Dove sono i bambini?»
Nessuna risposta. Nemmeno l’impressione che evitasse di rispondere: solo uno sguardo fisso e vacuo.
Ho inspirato a fondo. «Chi fra voi è il più giovane?»
M’è parso che Del riflettesse, che lottasse con l’idea. Per lui, era troppo. Mi sono domandato se i Bikura avessero perso a tal punto il senso del tempo che anche domande del genere erano destinate a restare senza risposta. Dopo un minuto, tuttavia, Del ha indicato il punto dove Al, seduto al sole, azionava il rozzo telaio a mano e ha detto: «Lì c’è l’ultimo che è tornato».
«Tornato?» ho detto. «Da dove?»
Del mi ha fissato senza emozione, senza impazienza. «Tu appartieni al crucimorfo. Certo conosci la via della croce.»
Ho annuito. Ne sapevo abbastanza per capire che in quella direzione c’era solo uno dei molti e illogici cicli iterativi che di solito facevano deragliare i nostri dialoghi, ma ho cercato di mantenere un aggancio al filo sottile dell’informazione. «Allora» ho detto «Al è l’ultimo nato. L’ultimo a tornare. Ma altri… torneranno?»
Non ero sicuro di capire io stesso la domanda. Come si fa a parlare di nascita quando l’interlocutore non ha parole per indicare i figli, né il concetto di tempo? Ma sembrava che Del avesse capito. Ha mosso la testa in un cenno d’assenso.
Incoraggiato, ho proseguito. «Allora quando nascerà il prossimo Tre Ventine e Dieci? Quando tornerà?»
«Nessuno torna, finché non muore» ha risposto.
Di colpo mi è sembrato di capire. «Allora nessun nuovo bambino… nessuno tornerà, finché qualcuno non muore» ho detto. «Sostituite lo scomparso con un altro, per mantenere il gruppo a Tre Ventine e Dieci?»
Del ha risposto con quel tipo di silenzio che ho imparato a interpretare come un assenso.
Il quadro mi è sembrato abbastanza chiaro. I Bikura danno molta importanza al fatto di essere Tre Ventine e Dieci, e mantengono quindi la popolazione tribale a settanta unità: lo stesso numero segnato nell’elenco passeggeri della navetta precipitata su questo altopiano quattrocento anni fa. È poco probabile che si tratti di una coincidenza. Quando uno muore, consentono la nascita d’un bambino per rimpiazzare l’adulto. Semplice.
Semplice, ma impossibile. Natura e biologia non funzionano in questo modo elementare. A parte il problema della popolazione ridotta al minimo gregale, ci sono altre assurdità. Anche se è difficile dare un’età a questa gente dalla pelle liscia, è chiaro che non più di dieci anni separano il più giovane dal più anziano. Anche se si comportano come bambini, direi che la loro età è compresa fra i trentacinque e i quarantacinque anni standard. Ma allora dove sono quelli veramente anziani? Dove sono i genitori, i vecchi zii, le zie celibi? A questo ritmo, l’intera tribù arriverà alla vecchiaia più o meno nello stesso periodo. Che cosa succede, quando tutti superano l’età riproduttiva ed è il momento di sostituire i membri della tribù?
I Bikura conducono vita monotona e sedentaria. L’indice degli incidenti, anche se vivono quasi sull’orlo della Fenditura, è decisamente basso. Non ci sono animali da preda. Le variazioni stagionali sono minime e, quasi certamente, la provvista di cibo si mantiene costante. Tuttavia, pur ammettendo tutte queste premesse, nei quattrocento anni di storia di questo gruppo sconcertante ci saranno pur state delle epidemie, dei momenti in cui le liane hanno ceduto con frequenza superiore al normale e hanno fatto precipitare nella Fenditura gli abitanti del villaggio; o dei periodi in cui qualcosa ha messo in atto il secolare terrore delle compagnie d’assicurazione: un numero anomalo di morti improvvise…
E allora cosa fanno? Procreano per compensare la differenza e poi tornano al solito comportamento asessuato? Possibile che i Bikura siano così diversi da ogni società umana conosciuta, da andare in calore solo una volta ogni tanti anni… una volta a decennio? Una volta nella vita?
Seduto nella capanna, passo in rassegna le varie possibilità. Una è che questa gente abbia una vita lunghissima e che possa riprodursi per quasi tutta la sua durata, consentendo così il semplice rimpiazzo delle perdite della tribù. Ma questa ipotesi non spiega come mai siano tutti quasi coetanei, e neppure i meccanismi di una simile longevità. Le migliori medicine anti-invecchiamento a disposizione dell’Egemonia riescono a estendere la vita attiva solo poco oltre il limite dei cento anni standard. Misure sanitarie preventive hanno spostato verso la settantina — i miei anni — la vitalità della mezz’età; ma, a parte i trapianti clonali, la bioingegneria e altre agevolazioni per i ricchissimi, nella Rete dei Mondi nessuno può aspettarsi di metter su famiglia a settant’anni, né di ballare alla festa del suo centodecimo compleanno. Se cibarsi di radici di chalma e respirare l’aria pura dell’altopiano Punta d’Ala avesse un effetto sensazionale nel ritardare l’invecchiamento, tutti su Hyperion vivrebbero mangiando chalma, già da secoli il pianeta avrebbe un teleporter, e ogni cittadino dell’Egemonia in possesso della carta universale progetterebbe di passare qui le ferie e la pensione.
No, c’è una conclusione più logica: i Bikura vivono una vita di lunghezza normale, si riproducono a ritmo normale, ma uccidono i figli se non c’è necessità di rimpiazzi. Forse praticano l’astinenza o il controllo delle nascite — oltre a massacrare i neonati — finché l’intero gruppo non raggiunge un’età in cui presto servirà sangue nuovo. Un’epoca di nascite in massa spiegherebbe l’apparente età comune dei membri della tribù.
Ma chi insegna ai giovani? Che cosa accade ai genitori e agli altri anziani? I Bikura si trasmettono i rudimenti della loro rozza cultura e poi acconsentono alla propria morte? Sarebbe questa la “vera morte”, l’annullamento di una generazione intera? I Tre Ventine e Dieci eliminano forse gli individui alle due estremità della curva a campana dell’età?
Questo genere di speculazioni è inutile. Comincio a infuriarmi per la mia scarsa abilità nel risolvere i problemi. Stabiliamo una strategia, Paul, e comportiamoci di conseguenza. Muovi quelle chiappe pigre di gesuita.
PROBLEMA: Come distinguere i sessi?
SOLUZIONE: Con l’astuzia o con la forza costringi alcuni di questi poveri diavoli a sottoporsi a un esame medico. Scopri a che cosa si riferiscono il mistero del ruolo sessuale e il tabù della nudità. Una società che per il controllo demografico dipende da anni di rigida astinenza sessuale, si adatta alla mia nuova teoria.
PROBLEMA: Perché sono tanto fanatici nel mantenere la popolazione al livello di Tre Ventine e Dieci, il numero iniziale di individui della colonia?
SOLUZIONE: Continua a tormentarli finché non lo scopri.
PROBLEMA: Dove sono i bambini?
SOLUZIONE: Continua a far domande e a indagare finché non lo scopri. Forse l’escursione serale nel baratro è collegata a tutto questo. Forse laggiù c’è un asilo infantile. Oppure un mucchio di piccole ossa.
PROBLEMA: Che cosa significa “appartieni al crucimorfo” e “la via della croce”, se non sono un contorto residuo delle credenze religiose dei coloni originali?
SOLUZIONE: Scoprilo risalendo all’origine. La quotidiana discesa nel baratro non potrebbe essere di natura religiosa?
PROBLEMA: Che cosa c’è lungo la parete dell’abisso?
SOLUZIONE: Vai giù a vedere.
Domani, se il loro schema è sempre lo stesso, tutti i Tre Ventine e Dieci andranno nei boschi per fare provviste e vi resteranno per alcune ore. Stavolta non andrò con loro.
Stavolta andrò al burrone e scenderò la parete dell’abisso.
Giorno 105
Nove e trenta. Grazie, Signore, d’avermi permesso di vedere quel che ho visto oggi.
Grazie, Signore, d’avermi portato in questo luogo e in questo momento, per vedere la prova della Tua presenza.
Undici e venticinque. Edouard… Edouard!
Devo tornare. Per mostrarti tutto. Per mostrarlo a tutti.
Ho preparato tutto quel che mi serve, ho chiuso i film e i dischi dell’olocamera in una sacca intessuta con foglie di besto. Ho cibo, acqua, il maser che si va scaricando. Tenda. Sacco a pelo.
Se solo non m’avessero rubato le barre parascariche!
Forse i Bikura le hanno conservate. Ma no, ho perquisito le capanne e un tratto di foresta. Loro non saprebbero che cosa farsene.
Non importa!
Oggi me ne vado, se posso. Altrimenti, me ne vado al più presto.
Edouard! Ho tutto qui, nei film e nei dischi.
Le quattordici…
Impossibile, oggi, attraversare la foresta di fuoco. Il fumo mi ha ricacciato indietro, prima ancora che penetrassi nella zona attiva.
Sono tornato al villaggio e ho rivisto le olografie. Non c’è errore. Il miracolo è reale.
Quindici e trenta…
I Tre Ventine e Dieci torneranno da un momento all’altro. E se sapessero… se, guardandomi, intuissero che sono stato laggiù?
Potrei nascondermi.
No, non è necessario che mi nasconda. Dio non mi ha condotto così lontano e fatto vedere quel che ho visto solo per lasciarmi morire per mano di questi poveri figli.
Sedici e quindici…
I Tre Ventine e Dieci sono tornati. Sono andati nelle loro capanne senza degnarmi di un’occhiata.
Siedo sulla soglia e non riesco a trattenere un sorriso, una risata, una preghiera. Di buon’ora sono andato all’orlo della Fenditura, ho detto Messa, ho fatto la comunione. Gli abitanti del villaggio non si sono preoccupati di assistere.
Quando potrò andarmene? Il soprastante Orlandi e Tuk hanno detto che l’attività della foresta di fuoco durava tre mesi locali, centoventi giorni, e che poi sarebbero seguiti due mesi di relativa inattività. Tuk e io siamo arrivati qui il Giorno 87…
Non posso aspettare altri cento giorni, per portare la notizia al mondo… a tutti i mondi.
Se solo uno skimmer sfidasse le condizioni atmosferiche e le foreste di fuoco per venire a prendermi! Se solo potessi avere accesso ai satelliti dati che servono le piantagioni!
Tutto è possibile. Altri miracoli accadranno.
Le ventitré e cinquanta…
I Tre Ventine e Dieci sono scesi nella Fenditura. Il coro del vento della sera si è alzato tutt’intorno.
Quanto vorrei essere con loro, adesso! Laggiù, nella Fenditura.
Farò la cosa migliore. Mi inginocchierò qui accanto all’orlo del baratro e pregherò, mentre le note d’organo del pianeta e il cielo cantano, ora lo so, il loro inno a un Dio reale e presente.
Giorno 106
Mi sono svegliato in un mattino perfetto. Il cielo è d’un turchese intenso, il sole una vivida pietra rosso sangue incastonata nel cielo. Mi sono fermato fuori della capanna mentre la nebbia si schiariva, gli arboricoli terminavano il loro concerto mattutino di strida e l’aria cominciava a scaldarsi. Poi sono rientrato a guardare di nuovo nastri e dischi.
Mi rendo conto che negli appunti scritti in fretta ieri, sulle ali dell’entusiasmo, non ho fatto parola di quel che ho scoperto nell’abisso. Ne parlo ora. Ho i dischi, i nastri filmati, gli appunti sul comlog, ma c’è sempre la possibilità che solo i miei diari personali siano ritrovati.
Ieri mattina, alle sette e mezzo circa, mi sono calato nel burrone. Tutti i Bikura stavano raccogliendo provviste nella foresta. La discesa sembrava abbastanza agevole: in molti punti le liane si attorcigliavano quasi a formare una specie di scala di corda. Ma mentre mi lasciavo penzolare lungo la parete, il cuore mi batteva tanto forte da dolermi. C’è un abisso a picco di tremila metri, fino alle rocce e al fiume. A ogni istante, mi reggevo con forza almeno a due liane e procedevo a passo di lumaca, sforzandomi di non guardare l’abisso spalancato sotto i miei piedi.
Ho impiegato quasi un’ora a scendere i centocinquanta metri che, ne sono certo, i Bikura percorrono in dieci minuti. Alla fine ho raggiunto una sporgenza ricurva. Alcune liane scendono nel vuoto, ma la maggior parte si arriccia sotto una lastra di roccia a picco verso la parete del baratro, trenta metri all’interno. Qua e là sembra che le liane siano state intrecciate in modo da formare rozzi ponti sui quali i Bikura probabilmente camminano senza aiutarsi con le mani o aiutandosi pochissimo. Ho strisciato su queste funi intrecciate, afferrandomi ad altre liane per non cadere e recitando preghiere che non dicevo più da quand’ero bambino. Ho tenuto gli occhi fissi davanti a me per dimenticare che sotto quelle funi scricchiolanti e ondeggianti, di natura vegetale, c’era solo una distesa apparentemente infinita d’aria.
Lungo la parete dell’abisso c’era una larga sporgenza. Quando mi sono inoltrato di tre metri sul ripiano, mi sono infilato fra le liane e mi sono lasciato cadere sulla lastra di pietra da due metri e mezzo d’altezza.
Il ripiano, largo circa cinque metri, termina dopo un breve tratto verso nordest, dove inizia la grande massa della sporgenza. Ho seguito una specie di sentiero lungo il ripiano in direzione sudest e dopo aver percorso trenta passi mi sono fermato, sorpreso. Era davvero un sentiero! Un sentiero scavato nella solida roccia. La sua superficie lucida era di alcuni centimetri inferiore alla roccia piana circostante. Più avanti, dove supera un bordo ricurvo verso un livello più basso e più ampio, nella pietra erano stati intagliati dei gradini; anche questi così consunti da dare l’impressione che potessero cedere nel mezzo.
Mi sono seduto per qualche istante, colpito da una semplice constatazione. Nemmeno quattro secoli di percorso giornaliero da parte dei Tre Ventine e Dieci giustifica una simile erosione della solida roccia. Qualcuno, o qualcosa, ha usato questo sentiero molto prima che i coloni Bikura atterrassero sul pianoro. Qualcuno, o qualcosa, da millenni ha usato il sentiero.
Mi sono rialzato e ho continuato ad avanzare. L’unico rumore era il soffio gentile del vento nella Fenditura larga mezzo chilometro. Mi sono accorto che riuscivo a sentire il debole mormorio del fiume molto più in basso.
Il sentiero curvava a sinistra attorno a una sezione della parete rocciosa e lì terminava. Sono sbucato in un ampio riparo di pietra leggermente in pendenza e sono rimasto a occhi spalancati. Credo di essermi fatto il segno della croce senza accorgermene.
Dato che questa cengia correva dritta da nord a sud lungo uno squarcio di cento metri nella parete, a ovest potevo vedere il baratro di trenta chilometri della Fenditura fino al cielo aperto dove l’altopiano terminava. Ho subito capito che ogni sera il sole al tramonto avrebbe illuminato questa lastra della parete di roccia sotto la sporgenza. Non sarei rimasto sorpreso se, in primavera o durante il solstizio d’autunno, il sole di Hyperion, da quel punto di osservazione, apparisse incastonato direttamente nella Fenditura, con il suo bordo rosso proprio a contatto con le pareti rocciose tinte di rosa.
Mi sono girato sulla sinistra e ho fissato la parete dell’abisso. Il sentiero consunto attraversava l’ampio ripiano di pietra fino a una porta intagliata nella parete verticale. No, non era una semplice porta, era un portale riccamente scolpito, con l’architrave e i puntoni di pietra abbondantemente ornati. Ai lati della porta a due battenti c’erano alcune grandi finestre di vetro colorato, che si alzavano di venti metri almeno verso la sporgenza. Mi sono avvicinato per ispezionare la facciata. Chiunque avesse edificato quel posto, aveva allargato l’area sotto la sporgenza, tagliato nel granito dell’altopiano una parete liscia e perpendicolare e poi scavato direttamente nel fianco dello strapiombo. Ho passato la mano sopra i profondi rilievi delle sculture ornamentali intorno alla porta. Lisci. Anche lì, in un punto che il bordo della sporgenza nascondeva e proteggeva dagli elementi, ogni cosa era stata levigata, consunta, ammorbidita dal tempo. Da quante migliaia d’anni questo… questo tempio… era scolpito nella parete meridionale della Fenditura?
Il vetro colorato non era né vetro né plastica, ma una sostanza spessa e trasparente che al tocco sembrava dura come le pietre circostanti. E la finestra non era composta da una serie di pannelli; i colori roteavano, cambiavano sfumatura, si fondevano e si mischiavano l’uno all’altro come olio sull’acqua.
Ho tolto dallo zaino la torcia elettrica, ho toccato un battente e, quando l’alto portale si è mosso verso l’interno senza il minimo attrito, ho avuto un attimo di esitazione.
Sono entrato nel vestibolo (non c’è altra parola, per definirlo), ho attraversato uno spazio silenzioso di dieci metri e mi sono fermato davanti a un secondo muro fatto del medesimo materiale simile al vetro colorato che in quello stesso momento sfolgorava dietro di me e riempiva il vestibolo di una luce densa d’un centinaio di sfumature. Ho capito all’istante che al tramonto i raggi diretti del sole avrebbero riempito questa stanza, che colori incredibilmente accesi avrebbero colpito la parete di vetro di fronte a me e illuminato ciò che si trovava al di là, qualsiasi cosa fosse.
Ho trovato una porta contornata da un metallo sottile e scuro, incastonata nel vetro colorato, e ho varcato la soglia.
Su Pacem, basandoci su antiche fotografie e ologrammi, abbiamo ricostruito con la miglior precisione possibile la basilica di San Pietro, proprio come sorgeva nell’antico Vaticano. Lunga quasi duecentotrenta metri e larga centocinquanta, la chiesa può contenere cinquantamila fedeli, quando Sua Santità dice la Messa, ma noi non ne abbiamo mai più di cinquemila; nemmeno quando, ogni quarantatré anni, vi si riunisce il Concilio Episcopale Intergalattico. Nell’abside centrale, accanto alla nostra copia del trono del Bernini, la grande cupola s’innalza a più di centotrenta metri sull’altare: uno spettacolo impressionante.
Questo tempio era più vasto.
Nella penombra ho usato il raggio della torcia per constatare che mi trovavo in una singola, grande sala… un enorme salone scavato nella solida roccia. Ho calcolato che le pareti levigate toccavano il soffitto a un livello che probabilmente era solo a qualche metro dalla spianata sullo strapiombo dove i Bikura hanno le loro capanne. Qui non c’erano decorazioni né arredi, nessuna concessione allo stile e alla funzione dell’enorme sala piena d’echi, a parte l’oggetto collocato esattamente al centro.
In quel punto c’era un altare… un lastrone di pietra di cinque metri quadrati, attorno al quale era stata scavata la sala. E sull’altare si innalzava una croce.
Alta quattro metri, larga tre, scolpita nell’antico stile dei minuziosi crocifissi della Vecchia Terra, fronteggiava la parete di vetro colorato e sembrava in attesa che il sole e l’esplosione di luce ne incendiassero le pietre preziose incastonate: brillanti, zaffiri, rubini, lapislazzulì, lacrime di regina, onici e altre gemme che riconoscevo alla luce della torcia, a mano a mano che m’accostavo.
Mi sono inginocchiato a pregare. Ho spento la torcia e atteso per qualche minuto che i miei occhi riuscissero a distinguere la croce nella penombra fumosa. Si trattava senza dubbio del crucimorfo di cui avevano parlato i Bikura. E si trovava lì da parecchie migliaia d’anni come minimo, forse decine di migliaia… da molto prima che l’umanità lasciasse la Vecchia Terra. Quasi certamente da prima che Cristo predicasse in Galilea.
Ho pregato.
Oggi me ne sto seduto al sole, dopo aver rivisto gli olodischi. Ho trovato conferma di quello che avevo notato appena durante la risalita dello strapiombo, dopo la scoperta di quella che fra me chiamo “la basilica”. Nel costone esterno della basilica ci sono alcuni gradini che scendono nella Fenditura. Anche se sono meno consunti di quelli che portano alla basilica, sono ugualmente sconvolgenti. Dio solo sa quali altre meraviglie mi aspettano più in basso.
Devo far conoscere ai mondi questa scoperta!
Non mi sfugge l’ironia che sia stato proprio io a effettuarla. Se non fosse stato per Armaghast e per l’esilio, forse questa scoperta avrebbe aspettato per altri secoli. Forse la Chiesa sarebbe morta prima che questa rivelazione le infondesse nuova vita.
Ma ho fatto la scoperta!
In un modo o nell’altro, me ne andrò di qui e trasmetterò il mio messaggio.
Giorno 107
Sono prigioniero.
Stamattina, mentre facevo il bagno nel solito posto, vicino al punto dove il torrente si getta nel baratro, ho sentito un rumore: il Bikura che chiamo Del mi stava fissando a occhi spalancati. L’ho salutato, ma lui si è girato ed è corso via. Sono rimasto perplesso. Raramente i Bikura si muovono in fretta. Poi ho capito: anche se indossavo i calzoni, avevo violato il loro tabù lasciando che Del mi vedesse nudo dalla cintola in su.
Con un sorriso, scuotendo la testa, mi sono rivestito e sono tornato al villaggio. Se avessi saputo che cosa m’aspettava, avrei perso subito il sorriso.
Tutti i Tre Ventine e Dieci mi osservavano. Mi sono fermato a una decina di passi da Al. «Buongiorno» ho detto.
Alfa ha fatto segno verso di me, e cinque o sei Bikura mi hanno assalito, mi hanno afferrato le braccia e le gambe e mi hanno immobilizzato a terra. Beta si è fatto avanti e ha tirato fuori dalla veste una pietra affilata. Mentre lottavo inutilmente per liberarmi, mi ha tagliato i vestiti sul davanti e ha strappato i lembi fino a lasciarmi nudo.
Ho smesso di ribellarmi, mentre la folla avanzava. Tutti fissavano il mio corpo pallido e bisbigliavano fra loro. Sentivo il cuore battere forte. «Mi spiace d’avere offeso le vostre leggi» ho iniziato. «Ma non c’è motivo per…»
«Silenzio» ha intimato Alfa. Si è rivolto all’alto Bikura con la cicatrice sul palmo della mano… quello che chiamo Zed. «Non è del crucimorfo» ha detto.
Zed ha annuito.
«Lasciate che vi spieghi» ho cominciato, ma Alfa mi ha zittito con un manrovescio che mi ha fatto sanguinare le labbra e ronzare le orecchie. Nel suo gesto c’era la stessa ostilità che si metterebbe nello zittire un comlog premendo l’interruttore.
«Cosa dobbiamo fare di lui?» ha domandato Alfa.
«Chi non segue la croce deve morire della vera morte» ha risposto Beta, e la folla s’è mossa per farsi avanti. Molti impugnavano pietre affilate. «Chi non è del crucimorfo deve morire della vera morte» ha continuato Beta. La voce aveva il tono di compiaciuta finalità comune alle formule e alle litanie religiose.
«Ma io seguo la croce!» ho protestato, mentre la folla mi tirava in piedi. Ho stretto il crocifisso che porto al collo e ho lottato contro parecchie mani. Alla fine sono riuscito a sollevare sopra la testa la piccola croce.
Alfa ha alzato la mano e la folla si è fermata. Nell’improvviso silenzio, sentivo il mormorio del fiume tre chilometri più sotto, nella Fenditura. «Porta davvero una croce» ha detto Alfa.
Del ha insistito. «Ma non è del crucimorfo! L’ho visto. Non è come pensavamo. Lui non è del crucimorfo!» Nella sua voce c’era un tono di morte.
Ho imprecato contro me stesso, per la mia negligenza e stupidità. Il futuro della Chiesa dipendeva dalla mia sopravvivenza; avevo gettato via tutt’e due le cose, credendo che i Bikura fossero bambini ottusi e inoffensivi.
«Chi non segue la croce deve morire della vera morte» ha ripetuto Beta. Era la sentenza finale.
Già settanta mani sollevavano pietre affilate. Sapendo che era la mia ultima possibilità o la condanna finale, ho gridato: «Sono sceso nell’abisso e ho pregato al vostro altare! Seguo la croce!».
Alfa e la folla hanno esitato. Vedevo che lottavano con la nuova idea. Non era facile, per loro.
«Seguo la croce e voglio essere del crucimorfo» ho detto con tutta la calma possibile. «Sono stato al vostro altare.»
«Chi non segue la croce deve morire della vera morte» ha replicato Gamma.
«Ma lui segue la croce» ha detto Alfa. «Ha pregato nella sala.»
«Impossibile» ha detto Zed. «Lì pregano i Tre Ventine e Dieci e lui non è dei Tre Ventine e Dieci.»
«Sapevamo già prima che non è dei Tre Ventine e Dieci» ha detto Alfa, corrugando un poco la fronte mentre affrontava il concetto di passato.
«Non è del crucimorfo» ha obiettato Delta-due.
«Chi non è del crucimorfo deve morire della vera morte» ha detto Beta.
«Lui segue la croce» ha replicato Alfa. «Non può quindi diventare del crucimorfo?»
C’è stato un gran clamore. Nel subbuglio generale ho cercato di liberarmi, ma le mani non hanno allentato la stretta.
Detto Beta, ora più perplesso che ostile. «Perché non dovrebbe morire della vera morte? Dobbiamo prendere le pietre e tagliargli la gola in modo che il sangue scorra finché il cuore non smette di battere. Non è del crucimorfo.»
«Segue la croce» ha detto Alfa. «Non può diventare del crucimorfo?»
Stavolta alla domanda è seguito il silenzio.
«Lui segue la croce e ha pregato nella sala del crucimorfo» ha continuato Alfa. «Non deve morire della vera morte.»
«Tutti muoiono della vera morte» ha detto un Bikura che non ho riconosciuto. Le braccia mi dolevano per lo sforzo di reggere in alto il piccolo crocifisso. «Tranne i Tre Ventine e Dieci» ha terminato l’anonimo Bikura.
«Perché hanno seguito la croce, hanno pregato nella sala e sono diventati del crucimorfo» ha detto Alfa. «Diventare del crucimorfo?»
Sono rimasto lì, il freddo metallo del piccolo crocifisso stretto in mano, ad aspettare il verdetto. Avevo paura di morire… sentivo davvero la paura, ma la parte principale del mio cervello sembrava quasi distaccata. Avevo un solo rimpianto: di non riuscire a trasmettere a un universo incredulo la notizia della basilica.
«Venite, ne parleremo» ha detto Beta al gruppo, poi mi hanno portato con loro mentre tornavano in silenzio al villaggio.
Mi tengono prigioniero nella capanna. Non ho avuto la possibilità di prendere il maser da caccia: alcuni mi tenevano fermo, mentre gli altri svuotavano la capanna di quasi tutti i miei averi. Hanno portato via i vestiti e per coprirmi mi hanno lasciato solo una delle loro vesti rozzamente intessute.
Più sto qui, più la rabbia e l’ansia aumentano. Mi hanno preso il comlog, l’olocamera, i dischi, i chip, tutto. Mi resta solo una cassa di apparecchiature medico-diagnostiche, ma si trova al vecchio campo e non mi aiuta a documentare il miracolo nella Fenditura. Se distruggono le apparecchiature… e poi mi uccidono… non resteranno documentazioni della basilica.
Se avessi un’arma, potrei uccidere le guardie e
oh mio Dio cosa penso? Edouard, cosa devo fare?
Anche se sopravvivo a questa situazione… se torno a Keats… se mi procuro un passaggio per la Rete… chi mi crederebbe? Dopo nove anni d’assenza da Pacem… a causa del debito temporale prodotto dal balzo quantico… sarei solo un vecchio che torna con le stesse menzogne per cui è stato esiliato…
Oh, mio Dio, se distruggono i dati, concedimi di distruggere loro.
Giorno 110
Il terzo giorno hanno deciso la mia sorte.
Poco dopo mezzogiorno, Zed e un altro che chiamo Teta-primo sono venuti a prendermi. Ho battuto le palpebre, quando mi hanno portato fuori alla luce. I Tre Ventine e Dieci formavano un ampio semicerchio accanto all’orlo dello strapiombo. Ho pensato che mi avrebbero gettato di sotto, poi ho notato il falò.
Avevo sempre creduto che i Bikura fossero così primitivi da non conoscere più l’arte di accendere il fuoco. Non lo usavano per scaldarsi, e le loro capanne erano sempre buie. Non li ho mai visti cucinare un pasto, nemmeno gli arboricoli di cui qualche rara volta si cibavano. Ma ora il fuoco ardeva allegramente e solo loro potevano averlo acceso. Ho guardato con cosa lo alimentavano.
Bruciavano i miei indumenti, il mio comlog, i miei appunti, le cassette, i videochip, i dischi dati, l’olocamera… tutto ciò che conteneva delle documentazioni. Ho inveito contro di loro, ho cercato di avventarmi a spegnere il fuoco, li ho insultati con parole che non adoperavo più dagli anni in cui ero un ragazzo di strada. Mi hanno ignorato.
Alla fine Alfa mi è venuto vicino. «Diventerai del crucimorfo» ha detto con calma.
Non m’importava. Mi hanno ricondotto alla capanna e lì ho pianto per un’ora. Non ci sono guardie alla porta. Un minuto fa, sulla soglia, ho preso in esame la possibilità di correre a rifugiarmi nella foresta di fuoco, poi ho pensato a una corsa più breve, ma altrettanto fatale, verso la Fenditura.
Non ho fatto niente.
Manca poco al tramonto. Già il vento si alza. Presto. Presto.
Giorno 112
Sono trascorsi solo due giorni? È stata un’eternità.
Stamattina non si è staccato. Non si è staccato.
L’immagine dell’analizzatore medico è proprio qui di fronte a me, ma ancora non posso crederci. Eppure devo crederci. Sono del crucimorfo, ora.
Poco prima del tramonto sono venuti a prendermi. Tutti insieme. Non mi sono ribellato, mentre mi portavano all’orlo della Fenditura. Erano più agili di quanto credessi, nell’adoperare le liane. Li ho rallentati, ma sono stati pazienti, mi hanno mostrato i punti migliori dove mettere i piedi, la via più rapida.
Il sole di Hyperion, calato sotto le nuvole basse, era visibile al di sopra della parete rivolta a ovest, mentre percorrevamo gli ultimi metri per arrivare alla basilica. Il canto del vento serale era più intenso di quanto mi aspettassi: sembravamo intrappolati fra le canne di un enorme organo di chiesa. Le note andavano da un brontolio di basso così profondo da farmi vibrare ossa e denti, fino a uno stridio acuto e penetrante che scivolava negli ultrasuoni.
Alfa ha spalancato i battenti del portale esterno. Abbiamo attraversato il vestibolo e siamo entrati nella basilica centrale. I Tre Ventine e Dieci hanno formato un ampio cerchio attorno all’altare e all’alta croce. Non ci sono state litanie. Né canti liturgici. Né cerimonie. Siamo rimasti semplicemente lì, in silenzio, mentre il vento ruggiva all’esterno fra le colonne scanalate ed echeggiava nella grande sala scavata nella roccia… echeggiava, risonava, cresceva di volume, al punto che ho dovuto tapparmi le orecchie. E intanto i raggi del sole riempivano la sala di tonalità sempre più scure d’ambra, d’oro, d’azzurro e ancora d’ambra… colori così intensi da rendere l’aria torbida di luce, un velo di pittura aderente alla pelle. La croce ha raccolto la luce e l’ha trattenuta in ciascuna delle mille pietre preziose… anche, mi sembrò, dopo il tramonto, quando le finestre scolorivano in una penombra grigia. Sembrava che il grande crocifisso avesse assorbito la luce e la irradiasse su di noi, dentro di noi. Poi anche la croce è diventata scura e il vento è morto. Nell’improvvisa oscurità, Alfa ha detto a bassa voce: «Portiamolo con noi».
Siamo usciti sull’ampio ripiano di pietra; Beta era lì, munito di torce. Mentre le distribuiva ad alcuni individui scelti, mi sono domandato se i Bikura riservassero il fuoco a scopi rituali. Poi Beta ha fatto strada e siamo scesi lungo gli stretti scalini intagliati nella roccia.
All’inizio li ho seguiti lentamente, atterrito, aggrappandomi alla pietra levigata e cercando qualsiasi rassicurante sporgenza di radici o di pietre. L’abisso alla nostra destra era così ripido e senza fine da confinare quasi con l’assurdo. Scendere l’antica scalinata era molto peggio che lasciarsi penzolare dalle liane lungo la parete dello strapiombo. Qui dovevo guardare in basso ogni volta che posavo il piede sui gradini stretti e resi lisci dal tempo. Mettere il piede in fallo e precipitare, sembrava prima probabile, poi inevitabile.
Provai l’impulso di bloccarmi, di tornare almeno alla sicurezza della basilica, ma gran parte dei Tre Ventine e Dieci era dietro di me e non pensavo che si sarebbero scostati per farmi passare. Ma, ancor più della paura, provavo l’impellente curiosità di scoprire che cosa c’era in fondo alla scalinata. Mi sono soffermato quanto bastava per dare un’occhiata all’orlo della Fenditura, trecento metri più in alto: le nuvole erano scomparse, le stelle erano spuntate e nel cielo nero risplendeva come ogni notte il balletto delle scie delle meteoriti. Allora ho chinato la testa, ho cominciato a recitare sottovoce il rosario e ho seguito nell’abisso insidioso la luce delle torce e i Bikura.
Non credevo che la scalinata ci portasse fino in fondo alla Fenditura. Quando, dopo la mezzanotte, ho capito che saremmo scesi fino al fiume, ho creduto che non ci saremmo arrivati prima del mezzogiorno seguente. Mi sbagliavo.
Abbiamo raggiunto la base della Fenditura poco dopo il sorgere del sole. Le stelle ancora splendevano nel tratto di cielo fra le pareti dell’abisso che si ergevano a una distanza impossibile su entrambi i lati. Esausto, ho continuato a barcollare, un gradino dopo l’altro e, a poco a poco, mi sono accorto che non c’erano più scalini. Ho fissato il cielo e mi sono chiesto scioccamente se lì le stelle rimanessero visibili anche di giorno, come nel pozzo in cui m’ero calato da bambino a Villefranche-sur-Saône.
«Ecco» ha detto Beta. Era la prima parola pronunciata in molte ore; si è sentita appena, sopra il ruggito del fiume. I Tre Ventine e Dieci si sono fermati e sono rimasti immobili. Sono crollato sulle ginocchia e poi su un fianco. Non sarei riuscito a risalire la scalinata… né in un giorno, né in una settimana, forse mai. Ho chiuso gli occhi per dormire, ma il sordo combustibile della tensione nervosa continuava ad ardere dentro di me. Ho guardato dall’altra parte dell’abisso. Il fiume era più largo di quanto avessi previsto: almeno settanta metri da riva a riva. Il rumore era molto più che un semplice rombo: mi sono sentito consumato dal ruggito d’un animale enorme.
Mi sono alzato a sedere e ho fissato una chiazza di tenebra sulla parete opposta. Un’ombra più scura delle altre, più regolare del frastagliato mosaico di contrafforti, crepacci e colonne che variegava la parete a picco; un’ombra perfettamente quadrata, di almeno trenta metri di lato. Una porta, o un foro nella parete. Mi sono rialzato a fatica e ho guardato a valle del fiume, lungo la parete appena discesa: sì, eccola lì. L’altra entrata, quella verso cui Beta e gli altri già si dirigevano, era debolmente visibile alla luce delle stelle.
Avevo trovato un ingresso nel labirinto di Hyperion.
«Sapeva che Hyperion è uno dei nove mondi labirinto?» mi aveva chiesto qualcuno, sulla navetta. Sì, era stato il giovane prete di nome Hoyt. Avevo annuito e lasciato perdere l’idea. Ero interessato ai Bikura (in realtà, più per la sofferenza dell’esilio che mi ero inflitto da solo), non ai labirinti e a chi li aveva costruiti.
Nove mondi hanno un labirinto. Nove, fra centosettantasei mondi della Rete e altri duecento e passa pianeti delle colonie e del Protettorato. Nove mondi su oltre ottomila pianeti esplorati, pur superficialmente, dopo l’Egira.
Ci sono archeostorici planetari che dedicano la vita allo studio dei labirinti. Io, no. Li ho sempre considerati una materia sterile, vagamente irreale. Ora camminavo verso uno di questi labirinti con i Tre Ventine e Dieci; e il Kans ruggiva, vibrava e, con i suoi spruzzi, minacciava di spegnere le torce.
I labirinti sono stati scavati… perforati… creati anzi, quasi un milione d’anni standard fa. Le caratteristiche, è inevitabile, erano sempre le stesse; l’origine, un mistero mai risolto.
I pianeti labirinto sono sempre simili alla Terra, almeno 7,9 nella scala Solmev, e ruotano sempre attorno a una stella di tipo G; eppure si trovano sempre e solo su mondi tettonicamente morti, più simili a Marte che alla Vecchia Terra. I tunnel si trovano in profondità (in genere a un minimo di dieci chilometri; a volte anche a trenta) e traforano come catacombe l’intera crosta del pianeta. Su Svoboda, non lontano dal sistema di Pacem, mezzi teleguidati hanno esplorato più di ottocentomila chilometri di gallerie. In ogni pianeta labirinto i tunnel hanno una sezione di trenta metri quadrati e sono stati ottenuti grazie a tecnologie non ancora note all’Egemonia. Una volta, in una rivista archeologica, ho letto che Kemp-Höltzer e Weinstein postulano una “scavatrice a fusione” che spiegherebbe le superfici perfettamente levigate e la mancanza di incastri, ma la loro teoria non spiega da dove sono arrivati i Costruttori e le loro macchine, né il motivo per cui hanno dedicato secoli interi a un’opera d’ingegneria all’apparenza così inutile. Ciascun mondo labirinto, Hyperion incluso, è stato sondato ed esplorato. Non si è mai trovato niente. Nessun segno di macchinario da scavo, nessun elmetto arrugginito da minatore, non un solo pezzetto di plastica né i resti d’un pacchetto di sigarette. I ricercatori spesso non hanno neppure identificato i pozzi d’ingresso e d’uscita. Nessuna ipotesi sulla presenza di metalli pesanti o di minerali preziosi è bastata a spiegare una simile impresa monumentale. Nessuna leggenda, nessun manufatto dei Costruttori di Labirinti sono arrivati fino a noi. Nel corso degli anni mi sono interessato un poco a questo mistero, ma non da un punto di vista personale. Finora.
Siamo entrati nel tunnel. L’imboccatura non era un quadrato perfetto. L’erosione e la gravità, per un centinaio di metri dentro la parete dell’abisso, hanno trasformato in una rozza grotta quello che era stato un tunnel perfetto. Beta si è fermato dove il pavimento ridiventa liscio e ha spento la torcia. Gli altri Bikura l’hanno imitato.
Buio fitto. Il tunnel aveva fatto una curva sufficiente a tagliar fuori la luce delle stelle. Non era la prima volta che entravo in una caverna: spente le torce, non pensavo di abituarmi subito all’oscurità quasi totale. Invece è accaduto.
Nel giro di trenta secondi ho cominciato a percepire un chiarore roseo, dapprima fievole, poi sempre più intenso, più luminoso del cielo di Pacem sotto la sua luna una e trina. La luce proveniva da cento… mille… sorgenti. Sono riuscito a individuarne la causa proprio mentre i Bikura cadevano in ginocchio.
Le pareti e il soffitto della caverna erano incrostati di croci, di grandezza che variava da qualche millimetro a circa un metro. Ciascuna brillava di una propria luce intensa, rosa. Invisibili mentre le torce erano accese, le croci ora bagnavano di luce il tunnel. Mi sono accostato a una croce incastonata nella parete più vicina. Larga una trentina di centimetri, pulsava di un lucore morbido, organico. Non era un oggetto scolpito nella pietra o incastonato nella parete. Era una creatura organica, viva, simile a corallo morbido. E tiepida al tocco.
Ho sentito un lievissimo sussurro… no, non un suono, una specie di fremito nell’aria fredda, e mi sono girato in tempo per vedere che qualcosa entrava nella caverna.
I Bikura erano sempre inginocchiati; testa china, occhi bassi. Io sono rimasto in piedi. Non ho distolto un momento gli occhi dalla cosa che si muoveva fra i Bikura genuflessi.
La creatura aveva una vaga forma d’uomo, ma non era umana. Era alta almeno tre metri. Anche in posizione di riposo, la sua superficie argentata sembrava muoversi e fluire come mercurio sospeso a mezz’aria. Il chiarore rossastro delle croci incastonate nelle pareti del tunnel si rifletteva sulle superfici nette e rimbalzava sulle lame metalliche ricurve che sporgevano dalla fronte della creatura, dai quattro polsi, dai gomiti bizzarramente articolati, dalle ginocchia, dalla schiena corazzata e dal torace. La creatura è passata fra i Bikura, e quando ha teso quattro lunghe braccia, con le mani spalancate e le dite che scattavano in posizione con un rumore di bisturi cromati, mi ha assurdamente ricordato Sua Santità nell’atto di concedere la benedizione ai fedeli su Pacem.
Non avevo dubbi: stavo guardando il leggendario Shrike.
In quel momento devo essermi mosso, o devo aver provocato un rumore, perché due grandi occhi rossi si sono girati dalla mia parte e sono rimasto ipnotizzato dalla danza di luce nei prismi sfaccettati: non era una semplice luce riflessa, ma un crudele bagliore rosso sangue che sembrava ardere nel cranio uncinato della creatura e pulsare nelle terribili gemme poste dove Dio ha inteso che ci siano gli occhi.
Poi la creatura si è mossa… o meglio, non si è mossa, ma ha smesso di essere lì ed era qui, china a meno d’un metro da me, con le braccia bizzarramente articolate che mi circondavano con un recinto di lame e di lucido acciaio argentato. Ansimando forte, incapace di riprendere fiato, ho visto il riflesso del mio viso cereo e distorto danzare sulla superficie del guscio metallico della creatura e sugli occhi ardenti.
Confesso d’avere provato più esaltazione che paura. Si stava verificando qualcosa d’inspiegabile. Benché forgiato nella logica gesuitica e temprato nel freddo bagno della scienza, in quell’istante ho capito l’antica ossessione che un altro genere di paura prova di fronte al timor di Dio: il brivido dell’esorcismo, l’irragionevole roteare della possessione derviscia, il burattinesco rituale del Tarocco, la resa quasi erotica della seduta spiritica, la trance gnostica Zen. Ho capito in quell’istante con quanta sicurezza l’affermazione dei demoni o l’evocazione di Satana confermano la realtà della loro antitesi mistica, il Dio di Abramo.
Senza pensare a queste cose, ma sentendole tutte, ho aspettato l’abbraccio dello Shrike con l’impercettibile tremito d’una vergine sposa.
La creatura è scomparsa.
Senza nessuno scoppio di tuono, senza puzza improvvisa di zolfo, senza neppure il rumore scientificamente esatto dell’aria che si precipita in uno spazio lasciato vuoto. Un istante prima la creatura era lì, mi circondava con la meravigliosa certezza di morte delle sue lame affilate; l’istante dopo, era scomparsa.
Intontito, non mi sono mosso. Ho battuto le palpebre, mentre Alfa si alzava e s’accostava a me nella penombra degna del pennello di Bosch. Si è fermato dove poco prima c’era lo Shrike e ha teso le braccia in una patetica parodia della micidiale perfezione alla quale avevo appena assistito; ma sul suo viso mite da Bikura non c’era segno che avesse visto la creatura. Ha fatto un gesto goffo a mani aperte, che sembrava includere il labirinto, le pareti della caverna, le decine di croci luminose incastonate nella roccia.
«Crucimorfo» ha detto. I Tre Ventine e Dieci si sono alzati, si sono avvicinati, poi si sono inginocchiati di nuovo. Nella luce soffusa ho guardato la loro faccia mite e mi sono inginocchiato anch’io.
«Seguirai la croce per il resto dei tuoi giorni» ha detto Alfa con voce che aveva il tono della litania. Gli altri Bikura hanno ripetuto la frase come fosse un canto liturgico.
«Sarai del crucimorfo per il resto dei tuoi giorni» ha detto Alfa, poi, mentre gli altri ripetevano le parole, ha tolto dalla parete un piccolo crucimorfo. Non più lungo di dieci centimetri, si è staccato con un debolissimo schiocco e ha perso luminosità sotto i miei occhi. Dalla veste Alfa ha tirato fuori una cordicella, l’ha legata a una piccola protuberanza del braccio superiore della croce e l’ha sollevata sopra la mia testa. «Sarai del crucimorfo ora e sempre» ha detto.
«Ora e sempre» hanno fatto eco i Bikura.
«Amen» ho mormorato io.
Beta mi ha fatto segno di aprire la veste. Alfa ha abbassato la piccola croce e me l’ha appesa al collo. Mi è sembrata fredda, sul petto; il retro era perfettamente piatto, perfettamente liscio.
I Bikura si sono alzati e si sono diretti all’ingresso della caverna; sembravano di nuovo apatici e indifferenti. Li ho guardati uscire, poi, con cautela, ho toccato la croce, l’ho sollevata e l’ho esaminata. Il crucimorfo era freddo, inerte. Se davvero pochi istanti prima era vivo, ora non mostrava segno di vita. Al tatto sembrava corallo, più che cristallo o roccia, e sul retro liscio non c’era traccia di materiale adesivo. Ho cercato di capire quali effetti fotochimici potevano essere responsabili della luminosità. Ho pensato al fosforo naturale, alla bioluminescenza e alle altre possibilità che l’evoluzione creasse organismi del genere. Ho cercato di spiegarmi in che modo, se pure c’era, la loro presenza lì si collegasse al labirinto e agli eoni necessari a sollevare l’altopiano affinché fiume e canyon tagliassero uno dei tunnel. Ho fatto ipotesi sulla basilica e su chi l’ha costruita, sui Bikura, sullo Shrike, su me stesso. Alla fine, ho smesso: ho chiuso gli occhi e ho pregato.
Quando sono uscito dalla caverna, con il crucimorfo freddo contro il petto, sotto la veste, i Tre Ventine e Dieci erano chiaramente pronti a iniziare la risalita dei tre chilometri di scalini. Ho alzato gli occhi verso la pallida fetta di cielo mattutino fra le pareti della Fenditura.
«No!» ho gridato, con una voce che quasi si è persa nel fragore del fiume. «Ho bisogno di riposo. Riposo!» Sono caduto in ginocchio sulla sabbia, ma cinque o sei Bikura mi si sono avvicinati, mi hanno tirato in piedi con gentilezza e mi hanno spinto verso la scalinata.
Ho provato, lo sa Iddio se ho provato; ma dopo un paio d’ore di salita ho sentito le gambe cedere e sono crollato, scivolando sulla pietra, incapace di evitare la caduta di seicento,metri sulle rocce e nel fiume. Ricordo d’avere stretto il crucimorfo, sotto la stoffa pesante; poi una decina di mani mi ha bloccato, mi ha sollevato, mi ha portato di peso. Dopo, non ricordo altro.
Fino a stamattina. Mi sono svegliato quando i raggi del sole appena sorto hanno riversato la loro luce nell’apertura della capanna. Avevo addosso solo la veste: un rapido tocco mi ha assicurato che il crucimorfo era ancora appeso alla cordicella di fibra. Mentre guardavo il sole levarsi sulla foresta, ho capito di aver perso un giorno, e di avere in qualche modo dormito non solo durante la risalita della scalinata senza fine (come hanno potuto, questi piccoli uomini, portarmi per due chilometri e mezzo lungo quella salita verticale?), ma anche il giorno e la notte seguenti.
Mi sono guardato in giro. Il comlog e le altre apparecchiature di registrazione sono scomparsi. Rimangono solo l’analizzatore medico e alcuni programmi antropologici resi inutili dalla distruzione degli altri strumenti. Scuotendo la testa, sono andato al torrente a lavarmi.
I Bikura dormono. Ora che ho partecipato al loro rituale e che “sono diventato del crucimorfo”, hanno perso interesse nei miei confronti. Mentre mi spogliavo per fare il bagno, ho deciso di mostrare un’uguale mancanza d’interesse nei loro confronti. Ho deciso di andarmene, appena avrò riacquistato le forze. Se occorre, troverò un percorso che giri attorno alla foresta di fuoco. Posso scendere la scalinata e seguire il Kans, se necessario. Sono più che mai convinto che sia indispensabile informare il mondo esterno dell’esistenza di questo pianeta e dei suoi prodigiosi manufatti.
Mi sono tolto la veste pesante. Pallido e tremante, sono rimasto nudo nella luce del mattino e ho provato a togliermi dal petto il piccolo crucimorfo.
Non si è staccato.
È lì, come se facesse parte della mia carne. Ho grattato, tirato, strappato la cordicella finché non s’è rotta. Ho artigliato il grumo a forma di croce. Non si è staccato. Come se la carne fosse incollata ai suoi bordi. A parte i graffi prodotti dalle unghie, non ho sentito dolore, nessuna sensazione fisica, nel crucimorfo e nella carne circostante: solo puro e semplice terrore nell’anima al pensiero che quella cosa si fosse attaccata a me. Passato il primo istante di panico, sono rimasto a sedere per un minuto; poi mi sono rivestito in fretta e sono corso al villaggio.
Il coltello è sparito, come il maser, le forbici, il rasoio… qualsiasi cosa possa aiutarmi a tirar via l’escrescenza sul petto. Le unghie hanno lasciato lividi sanguinosi sulla rossa croce in rilievo. Allora mi sono ricordato dell’analizzatore medico. Mi sono passato sul petto il ricettore, ho letto il diskey, ho scosso la testa incredulo e ho eseguito l’intera analisi. Dopo un po’ ho chiesto una copia dei risultati e sono rimasto immobile a lungo.
E ora me ne sto qui seduto, con le lastre in mano. Il crucimorfo compare chiaramente nelle lastre soniche e crociate… e anche le fibre interne che si diramano come tentacoli, come radici, in tutto il mio corpo.
Gangli in eccesso s’irradiano da uno spesso nucleo all’altezza dello sterno e mi riempiono di filamenti tutto il corpo… un incubo di nematodi. Per quanto posso dire basandomi sull’analizzatore da campo, i nematodi terminano nell’amigdala e negli altri gangli basali dei due emisferi cerebrali. La temperatura, il metabolismo e il livello linfocitico sono normali. Non c’è invasione di tessuti estranei. Secondo l’analizzatore, i filamenti nematodici sono il risultato di estese ma semplici metastasi. Secondo l’analizzatore, il crucimorfo stesso si compone di tessuti familiari… il DNA è il mio. Sono del crucimorfo.
Giorno 116
Ogni giorno percorro avanti e indietro i confini della mia gabbia: le foreste di fuoco a sud e a est, le forre boscose a nordest, la Fenditura a nord e a ovest. I Tre Ventine e Dieci non mi permettono di scendere al di sotto della basilica. Il crucimorfo non mi permette di allontanarmi a più di dieci chilometri dalla Fenditura.
All’inizio non potevo crederci. Avevo deciso di entrare nella foresta di fuoco confidando, per attraversarla, nella fortuna e nell’aiuto di Dio. Ma mi ero inoltrato solo per un paio di chilometri, quando un dolore acuto m’ha colpito al petto, alle braccia, alla testa. Ero sicuro di essere vittima d’un grave attacco cardiaco, ma appena sono tornato verso la Fenditura i sintomi sono scomparsi. Ho fatto altre prove, con risultati sempre identici. Appena mi avventuro all’interno della foresta di fuoco, lontano dalla Fenditura, il dolore torna e aumenta finché non faccio marcia indietro.
Comincio a capire altre cose. Ieri, mentre facevo delle esplorazioni verso nord, mi sono imbattuto per caso nel relitto della navetta originaria. Ai margini della foresta di fuoco, accanto a una gola, restano solo rottami metallici coperti di liane. Ma, acquattato fra le centine di fibrolega dell’antica navetta, ho potuto immaginare la gioia dei settanta superstiti, il breve tragitto fino alla Fenditura, la scoperta della basilica e… e che cosa? Da questo punto in poi, le congetture sono inutili; ma rimangono dei sospetti. Domani voglio tentare un altro esame fisico di un Bikura. Forse, ora che “sono del crucimorfo”, non si opporranno.
Ogni giorno faccio un’analisi medica di me stesso. I nematodi rimangono… forse più fitti, forse no. Sono convinto che siano semplici parassiti, anche se il mio corpo non ha reagito alla loro presenza. Mi scruto la faccia, nella pozza accanto alla cascata e vedo solo gli stessi lineamenti affilati e sempre più vecchi che negli ultimi anni ho imparato a detestare. Stamattina, guardando il mio riflesso nell’acqua, ho spalancato la bocca con la mezza idea di scoprire, nel palato e in gola, filamenti grigi e grappoli di nematodi. Non c’era niente.
Giorno 117
I Bikura sono asessuati. Non casti, ermafroditi, sottosviluppati… ma semplicemente privi d’organi sessuali. Mancano di genitali esterni o interni, come la bambola di flussoschiuma d’una bambina. Non c’è segno che pene o testicoli o gli analoghi organi femminili si siano atrofizzati o siano stati alterati chirurgicamente. Non c’è segno che siano mai esistiti. L’urina passa attraverso un’uretra primitiva che termina in una piccola sacca contigua all’ano: una sorta di rozza cloaca.
Beta mi ha permesso d’esaminarlo. L’analizzatore medico ha confermato ciò che i miei occhi non riuscivano a credere. Anche Del e Teta si sono lasciati esaminare. Non ho più dubbi: tutti i Tre Ventine e Dieci sono ugualmente asessuati. Non c’è segno che siano stati… alterati. Direi che sono nati in questo modo, ma da quali genitori? E come contano di riprodursi, questi grumi asessuati di argilla umana? La risposta è certo legata al crucimorfo, chissà in che modo.
Terminata l’analisi medica dei Bikura, mi sono spogliato e ho esaminato me stesso. Il crucimorfo mi sporge dal petto come tessuto cicatriziale, ma sono sempre umano.
Per quanto ancora?
Giorno 133
Alfa è morto.
Ero con lui, tre mattine fa, quando è caduto. Ci trovavamo a circa tre chilometri a est del villaggio, in cerca di tuberi di chalma fra i grossi macigni nelle vicinanze della Fenditura. Per gran parte degli ultimi due giorni era piovuto e le rocce erano molto scivolose. Ho alzato lo sguardo giusto in tempo per vedere Alfa perdere l’appoggio e scivolare lungo un’ampia lastra di roccia giù nello strapiombo. Non ha gridato. L’unico rumore è stato il fruscio della veste contro la pietra, seguito dopo alcuni secondi da un tonfo nauseante da melone spiaccicato quando Alfa ha colpito una sporgenza, ottanta metri più sotto.
Ho impiegato un’ora per trovare il modo di scendere fino a lui. Già prima d’iniziare l’infida discesa, sapevo di essere troppo in ritardo per aiutarlo. Ma era mio dovere.
Il corpo di Alfa era incuneato per metà fra due grossi sassi. Il Bikura era certo morto sul colpo. Braccia e gambe erano rotte; la parte destra del cranio, schiacciata. Sangue e materia cerebrale impiastravano la roccia bagnata, simili ai rifiuti di un triste picnic. Ho pianto, fermo davanti al cadavere della piccola creatura. Non so perché, ma ho pianto. E mentre piangevo, gli ho somministrato l’estrema unzione e ho pregato Iddio d’accogliere l’anima di quel poveretto privo di sesso. Più tardi ho avvolto in alcune liane il cadavere, ho risalito faticosamente gli ottanta metri di scarpata e, fermandomi di frequente per riprendere fiato, ho portato con me quei resti maciullati.
Al villaggio, i Bikura hanno mostrato scarso interesse per il cadavere di Alfa. Alla fine Beta e alcuni altri si sono avvicinati e hanno fissato con indifferenza i miseri resti. Nessuno ha chiesto com’era morto. Dopo qualche minuto, la piccola folla si è dispersa.
Più tardi ho portato il cadavere di Alfa al promontorio dove, tante settimane fa, avevo seppellito Tuk. Stavo scavando con una pietra piatta una fossa poco profonda, quando è comparso Gamma. Il Bikura ha spalancato gli occhi e per un istante ho creduto di scorgere sul suo viso mite un’emozione.
«Cosa fai?» mi ha chiesto.
«Lo seppellisco.» Ero troppo stanco per dire dell’altro. Mi sono appoggiato a una grossa radice di chalma per riposarmi.
«No.» Era un ordine. «È del crucimorfo.»
Lo fissai, mentre si girava e tornava in fretta al villaggio. Scomparso il Bikura, tirai via il rozzo telo di fibra che avevo steso sul cadavere.
Indubbiamente Alfa era morto. Non importava più, a lui e a tutto l’universo, se era o no del crucimorfo. La caduta l’aveva spogliato di gran parte degli indumenti e di tutta la dignità. Il lato destro del cranio era rotto e vuoto come il guscio d’un uovo per la prima colazione. Un occhio fissava cieco il cielo di Hyperion attraverso un velo che s’ispessiva; l’altro guardava pigramente da sotto la palpebra socchiusa. La cassa toracica era così fracassata che schegge d’osso sporgevano dalla pelle. Le braccia erano rotte; la gamba sinistra quasi staccata. Avevo usato l’analizzatore medico per eseguire meccanicamente l’autopsia, che aveva rivelato notevoli lesioni interne: anche il cuore di quel disgraziato si era ridotto in poltiglia per l’impatto della caduta.
Ho allungato la mano a toccare la carne fredda. Cominciava a manifestarsi il rigor mortis. Ho sfiorato la cicatrice a forma di croce sul petto e ho ritratto di scatto la mano. Il crucimorfo era tiepido.
«Fatti da parte.»
Ho alzato gli occhi: Beta e gli altri Bikura erano fermi davanti a me. Non dubitavo che m’avrebbero ucciso nel giro d’un secondo, se non mi fossi allontanato dal cadavere. Mentre mi scostavo, m’è venuto in mente un pensiero sciocco e spaventoso: i Tre Ventine e Dieci erano adesso i Tre Ventine e Nove. Mi è sembrato buffo, in quel momento.
I Bikura hanno raccolto il cadavere e si sono diretti al villaggio. Beta ha guardato il cielo, poi me.
«È quasi ora» ha detto. «Tu vieni.»
Siamo scesi nella Fenditura. Il cadavere è stato legato con cura in un cesto di liane e calato con noi.
Il sole non illuminava ancora l’interno della basilica, quando hanno deposto sul grande altare il cadavere di Alfa e gli hanno tolto gli ultimi stracci.
Non so cosa mi aspettassi… forse un atto di cannibalismo rituale. Niente mi avrebbe sorpreso. Invece, un Bikura ha sollevato le braccia proprio mentre i primi raggi di luce colorata entravano nella basilica e ha intonato: «Seguirai la croce per tutti i tuoi giorni».
I Tre Ventine e Dieci si sono inginocchiati e hanno ripetuto le parole. Io sono rimasto in piedi. Non ho aperto bocca.
«Sarai del crucimorfo per tutti i tuoi giorni» ha detto il piccolo Bikura, e nella basilica è echeggiato un coro di voci che ripetevano la frase. La luce, del colore e della consistenza del sangue coagulato, ha gettato sulla parete opposta l’enorme ombra della croce.
«Sarai del cruciforme ora e sempre e per sempre» ha continuato la salmodia, mentre all’esterno il vento cresceva e le canne d’organo del canyon gemevano con la voce di un bimbo torturato.
I Bikura hanno smesso di salmodiare, ma io non ho mormorato: «Amen». Sono rimasto lì, mentre gli altri si giravano e uscivano con l’improvvisa e totale indifferenza dei bambini viziati che hanno perso interesse nel gioco.
«Non c’è motivo di restare» ha detto Beta quando gli altri si sono allontanati.
«Voglio trattenermi» ho risposto, aspettando che mi ordinasse di uscire. Senza neppure una scrollata di spalle, Beta si è invece girato e mi ha lasciato lì. La luce è diventata più fioca. Sono uscito a guardare il tramonto. Al rientro, era iniziato.
Una volta, anni fa, a scuola, ho visto una sequenza olografica che mostrava la decomposizione di un ratto canguro. Il lento lavoro di riciclaggio compiuto in una settimana dalla natura era stato accelerato in trenta secondi d’orrore: l’improvviso, quasi comico, rigonfiamento del piccolo cadavere, la conseguente comparsa di lesioni sulla carne tesa, seguita dalla presenza improvvisa di larve nella bocca, negli occhi, nelle ferite aperte; e infine la repentina e incredibile caduta a spirale della carne dalle ossa — non c’è altra frase che si adatti all’immagine — quando la truppa di vermi si era mossa da destra a sinistra, dalla testa alla coda, in un’elica di consumo della carogna che aveva lasciato solo ossa, cartilagini e pelle.
Ora guardavo un corpo umano.
Sono rimasto a fissarlo, mentre la luce svaniva rapidamente. Non c’erano rumori, nel silenzio della basilica, se non la pulsazione sorda del mio stesso sangue nelle orecchie. Sotto i miei occhi, il cadavere di Alfa dapprima si è contorto, poi ha vibrato visibilmente e si è quasi sollevato dall’altare negli spasmi violenti dell’improvvisa decomposizione. Per alcuni secondi è sembrato che il crucimorfo aumentasse in grandezza e che il suo colore s’intensificasse, che brillasse del rosso della carne viva; allora ho creduto di scorgere la rete di filamenti e di nematodi che teneva insieme il cadavere in via di disintegrazione, come le fibre metalliche che sostengono il modello in fusione d’una scultura. La carne è fluita via.
Quella notte sono rimasto nella basilica. La zona attorno all’altare era illuminata dal bagliore del crucimorfo sul petto di Alfa. Quando il cadavere si muoveva, la luce gettava sulle pareti ombre bizzarre.
Non ho lasciato la basilica finché Alfa, il terzo giorno, non se n’è andato; ma gran parte dei cambiamenti visibili è avvenuta al termine di quella prima notte. Sotto i miei occhi, il corpo del Bikura che chiamo Alfa è stato distrutto e ricostruito. Il cadavere rimasto non era del tutto Alfa e non era del tutto non-Alfa, ma era intatto. La faccia era il viso d’una bambola di flussoschiuma: liscia e priva di segni, con i lineamenti stampati in un lieve sorriso. Al sorgere del sole, il terzo giorno, il torace del cadavere ha iniziato a sollevarsi e abbassarsi; ho sentito il primo respiro… un aspro fruscio come d’acqua versata in una sacca di cuoio. Poco prima di mezzogiorno, ho lasciato la basilica per arrampicarmi sulle liane.
Dietro Alfa.
Non ha parlato, non ha risposto. Aveva lo sguardo fisso, non a fuoco, e di tanto in tanto esitava, come se sentisse il richiamo di voci lontane.
Nessuno ha badato a noi, quando siamo tornati al villaggio. Alfa è andato in una capanna e adesso se ne sta seduto lì dentro. Io sto seduto nella mia. Un minuto fa ho aperto la veste e ho passato le dita sul rilievo del crucimorfo. Se ne sta benignamente sotto la carne del torace. In attesa.
Giorno 140
A poco a poco mi riprendo dalle ferite e dalla perdita di sangue.
Impossibile tagliarlo con una pietra affilata.
Non ama il dolore. Ho perso conoscenza, molto prima che il dolore o la perdita di sangue lo facessero impazzire. Ogni volta che mi sveglio e riprendo a tagliare, mi fa perdere conoscenza. Non ama il dolore.
Giorno 158
Ora Alfa dice qualche parola. Sembra più ottuso, più lento, solo vagamente consapevole di me (o di chiunque altro), ma mangia e si muove. Sembra che mi riconosca fino a un certo punto. L’analizzatore medico mostra che ha il cuore e gli organi interni di un giovanotto… forse di un ragazzo sui sedici anni.
Devo aspettare ancora un mese di Hyperion più una decina di giorni — quasi cinquanta in tutto — perché la foresta di fuoco sia abbastanza tranquilla da consentirmi di andarmene, dolore o no. Vedremo a chi toccherà sopportare il dolore più intenso.
Giorno 173
Un’altra morte.
Il Bikura chiamato Will, quello con il dito rotto, mancava da una settimana. Ieri i Bikura sono andati diversi chilometri a nordest, come se seguissero un segnale, e hanno trovato i suoi resti accanto a un grande burrone.
Evidentemente un ramo si è rotto mentre Will si arrampicava per raccogliere fronde di chalma. La morte dev’essere stata istantanea, per frattura dell’osso del collo; ma quel che conta è il luogo dove Will è caduto. Il cadavere (se così lo si può chiamare) giaceva fra due grandi coni di fango secco, le tane dei grandi insetti rossi che Tuk chiamava mantidi di fuoco. Scarafaggi-tappeto sarebbe forse una definizione migliore. Negli ultimi giorni gli insetti avevano ripulito fino all’osso il cadavere. Avevano lasciato ben poco, a parte lo scheletro, qualche brandello di tessuti e di tendini, e il crucimorfo ancora attaccato alla cassa toracica come una splendida croce sul sarcofago d’un papa defunto da tempo.
È terribile, ma non posso fare a meno di provare un piccolo senso di trionfo, sotto la tristezza. Il crucimorfo non può rigenerare niente, da queste ossa spoglie. Anche la terribile illogicità del maledetto parassita deve rispettare la legge di conservazione della massa. Il Bikura che chiamavo Will è morto della vera morte. I Tre Ventine e Dieci sono davvero i Tre Ventine e Nove, d’ora in avanti.
Giorno 174
Sono uno stupido.
Oggi ho chiesto di Will, ho chiesto se era morto della vera morte. Ero incuriosito per la mancanza di reazione dei Bikura. Avevano recuperato il crucimorfo, ma avevano lasciato lo scheletro là dove l’avevano trovato: non avevano fatto alcun tentativo di portare nella basilica i miseri resti. Durante la notte, mi ero preoccupato che toccasse a me prendere il posto del membro mancante dei Tre Ventine e Dieci. «È triste» ho detto «che uno di voi sia morto della vera morte. Cosa ne sarà, ora, dei Tre Ventine e Dieci?»
Beta mi ha fissato. «Non può morire della vera morte» ha detto il piccolo e calvo androgino. «È del crucimorfo.»
Poco dopo, mentre continuavo l’esame medico della tribù, ho scoperto la verità. Quello che ho etichettato Teta sembra lo stesso di prima e si comporta nello stesso modo, ma ora ha due cruciformi incastonati nella carne. Non ho dubbi che nei prossimi anni manifesterà la tendenza a ingrassare, a gonfiarsi, a maturare come un’oscena cellula di E. coli in una vaschetta di Petri. Quando lui/lei/esso muore, due usciranno dalla tomba: i Tre Ventine e Dieci saranno di nuovo completi.
Mi sembra d’impazzire.
Giorno 195
Da settimane studio il maledetto parassita e ancora non ho la minima idea di come agisca. Peggio ancora, me ne frego. Ora m’interesso di cose più importanti.
Perché Dio ha permesso una simile oscenità?
Perché i Bikura sono stati puniti in questo modo?
Perché sono stato scelto per sopportare questo destino?
Faccio queste domande, nelle preghiere della notte. Ma non sento risposte: solo il canto di sangue del vento nella Fenditura.
Giorno 214
Le ultime dieci pagine dovrebbero aver ricoperto tutti i miei appunti di lavoro e le ipotesi tecniche. Questa sarà la mia ultima annotazione prima di affrontare domattina la foresta di fuoco ormai tranquilla.
Senza dubbio, ho scoperto il non plus ultra delle società umane stagnanti. I Bikura hanno realizzato il sogno umano dell’immortalità e l’hanno pagato con la loro stessa umanità e la loro anima immortale.
Edouard, ho trascorso tante di quelle ore a lottare con la mia fede (con la mia mancanza di fede) ma ora, in questo terribile angolo d’un mondo totalmente dimenticato, crivellato come sono da questo orrendo parassita, ho riscoperto chissà come una forza di fede che non ho mai conosciuto da quando tu e io eravamo bambini. Ora capisco il bisogno di fede — pura, cieca, un’aperta sfida alla ragione — come piccola difesa della vita, nel selvaggio e infinito mare dell’universo regolato da leggi insensibili e del tutto indifferenti ai minuscoli esseri razionali che lo abitano.
Giorno dopo giorno ho cercato di lasciare la zona della Fenditura; giorno dopo giorno ho patito un dolore così orribile che ormai è diventato parte tangibile del mio mondo, come il sole troppo piccolo o il cielo verde e celeste. Il dolore è il mio alleato, l’angelo custode, il legame residuo con l’umanità. Al crucimorfo non piace. A me nemmeno; ma, come il crucimorfo, sono pronto a servirmene per i miei scopi. E lo faccio coscientemente, non per istinto, come la massa di tessuti priva di cervello conficcata dentro di me. Questa cosa, nella sua mancanza d’intelligenza, cerca solo di evitare a ogni costo la morte. Io non voglio morire, ma accolgo con gioia il dolore e la morte, alternativa a un’eternità di vita irragionevole. La vita è sacra (lo considero ancora l’elemento basilare del pensiero e degli insegnamenti della Chiesa, in questi ultimi duemila e ottocento anni in cui la vita stessa ha avuto così poco valore) ma l’anima è ancora più sacra.
Capisco ora che cosa cercavo di fare con i dati scoperti su Armaghast: volevo offrire alla Chiesa non una rinascita, ma solo la transizione a una falsa vita, come quella ospitata da questi poveri cadaveri ambulanti. Se la Chiesa deve morire, che il destino si compia… ma in modo glorioso, nella piena coscienza della rinascita in Cristo. Scompaia pure nelle tenebre; non volentieri, ma bene, con coraggio e con fede incrollabile, come i milioni che ci hanno preceduto, mantenendo la parola data a tutte le generazioni che hanno affrontato la morte nell’isolamento e nel silenzio dei campi di sterminio e sotto le bombe nucleari, nei reparti per i tumori terminali e nei pogrom; e vada nelle tenebre, se non con speranza, almeno con la convinzione che ci sia una ragione per tutto, qualcosa che valga il prezzo di tutto il dolore, di tutti i sacrifici. Chi ci ha preceduto, è andato nelle tenebre senza l’assicurazione della logica, né dei fatti, né di teorie convincenti, ma solo con un esile filo di speranza, o con il sostegno fin troppo fragile della fede. E se è stato in grado di mantenere di fronte alle tenebre quest’esile speranza, allora anch’io devo riuscirci… e, come me, la Chiesa.
Non credo più che cure e interventi chirurgici possano liberarmi dell’organismo che mi infesta; ma se qualcuno potrà separarlo, studiarlo e distruggerlo, anche a costo della mia morte, sarò più che contento.
La foresta di fuoco è tranquilla come non mai. Ora, a letto. Me ne andrò prima dell’alba.
Giorno 215
Non c’è via d’uscita.
Quattordici chilometri nella foresta. Fuochi vaganti e scoppi di energia, ma si può traversare. Tre settimane di cammino mi sarebbero bastate ad attraversarla.
Il crucimorfo non mi lascia andare.
Il dolore era simile a un infarto continuato. Eppure ho proseguito barcollando, inciampando, strisciando nella cenere. A un certo punto ho perso conoscenza. Quando sono rivenuto, strisciavo verso la Fenditura. Mi giro, cammino per un chilometro, striscio per cinquanta metri, perdo di nuovo conoscenza e mi sveglio da dove ho iniziato. Questa folle battaglia con il mio corpo è durata tutto il giorno.
Prima del tramonto i Bikura sono entrati nella foresta, mi hanno trovato a cinque chilometri dalla Fenditura e mi hanno portato indietro di peso.
Dio mio, perché hai permesso che accadesse?
Ora non c’è più speranza, a meno che qualcuno non venga a cercarmi.
Giorno 223
Nuovo tentativo. Nuovo dolore. Nuovo fallimento.
Giorno 257
Oggi compio sessantotto anni standard. Il lavoro procede, nella cappella che costruisco accanto alla Fenditura. Ieri ho provato a scendere fino al fiume, ma sono stato bloccato da Beta e da altri quattro.
Giorno 280
Un anno locale su Hyperion. Un anno di purgatorio. O d’inferno?
Giorno 311
Lavorando nella cava di pietra del costone sotto la sporgenza dove sorgerà la cappella, oggi ho fatto una scoperta: ho trovato le barre parascariche. I Bikura devono averle buttate giù quando hanno assassinato Tuk, quella notte di duecento e ventitré giorni fa.
Le barre mi permetterebbero di penetrare in qualsiasi momento nella foresta di fuoco, se il crucimorfo lo permettesse. Ma non lo permetterà. Se solo i Bikura non avessero distrutto il kit medico con gli analgesici! Eppure, mentre me ne sto qui seduto a reggere le barre, ho un’idea.
Ho continuato i miei rozzi esperimenti con l’analizzatore medico. Due settimane fa, quando Teta si è rotto la gamba in tre punti, ho studiato la reazione del crucimorfo. Il parassita ha fatto del suo meglio per eliminare il dolore; Teta è rimasto svenuto gran parte del tempo, mentre il suo organismo produceva una quantità incredibile di endorfine. Ma la frattura era molto dolorosa: dopo quattro giorni, i Bikura hanno sgozzato Teta e hanno portato il corpo nella basilica. Per il crucimorfo era più facile risuscitare il cadavere che sopportare a lungo un simile dolore. Ma, prima che uccidessero Teta, l’analizzatore ha mostrato che i nematodi del crucimorfo si erano ritirati in maniera apprezzabile da alcune zone del sistema nervoso.
Non so se sia possibile infliggersi, o sopportare, un dolore non mortale di livello sufficiente a scacciare il crucimorfo. Ma sono certo di una cosa: i Bikura non lo permetterebbero.
Oggi siedo sul costone sotto la cappella a metà terminata e medito su questa possibilità.
Giorno 438
La cappella è terminata. L’opera della mia vita.
Stasera, quando i Bikura sono scesi nella Fenditura per la loro quotidiana parodia di adorazione, ho detto Messa all’altare della cappella appena eostruita. Ho infornato il pane ottenuto con farina di chalma ed ero certo che avrebbe avuto il sapore di quelle foglie gialline; ma per me il suo gusto è stato esattamente uguale a quello della Particola della prima comunione, a Villefranche-sur-Saône, una sessantina d’anni standard fa.
Domattina eseguirò il mio piano. Tutto è pronto: i diari e le lastre dell’analizzatore medico sono nella sacca di fibre di besto. Ho fatto il massimo.
Il vino consacrato era solo acqua, ma nella fioca luce del tramonto sembrava rosso sangue e aveva il sapore del vino della comunione.
Il trucco è quello di penetrare abbastanza profondamente nella foresta di fuoco. Confido che gli alberi di tesla siano abbastanza attivi anche nei periodi di tranquillità.
Addio, Edouard. Non credo che tu sia ancora in vita, ma anche se mi sbagliassi, non vedo come sia possibile poterci riunire, separati come siamo non solo da anni di distanza, ma da un abisso più ampio in forma di croce. Non ripongo in questa vita, ma in quella a venire, la speranza di rivederti. Buffo, vero, sentirmi parlare ancora a questo modo? Devo dirti, Edouard, che dopo tutti questi decenni d’incertezza, nonostante il grande timore per quel che ci aspetta, il mio cuore e la mia anima sono tuttavia in pace.
Oh, mio Dio,
mi dolgo con tutto il cuore d’averTi offeso,
e detesto tutti i miei peccati,
per la perdita del cielo
e per la sofferenza dell’inferno,
ma soprattutto perché ho offeso Te,
mio Dio,
che sei bontà infinita
e meriti tutto il mio amore.
Mi ripropongo fermamente, con l’aiuto della Tua grazia,
di confessare i miei peccati, di fare penitenza
e di emendare la mia vita.
Amen.
Le ventiquattro.
La luce del tramonto entra dalla finestra spalancata della cappella e bagna l’altare, il calice rozzamente intagliato e me. Dalla Fenditura il vento si alza nell’ultimo coro che, con un po’ di fortuna e con la misericordia di Dio, mi toccherà sentire.
— Questa è l’ultima annotazione — disse Lenar Hoyt.
Quando il prete smise di leggere, i sei pellegrini intorno al tavolo alzarono il viso verso di lui, come se si stessero svegliando da un sogno comune. Il Console diede un’occhiata in alto. Hyperion adesso era molto più vicino: riempiva un terzo del cielo e con il suo freddo splendore scacciava le altre stelle.
— Arrivai dopo una decina di settimane da quando avevo visto per l’ultima volta padre Duré — continuò padre Hoyt con voce aspra e rauca. — Su Hyperion erano trascorsi più di otto anni… sette, dall’ultima annotazione sul diario. — Ora il prete soffriva visibilmente: sul suo viso, pallido e sconvolto, brillava un velo di sudore.
— Nel giro d’un mese, ho trovato la strada per la piantagione Perecebo, a monte del fiume rispetto a Port Romance — continuò Hoyt, sforzandosi di dare al tono di voce una certa forza. — Presumevo che i coltivatori di fibroplastica potessero dirmi la verità, visto che non avevano niente a che fare con il Consolato o con le autorità del Consiglio Autonomo. Non mi sbagliavo. L’amministratore di Perecebo, un certo Orlandi, ricordava padre Duré, come lo ricordava la nuova moglie di Orlandi, quella Semfa menzionata nei diari. Il direttore della piantagione aveva tentato di inviare sull’altopiano alcune spedizioni di soccorso, ma una serie senza precedenti di periodi attivi nella foresta di fuoco l’aveva costretto ad abbandonare i tentativi. Dopo alcuni anni, rinunciò alla speranza che padre Duré o il loro dipendente, Tuk, fossero ancora vivi.
“Tuttavia Orlandi reclutò due esperti piloti da giungla per portare fino alla Fenditura una spedizione di soccorso, a bordo di due skimmer della piantagione. Restammo nella Fenditura il massimo possibile, fidandoci della strumentazione per evitare gli ostacoli del terreno e della fortuna per arrivare al paese dei Bikura. In questo modo evitammo gran parte della foresta di fuoco, ma perdemmo ugualmente uno skimmer e quattro persone, a causa dell’attività dei tesla.”
Padre Hoyt s’interruppe e barcollò leggermente. Si afferrò al bordo del tavolo per sorreggersi e si schiarì la voce. — Non c’è molto da aggiungere — disse. — Abbiamo localizzato il villaggio dei Bikura. Erano in settanta, tutti stupidi e taciturni come dicono gli appunti di Duré, ma grazie a loro sono riuscito a stabilire che padre Duré era morto nel tentativo di penetrare nella foresta di fuoco. La sacca di besto aveva resistito e dentro abbiamo trovato i suoi diari e i dati medici. — Hoyt guardò per un attimo gli altri, poi abbassò gli occhi. — Li abbiamo convinti a mostrarci il posto dove padre Duré è morto — continuò. — Non… ah… non l’avevano seppellito. I resti erano bruciati e decomposti, ma abbastanza completi da mostrare che l’intensità delle scariche dei tesla aveva distrutto il… il crucimorfo… oltre al corpo di padre Duré.
“Padre Duré era morto della vera morte. Abbiamo riportato i resti alla piantagione Perecebo, dove è stato cristianamente sepolto dopo la Messa. — Hoyt trasse un profondo respiro. — Nonostante le mie forti obiezioni, il signor Orlandi ha distrutto il villaggio dei Bikura e un tratto della parete della Fenditura, impiegando alcune cariche atomiche sagomate che si era portato dalla piantagione. Non credo che qualche Bikura sia sopravvissuto. Per quanto ne so, l’ingresso del labirinto e la cosiddetta basilica sono andati distrutti nella frana.
“Nel corso della spedizione avevo riportato alcune ferite e così sono stato costretto a trattenermi nella piantagione per diversi mesi, prima di tornare nel continente settentrionale e procurarmi un passaggio per Pacem. Nessuno è al corrente di questi diari e del loro contenuto tranne il signor Orlandi, monsignor Edouard e i superiori che quest’ultimo ha creduto opportuno informare. Per quanto ne so, la Chiesa non ha fatto dichiarazioni riguardanti i diari di padre Duré.”
Ora padre Hoyt si sedette. Il sudore gli colava dal mento e il suo viso era livido, nella luce riflessa di Hyperion.
— Questo è… è tutto? — domandò Martin Sileno.
— Sì — riuscì a rispondere padre Hoyt.
— Signora, signori — disse Het Masteen. — È tardi. Vi suggerisco di preparare i bagagli e di recarvi sulla nave del nostro amico Console, nella sfera 11, fra trenta minuti o anche prima. Più tardi vi raggiungerò usando una delle tre navette.
Quasi tutto il gruppo si riunì in meno di quindici minuti. I Templari avevano costruito alla buona una passerella che andava da una banchina di carico all’interno della sfera fino alla loggia più alta della nave. Il Console condusse nel salotto il gruppo, mentre i cloni d’equipaggio stivavano i bagagli e se ne andavano.
— Un affascinante strumento antico — disse il colonnello Kassad, passando la mano sul coperchio dello Steinway. — Un arpicordo?
— Pianoforte — spiegò il Console. — Pre-Egira. Ci siamo tutti?
— Tutti tranne Hoyt — rispose Brawne Lamia, accomodandosi sul sedile della piazzuola di proiezione.
Entrò Het Masteen. — La nave da guerra dell’Egemonia ha dato il permesso di atterrare nello spazioporto di Keats — disse il comandante. Si diede un’occhiata intorno. — Mando un clone d’equipaggio a vedere se il signor Hoyt ha bisogno d’aiuto.
— No — disse il Console. Abbassò la voce. — Preferisco andare io. Dov’è alloggiato?
Per un intero secondo il comandante della nave-albero fissò il Console, poi mise la mano fra le pieghe della veste. — Bon voyage - disse, porgendogli una scheda direzionale. — Ci vediamo sul pianeta, intorno alla mezzanotte, ora di partenza dal Tempio Shrike di Keats.
Il Console gli fece un inchino. — È stato un piacere viaggiare sotto la protezione dei rami dell’Albero, Het Masteen — disse formalmente. Si girò verso gli altri e indicò i locali. — Mettetevi comodi, nel salotto o nella biblioteca del ponte inferiore. La nave provvederà ai vostri bisogni e risponderà alle vostre domande. Partiremo appena tornerò con padre Hoyt.
Lo scomparto ambientale del prete era situato a mezza strada su per la nave-albero, molto all’esterno, su un ramo secondario. Come il Console s’aspettava, la scheda direzionale per comlog avuta da Het Masteen serviva anche da chiave universale per la serratura a impronta del palmo. Dopo aver suonato inutilmente alcune volte il campanello e aver bussato, il Console si servì della chiave universale ed entrò nello scomparto.
Padre Hoyt si contorceva in ginocchio al centro del tappeto erboso. Lenzuola, bagagli, indumenti e il contenuto di un kit medico standard erano sparpagliati intorno a lui. Il prete si era strappato tunica e colletto; aveva la camicia zuppa di sudore, tanto che la stoffa ricadeva in umide pieghe, lacera dove lui l’aveva artigliata. La luce di Hyperion filtrava dalla parete dello scomparto e dava l’impressione che la scena si svolgesse sott’acqua… oppure, si disse il Console, in una cattedrale.
La faccia di Lenar Hoyt si contorse per il dolore, mentre il prete si graffiava il petto. I muscoli degli avambracci nudi si torsero come creature vive, muovendosi sotto il pallido rivestimento della pelle. — L’iniettore… si è guastato — ansimò Hoyt. — La prego!
Il Console annuì, ordinò alla porta di chiudersi e s’inginocchiò accanto al prete. Gli tolse dal pugno serrato l’iniettore inutile e ne estrasse la fiala. Ultramorfina. Il console annuì di nuovo e prese un nuovo iniettore dal kit medico che aveva portato con sé dalla nave. Bastarono meno di cinque secondi a caricare l’ultramorfina.
— Per favore — implorò Hoyt. Era scosso dagli spasmi in tutto il corpo. Le ondate di dolore che lo squassavano erano quasi visibili.
— Sì — disse. Inspirò a fondo. — Ma prima il resto della storia.
Hoyt lo fissò e allungò debolmente la mano verso l’iniettore.
Cominciando a sua volta a sudare, il Console tenne lo strumento appena fuori portata. — Sì, fra un istante — disse. — Prima termini il racconto. È importante che io sappia tutto.
— Oh Dio, Dio mio! — singhiozzò Hoyt. — Per favore!
— Sì, certo. Appena avrà detto la verità.
Padre Hoyt crollò sugli avambracci, respirando a fatica. — Maledetto bastardo — boccheggiò. Fece alcuni respiri profondi, ne trattenne uno finché non smise di tremare e tentò di mettersi a sedere. Quando guardò il Console, aveva una luce simile al sollievo, negli occhi impazziti. — Poi… mi darà… l’iniezione?
— Sì — rispose il Console.
— D’accordo — riuscì a dire Hoyt con un mormorio acido. — La verità. Piantagione Perecebo… come ho detto. Siamo partiti… i primi d’ottobre… di Lycius… otto anni dopo… la scomparsa di Duré. Oh, Cristo, fa male! Alcol ed endovene non funzionano più. Solo… ultramorfina pura…
— Sì — mormorò il Console. — È pronta. Appena terminata la storia.
Il prete abbassò la testa. Il sudore gli gocciolò dalle guance e dal naso, cadde sull’erba. L’uomo tese i muscoli come se volesse scagliarsi all’attacco, poi fu preso da un altro spasmo doloroso e cadde in avanti. — Lo skimmer non fu distrutto… dagli alberi tesla. Semfa, due uomini e io… siamo scesi vicino alla Fenditura… mentre Orlandi cercava a monte del fiume. Il suo skimmer… ha dovuto aspettare che la tempesta di fulmini si calmasse.
“I Bikura arrivarono nella notte. Uccisero… uccisero Semfa, il pilota, l’altro uomo… ho dimenticato il nome. Mi hanno lasciato… in vita. — Hoyt allungò la mano verso il crocifisso e capì d’esserselo strappato. Cominciò a ridere, ma si fermò prima che la risata si tramutasse in singhiozzi. — Mi hanno parlato… della via della croce. Del crucimorfo. Mi hanno parlato… del Figlio delle Fiamme.
“Il mattino dopo, mi hanno portato a vedere il Figlio. Mi hanno portato… a vederlo. — Si alzò a fatica e si graffiò le guance. Aveva gli occhi sbarrati: era chiaro che, nonostante il dolore, aveva dimenticato l’ultramorfina. — Circa tre chilometri nella foresta di fuoco… grandi tesla… alti almeno ottanta, cento metri. In quiete, al momento… ma ancora un mucchio di tensione nell’aria. Cenere dappertutto.
“I Bikura non volevano… avvicinarsi troppo. Si sono messi in ginocchio, hanno chinato la loro maledetta testa calva. Ma io… io mi sono avvicinato… dovevo farlo. Dio mio… Oh, Cristo, era lui. Duré. Quel che restava di lui.
“Aveva usato una scaletta a pioli per salire… forse quattro metri… su per il tronco dell’albero. Costruito una sorta di piattaforma. Per i piedi. Ha spezzato le barre parascariche… poco più che chiodi… poi le ha appuntite. Deve avere usato una pietra, per conficcarsi nei piedi la più lunga, per piantarla nella piattaforma di besto e nell’albero.
“Il braccio sinistro… ha piantato il chiodo fra radio e ulna… ha evitato le vene… proprio come i maledetti romani. Molto sicuro, finché lo scheletro resta intatto. L’altra mano… la destra… a palmo in giù. Aveva conficcato prima il chiodo. Appuntito dalle due parti. Poi… aveva impalato la destra. In qualche modo aveva piegato il chiodo. A uncino.
“La scaletta è caduta… molto tempo prima… Ma era di besto. Non era bruciata. Me ne sono servito per salire fino a lui. Tutto era bruciato anni prima… abiti, pelle, strato esterno di carne… ma non la sacca di besto intorno al collo.
“I chiodi di fibrolega conducevano ancora la corrente, anche quando… Potevo vederla… sentirla… scorrere attraverso quel che restava del corpo.
“Sembrava ancora padre Duré. Importante. L’ho detto al monsignore. Niente pelle. Carne viva o bruciata. Nervi e altre cose in piena vista… simili a radici gialle e grigie. Cristo, la puzza! Ma sembrava ancora padre Duré!
“Allora ho capito. Ho capito tutto. Chissà come… anche prima di leggere i diari. Ho capito che era rimasto appeso lì… oh, Dio mio… sette anni. Vivo. Moribondo. Il crucimorfo… lo costringeva a rivivere. L’elettricità… che scorreva in lui ogni secondo di quei… quei maledetti sette anni. Fiamme. Fame. Dolore. Morte. Ma chissà come, il maledetto… crucimorfo… forse risucchiava sostanza dall’albero, dall’aria, dai resti… rigenerava quel che poteva… costringendolo a vivere, a sentire il dolore, ancora e ancora e ancora…
“Ma lui ha vinto. Il dolore era il suo alleato. Oh, Gesù, non qualche ora sull’albero e poi la lancia e il riposo, ma sette anni!
“Però… ha vinto. Quando gli ho tolto la sacca, è caduto anche il crucimorfo che aveva sul petto. Poi quella cosa… quella cosa che non poteva non essere un cadavere… quell’uomo ha sollevato la testa. Niente palpebre. Occhi bianco bollito. Niente labbra. Ma mi ha guardato e ha sorriso. Lui ha sorriso. Ed è morto… è morto davvero… fra le mie braccia. La decimillesima morte, ma quella vera, alla fine. Mi ha sorriso ed è morto.”
Hoyt s’interruppe, accomunato nel silenzio al proprio dolore; poi riprese, stringendo ogni tanto i denti. — I Bikura… mi riportarono… alla Fenditura. Orlandi arrivò il giorno dopo. Mi salvò. Lui… Semfa… non potevo… ha distrutto con il laser il villaggio, ha bruciato i Bikura lì dov’erano, come stupide pecore. Non ho… non ho discusso con lui. Ho riso. Dio mio, perdonami. Orlandi ha raso al suolo la zona, con le cariche atomiche sagomate che usavano… per ripulire la giungla… matrice fibroplastica.
Hoyt guardò negli occhi il Console e fece un gesto contorto con la destra. — Gli analgesici hanno funzionato bene all’inizio. Ma ogni anno… ogni giorno… diventa peggio. Anche in crio-fuga… il dolore. Dovevo tornare comunque. Come ha fatto, lui, a… sette anni! Oh, Gesù! — Artigliò il tappeto.
Il Console si mosse in fretta: gli iniettò proprio sotto l’ascella l’intera fiala di ultramorfina, lo afferrò al volo mentre crollava privo di conoscenza, lo adagiò gentilmente per terra. Con la vista annebbiata, strappò la camicia madida di Hoyt e gettò da parte gli stracci. Era lì, ovviamente, sotto la pelle livida del torace, simile a un grande, vivido verme a forma di croce. Il Console fece un respiro profondo e con delicatezza rigirò il prete. Il secondo crucimorfo era dove si aspettava di trovarlo: una cicatrice in rilievo, un po’ più piccola e a forma di croce, fra le scapole. Tremolò lievemente quando le dita del Console sfiorarono la carne febbricitante.
Il Console si mosse con lentezza ma con efficienza: radunò gli oggetti del prete, mise a posto la stanza, vestì l’uomo ancora svenuto con la stessa cura che si userebbe nel vestire un familiare morto.
Il comlog ronzò. — Dobbiamo partire — disse la voce del colonnello Kassad.
— Veniamo subito — rispose il Console. Batté sul comlog la chiamata per alcuni cloni d’equipaggio che trasportassero i bagagli, ma tirò su personalmente padre Hoyt. Gli sembrò che il prete non pesasse nulla.
La porta dello scompartimento si dilatò; il Console uscì e passò dall’ombra profonda del ramo alla luminosità verdazzurra del pianeta che riempiva il cielo. Pensando alla storia di copertura da raccontare agli altri, si fermò a dare una seconda occhiata al viso dell’uomo addormentato. Scoccò uno sguardo a Hyperion e continuò. Anche se il campo gravitazionale fosse stato uguale a quello terrestre, capì il Console, il corpo fra le sue braccia non sarebbe stato un peso.
Un tempo genitore di un bambino ora morto, il Console andò avanti e provò ancora una volta la sensazione di portare a letto un figlio addormentato.