Un’ora prima del tramonto, la Benares entrò nel porto fluviale di Naiade. Equipaggio e pellegrini si ammucchiarono contro il parapetto a fissare i resti fumanti di quella che un tempo era stata una città di ventimila anime. Rimaneva ben poco. La famosa locanda del Lungofiume, costruita negli anni di re Billy il Triste, era bruciata fino alle fondamenta: i moli carbonizzati, le banchine e le terrazze coperte erano crollati nell’Hoolie. La palazzina doganale era un guscio bruciato. Il terminal dell’aeroporto, all’estremità nord della cittadina, era ridotto a una carcassa annerita, la. torre d’attracco a una guglia di carbonella. Non c’era il minimo segno del piccolo tempio Shrike sul lungofiume. Ma la cosa peggiore, dal punto di vista dei pellegrini, era la distruzione della Stazione fluviale di Naiade: il deposito di finimenti era un edificio bruciato e cadente; le stie delle mante erano aperte al fiume.
— Maledizione! — imprecò Martin Sileno.
— Chi è stato? — domandò padre Hoyt. — Lo Shrike?
— Le FAD, piuttosto — rispose il Console. — Anche se forse combattevano lo Shrike.
— Non posso crederci! — esclamò bruscamente Brawne Lamia. Si rivolse ad A. Bettik, che si era appena unito a loro sul ponte di poppa. — Tu non ne sapevi niente?
— No — rispose l’androide. — Da più d’una settimana non abbiamo avuto contatti con i punti a nord delle chiuse.
— Come mai? Anche se questo mondo dimenticato da Dio non possiede una sfera dati, le radio ci saranno.
A. Bettik sorrise lievemente. — Sì, signora Lamia. La radio c’è, ma i satelliti per le telecomunicazioni sono stati abbattuti, la stazione ripetitrice a microonde delle chiuse Karla è stata distrutta e non abbiamo accesso alle onde corte.
— E le mante? — domandò Kassad. — Possiamo continuare fino all’Orlo, con quelle che abbiamo?
Bettik corrugò la fronte. — Dovremo riuscirci, colonnello — rispose. — Ma è criminale. Le due già attaccate non si riprenderanno più da uno sforzo simile. Con mante fresche saremmo arrivati all’Orlo prima dell’alba. Con queste due… — L’androide si strinse nelle spalle. — Se avremo fortuna, e se i due animali sopravviveranno, arriveremo nel primo pomeriggio…
— Il carro a vela ci sarà ancora, vero? — domandò Het Masteen.
— Ritengo di sì — rispose A. Bettik. — Chiedo scusa, devo provvedere a nutrire le povere bestie che ci restano. Dovremmo rimetterci in viaggio entro un’ora.
Non videro nessuno, fra le macerie di Naiade e nei dintorni. Nessuna imbarcazione fluviale comparve a monte della città. Dopo un’ora di traino verso nordest, entrarono in una regione dove foreste e fattorie del basso Hoolie lasciavano il posto all’ondulata prateria arancione a sud del mare d’Erba. Di tanto in tanto il Console scorgeva le torri di fango delle formiche-architetto: in qualche caso, nei pressi del fiume le loro costruzioni seghettate raggiungevano i dieci metri d’altezza. Non c’era segno di abitazioni umane intatte. Il traghetto del guado Betty era scomparso: non c’era nemmeno una fune da rimorchio, né una baracca di riscaldamento, a indicare il punto dove per quasi due secoli aveva funzionato. La locanda dei Corridori Fluviali, a punta Grotta, era buia e silenziosa. A. Bettik e altri membri dell’equipaggio lanciarono richiami, ma dall’ingresso buio della grotta non venne nessuna risposta.
Il tramonto portò sul fiume una calma sensuale, presto interrotta da un coro di insetti e dai richiami degli uccelli notturni. Per un po’ la superficie dell’Hoolie rispecchiò il disco grigioverde del sole al tramonto, disturbata solo dai balzi dei pesci che si cibavano al crepuscolo e dalla scia delle mante affaticate. Quando scese l’oscurità vera e propria, innumerevoli ragnatelidi della prateria, molto più chiari dei loro cugini delle foreste e dotati di maggiore ampiezza alare — sagome luminescenti della grandezza d’un bambino — danzarono negli avvallamenti delle alture ondulate. Quando spuntarono le costellazioni e le scie delle meteore cominciarono a sfregiare il cielo notturno, vivido spettacolo molto lontano da qualsiasi luce prodotta da mano d’uomo, a bordo furono accese le lanterne e sul ponte di poppa fu servita la cena.
I pellegrini Shrike erano giù di morale, come se ancora stessero meditando sul racconto sinistro e confuso del colonnello Kassad. Il Console aveva bevuto in continuazione da prima di mezzogiorno, e adesso sentiva un piacevole senso di distacco… dalla realtà, dal dolore dei ricordi… che gli permetteva di superare i giorni e le notti. Ora, con voce cauta e non impastata, come può esserlo solo quella del vero alcolizzato, domandò a chi toccava raccontare la propria storia.
— A me — disse Martin Sileno. Anche il poeta aveva bevuto in continuazione dal primo mattino. Come il Console, teneva sotto controllo la voce, ma il rossore delle guance affilate e una luce quasi di follia negli occhi lo tradivano. — Almeno, ho tirato io il numero tre… — Tenne in piena vista la strisciolina di carta. — Se volete ancora sentire la maledetta storia.
Brawne Lamia alzò il bicchiere di vino, si accigliò, tornò a posarlo. — Forse sarebbe meglio discutere cosa ci hanno insegnato le prime due storie e come si colleghino alla nostra… situazione attuale.
— È presto — disse il colonnello Kassad. — Non abbiamo ancora dati sufficienti.
— Sentiamo prima Sileno — disse Sol Weintraub. — Poi cominceremo a discutere quel che abbiamo sentito.
— D’accordo — disse Lenar Hoyt.
Het Masteen e il Console annuirono.
— Benissimo! — esclamò Martin Sileno. — Vi racconterò la mia storia. Lasciatemi solo finire questo merdoso bicchiere di vino.
In principio era il Verbo. Poi venne il verb-processor del cazzo. Poi il pensiero-processor. Poi la morte della letteratura. Va così.
Francesco Bacone disse una volta: “Deriva da una brutta e inetta formazione di parole una prodigiosa ostruzione della mente”. Tutti noi abbiamo contribuito alla nostra prodigiosa ostruzione della mente, non è vero? Io più di tanti. Uno dei migliori, dimenticati scrittori del Ventesimo secolo… proprio così, migliori-virgola-dimenticati… una volta se ne uscì con questo bon mot: “Fare lo scrittore mi piace: quel che non sopporto è mettere le parole sulla carta”. Capito? Bene, amigos e piccola amiga, mi piace essere un poeta: quel che non sopporto sono le stramaledette parole.
Da dove comincio?
Da Hyperion, forse?
(Dissolvenza) Quasi due secoli standard fa.
Cinque navi coloniali di re Billy il Triste rotano come soffioni dorati sopra questo fin troppo familiare cielo color lapislazzulì. Atterriamo come conquistadores e incediamo impettiti avanti e indietro: più di duemila artisti visuali, scrittori, scultori, poeti, ARNisti, videocreatori, olo-registi, compositori, decompositori e Dio sa che altro, rafforzati da un numero quintiplo di amministratori, tecnici, ecologisti, supervisori, ciambellani di corte e baciaculo di mestiere, senza contare gli stronzi stessi della famiglia reale, rafforzati a loro volta da dieci volte tanti androidi disposti ad arare la terra, tenere accesi i reattori, costruire città, alzare quella cassa, muovere quel carico… diavolo, l’idea ce l’avete.
Scendemmo su un mondo già colonizzato da poveri stronzi trasformati in indigeni due secoli prima, che vivevano e lottavano come e dove Dio gliela mandava. Ovviamente i nobili discendenti di questi pionieri coraggiosi ci accolsero come dèi (soprattutto quando alcune nostre guardie di sicurezza stirarono un paio dei caporioni più aggressivi) e ovviamente accettammo come dovuta la loro adorazione e li mettemmo al lavoro a fianco dei nostri pelleblù, ad arare il mar d’Erba meridionale e a costruire la nostra scintillante città sulla montagna.
Ed era davvero una scintillante città sulla montagna. Le rovine visibili oggi non dicono niente della magnificenza del posto. Il deserto è avanzato, in tre secoli, gli acquedotti che scendevano dalle montagne sono crollati, la città stessa è solo ossa. Ma, ai suoi tempi, la Città dei Poeti era davvero bella, un pizzico dell’Atene di Socrate, con l’entusiasmo intellettuale della Venezia del Rinascimento, il fervore artistico della Parigi degli Impressionisti, la vera democrazia del primo decennio di Orbit City e il futuro illimitato di Tau Ceti Centro.
Però, alla fin fine, non era niente di tutto questo, ovviamente. Era solo il prato claustrofobico di Hrothgar, con il mostro in attesa nelle tenebre esterne. Avevamo il nostro Grendel, certo. Avevamo anche il nostro Hrothgar, se si guarda un po’ di sghembo il profilo dinoccolato di re Billy il Triste. Ci mancavano solo i nostri Geats; il nostro grande Beowulf, dalle spalle larghe e dal cervello minuscolo, con la sua banda di allegri psicopatici. Così, non avendo un Eroe, ci adattammo al ruolo di vittime e componemmo i nostri sonetti e riprovammo i nostri balletti e svolgemmo i nostri rotoli di pergamena, mentre per tutto il tempo il nostro Grendel di spine e d’acciaio riempiva di paura la notte e mieteva femori e cartilagini.
E questo, quando io (un satiro a quel tempo, formato in carne a specchio della mia anima) arrivai vicino a completare i Canti, l’opera della mia vita, più di quanto non ci sia arrivato in cinque tristi secoli d’ostinata continuazione.
(Dissolvenza in nero).
Mi viene in mente che il racconto di Grendel è prematuro. Gli attori non sono stati portati sul palcoscenico. L’intreccio non lineare e la prosa non contigua hanno i loro fautori, fra i quali non sono certo io il meno importante; ma alla fine, amici miei, è il personaggio che guadagna o perde l’immortalità sulla pergamena. Non avete mai ospitato il pensiero segreto che da qualche parte Huck e Jim, in questo preciso istante, spingono la loro zattera lungo un fiume appena al di là della nostra portata, tanto sono più reali del commesso del negozio di scarpe che ci ha servito solo un dimenticato giorno fa? A ogni modo, se bisogna raccontare questa stronzissima storia, dovete sapere chi c’è dentro. Perciò, per quanto mi addolori, torno all’inizio dell’inizio.
In principio era il Verbo. E il Verbo era programmato nel classico binario. E il Verbo disse: «Sia la vita!». E così, in qualche punto delle cripte del TecnoNucleo, nella tenuta di mia madre, lo sperma congelato di Papà morto da tempo fu scongelato, messo in sospensione, agitato come i malti alla vaniglia d’un tempo, caricato in un affare in parte siringa a spruzzo e in parte pene artificiale, e poi — tocco magico d’un grilletto — eiaculato dentro Mamma, in un periodo in cui la luna era piena e l’uovo era maturo.
Ovviamente, per restare incinta Mamma non era obbligata a usare questo sistema barbaro. Avrebbe potuto scegliere la fertilizzazione ex utero, un amante con un innesto del DNA di Papà, un surrogato clonale, una nascita partenogenetica per sdoppiamento dei geni o quel che vi pare… ma, come mi disse in seguito, aprì le cosce alla tradizione. Sospetto che preferisse il sistema naturale.
Ad ogni modo, nacqui.
Nacqui sulla Terra… la Vecchia Terra… e tu, Lamia, vaffanculo se non ci credi. Stavamo nella tenuta di Mamma, in un’isola non distante dalla Riserva Nordamericana.
Note per un bozzetto della casa sulla Vecchia Terra:
Fragili crepuscoli che si dissolvono dal violetto al fucsia al viola, sopra profili di carta crespata d’alberi al di là della distesa meridionale di prato. Cieli delicati come porcellana trasparente, non segnati da nuvole né da scie di condensazione. Il silenzio presinfonico della prima luce, seguito dal clangore di cimbali dell’aurora. Arancioni e rossicci che s’accendono in oro; la lunga, fredda discesa nel verde: ombra di foglia, oscurità, filamenti di cipresso e di salice piangente, il velluto verde smorto della palude.
La tenuta di Mamma, la nostra tenuta: mille acri incentrati in un altro milione. Prati vasti come piccole praterie, erba così perfetta da invitare il corpo a distendersi, a sonnecchiare sulla sua morbida perfezione. Nobili alberi fronzuti, meridiane della terra, con l’ombra che girava in tondo in grandiosa processione ora confondendosi, ora contraendosi a mezzodì, infine allungandosi verso oriente con il morir del giorno. Quercia reale. Olmi giganteschi. Pioppo nero e cipresso e sequoia e bonsai. Baniani che calavano nuovi tronchi simili a levigate colonne d’un tempio col cielo per tetto. Salici che bordavano canali ben tracciati e ruscelli casuali, rami pendenti che intonavano al vento antichi canti funebri.
La nostra casa sorge sopra una bassa collina dove, d’inverno, le curve scure del prato sembrano i fianchi lisci d’una belva tutta muscoli nata per correre. La casa mostra secoli d’aggiunte: una torre di giada, sulla corte orientale, cattura la prima luce dell’alba; una serie di timpani, nell’ala sud, getta triangoli d’ombra sui vetri della serra all’ora del tè; le terrazze e il labirinto di scale esterne lungo i porticati orientali giocano con le ombre del pomeriggio formando disegni di Escher.
Era dopo il Grande Errore, ma prima che tutto diventasse inabitabile. In genere occupavamo la tenuta durante quelli che chiamavamo “periodi di perdono”… variabili da dieci a diciotto mesi tranquilli fra gli spasmi planetari, mentre il maledetto buco nero della Squadra Kiev digeriva pezzetti del centro della Terra e aspettava il festino seguente. Nei “giorni brutti”, andavamo in vacanza da zio Kowa, al di là della Luna, su un asteroide terraformato, portato lì prima della migrazione Ouster.
Potreste già dire che sono nato con la camicia sul culo. Non cerco scuse. Dopo tremila anni a sguazzare nella democrazia, le ultime famiglie della Vecchia Terra erano arrivate alla conclusione che l’unico modo per evitare una simile marmaglia era quello di non permettere che si riproducesse. 0, piuttosto, di sponsorizzare flotte di navi coloniali, esplorazioni con spin-navi, migrazioni con il nuovo teleporter… tutta la sconvolta urgenza dell’Egira… purché si riproducessero là fuori e lasciassero in pace la Vecchia Terra. Il fatto che il mondo natale fosse una vecchia puttana malata non attenuò l’impulso a colonizzare della marmaglia. Mica stupidi, quelli.
E, come Buddha, ero quasi adulto, prima di vedere il primo accenno della povertà. Avevo sedici anni standard, trascorrevo il mio Wanderjahr e vagabondavo per l’India, quando vidi un mendicante. Le Vecchie Famiglie indù li tenevano per motivi religiosi, ma a quel tempo sapevo solo che lì c’era un uomo vestito di stracci che mostrava le costole e tendeva un canestro di giunco con dentro un antiquato diskey di credito, elemosinando un tocco della mia carta universale. I miei amici pensarono che fossi isterico. Vomitai. Accadde a Benares.
La mia infanzia fu privilegiata, ma non in modo disgustoso. Ho piacevoli ricordi delle famose feste di Grande Dame Sybil (una prozia da parte di madre). Ne ricordo una di tre giorni, organizzata nell’arcipelago Manhattan, con ospiti venuti in navetta da Orbit City e dalle arcologie dell’Europa. Ricordo l’Empire State Building innalzarsi dalle acque, riflettere le luci nelle lagune e nei canali bordati di felci; sul pontile panoramico i VEM scaricavano passeggeri, mentre fuochi di cottura ardevano sulle montagnole circondate dall’acqua, piene d’erbacce, degli edifici più bassi.
In quei giorni, la Riserva Nordamericana era il nostro terreno di giochi privato. Si diceva che circa ottomila individui abitavano ancora quel misterioso continente, ma per metà erano ranger. L’altra metà comprendeva gli ARNisti fuorilegge che esercitavano il loro mestiere resuscitando specie di piante e di animali da lungo tempo assenti dall’ambiente antidiluviano del Nordamerica, gli ingegneri ecologici, primitivi patentati come i Sioux Ogalalla o la Gilda degli Angeli dell’Inferno, e qualche occasionale turista. Avevo un cugino che si diceva andasse in giro per la Riserva da una zona d’osservazione all’altra; ma si manteneva nel Midwest, dove le varie zone erano relativamente vicine e le orde di dinosauri molto meno numerose.
Nel primo secolo dopo il Grande Errore, Gea era ferita a morte ma lenta a morire. La devastazione era grande, nei Tempi Brutti… e questi arrivavano spesso in spasmi precisamente progettati, brevi periodi d’intervallo, conseguenze sempre più terribili dopo ogni attacco… ma la Terra continuava a esistere e si autoriparava al meglio.
La Riserva era, come ho detto, il nostro terreno di giochi; ma a ben vedere lo stesso valeva per tutta la Terra moribonda. A diciassette anni Mamma mi permise d’avere un VEM personale: non c’era posto al mondo che distasse da casa più di un’ora di volo. Il mio migliore amico, Amalfi Schwartz, viveva nelle Tenute di monte Erebus, in quella che un tempo era stata la Repubblica Antartica. Ci vedevamo ogni giorno. La proibizione dei teleporter sulla Vecchia Terra non ci dava il minimo fastidio: sdraiati di notte su qualche collina a guardare le diecimila Luci Orbitanti e i ventimila fari dell’Anello e le due o tremila stelle visibili non eravamo invidiosi, non sentivamo l’impulso di unirci all’Egira che già allora filava la seta del teleporter per formare la ragnatela dei Mondi. Eravamo felici.
I miei ricordi di Mamma sono bizzarramente stilizzati, come se lei fosse un’altra creazione fantastica dei miei romanzi sul Crepuscolo di un mondo. E forse lo era. Forse fui allevato da robot nelle città automatizzate dell’Europa, allattato da androidi nel Deserto dell’Amazzonia, o semplicemente fatto crescere in una vasca, come lievito di birraio. Ricordo la veste bianca di Mamma scivolare come un fantasma fra le stanze in penombra della tenuta; vene bluastre, infinitamente delicate, sul dorso della mano dalle dita sottili, mentre lei versava il tè nella penombra damaschina e polverosa della serra; la luce di candela imprigionata come una mosca d’oro nella splendente ragnatela dei suoi capelli raccolti in crocchia nello stile delle Grandes Dames. A volte sogno di ricordare la sua voce, la cadenza e la rotondità del tono, ma poi mi sveglio ed è solo il vento che muove una tendina di merletto, o lo sciaguattio d’un mare alieno sulla pietra.
Da quando fui in grado di capire, seppi che sarei diventato… che sarei dovuto diventare… un poeta. Non come se non avessi scelta, ma come se la bellezza morente tutt’intorno soffiasse dentro di me il suo ultimo alito e mi condannasse per il resto dei miei giorni a giocare con le parole, quasi a espiare lo spensierato massacro del mondo natale effettuato dalla nostra razza. Così, al diavolo!, diventai poeta.
Ebbi un tutore che si chiamava Balthazar, umano ma vecchissimo, un profugo dei puzzolenti vicoli dell’antica Alessandria. Balthazar brillava quasi di luce biancazzurra, dovuta ai primi trattamenti Poulsen: sembrava una mummia irradiata, chiusa in plastica liquida. E libidinosa come il proverbiale mandrillo. Secoli dopo, nel mio periodo da satiro, ritenni di capire finalmente le pulsioni priapiche del povero don Balthazar; ma in quei giorni il mio tutore era soprattutto un ostacolo alla presenza di ragazze giovani nel personale della tenuta. Umane o androidi, per don Balthazar era lo stesso: le molestava tutte.
Per mia fortuna, non c’erano propensioni omosessuali nella passione di don Balthazar per la carne giovane: quindi le sue scappatelle avevano come risultato o l’assenza nelle ore d’insegnamento o l’eccessiva e disordinata attenzione nel farmi imparare a memoria versi di Ovidio, di Senesh, di Wu.
Era un eccellente tutore. Studiammo gli antichi e l’ultimo periodo classico, visitammo le rovine di Atene, di Roma, di Londra e di Hannibal, nel Missouri; e mai una volta mi toccarono compiti scritti o esami. Don Balthazar si aspettava che imparassi tutto a memoria di primo acchito e non lo delusi. Convinse mia madre che i trabocchetti dell’“educazione progressista” non si addicevano a una famiglia della Vecchia Terra; perciò non conobbi le acrobatiche scorciatoie mentali della medicina RNA, l’immersione nella sfera dati, l’istruzione con il flashback sistemico, i gruppi d’incontro stilizzati, le “capacità di pensiero a livello superiore” a spese dei fatti, la programmazione pre-istruttiva. In conseguenza di queste privazioni, a sei anni ero in grado di recitare tutta l’Odissea nella traduzione di Fitzgerald, di comporre una sestina prima ancora di sapermi vestire da solo e di pensare in versi-fuga a spirale prima di essermi mai interfacciato con una IA.
La mia educazione scientifica, d’altro canto, era meno convincente. A don Balthazar “l’aspetto meccanico dell’universo” interessava ben poco. Avevo già ventidue anni, quando capii che i computer, gli RMU e le apparecchiature che permettevano la vita sull’asteroide di zio Kowa erano macchine e non chissà quali manifestazioni benevole delle animae intorno a noi. Credevo nelle fate, negli spiriti silvani, nella numerologia, nell’astrologia, nella magia della Vigilia di Mezzestate nel profondo delle primitive foreste della Riserva Nordamericana. Come Keats e Lamb nello studio di Hajdon, don Balthazar e io brindavamo alla “sconfitta della matematica” e piangevamo la distruzione della poesia dell’arcobaleno operata dal prisma di Newton. Questa precoce sfiducia, quest’odio vero e proprio per tutte le cose di natura scientifica, mi tornò molto utile nel resto della vita. Ho imparato che non è difficile rimanere politeista pre-copernicano anche nell’Egemonia postscientifica.
Le mie prime poesie erano orribili. Come molti cattivi poeti, non me ne rendevo conto: nella mia arroganza, ero sicuro che il semplice atto creativo desse valore agli immeritevoli aborti da me generati. Mia madre si mostrò indulgente, anche quando lasciavo in giro per la casa mucchietti di versi zoppicanti. Era benevola nei confronti del suo unico figlio, anche se lui si mostrava intemperante e sconsiderato quanto un lama selvatico. Don Balthazar non espresse mai commenti sulle mie opere… in primo luogo, presumo, perché non gliele mostrai mai. Don Balthazar pensava che il venerabile Daton fosse un impostore, che Salmud Brevy e Robert Frost avrebbero dovuto impiccarsi con le loro stesse budella, che Wordsworth fosse uno sciocco e che tutto, tranne i sonetti di Shakespeare, fosse una profanazione del linguaggio. Non vedevo motivo di scocciarlo con i miei versi, pur sapendo che erano ricchi di genio in boccio.
Pubblicai parte di questo sterco letterario nelle varie riviste stampate in voga nelle diverse arcologie delle Case Europee: i direttori dilettanti di quelle rozze pubblicazioni avevano per mia madre la stessa indulgenza che lei mostrava nei miei confronti. Di tanto in tanto sollecitavo Amalfi o uno dei miei compagni di giochi (meno aristocratici di me e quindi in grado di accedere alla sfera dati o ai trasmettitori astrotel) perché inserissero qualche mia poesia nelle reti dell’Anello o di Marte e quindi delle fiorenti colonie teleporter. Non mi risposero. Immaginai che fossero troppo impegnati.
Credere nella propria identità di poeta o di scrittore prima della prova del fuoco della pubblicazione, è ingenuo e inoffensivo come la fede giovanile nella propria immortalità… e l’inevitabile delusione è altrettanto dolorosa.
Mia madre morì con la Vecchia Terra. Circa metà delle Vecchie Famiglie rimase, durante l’ultimo cataclisma; a quel tempo, ventenne, avevo concepito piani romantici per morire con il mio mondo natale. Mamma decise altrimenti. Non si preoccupava della mia prematura dipartita (come me, era troppo egoista per pensare ad altri, in tempi del genere) e neppure del fatto che la morte del mio DNA avrebbe segnato la fine di una stirpe di aristocratici che risaliva alla Mayflower; no, si preoccupava che la famiglia morisse indebitata. A quanto pare, i nostri ultimi cento anni di stravaganze erano stati finanziati da massicci prestiti concessi dalla Banca dell’Anello e da altri discreti istituti extraplanetari. Ora che i continenti della Terra si schiantavano sotto i colpi della contrazione, che le foreste erano in fiamme, che gli oceani si gonfiavano e si surriscaldavano fino a diventare una brodaglia senza vita, che l’aria stessa si trasformava in qualcosa di troppo caldo e denso da dissodare e troppo sottile da arare, ora le banche esigevano la restituzione del denaro. Io fui collaterale.
Anzi, lo fu il piano di Mamma. Mia madre liquidò tutti i beni disponibili, alcune settimane prima che questa espressione diventasse vera alla lettera; depositò nella Banca dell’Anello in fuga un quarto di milione di marchi in titoli a lungo termine, e mi spedì a fare una gita nel Protettorato Atmosferico Rifkin, su Porta del Paradiso, un pianeta di scarsa importanza intorno a Vega. Già allora quel mondo velenoso era collegato mediante teleporter al sistema solare, ma io non ne approfittai. E neppure m’imbarcai sull’unica spin-nave a motore Hawking che ogni anno standard partiva per Porta del Paradiso. No, Mamma mi mandò ai confini dei mondi coloniali, in una nave a endoautoreattore Fase 3, più lenta della luce, congelato in animazione sospesa, insieme con gli embrioni di bestiame e il succo d’arancia concentrato e i virus alimentatori, per un viaggio che durò centoventinove anni nave, con un debito temporale oggettivo di centosessantasette anni standard!
Mamma pensava che l’interesse composto dei depositi a lungo termine sarebbe bastato a estinguere i debiti di famiglia e a permettermi, forse, di vivere agiatamente per qualche tempo. Per la prima e ultima volta della sua vita, Mamma sbagliava.
Note per un bozzetto di Porta del Paradiso:
Vicoli di fango che risalgono dai dock della posta di conversione, simili a un disegno di piaghe sulla schiena d’un lebbroso. Nubi marrone sulfureo che pendono come cenci da un cielo di tela marcia. Un intrico di edifici lignei senza forma, deteriorati prima del completamento, con finestre prive di vetri che fissano cieche la bocca spalancata dei vicini. Indigeni che si riproducono come… come esseri umani, immagino: storpi, senza occhi, coi polmoni bruciati dall’aria marcia, che accompagnano una decina di rampolli con la pelle già ruvida a cinque anni standard, con gli occhi sempre lacrimosi per l’acredine di un’atmosfera che li ucciderà prima della quarantina, i sorrisi cariati, i capelli bisunti pieni di pidocchi e di vesciche gonfie di sangue per gli acari-dracula. Genitori orgogliosi, raggianti. Venti milioni di questi babbei senza futuro, ammassati in bassifondi che straripano da un’isola più piccola del prato ovest della mia tenuta su Vecchia Terra, che lottano per respirare l’unica aria respirabile in un mondo dove la norma è inalare e morire, che si affollano sempre più vicino al centro delle sessanta miglia d’atmosfera accettabile, fornite dalla Stazione Generatrice prima di guastarsi.
Porta del Paradiso: la mia nuova casa.
Mamma non ha calcolato la possibilità che tutti i depositi della Vecchia Terra venissero congelati… e poi assegnati all’economia in via di sviluppo della Rete dei Mondi. E neppure ha ricordato la vera ragione per cui la gente attendeva il motore Hawking, per andare vedere il braccio a spirale della galassia: nel crio-sonno a lunga durata, rispetto a qualche settimana o a qualche mese in crio-fuga, c’era una probabilità su sei di riportare danni terminali al cervello. Fui fortunato. Quando, su Porta del Paradiso, fui disimballato e messo a scavare canali d’acido al di là del perimetro, avevo patito solo un incidente cerebrale… Dal punto di vista fisico, dopo qualche settimana locale ero in grado di lavorare nei pozzi di fango. Dal punto di vista mentale, invece, lasciavo molto a desiderare.
Il lato sinistro del mio cervello era bloccato, come quando si chiude una sezione danneggiata di spin-nave e i portelli a tenuta stagna lasciano aperti al vuoto i compartimenti condannati. Ma ragionavo ancora. Il controllo del lato destro del corpo lo ripresi presto. Solo i centri del linguaggio erano danneggiati in modo irreparabile. Il meraviglioso computer organico incuneato nel mio cranio aveva scaricato il suo contenuto di linguaggio, come se fosse stato un programma inefficiente. L’emisfero destro non era del tutto privo di un certo linguaggio… ma questa semisfera affettiva poteva alloggiare solo le unità di comunicazione emotivamente più caricate: il mio vocabolario adesso era limitato a nove parole. (Fatto di per sé eccezionale, appresi in seguito: molte vittime ne conservano solo due o tre.) Per la cronaca, il mio intero vocabolario comprendeva queste parole: chiavata, cacata, pisciata, fica, maledetto, bastardo, fottuto, pipì e pupù.
Una rapida analisi mostra qualche ridondanza. Disponevo di otto nomi che si riferivano a sei cose; cinque degli otto nomi potevano servire anche come verbi. Conservai un solo nome indiscutibile e un unico aggettivo che poteva anche essere usato come verbo o come imprecazione. Il mio universo verbale comprendeva un bisillabo, sei polisillabi e due parole del linguaggio infantile. Il mio agone letterale offriva quattro strade al soggetto dell’escrezione, un riferimento all’anatomia umana, una richiesta di giudizio divino, una comune descrizione o richiesta di coito, un’espressione di dubbio sulla paternità altrui e una variazione coitale a cui peraltro ero estraneo.
Tutto sommato, bastava.
Non dico di ricordare con tenerezza i tre anni nei pozzi di fango e nei melmosi bassifondi di Porta del Paradiso; ma è vero che quegli anni furono formativi almeno quanto i due precedenti decenni su Vecchia Terra, se non di più.
Presto scoprii che fra i miei amici intimi (Vecchia Fogna, il caposquadra pala e badile; Unk, il bullo dei bassifondi al quale pagavo la tangente per avere protezione; Kiti, la pidocchiosa puttana-letto con cui dormivo quando potevo permettermelo) il mio vocabolario limitato mi serviva bene. «Chiavata cacata» grugnivo, gesticolando. «Fottuto fica pipì chiavata.»
«Ah» sogghignava Vecchia Fogna, mostrando l’unico dente. «Vai al negozio della compagnia a procurarti un boccone di alghe, eh?»
«Maledetto pupù» rispondevo, con lo stesso sogghigno.
La vita del poeta non consiste solo nella finita danza verbale dell’espressione, ma nelle quasi infinite composizioni di percezione e di ricordo combinate con la sensibilità di quel che si percepisce e si ricorda. I miei tre anni locali su Porta del Paradiso, quasi 1500 giorni standard, mi permisero di vedere, percepire, sentire… ricordare; come se fossi, alla lettera, rinato. Poco importa che fossi rinato nell’inferno: l’esperienza rielaborata è la materia di tutta la vera poesia e la cruda esperienza era il dono di nascita della mia nuova vita.
Mi adattai senza difficoltà a un mondo nuovo, di un secolo e mezzo posteriore al mio. Nonostante i discorsi d’espansione e lo spirito pionieristico degli ultimi cinque secoli, sappiamo tutti quanto stolto e statico sia diventato l’universo umano. Ci troviamo in un comodo Medioevo della creatività; le istituzioni cambiano poco e con un’evoluzione graduale, anziché con rivoluzioni; la ricerca scientifica striscia di sghembo come un granchio, mentre un tempo procedeva con grandi balzi d’intuizione; le macchine cambiano anche meno: la tecnologia più avanzata sarebbe immediatamente identificabile — e quindi utilizzabile — per i nostri nonni. Quindi, mentre ero in animazione sospesa, l’Egemonia diventò un’entità formale, la Rete dei Mondi fu tessuta in qualcosa di più vicino alla sua forma finale, la Totalità prese il suo posto democratico nell’elenco dei despoti benevoli dell’umanità, il TecnoNucleo si allontanò dal servizio umano e poi offrì il suo aiuto come alleato anziché come schiavo, e gli Ouster si ritrassero nelle tenebre nel ruolo di Nemesi… Ma tutte queste cose strisciavano verso la massa critica anche prima che fossi congelato nella mia bara di ghiaccio fra porci e sorbetti alla frutta; e simili ovvie estensioni di vecchie tendenze richiesero un piccolo sforzo di comprensione. Inoltre, la storia vista dall’interno è sempre una scura confusione digestiva, molto diversa dalla vacca facilmente riconoscibile contemplata da lontano dagli storici.
La mia vita era Porta del Paradiso e le esigenze quotidiane per sopravviverci. Il cielo era un eterno tramonto giallomarrone sospeso come un soffitto pericolante solo qualche metro sopra la mia baracca. La baracca era singolarmente comoda: un tavolo per mangiare, una branda per dormire e chiavare, un buco per pisciare e cacare, una finestra da cui fissare in silenzio. Il mio ambiente rispecchiava il mio vocabolario.
La prigione è sempre stata un buon posto per gli scrittori, visto che uccide i demoni gemelli della mobilità e dello svago: Porta del Paradiso non faceva eccezione. Il Protettorato Atmosferico possedeva il mio corpo; ma la mente, o quel che ne restava, era mia.
Su Vecchia Terra, per comporre poesie mi servivo di un comlog Sadu-Dekenar pensiero-processore, mentre me ne stavo disteso in una sdraio imbottita o mi libravo nella chiatta EM sopra buie lagune o passeggiavo assorto fra pergole profumate. Ho già descritto gli esecrabili, indisciplinati, zoppicanti, flatulenti prodotti di quei sogni a occhi aperti. Su Porta del Paradiso scoprii quale stimolo intellettuale può essere la fatica fisica; ma non dovrei dire semplicemente fatica fisica: fatica che piega la spina dorsale, dovrei aggiungere, che infiamma i polmoni, che tormenta le viscere, che strappa i legamenti, che rompe le palle. Ma finché il compito è oneroso e ripetitivo, la mente non solo è libera di vagare in climi più ricchi d’immaginazione, ma se ne vola davvero su piani più elevati.
Così, su Porta del Paradiso, mentre sotto l’occhio fisso e rosso di Vega Primo dragavo schiuma dal fondo di canali d’acqua sporca o strisciavo in ginocchio nelle labirintiche pneumo-tubature della stazione, fra stalattiti e stalagmiti batteriche del riciclo-respiratore, diventai un poeta.
Mi mancavano soltanto le parole.
Una volta, durante un’intervista, l’onoratissimo scrittore del Ventesimo secolo William Gass disse: «Le parole sono gli oggetti supremi. Sono gli oggetti della mente».
Ed è vero. Pure e trascendenti come qualsiasi Idea che abbia mai gettato ombra nella scura grotta platonica della nostra percezione. Ma anche trabocchetti di falsità e di errata percezione. Le parole piegano il nostro pensiero in infiniti sentieri d’illusione; e se trascorriamo gran parte della nostra vita mentale in palazzi cerebrali fatti di parole, significa che non possediamo l’obiettività necessaria per scorgere la terribile distorsione della realtà che il linguaggio porta con sé. Esempio: il pittogramma cinese per indicare “onestà” è un simbolo in due parti che rappresenta alla lettera un uomo in piedi accanto alla propria parola. Fin qui, tutto bene. Ma che cosa significa la parola del Tardo Inglese “integrità”? O “madreterra”? O “progresso”? O “democrazia”? O “bellezza”? Ma anche ingannando noi stessi diventiamo dèi.
Un filosofo e matematico di nome Bertrand Russell, vissuto e morto nello stesso secolo di Gass, scrisse una volta: «Il linguaggio serve non solo a esprimere il pensiero, ma a rendere possibili pensieri che non esisterebbero senza di esso». Ecco l’essenza del genio creativo dell’uomo: non gli edifici della civiltà, non le armi che in un istante possono porvi fine, ma le parole che fertilizzano nuovi concetti come spermatozoi all’assalto dell’ovulo. Si potrebbe obiettare che i gemelli siamesi parola/idea sono l’unico contributo che la razza umana può, vuole o dovrebbe dare, all’intricato universo. (Sì, il nostro DNA è unico; ma è unico anche quello della salamandra. Sì, fabbrichiamo manufatti; ma lo stesso fanno specie che vanno dai castori alle formiche-architetto le cui torri merlate sono visibili proprio adesso dall’oblò di prua. Sì, tessiamo cose di stoffa reale dai sogni della matematica; ma la matematica è l’intelaiatura dell’universo. Tracci un cerchio, e ne sbuca pi greco. Entri in un nuovo sistema solare, e le formule di Tycho Brahe sono lì in attesa sotto il nero manto di velluto dello spaziotempo. Ma dove mai l’universo ha nascosto una parola, sotto i suoi strati esteriori di biologia, geometria o roccia inanimata?) Anche le tracce di vita intelligente diversa dalla nostra, fin qui scoperte — i Flosci di Giove II, i Costruttori di Labirinti, gli empatici Seneschai di Hebron, gli Stecchi di Durulis, gli architetti delle Tombe del Tempo, lo Shrike stesso — ci hanno lasciato misteri e oscuri manufatti, ma non linguaggi. Non parole.
Una volta il poeta John Keats scrisse a un suo amico, un certo Bailey: «Non sono sicuro di niente, se non della santità dell’affetto del Cuore e della verità dell’Immaginazione. Quel che l’immaginazione afferra come Bellezza, dev’essere verità… che prima sia esistito o meno».
Il poeta cinese George Wu, morto nell’ultima guerra cino-nipponica, circa tre secoli prima dell’Egira, lo sapeva bene, quando registrò sul suo comlog: «I poeti sono le folli levatrici della realtà. Vedono non ciò che è, né ciò che può essere, ma ciò che deve divenire». In seguito, nell’ultimo dischetto alla sua amata, una settimana prima di morire, Wu disse: «Le parole sono solo proiettili nella bandoliera della verità. E i poeti sono i cecchini».
Capite, in principio era il Verbo. E il Verbo diventò carne nella trama dell’universo umano. E solo il poeta può espandere questo universo, trovare scorciatoie verso nuove realtà, così come il motore Hawking supera le barriere dello spaziotempo einsteiniano.
Essere un poeta, mi resi conto, un poeta vero, significava diventare l’Avatar incarnato dell’umanità; accettare il manto di poeta equivaleva a portare la croce del Figlio dell’Uomo, a sopportare le doglie del parto dell’Anima Madre dell’Umanità.
Essere un poeta vero è diventare Dio.
Su Porta del Paradiso cercai di spiegare ai miei amici questo concetto. «Pisciata, cacata» dissi. «Fottuto bastardo, maledetto cacata maledetto. Fica. Pipì fica. Maledetto!»
Scossero la testa, sorrisero e si allontanarono. Raramente i grandi poeti sono capiti, nel loro tempo.
Le nuvole giallomarrone versarono una pioggia d’acido su di me. Camminai nel fango alto fino alle cosce e ripulii dalle alghe sanguisughe le cloache della città. Vecchia Fogna morì durante il mio secondo anno sul pianeta, mentre lavoravamo tutti al progetto per estendere il Canale Prima Strada fino alle Piane Fangose di Mediafossa. Un incidente. Si stava arrampicando su una duna di fanghiglia per salvare una rosa sulfurea dal fango in arrivo, quando ci fu un fangomoto. Poco dopo questo incidente, Kiki si maritò. Continuò ancora a lavorare part-time come puttana-letto, ma la vidi sempre meno. Morì di parto poco dopo che lo tsunami verde si portò via Città Piana Fangosa. Continuai a scrivere poesie.
Come si possono scrivere belle poesie con un vocabolario di sole nove parole, vi chiederete?
La risposta è che non usavo affatto le parole. La poesia riguarda solo secondariamente le parole. Per prima cosa, riguarda la verità. Mi occupai della Ding an Sich, la sostanza dietro l’ombra, intessendo potenti concetti, similitudini e connessioni, come un ingegnere erigerebbe un grattacielo con lo scheletro in fibrolega, molto prima della comparsa di vetro e plastica e cromalluminio.
E pian piano le parole tornarono. Il cervello si rieduca e si riattrezza in modo sorprendente. Quel che si era perso nell’emisfero sinistro trovò casa altrove o ristabilì la propria supremazia nelle regioni danneggiate, come un pioniere che torna in una piana bruciata resa più fertile dalle fiamme. Mentre prima una parola semplice come “sale” mi avrebbe lasciato a bocca aperta, con la mente a sondare il vuoto come una lingua che tasta il foro d’un dente mancante, ora le parole e le frasi rifluivano lentamente, come i nomi di compagni di gioco dimenticati. Di giorno faticavo nei campi di fanghiglia, ma di notte sedevo al tavolino scheggiato e scrivevo i Canti, alla luce d’un sibilante lume a burro liquefatto. Mark Twain, nel suo modo familiare, espresse questa opinione: «La differenza fra la parola giusta e la parola quasi giusta è la differenza tra il fulmine e la lucciola». Una definizione azzeccata, ma incompleta. Durante quei lunghi mesi in cui su Porta del Paradiso iniziai i Canti scoprii che la differenza fra trovare la parola giusta e accettare la parola quasi giusta era la differenza fra l’essere colpito da un fulmine e assistere semplicemente alla sua caduta.
I Canti iniziarono e crebbero. Scritti sui fragili fogli di fibra d’alga sanguisuga riciclata prodotti a tonnellate come carta igienica, vergati con i pennarelli a buon mercato in vendita allo spaccio aziendale, i Canti presero forma. Mentre le parole tornavano e scivolavano al loro posto come pezzi sparpagliati d’un puzzle a tre dimensioni, avevo bisogno di una formula poetica. Ritornando agli insegnamenti di don Balthazar, tentai la misurata nobiltà della poesia epica di Milton. Presa confidenza, aggiunsi la romantica sensualità di un Byron maturato dalla celebrazione keatsiana del linguaggio. Mescolai il tutto e insaporii la mistura con uno spruzzo del brillante cinismo di Yeats e un pizzico dell’oscura e pedante arroganza di Pound. Tritai, tagliai a dadini, aggiunsi ingredienti come il controllo del linguaggio immaginoso di Eliot, la sensibilità per l’atmosfera di Dylan Thomas, l’ineluttabilità di Delmore Schwartz, il tocco d’orrore di Steve Tem, la supplica per l’innocenza di Salmud Brevy, l’amore di Daton per lo schema a rima involuta, l’adorazione di Wu per il fisico, la giocosità radicale di Edmond Ki Ferrera.
Alla fine, ovviamente, buttai via l’intruglio e scrissi i Canti in uno stile tutto mio.
Se non fosse stato per Unk, il bullo dei bassifondi, probabilmente sarei ancora su Porta del Paradiso, a scavare canali di giorno e a scrivere Canti di notte.
Era il mio giorno di riposo. Portando con me i Canti (l’unica copia del manoscritto!) stavo andando alla Biblioteca Aziendale nella Sala Comune per fare alcune ricerche, quando Unk e due suoi compari sbucarono da un vicolo e chiesero il pagamento immediato della tangente del mese dopo. Nel Protettorato Atmosferico di Porta del Paradiso non avevamo carte universali; pagavamo i debiti utilizzando certificati dell’Azienda o marchi clandestini. Io non avevo né gli uni né gli altri. Unk chiese di fargli vedere che cos’avevo nella sacca di plastica. Senza riflettere, rifiutai. Fu un errore. Se avessi mostrato a Unk il manoscritto, probabilmente lui avrebbe buttato i fogli nel fango, mi avrebbe minacciato e preso a schiaffi. Invece il mio rifiuto lo imbestialì: lui e i suoi due Neanderthal mi strapparono la sacca, buttarono nel fango il manoscritto e mi picchiarono fino a ridurmi in fin di vita.
Per fortuna il VEM di un direttore del controllo qualità aria del Protettorato stava passando a bassa quota e sua moglie, che viaggiava da sola diretta allo Spaccio aziendale, ordinò al VEM di scendere, mandò il servandroide a recuperare me e quel che restava dei Canti, dopodiché mi accompagnò di persona all’Ospedale aziendale. Di norma, gli elementi delle forze lavoro sotto contratto ricevevano l’assistenza medica nell’ambulatorio bioclinico, ma l’ospedale non osò opporre un rifiuto alla moglie di un direttore. Così fui accettato, ancora privo di conoscenza, e accudito da un medico umano e dalla moglie del direttore, mentre mi riprendevo a poco a poco nella vasca di guarigione.
D’accordo, per cambiare una banale storia lunga in una banale storia breve, ci darò un taglio. Mentre galleggiavo nel liquido nutritivo di rinnovamento, Helenda (così si chiamava la moglie del direttore) lesse il manoscritto. Le piacque. Quello stesso giorno, mentre ero in fase di decantazione nell’ospedale dell’azienda, Helenda si teleportò su Rinascimento e mostrò i miei Canti a sua sorella Felia, che aveva un amico la cui amante conosceva un redattore della CasaEditrice Transline. Quando il giorno dopo mi svegliai, mi avevano aggiustato le costole rotte, rimesso in sesto lo zigomo fratturato e fatto sparire i lividi; avevo cinque denti nuovi, una nuova cornea all’occhio sinistro e un contratto con la Transline.
Il mio libro uscì cinque settimane più tardi. Dopo un’altra settimana, Helenda divorziò dal direttore e mi sposò. Per lei era il settimo matrimonio, per me il primo. Andammo in luna di miele nel Concourse; quando tornammo, un mese dopo, il mio libro aveva venduto più di un miliardo di copie… il primo libro di poesia, in quattro secoli, a entrare nell’elenco dei bestseller. Mi ritrovai plurimiliardario.
Tyrena Wingreen-Feif fu il mio primo editor alla Transline. Fu lei a intitolare il libro Crepuscolo di un mondo (una ricerca mostrò che esisteva un romanzo con lo stesso titolo, ma era stato pubblicato cinquecento anni prima, non era più stato ristampato e il copyright era scaduto). Fu lei a scegliere per la pubblicazione solo le parti dei Canti che trattavano dei nostalgici giorni finali della Vecchia Terra. E fu lei a eliminare le parti che giudicava noiose per il lettore… i brani filosofici, le descrizioni di mia madre, le poesie che rendevano omaggio a poeti precedenti, i versi sperimentali, i brani più personali… tutto, in pratica, tranne la descrizione degli idilliaci giorni finali che, svuotata d’ogni zavorra, risultò stucchevole e sdolcinata. A quattro mesi dalla pubblicazione, Crepuscolo di un mondo aveva venduto due miliardi e mezzo di faxcopie; una versione condensata e digitalizzata era disponibile nella sfera dati See Thing; e mi era arrivata una richiesta d’opzione per un olo-film. Tyrena notò che la scelta di tempo era stata perfetta… all’originale choc traumatico per la morte della Vecchia Terra era seguito un secolo di rimozione, come se la Terra non fosse mai esistita; e poi un periodo di rinnovato interesse, culminato nei culti nostalgici che ora esistevano in ogni pianeta della Rete dei Mondi. Un libro, anche un libro di poesie, che trattava degli ultimi giorni della Vecchia Terra, era apparso proprio nel momento più favorevole.
In quanto a me, i primi mesi di celebrità nell’Egemonia furono più sconvolgenti del precedente passaggio da figlio viziato della Vecchia Terra a schiavo mentalmente menomato su Porta del Paradiso. Durante quei primi mesi, presenziai a incontri per la firma di libri e di faxcopie su più di cento pianeti; fui invitato allo spettacolo “Tutta la Rete Ora!”, con Marmon Hamlit; incontrai il PFE Senister Perót e Drury Fein, Speaker della Totalità, oltre a una ventina di senatori; tenni conferenze alla Società Interplanetaria Femminile della Penna e all’Unione degli Scrittori di Lusus; ricevetti lauree ad honorem dall’Università della Nuova Terra e da Cambridge Due; fui festeggiato, intervistato, rappresentato, commentato (favorevolmente), bioriprodotto (senza permesso), idolatrato, pubblicato a puntate, truffato. Furono tempi gloriosi.
Note per un bozzetto della vita nell’Egemonia:
La mia casa ha trentotto stanze su trentasei mondi. Niente porte: gli ingressi sono archi di teleporter, alcuni protetti da tendaggi di riservatezza, ma per la maggior parte aperti alla vista e all’entrata. Ogni stanza ha finestre dappertutto e almeno due pareti con un portale. Dalla maestosa sala da pranzo che dà su Vettore Rinascimento, vedo il cielo di bronzo e le torri color verderame di Castello Enable nella vallata ai piedi del mio picco vulcanico; se giro la testa, al di là del teleporter e dell’ampio tappeto bianco nel soggiorno elegante, vedo il mare Edgar Allan frangersi contro le guglie di capo Prospero su Nevermore. La biblioteca si apre sui ghiacciai e i cieli verdi di Nordholm, mentre una camminata di dieci passi mi permette di scendere una breve scalinata fino alla torre studio, una comoda stanza aperta circondata di vetro polarizzato che offre un panorama a 360 gradi dei picchi più alti di Kushpat Karakorum, una catena montuosa a duemila chilometri dal più vicino insediamento nelle marche orientali della repubblica Jamnu, su Deneb Drei.
L’enorme camera da letto che divido con Helenda si culla lievemente fra i rami di un albero-mondo di trecento metri, su Bosco Divino, il pianeta dei Templari, ed è collegata con il solarium che si trova invece nella solitudine dell’arido deserto di sale di Hebron. Non tutti i nostri panorami sono di terre selvagge: la sala dei media si apre in un modulo skimmer al 137° piano di una arco-torre su Tau Ceti Centro e la nostra veranda si trova su una terrazza prospiciente il mercato nella Città Vecchia dell’indaffarata Nuova Gerusalemme. L’architetto, uno studente del leggendario Millon DeHaVre, ha inserito nel progetto della casa alcuni piccoli scherzi: gli scalini scendono alla stanza torre, ovviamente, ma egualmente stramba è l’uscita dal nido d’aquila che porta alla palestra nel piano inferiore dell’Alveare più profondo di Lusus, o forse il bagno degli ospiti, che consiste in toilette, bidet, lavello e doccia, sistemati su una zattera aperta e senza parapetti, sul violaceo pianeta oceanico, Mare Infinitum.
All’inizio, i cambiamenti di gravità da stanza a stanza mi davano un senso di confusione, ma mi sono adattato in fretta: inconsciamente mi preparavo all’attrazione gravitazionale di Lusus, di Hebron e di Sol Draconis Septem, oppure anticipavo il senso di libertà della maggior parte delle stanze, dovuto alla gravità ridotta rispetto al normale 1 g.
Nei dieci mesi standard in cui Helenda e io stiamo insieme, trascorriamo poco tempo in casa; preferiamo muoverci con amici fra i luoghi di soggiorno, le arcologie di vacanza, i locali notturni della Rete dei Mondi. I nostri “amici” sono l’ex teleporter-set, che ora si definisce il Branco Caribù, dal nome d’un mammifero migratore della Vecchia Terra ora estinto. Questo branco consiste di altri scrittori, di alcuni artisti visuali di successo, di intellettuali del Concourse, di rappresentanti dei media della Totalità, di alcuni radicali ARNisti e dissettori di geni cosmetici, di aristocratici della Rete, di milionari patiti del teleporter e Flashback-dipendenti, di alcuni registi d’olofilm e di teatro, di una manciata di attori e di gente di spettacolo, di parecchi mammasaritissima della mafia diventati persone rispettabili, e di una sfilza a rotazione di celebrità del momento… me compreso.
Tutti bevono, usano stim e autoinnesti, si inseriscono nelle reti IA, possono permettersi le droghe migliori. La droga alla moda è il Flashback. Un vizio decisamente da classi alte: per sperimentarlo appieno occorre un’intera serie di costosi innesti. Helenda me l’ha procurata: biomonitor, estensori sensoriali, comlog interno, scambi neurali, eccitanti, processori metacorticali, emochip, tenie RNA… mia madre non avrebbe riconosciuto il mio interno.
Provo il Flashback due volte. La prima volta è una planata… scelgo come bersaglio la festa per il mio nono compleanno e con la prima salva la centro. C’è tutto: i servi che all’alba cantano sul prato nord, don Balthazar che a malincuore annulla le lezioni per farmi trascorrere la giornata sul VEM in compagnia di Amalfi a girare in gaio abbandono fra le dune grigie del Bacino delle Amazzoni; la processione serale a lume di torcia, mentre al crepuscolo i rappresentanti delle altre Vecchie Famiglie mi portano regali in involucri dai colori vivaci che brillano sotto la luna e le Diecimila Luci. Dopo nove ore di Flashback mi alzo con il sorriso sulle labbra. Il secondo viaggio rischia di uccidermi.
Ho quattro anni e piango, cerco mia madre nell’infinita serie di stanze che odorano di polvere e di vecchi mobili. Servandroidi cercano di consolarmi, ma io li respingo e corro nei corridoi sporchi d’ombra e del sudiciume di troppe generazioni. Infrango la prima regola appresa: spalanco la porta della stanza da cucito di Mamma, il sancta sanctorum in cui ogni pomeriggio si ritira per tre ore e da cui emerge con un lieve sorriso, mentre l’orlo della sua veste chiara fruscia sul tappeto come l’eco d’un sospiro di spettro.
Mamma siede lì dentro, fra le ombre. Ho quattro anni, mi sono ferito al dito e corro da lei, mi getto fra le sue braccia.
Mamma non reagisce. Un braccio elegante resta reclinato sullo schienale della sdraio, l’altro giace inerte sul cuscino.
Mi tiro indietro, scosso dalla gelida plasticità della sua posa. Apro le pesanti tende di velluto senza scendere dal grembo di lei.
Mamma mostra il bianco degli occhi, ha le labbra socchiuse. Perline di saliva le inumidiscono gli angoli delle labbra e luccicano sul mento perfetto. Tra i fili d’oro dei capelli, acconciati nello stile Grande Dame che preferisce, brilla il freddo acciaio dei cavetti stim e il riflesso più opaco della presa cranica in cui li ha infilati. La chiazza d’osso ai lati è bianchissima. Sul tavolino alla sua sinistra c’è una siringa di Flashback, vuota.
Arrivano i servi e mi tirano via. Mamma non batte ciglio. Grido, mentre mi portano di peso fuori della stanza.
Mi sveglio urlando.
Forse fu proprio il mio rifiuto di usare ancora il Flashback che affrettò la partenza di Helenda, ma ne dubito. Per lei ero un giocattolo: un primitivo che la divertiva, per la sua ingenuità verso una vita che da decenni lei dava per scontata. A ogni modo, il rifiuto del Flashback mi lasciò molti giorni senza di lei; il tempo che si trascorre nella ripetizione è reale: chi usa il Flashback spesso passa più giorni di vita sotto l’influsso della droga che in esperienze coscienti.
All’inizio mi divertii con gli innesti e i tecnogiocattoli che, come appartenente a una Famiglia della Vecchia Terra, mi erano stati negati. Quel primo anno, la sfera dati fu una delizia: chiedevo informazioni quasi di continuo, vivevo nella frenesia dell’interfaccia totale. Dipendevo dai freddi dati come il Branco Caribù dagli stimolatori e dalle droghe. Vedevo don Balthazar rigirarsi nella tomba fusa, mentre cedevo ricordi a lungo termine in cambio della fugace soddisfazione dell’onniscienza innestata. Solo in seguito mi resi conto della perdita… l’Odissea di Fitzgerald, la Marcia finale di Wu, decine d’altri poemi epici sopravvissuti all’incidente e ora sbrindellati come nubi sotto la violenza del vento. Molto più tardi, libero dagli innesti, li ho laboriosamente imparati di nuovo a memoria.
Per la prima e unica volta nella mia vita, m’interessai di politica. Passavo giorni e notti ad assistere alle riunioni del Senato, tramite il cavo teleporter, oppure a giacere in collegamento con la Totalità. Qualcuno una volta ha calcolato che la Totalità tratta circa cento pezzi attivi di legislazione dell’Egemonia al giorno; durante i mesi in collegamento col sensorio, non ne perdetti uno. Per voce e nome diventai ben noto nei canali di dibattito. Nessun argomento era troppo piccolo, nessuna questione troppo semplice o troppo complessa per il mio input. Il semplice atto di votare ogni pochi minuti mi dava la falsa sensazione di avere realizzato qualcosa. Alla fine, rinunciai all’ossessione per la politica solo dopo avere capito che accedere regolarmente alla Totalità significava solo restare a casa e trasformarsi in uno zombie ambulante. Una persona costantemente occupata a inserirsi nei propri innesti è uno spettacolo pietoso in pubblico; non furono necessarie le prese in giro di Helenda per farmi capire che, se fossi rimasto in casa, sarei diventato una spugna della Totalità come milioni di babbei in tutta la Rete dei Mondi. Così abbandonai la politica. Ma a quel tempo avevo scoperto un nuovo interesse: la religione.
Mi unii alle religioni. Diamine, collaborai a creare religioni. La Chiesa Gnostica Zen era in espansione esponenziale e io diventai un vero credente, partecipai ai talk-show della TVE e cercai i miei Luoghi di Potere con la devozione di un musulmano pre-Egira in pellegrinaggio alla Mecca. Inoltre, mi piaceva teleportarmi. Avevo guadagnato quasi cento milioni di marchi, con i diritti d’autore del Crepuscolo di un mondo e Helenda li aveva investiti bene. Ma un tale una volta calcolò che una casa teleporter come la mia costava più di cinquantamila marchi al giorno solo per mantenersi nella Rete. E io non mi limitavo a teleportarmi nei trentasei mondi della mia abitazione. La Casa Editrice Transline mi aveva qualificato per una carta d’oro universale che usai con liberalità, teleportandomi in improbabili angoli della Rete e trascorrendo poi settimane in alloggi lussuosi, affittando VEM per cercare i miei Luoghi di Potere in zone remote di mondi arretrati.
Non ne trovai nessuno. Rinunciai allo Gnosticismo Zen più o meno nello stesso periodo in cui Helenda divorziò da me. A quel tempo le fatture si ammucchiavano; fui costretto a liquidare gran parte delle azioni e degli investimenti a lungo termine rimasti dopo che Helenda si era presa la sua parte. (Quando lei aveva dato ai suoi legali l’incarico di redigere il contratto matrimoniale, non ero solo ingenuo e innamorato… ero anche stupido.)
Alla fine, anche facendo economie come la drastica riduzione del teleporter e il licenziamento dei servandroidi, mi trovai sull’orlo del disastro finanziario.
Andai a trovare Tyrena Wingreen-Feif.
«Nessuno vuole leggere poesie» disse lei, sfogliando lo smilzo volume di Canti scritti nell’ultimo anno e mezzo.
«Come sarebbe?» replicai. «Crepuscolo di un mondo era poesia.»
«Crepuscolo è stato un colpo di fortuna» disse Tyrena. Aveva unghie lunghe, verdi, ricurve alla mandarina secondo l’ultima moda e le arricciò intorno al manoscritto come fossero artigli d’una belva di clorofilla. «Si è venduto perché il subconscio collettivo era pronto.»
«Forse è pronto anche per questi» replicai. Cominciavo ad arrabbiarmi.
Tyrena si mise a ridere, ma non era un suono del tutto piacevole. «Martin, Martin, Martin» disse. «Questa è poesia. Parli di Porta del Paradiso e del Branco Caribù, ma ne viene fuori solitudine, dislocazione affettiva, ansia e una visione cinica dell’umanità.»
«E allora?»
«Allora nessuno vuol pagare per un’occhiata alle ansie di un altro» rise Tyrena.
Mi allontanai dalla sua scrivania e andai all’estremità opposta della stanza. L’ufficio occupava l’intero 434° piano della Guglia Transline, nel settore Babele di Tau Ceti Centro. Non c’erano finestre: la stanza circolare era aperta dal soffitto al pavimento, schermata da un campo di contenimento a energia solare privo del minimo scintillio. Sembrava di stare fra due piastre grigie sospese a mezz’aria fra cielo e terra. Osservai le nuvole cremisi muoversi fra guglie inferiori, mezzo chilometro più sotto e pensai all’hubris. L’ufficio di Tyrena non aveva porte, scale, ascensori, campi mobili, botole: nessun collegamento con gli altri piani. Vi si entrava mediante un teleporter a cinque facce che luccicava a mezz’aria come un’oloscultura astratta. Pensai a incendi e mancanza di corrente, oltre che all’hubris. Dissi: «Significa che non lo pubblichi?»
«Nient’affatto» sorrise il mio editor. «Hai fatto guadagnare alla Transline diversi miliardi di marchi, Martin. Lo pubblichiamo. Dico solo che nessuno lo comprerà.»
«Ti sbagli!» gridai. «Non tutti riconoscono la buona poesia, ma ci sono ancora lettori sufficienti a farne un bestseller.»
Tyrena non si mise di nuovo a ridere, ma increspò in un sorriso le labbra verdi. «Martin, Martin, Martin» disse. «Dai giorni di Gutenberg, il numero di persone colte diminuisce costantemente. Nel Ventesimo secolo, meno del due per cento della popolazione delle cosiddette democrazie industrializzate leggeva un libro all’anno. E questo accadeva prima delle macchine intelligenti, delle sfere dati, degli ambienti facilitati per l’utenza. Ai tempi dell’Egira, il novantotto per cento della popolazione dell’Egemonia non aveva motivo di leggere. Così non ci si preoccupava d’imparare. Oggi è peggio. Nella Rete dei Mondi ci sono più di cento miliardi di esseri umani. Meno dell’uno per cento si prende la briga di fax-copiare materiale scritto e tanto meno di leggere un libro.»
«Crepuscolo di un mondo ha venduto quasi tre miliardi di copie» le ricordai.
«Uhm» fece Tyrena. «Effetto Pilgrim’s Progress.»
«Eh?»
«Pilgrim’s Progress. Nella colonia del Massachusetts, sulla Vecchia Terra del… quand’era?… del XVII secolo, ogni famiglia perbene doveva averne in casa una copia di quel libro. Ma, cielo, nessuno era obbligato a leggerla. Lo stesso vale per Mein Kampf di Hitler o per Visioni nell’occhio d’un bambino decapitato di Stukatsky.»
«Chi era Hitler?»
Tyrena sorrise appena. «Un uomo politico della Vecchia Terra che scrisse qualche libro. Mein Kampf si stampa ancora… la Transline rinnova ancora il copyright, ogni 138 anni.»
«Be’, senti, mi prendo un paio di settimane per limare e perfezionare i Canti.»
«Ottimo» sorrise Tyrena.
«Immagino che anche stavolta tu voglia farne la revisione.»
«Nient’affatto. Stavolta non c’è alcun nucleo nostalgico, quindi puoi scriverli come meglio ti pare.»
Battei le palpebre. «Intendi dire che posso lasciare dentro i versi sciolti?»
«Certo.»
«E la filosofia?»
«Senz’altro.»
«E le parti sperimentali?»
«Sì.»
«E lo stamperai così com’è scritto?»
«Senza dubbio.»
«C’è una probabilità che si venda?»
«Nemmeno la speranza.»
“Un paio di settimane per limare i Canti” diventarono dieci mesi di lavoro ossessivo. Chiusi gran parte delle stanze di casa, tenni solo la torre su Deneb Drei, la palestra su Lusus, la cucina e la zattera-bagno su Mare Infinitum. Ogni giorno lavoravo per dieci ore filate, m’interrompevo per fare qualche vigoroso esercizio seguito da un pasto e da un sonnellino, poi tornavo alla scrivania per altre otto ore. Mi sembrava d’essere tornato indietro di cinque anni, quando cominciavo a riprendermi dall’incidente e a volte mi ci voleva un’ora o un giorno perché la parola giusta si presentasse, perché l’idea mettesse radici nel solido terreno del linguaggio. Il processo attuale era anche più lento: penavo nella ricerca della parola perfetta, della rima precisa, dell’immagine più valida, dell’analogia più ineffabile per descrivere l’emozione più elusiva.
Dopo dieci mesi standard, ero esausto. Riconoscevo la validità dell’antico aforisma secondo il quale libri e poesie non sono mai terminati, solo abbandonati.
«Cosa ne pensi?» domandai a Tyrena, mentre lei leggeva la prima copia.
I suoi occhi erano vacui, dischi di bronzo secondo la moda di quella settimana; ma questo non nascondeva la presenza di lacrime. Tyrena ne asciugò una. «È bello» disse.
«Ho cercato di riscoprire la voce di alcuni Antichi» spiegai, intimidito all’improvviso.
«Ci sei riuscito magnificamente.»
«L’interludio di Porta del Paradiso è ancora da limare.»
«È perfetto.»
«Parla di solitudine.»
«E solitudine.»
«Ti sembra pronto?»
«È perfetto… un capolavoro.»
«Si venderà?»
«Nessun rischio.»
Per i Canti programmarono una tiratura iniziale di settanta milioni di faxcopie. La Transline mise annunci pubblicitari nelle sfere dati e negli spot in TVE, trasmise inserti via software, sollecitò con successo soffietti da autori di grido, si accertò che comparissero recensioni nella New New York Times Book Section e nella TC2 Review: a conti fatti, spese una fortuna in pubblicità.
Il primo anno, i Canti vendettero ventitremila faxcopie. Con i diritti d’autore — il dieci per cento del prezzo di copertina — avevo guadagnato 13.800 marchi a fronte di un anticipo di due milioni di marchi. Il secondo anno si vendettero 638 faxcopie; non ci fu nessuna vendita di diritti alle sfere dati, né opzioni per olofilm, né giri per autografare copie.
La mancanza di vendite fu compensata dalle recensioni negative: «Indecifrabile… arcaico… irrilevante per gli interessi attuali» fu il giudizio della rubrica letteraria del Times. «Il signor Sileno ha compiuto l’atto finale dell’incomunicabilità» scrisse Urban Kapry nella TC2 Review «indulgendo in un’orgia di offuscamenti pretenziosi.» Marmon Hamlit su “Tutta Rete Ora!” vibrò il colpo finale: «Ah… quell’affare di poesia di Comesichiama… illeggibile. Non ci ho neppure provato».
Tyrena Wingreen-Feif non sembrò preoccupata. Due settimane dopo il ritorno delle prime recensioni e delle faxcopie, all’indomani di tredici giorni di baldoria, mi teleportai nel suo ufficio e mi lasciai cadere nella poltrona di flussoschiuma nera accucciata come una pantera di velluto in mezzo alla stanza. Era in corso una delle leggendarie tempeste di Tau Ceti Centro: tuoni e fulmini di grandezza gioviana laceravano l’aria colorata di sangue al limite dell’invisibile campo di contenimento.
«Non sudare» disse Tyrena. La moda di quella settimana comprendeva un’acconciatura di chiodi neri mezzo metro sopra la fronte e un campo opaco corporale che lasciava scintillanti correnti di colore a nascondere, e rivelare, le nudità. «La prima tiratura ammontava solo a sessantamila faxcopie, quindi non siamo sotto di molto.»
«Avevi parlato di settanta milioni di copie.»
«Ah, sì. Be’, abbiamo cambiato idea, dopo che l’IA residente della Transline l’ha letto.»
Mi accasciai di più nella flussoschiuma. «Non è piaciuto neppure all’IA?»
«No, all’IA è piaciuto moltissimo» rispose Tyrena. «E allora abbiamo capito che alle gente non sarebbe piaciuto.»
Mi alzai a sedere. «Non si potevano vendere delle copie al TecnoNucleo?»
«Fatto» disse Tyrena. «Una copia. Probabilmente i milioni di IA del Nucleo l’hanno condivisa in tempo reale, nel momento stesso in cui l’hanno ricevuta per astrotel. Il copyright interstellare non significa un tubo, quando hai a che fare con il silicio.»
«E va bene» dissi, lasciandomi ricadere. «E dopo?» Fuori, fulmini grandi come le antiche autostrade della Vecchia Terra danzavano fra le guglie delle compagnie e le torri di nuvole.
Tyrena si alzò dalla scrivania e andò fino all’orlo del cerchio ricoperto da un tappeto. Il suo campo corporale vibrò come olio elettrizzato sull’acqua. «Dopo» disse «decidi se vuoi essere uno scrittore o il più grosso babbeo della Rete dei Mondi.»
«Eh?»
«Mi hai sentito.» Tyrena si girò e sorrise. Aveva denti rivestiti di punte d’oro. «Il contratto ci consente di recuperare l’anticipo con ogni mezzo disponibile. I tuoi depositi alllnterbanca, le monete d’oro che hai nascosto su Homefree e la vendita della tua fastosa casa teleporter basteranno appena. Dopo di che puoi pure andare a unirti agli artisti dilettanti, agli scarti e agli svitati che re Billy il Triste colleziona su quel suo mondo periferico.»
La fissai.
«Oppure» continuò, con il suo sorriso da cannibale «dimentichiamo questo intoppo contingente e comincia a lavorare al prossimo libro.»
Il mio libro successivo uscì cinque mesi standard più tardi. Crepuscolo di un mondo II iniziava dove Crepuscolo di un mondo terminava, ed era in prosa, stavolta. La lunghezza delle frasi e il contenuto dei capitoli erano accuratamente guidati dalle reazioni, analizzate mediante neuro-bio-monitor, espresse da un gruppo campione di 638 lettori medi di faxlibri. L’opera era in forma di romanzo, abbastanza corto da non intimidire il potenziale acquirente alle edicole di controllo dei supermercati alimentari; la copertina era un ologramma interattivo di venti secondi in cui uno straniero alto e bruno (Amalfi Schwartz, immagino, anche se Amalfi era basso, pallido e occhialuto) strappava la maglietta all’eroina proprio fino alla linea dei capezzoli, prima che la bionda ribelle si girasse verso lo spettatore e gridasse aiuto in un sussurro soffocato fornito dalla pornolostar Leeda Swann.
Crepuscolo di un mondo II vendette diciannove milioni di copie.
«Non male» disse Tyrena. «Occorre tempo, per costruirsi un pubblico affezionato.»
«Il primo Crepuscolo ha venduto tre miliardi di copie» dissi.
«Pilgrim’s Progress» rispose lei. «Mein Kampf. Una volta a secolo. Forse meno.»
«Ma tre miliardi…»
«Senti» disse Tyrena «nella Vecchia Terra del Ventesimo secolo, una catena di fast food prese della carne di vacca, la cucinò nel grasso, ci aggiunse dei cancerogeni, la confezionò in plastica derivata dal petrolio e vendette novecento miliardi di pezzi. Esseri umani. Vai a capire.»
Crepuscolo di un mondo III introdusse i personaggi di Winona, la schiava fuggita che arrivò a possedere una propria piantagione di fibroplastica (non importa che la fibroplastica non sia mai cresciuta sulla Vecchia Terra); Arturo Redgrave, l’audace forzablocchi (quali blocchi?); e Innocence Sperry, la telepate di nove anni che moriva a causa di un imprecisato morbo Little Nell. Innocence durò fino a Crepuscolo IX e il giorno in cui la Transline mi permise di far morire quella stronzetta, me ne andai a far baldoria per sei giorni su venti mondi. Mi risvegliai in una pneumo-tubatura su Porta del Paradiso, coperto di vomito e di muffa del riciclo-respiratore, con la peggiore emicrania della Rete e la certezza che presto avrei dovuto iniziare il Volume X delle Cronache del crepuscolo di un mondo.
Non è dura, fare lo scrittore prezzolato. Fra Crepuscolo II e Crepuscolo IX, trascorsero sei anni standard relativamente indolori. Ricerche scarse, trame dozzinali, personaggi di cartone e prosa di basso livello mi lasciavano un sacco di tempo libero. Viaggiai. Mi sposai altre due volte: ogni moglie mi lasciò senza risentimenti, ma si portò via una notevole porzione dei diritti d’autore del Crepuscolo seguente. Esplorai le religioni e l’alcol: trovai in quest’ultimo maggiori speranze di consolazione duratura.
Mi tenni la casa, aggiunsi sei stanze su cinque mondi, la riempii di opere d’arte. Diedi ricevimenti. Fra i miei amici c’erano alcuni scrittori ma, come sempre accade, avevamo la tendenza a non fidarci e a sparlare gli uni degli altri, invidiosi in segreto del successo altrui e ferocemente critici. Ciascuno di noi sapeva, in cuor suo, di essere un vero artista della parola, diventato commerciale per caso: gli altri erano solo scribacchini prezzolati.
Poi, una fresca mattina, mentre la camera da letto dondolava lievemente fra i rami superiori del mio albero sul mondo dei Templari, mi svegliai sotto un cielo grigio con la certezza che la mia musa mi aveva abbandonato.
Da cinque anni non scrivevo più un rigo di poesia. I Canti giacevano aperti nella torre di Deneb Drei: avevo terminato solo alcune pagine, oltre quelle già pubblicate. Per scrivere i romanzi, mi servivo di pensiero-processori: uno di questi si accese, quando entrai nello studio, MERDA stampò, COSA HO FATTO ALLA MIA MUSA?
La frase è rivelatrice del tipo di cose che scrivevo: giustificava il fatto che la musa se ne fosse andata senza che me ne accorgessi. A coloro che non scrivono e che non sono stati mai in preda all’impulso creativo, parlare di muse sembra un banale modo di dire, un’idea eccentrica; ma per quelli di noi che vivono per il Verbo, la nostra musa è reale e necessaria come la morbida creta del linguaggio che aiuta a modellare. Quando uno scrive — scrive sul serio — è come se fosse in contatto astrotel con gli dèi. Nessun vero poeta è riuscito a spiegare l’esaltazione che si prova quando la mente diventa uno strumento come la penna o il pensiero-processore, e ordina ed esprime le rivelazioni che fluiscono da qualche altro luogo.
La mia musa era fuggita. La cercai negli altri mondi della mia casa, ma dalle pareti ricoperte di opere d’arte e dagli spazi vuoti solo il silenzio mi rispose. Fuggii nei miei posti preferiti, guardai i soli di Grass tramontare sulle praterie mosse dal vento e le nebbie notturne di Nevermore oscurare le scogliere color ebano; ma per quanto mi svuotassi la mente della prosa spazzatura del Crepuscolo senza fine, dalla mia musa non mi arrivò nessun sussurro.
La cercai nell’alcol e nel Flashback, tornai ai giorni produttivi su Porta del Paradiso, quando la sua ispirazione era un ronzio costante nelle orecchie, interrompeva il lavoro, mi svegliava nel sonno; ma nelle ore e nei giorni rivissuti, la sua voce era soffocata e confusa come un audiodisco danneggiato di secoli dimenticati.
La mia musa era fuggita.
Mi teleportai nell’ufficio di Tyrena Wingreen-Feif, nell’istante esatto dell’appuntamento. Tyrena era stata promossa da redattore capo della divisione faxlibri a direttore editoriale. Il suo nuovo ufficio occupava il piano più alto della Guglia Transline di Tau Ceti Centro: trovarsi lì era come essere appollaiati sulla cima rivestita di moquette del picco più alto e più sottile della galassia; solo l’invisibile cupola del campo di contenimento lievemente polarizzato s’inarcava in alto, e l’orlo del tappeto terminava su un abisso di sei chilometri. Mi chiesi se altri scrittori provavano l’impulso di saltare.
«La nuova opera?» disse Tyrena. Quella settimana Lusus dominava la moda dell’universo e “dominare” era il verbo adatto. La mia editor era vestita di pelle e di ferro, aveva ai polsi e al collo punte arrugginite, una massiccia bandoliera di traverso sulla spalla e sul seno sinistro. Le cartucce sembravano vere.
«Già» dissi; le gettai sulla scrivania la scatola con il manoscritto.
«Martin, Martin, Martin» sospirò lei. «Quando trasmetterai i tuoi libri, anziché prenderti la briga di stamparli e di portarli di persona?»
«C’è una bizzarra soddisfazione, nel consegnarli a mano» risposi. «Soprattutto questo libro.»
«Oh?»
«Sì» dissi. «Perché non ne leggi qualche brano?»
Tyrena sorrise e batté le unghie nere sulle cartucce della bandoliera. «Sono certa che è al livello del tuo standard normale, Martin» disse. «Non ho bisogno di leggerlo.»
«Leggilo, per favore.»
«Dico sul serio, non è necessario. M’innervosisce sempre, leggere in presenza dell’autore un nuovo lavoro.»
«Questa volta non accadrà» dissi. «Leggi solo le prime pagine.»
Certo nella mia voce aveva colto qualcosa: corrugò leggermente la fronte e aprì la scatola. La ruga diventò più marcata, mentre leggeva la prima pagina e sfogliava il resto del manoscritto.
A pagina uno c’era una sola frase: “E poi, un bel mattino d’ottobre, il mondo al crepuscolo ingoiò le sue stesse viscere, si contrasse nello spasmo finale e morì”. Le altre 299 pagine erano bianche.
«Uno scherzo, Martin?»
«No.»
«Un’allusione sottile, allora? Ti piacerebbe inziare una nuova serie?»
«No.»
«In fin dei conti ce l’aspettavamo, Martin. I nostri elaboratori hanno trovato diverse idee eccitanti per una tua nuova serie. Il signor Subwaizee ritiene che tu sia perfetto per romanzare gli olo-film del Vendicatore Scarlatto.»
«Puoi infilare il Vendicatore Scarlatto su per il tuo culo editoriale, Tyrena» risposi cordialmente. «Ho finito, con la Transline e la pappetta premasticata che chiamate romanzi.»
Tyrena non cambiò espressione. Non aveva denti aguzzi: oggi erano ferro rugginoso, per intonarsi ai chiodi ai polsi e al collare. «Martin, Martin, Martin» sospirò. «Non hai idea della fine che farai, se non chiederai scusa, non rientrerai nei ranghi e non righerai dritto. Ma possiamo aspettare fino a domani. Perché non torni a casa, rinsavisci e ci rifletti?»
Scoppiai a ridere. «Sono lucido come non lo sono mai stato negli ultimi otto anni, signora mia. Solo, ho impiegato un po’ di tempo per capire che non ero solo io a scrivere questa merda… quest’anno non un solo libro in tutta la Rete era meno che spazzatura. Bene, pianto baracca e burattini.»
Tyrena si alzò. Per la prima volta notai che dalla finta cintura di stoffa pendeva una neuroverga della FORCE. Mi augurai che fosse falsa come il resto del costume.
«Ascolta bene, miserabile imbrattacarte senza il minimo talento» sibilò. «La Transline ti possiede, dalle palle in su. Se pianti ancora casino, ti sbatteremo a lavorare nella fabbrica di romanzi gotici, sotto il nome di Rosemary Titmouse. Ora vattene a casa, fatti passare la sbronza e rimettiti al lavoro su Crepuscolo X.»
Sorrisi e scossi la testa.
Tyrena mi guardò socchiudendo un poco gli occhi. «Sei ancora legato a noi da un anticipo di un milione di marchi» disse. «Una sola parola al recupero crediti, e ci prenderemo ogni stanza della tua casa, tranne quella maledetta zattera che ti serve da cesso. Potrai starci seduto finché l’oceano non si sarà riempito di merda.»
Seguì la mia risata finale. «Si tratta di un’unità a eliminazione autonoma» dissi. «E poi, ieri ho venduto la casa. L’assegno a compenso del credito ormai dovrebbe essere arrivato.»
Tyrena batté una serie di colpetti sull’impugnatura di plastica della neuroverga. «La Transline ha sotto copyright l’idea del Crepuscolo, sai. Affideremo a un altro l’incarico di scrivere i seguiti.»
Annuii. «Sarà il benvenuto.»
Qualcosa nel tono di voce della mia ex editor cambiò, quando si rese conto che parlavo sul serio. Da qualche parte, intuii, per lei c’era un vantaggio, se restavo. «Senti, Martin» disse. «Sono sicura che troveremo una soluzione. L’altro giorno dicevo al direttore che i tuoi anticipi erano bassi e che la Transline avrebbe dovuto permetterti di sviluppare una nuova linea di romanzi…»
«Tyrena, Tyrena, Tyrena» sospirai. «Addio.»
Mi teleportai su Vettore Rinascimento e poi su Parsimony; lì m’imbarcai su una spin-nave per un viaggio di tre settimane fino ad Asquith e poi all’affollato reame di re Billy il Triste.
Note per un bozzetto di re Billy il Triste:
Sua Altezza Reale re William XXIII, lord sovrano del Regno di Windsor-in-esilio, ha un po’ l’aspetto d’una candela umana lasciata sopra una stufa calda. I lunghi capelli ricadono in ciocche inerti sulle spalle ingobbite; le rughe sulla fronte colano verso gli affluenti grinzosi intorno agli occhi da bassett hound e poi giù fra pieghe e segni, fino al labirinto di bargigli sotto la mascella e sul collo. Si dice che re Billy ricordi agli antropologi le bambole della disperazione dell’entroterra del Kinshasa, che rammenti agli gnostici Zen il Buddha Pietoso dopo l’incendio del tempio a Tai Zhin, e che mandi gli storici dei media a frugare negli archivi per controllare le foto d’un antico attore dei film 2-D, Charles Laughton. Tutti riferimenti che non mi dicono niente. Guardo re Billy e ripenso al mio defunto tutore don Balthazar dopo una settimana di baldoria.
La sua fama di tetraggine è esagerata: re Billy ride spesso. È semplice sfortuna, se il suo peculiare modo di ridere fa credere a molti che pianga.
Un uomo normale non può porre rimedio alla sua fisionomia; ma nel caso di Sua Altezza, l’intera personalità tende a dare l’idea o del buffone o della vittima. Re Billy si veste, se così si può dire, in un modo che s’avvicina a uno stato costante d’anarchia, sfidando il buongusto e il senso del colore dei servandroidi per cui, certi giorni, stride con se stesso e nello stesso tempo con il suo ambiente. E il suo aspetto non si limita al caos sartoriale… re William si muove in una sfera permanente di deshabillé: la patta aperta, il lacero manto di velluto che striscia per terra e raccoglie briciole dal pavimento, la gala della manica sinistra due volte più lunga dell’altra che, a sua volta, sembra tuffata nella marmellata.
Non so se mi spiego.
Con tutto ciò, re Billy il Triste ha una mente intuitiva e una passione per le arti e per la letteratura, ineguagliata fin dai giorni del Rinascimento su Vecchia Terra.
Per certi aspetti, re Billy è un bimbo grassoccio con il viso eternamente premuto contro la vetrina di una pasticceria. Ama e apprezza la bella musica, ma non sa crearla. Esperto del balletto e di tutto ciò che possiede grazia, Sua Altezza è goffo e maldestro, una serie ambulante di stupidi incidenti e di goffaggini comiche. Lettore appassionato, infallibile critico di poesia, mecenate dell’arte oratoria, re Billy unisce alla balbuzie una timidezza che non gli consente di mostrare a nessuno i suoi versi o le sue prose.
Scapolo incallito ormai sulla sessantina, re Billy abita il palazzo diroccato e il regno di duemila miglia quadrate come se si trattasse di un altro completo di vesti regali stropicciate. Gli aneddoti su di lui abbondano: un famoso pittore a olio finanziato da re Billy trova Sua Maestà che cammina a testa bassa, mani strette dietro la schiena, un piede sul sentiero del giardino e l’altro nel fango, chiaramente perso nei suoi pensieri. L’artista saluta il suo mecenate. Re Billy il Triste alza lo sguardo, batte le palpebre, si guarda intorno come se si svegliasse da un lungo pisolino. «Mi scusi» dice Sua Altezza al pittore perplesso «p-p-potrebbe dirmi per f-f-favore se ero diretto al p-p-palazzo o me ne allontanavo?» «Era diretto al palazzo, Maestà» risponde l’artista. «Oh, b-b-bene» sospira il re. «Allora ho già fatto colazione.»
Il generale Horace Glennon-Heigh ha iniziato la rivolta e il mondo periferico di Asquith si trova sul suo sentiero di conquista. Asquith non era preoccupato (l’Egemonia gli ha offerto lo scudo di una flotta della FORCE:spazio), ma il governatore reale del regno di Monaco-in-esilio sembrava più fuso che mai, quando mi convocò.
«Martin» disse Sua Maestà «hai sentito p-p-parlare della b-b-battaglia di Fomalhaut?»
«Sì» risposi. «Non sembra che ci sia da preoccuparsi. Fomalhaut è proprio il tipo di mondo che Glennon-Height colpisce: piccolo, abitato al massimo da qualche migliaio di coloni, ricco di minerali, e con un debito temporale di almeno venti mesi standard dalla Rete.»
«Ventitré» disse re Billy il Triste. «Allora non p-p-pensi che siamo in p-p-pericolo?»
«Ah-ah» dissi. «Con un tempo effettivo di transito di sole tre settimane e un debito temporale inferiore all’anno, l’Egemonia può sempre mandare qui le forze della Rete molto più in fretta di quanto il Generale non impieghi ad arrivare da Fomalhaut per spin-nave.»
«Può darsi» rifletté Billy, appoggiandosi a un globo e drizzandosi di scatto nel sentirlo rotolare sotto il suo peso. «Ma n-n-nondimeno ho deciso di d-d-dare inizio alla nostra m-m-modesta Egira.»
Battei le palpebre, sorpreso. Da quasi due anni Billy parlava di cambiare sede al suo regno in esilio, ma non credevo che l’avrebbe fatto.
«Le n-n-navi sono p-pronte su Parvati» continuò. «Asquith è d-d-d’accordo di fornirci il trasporto alla Rete.»
«Ma il palazzo?» obiettai. «La biblioteca? Le fattorie e le terre?»
«Le regalo, ovviamente» disse re Billy. «Ma il contenuto della biblioteca verrà con noi.»
Mi sedetti sul bracciolo del divano di crine di cavallo e mi strofinai il mento. Nei dieci anni di permanenza nel regno, avevo fatto strada: da protetto a tutore, confidente e amico; ma non avevo mai preteso di capire quell’enigma scarmigliato. Al mio arrivo mi aveva concesso udienza immediata. «V-v-vuole unirsi alle altre p-p-persone di t-t-talento nella nostra piccola colonia?» mi aveva domandato.
«Sì, maestà.»
«E s-s-scriverà altri libri come C-c-crepuscolo di un m-m-mondo?»
«No, se posso evitarlo, maestà.»
«L’ho l-l-letto, sa? Dav-v-vero interessante.»
«Molte gentile, maestà.»
«Stronzate, s-s-signor Sileno. Era interessante p-p-perché qualcuno l’ha espurgato e vi ha l-l-lasciato tutte le parti brutte.»
Avevo sorriso, colpito dall’improvvisa rivelazione che re Billy il Triste mi sarebbe andato a genio.
«M-m-ma i Canti» aveva sospirato lui. «Quelli sì che s-s-sono un libro. Forse il miglior volume di v-v-v… di poesia pubblicato nella Rete negli ultimi due secoli. Non saprò mai come sia riuscito a fargli superare la politica della mediocrità. Ne ho ordinate ventimila copie per il r-r-regno.»
Avevo fatto un lieve inchino. Per la prima volta dai giorni dell’incidente, due decenni prima, ero rimasto senza parole.
«Scriverà altre p-p-poesie come i Canti?»
«Sono venuto qui per provarci, maestà.»
«Allora sia il benvenuto» aveva detto re Billy il Triste. «Sarà alloggiato nell’ala est del p-p-p… del castello, vicino al mio ufficio, e la mia p-p-porta le sarà sempre aperta.»
Lanciai un’occhiata alla porta chiusa e al piccolo sovrano che, pur sorridendo, sembrava sull’orlo delle lacrime. «Hyperion?» domandai. Diverse volte aveva nominato quella colonia tornata allo stato primitivo.
«Esattamente. Le navi coloniali androidi sono state lì per alcuni anni, Martin. A preparare la strada, in pratica.»
Sollevai un sopracciglio. La ricchezza di re Billy non proveniva dalle risorse del regno, ma da importanti investimenti nell’economia della Rete. Anche così, se per anni aveva effettuato in segreto la ricolonizzazione di un pianeta, la spesa era stata certo sbalorditiva.
«Ricorda, Martin, perché i coloni iniziali diedero al p-p-p… a quel mondo il nome Hyperion?»
«Certo. Prima dell’Egira formavano una piccola comunità libera, su una luna di Saturno. Non potevano tirare avanti senza rifornimenti terrestri, perciò emigrarono nei mondi periferici e diedero al pianeta il nome della loro luna.»
Re Billy fece un sorriso triste. «E sa perché quel nome è propizio al nostro tentativo?»
Impiegai circa dieci secondi a scoprire il legame. «Keats» risposi.
Alcuni anni prima, quasi al termine d’una lunga discussione sull’essenza della poesia, re Billy mi aveva domandato quale fosse il poeta più puro mai vissuto.
«Più puro?» avevo ripetuto. «Non intende il più grande?»
«No, no» aveva risposto Billy. «È assurdo d-d-discutere su chi è il più grande. Ma sono curioso di sapere chi ritiene il più p-p-puro… il più vicino all’essenza della poesia di cui parla.»
Avevo riflettuto per qualche giorno e alla fine avevo portato la risposta a re Billy, che in quel momento stava ammirando il tramonto dei soli dalla scogliera nei pressi del palazzo. Ombre rosse e azzurre si allungavano verso di noi sul prato color ambra. «Keats» avevo detto.
«John Keats» aveva mormorato re Billy il Triste. «Ah.» E un momento dopo: «Perché?»
Allora gli avevo detto quel che sapevo del poeta del XIX secolo della Vecchia Terra; la sua educazione, l’addestramento, la morte precoce… ma soprattutto la vita dedicata quasi totalmente ai misteri e alle bellezze della creazione poetica.
Billy allora era sembrato interessato; ora sembrava invece ossessionato, mentre muoveva la mano e dava vita a un olomodello che quasi riempiva la stanza. Mi tirai indietro, camminando fra colline, edifici, animali al pascolo, per avere una vista migliore.
«Ecco Hyperion» mormorò il mio mecenate. Come al solito, quando era completamente assorto, re Billy dimenticò di balbettare. L’ologramma mostrò una serie di panorami: città fluviali, città portuali, picchi di montagne, una città sopra una collina piena di monumenti che facevano il paio con gli edifici bizzarri della vicina vallata.
«Le Tombe del Tempo?» dissi.
«Esatto. Il mistero più grande dell’universo conosciuto.»
A quell’iperbole aggrottai le sopracciglia. «Sono maledettamente vuote» dissi. «Vuote, fin dalla loro scoperta.»
«Sono la fonte d’un bizzarro campo di forza anti-entropico che esiste tuttora» disse re Billy. «Uno dei pochi fenomeni, a parte le anomalie, che osano interferire con il tempo stesso.»
«Non è gran cosa» dissi. «Sarà stato come dare del minio sul metallo. Le Tombe furono fatte per durare, ma sono vuote. E poi, da quando in qua ci facciamo venire il mal di pancia per la tecnologia?»
«Non per la tecnologia» sospirò re Billy, con la faccia che gli si disfaceva in rughe più marcate. «Per il mistero. La bizzarria del luogo, indispensabile per alcuni spiriti creativi. Una perfetta mistura d’utopia classica e mistero pagano.»
Scrollai le spalle, per niente impressionato.
Con un gesto, re Billy il Triste spense l’olo. «La sua p-p-poesia è migliorata?»
Incrociai le braccia e lanciai un’occhiata di fuoco a quello zotico nanerottolo. «No.»
«La m-m-musa è tornata?»
Non risposi. Se gli sguardi potessero uccidere, prima di notte avremmo tutti gridato: «Il re è morto, viva il re!»
«B-b-benissimo» disse lui: sapeva anche essere insopportabilmente compiaciuto, oltre che triste. «P-p-prepari i bagagli, ragazzo mio. Andiamo su Hyperion.»
(Dissolvenza)
Cinque navi coloniali di re Billy il Triste, librate come soffioni dorati sopra un cielo celeste. Bianche città sorgono su tre continenti: Keats, Endymion, Port Romance… la stessa Città dei Poeti. Più di ottomila pellegrini d’Arte fuggono la tirannia della mediocrità e cercano un rinnovamento di visione su questo pianeta appena sbozzato.
Nel secolo successivo all’Egira, Asquith e Windsor-in-esilio erano stati un centro per la bioproduzione d’androidi; ora questi pelleblù amici dell’uomo sudavano e dissodavano la terra con la consapevolezza che al termine delle loro fatiche sarebbero stati finalmente liberi. Le città bianche sorsero. Gli indigeni, stanchi di giocare ai nativi, uscirono dai villaggi e dalle foreste per aiutare a ricostruire la colonia secondo una scala più umana. I tecnocrati, i burocrati e gli ecocrati furono scongelati e sguinzagliati sul pianeta senza sospetti; il sogno di re Billy il Triste si avvicinò d’un passo alla realtà.
Quando arrivammo su Hyperion, il generale Horace Glennon-Height era morto e la sua breve ma brutale ribellione era già stata soffocata, ma non si poteva tornare sui propri passi.
Alcuni artisti e artigiani, fra i più rigidi, rifiutarono con sdegno la Città dei Poeti e sbarcarono il lunario, in modo duro ma creativo, a Jacktown o a Port Romance, o addirittura nelle zone di frontiera che si espandevano più oltre; ma io rimasi.
In quei primi anni su Hyperion non trovai la musa. Per molti, l’allungamento delle distanze dovuto ai limitati mezzi di trasporto (i VEM non erano affidabili, gli skimmer scarseggiavano) e la contrazione della consapevolezza artificiale dovuta all’assenza di sfera dati, alla mancanza di accesso alla Totalità e al fatto che ci fosse un solo trasmettitore astrotel, portarono al rinnovamento delle energie creative e a una nuova realizzazione di cosa significasse essere un uomo e un artista.
Almeno, così si diceva.
La musa non comparve. I miei versi continuarono a essere tecnicamente validi e morti come il gatto di Huck Finn.
Decisi di suicidarmi.
Ma prima trascorsi un po’ di tempo, nove anni almeno, a organizzare un servizio sociale, che dotò il nuovo Hyperion dell’unica cosa che gli mancava: la decadenza.
Da un bioscultore opportunamente chiamato Graumann Hacket, mi feci fare i fianchi irsuti, gli zoccoli e le zampe caprine di un satiro. Mi lasciai crescere la barba e mi allungai le orecchie. Graumann eseguì interessanti modificazioni al mio apparato sessuale. La voce si sparse. Ragazze contadine, indigene, mogli di progettisti e di pionieri della nostra città conservatrice… tutte attesero una visita dell’unico satiro stabile di Hyperion, o se ne procurarono una. Imparai che cosa significano realmente “priapeo” e “satinasi”. Oltre a una serie infinita di certami sessuali, lasciai che le mie sbronze diventassero proverbiali e che il mio vocabolario tornasse a essere qualcosa di molto vicino ai vecchi giorni post-incidente.
Era una fottuta meraviglia. Era un fottuto inferno.
E poi, la notte in cui m’ero appartato per farmi saltare le cervella, comparve Grendel.
Note per un bozzetto del nostro mostro in visita:
I nostri peggiori incubi hanno preso vita. Qualcosa di malvagio sfugge la luce. Ombre di Morbius e del Krell. Tieni alto il fuoco, Mamma: Grendel viene stanotte.
Sulle prime pensiamo che chi manca sia semplicemente assente; non ci sono sentinelle sulle mura della nostra città, non ci sono neppure mura, né guerrieri alla porta della nostra corte. Poi un marito riferisce che la moglie è scomparsa tra il pasto della sera e la messa a letto dei due figli. Quindi Hoban Kristus, l’implosionista astratto, non si fa vedere alla recita di metà settimana nell’Anfiteatro dei Poeti: perde la battuta d’entrata per la prima volta negli ottantadue anni in cui calca le scene. Ci si preoccupa. Re Billy il Triste torna dalle sue fatiche come soprastante per la ristrutturazione di Jacktown e promette che la sicurezza sarà più stretta. Si tende intorno alla città una rete di sensori. Agenti del servizio di sicurezza navale fanno un sopralluogo nelle Tombe del Tempo e riferiscono che sono sempre vuote. Mecc sono inviati nell’ingresso del labirinto alla base della Tomba di Giada e, dopo un sondaggio di seimila chilometri, riferiscono che non c’è niente. Skimmer, sia automatici sia provvisti d’equipaggio, sorvolano la zona fra la città e la Briglia: non scoprono nulla di più grande della traccia di calore di un’anguilla delle rocce. Per una settimana locale non ci sono altre sparizioni.
Poi iniziano le morti.
Lo scultore Pete Garcia viene trovato nel suo studio… e in camera da letto… e in cortile. Truin Hines, il direttore del servizio di sicurezza navale, è tanto sciocco da dichiarare a un robocronista: «Sembra quasi che sia stato fatto a pezzi da un animale feroce. Ma per quanto ne so, non esistono belve che possano ridurre un uomo in quello stato».
Segretamente siamo tutti eccitati. Il dialogo è pessimo, certo: sembra uscito diritto da uno dei milioni di film e di olodrammi con cui ci piace spaventarci; ma ora facciamo parte dello spettacolo.
I sospetti si rivolgono all’ovvio: fra noi c’è uno psicopatico in libertà: probabilmente per uccidere si serve di un’arma tipo pulso-lama o frustalaser. Stavolta lui (o lei) non ha avuto il tempo di liberarsi del cadavere. Povero Pete.
Il direttore della sicurezza Hines è licenziato; l’amministratore della città, Pruett, riceve da Sua Maestà il permesso di assumere, addestrare e armare una forza di polizia di circa venti agenti. Si parla di sottoporre alla macchina della verità l’intera popolazione della Città dei Poeti, seimila anime. I caffè lungo i marciapiedi ronzano di conversazioni sui diritti civili (tecnicamente, siamo al di fuori dell’Egemonia: abbiamo diritti?) e si fanno piani stravaganti per catturare l’assassino.
Poi comincia la strage.
Negli omicidi non c’era uno schema preciso. Si trovavano cadaveri a gruppi di due o di tre, o soli, o non si trovavano affatto. Alcune sparizioni non lasciavano cadavere; altre, litri di sangue. Non c’erano testimoni, non c’erano superstiti degli attacchi. La località, a quanto pare, non aveva importanza: la famiglia Weimont abitava in una delle ville periferiche, ma Sira Rob non si spostava mai dal suo studio torre nella zona centrale della città; due vittime scomparvero di notte, sembra mentre passeggiavano da sole nel Giardino Zen, ma la figlia del cancelliere Lehman aveva guardie del corpo personali, eppure sparì mentre era da sola nel bagno del sesto piano del palazzo di re Billy il Triste.
Su Lusus, o su Tau Ceti Centro, o su decine di altri mondi della vecchia Rete, la morte di mille individui è una notizia di secondaria importanza (roba da sfera dati a breve termine, o da pagine interne del giornale del mattino), ma in una città di seimila anime di una colonia di cinquantamila persone, una decina di omicidi (come la proverbiale condanna all’impiccagione il mattino dopo) tende a focalizzare parecchio l’attenzione.
Conoscevo una delle prime vittime. Sissipriss Harris era stata una delle mie prime conquiste da satiro… e una delle più entusiasmanti: una ragazza molto bella, con capelli lunghi e biondi troppo morbidi per essere veri, una carnagione da pesca appena raccolta, troppo virginale per sognare anche solo di toccarla, una bellezza troppo perfetta per credere che fosse vera: proprio il tipo che anche il maschio più timido sogna di violare. Ora Sissipriss era stata violata a iosa. Trovarono solo la testa, messa per diritto nel centro di piazza Lord Byron come se la ragazza fosse stata seppellita fino al collo nel marmo a presa rapida. Quando appresi questi particolari, capii esattamente con quale sorta di creatura avevamo a che fare perché un gatto che avevo nella tenuta di Mamma, parecchie mattine d’estate lasciava sul patio meridionale simili offerte: la testa di un topo che guardava in su dalla sabbia con occhi stupiti da roditore, o il sogghigno tutto denti di uno scoiattolo di terra… trofei di morte di un animale da preda orgoglioso ma affamato.
Re Billy il Triste venne a farmi visita mentre lavoravo ai Canti.
«Buongiorno, Billy» lo salutai.
«Sono Sua Maestà» brontolò lui, in una rara manifestazione di regale irritazione. La balbuzie era sparita il giorno in cui la navetta reale era atterrata su Hyperion.
«Grrr» brontolò il mio signore e sovrano, spostando alcune carte e trovando il modo di sedersi sopra l’unica macchia di caffè della panca altrimenti pulita. «Ha ripreso a scrivere, Sileno.»
Non c’era ragione di ammettere la constatazione dell’evidenza.
«Adopera sempre la penna?»
«No, solo se voglio scrivere qualcosa che meriti di essere letto.»
«E quella roba lo merita?» Indicò il mucchietto di fogli accumulato in due settimane locali di lavoro.
«Sì.»
«Sì? Solo sì?»
«Sì.»
«Me la farà leggere presto?»
«No.»
Re Billy abbassò lo sguardo e si accorse di avere la gamba sinistra in una grossa macchia di caffè. Corrugò la fronte, si spostò, con l’orlo del manto asciugò la macchia adesso molto più piccola. «Mai?» disse.
«Mai, se non vive più a lungo di me.»
«Cosa che intendo fare» disse il re. «Ci lascerà le penne a furia di giocare al montone con le pecore dell’impero.»
«Un tentativo di metafora?»
«Nient’affatto» disse re Billy. «Semplice constatazione.»
«Non ho più messo gli occhi su una pecora dall’epoca della mia infanzia nella fattoria» dissi. «Promisi in canto a mia madre che non avrei più fottuto pecore senza chiederle il permesso.» Mentre re Billy continuava a guardarmi con aria afflitta, cantai alcuni versi di un’antica canzoncina dal titolo: “Non ci sarà mai più un’altra pecora”.
«Martin» disse lui. «Qualcuno uccide il mio popolo.»
Misi da parte carta e penna. «Lo so» risposi.
«Mi occorre il suo aiuto.»
«E come, per l’amor di Dio? Dovrei scoprire il colpevole come un investigatore della TVE? Dovrei lottare fino alla morte sull’orlo delle merdose Cascate di Reichenbach?»
«Sarebbe soddisfacente, Martin. Ma nel frattempo basteranno qualche parola e qualche opinione.»
«Opinione uno» dissi. «E stato sciocco venire qui. Opinione due: è sciocco restarci. Consiglio alfa/omega: andarsene.»
Re Billy annuì tristemente. «Da questa città o da Hyperion?»
Mi strinsi nelle spalle.
Sua Maestà si alzò e andò alla finestra del mio studiolo. Dava su un vicolo largo tre metri e aveva di fronte la parete di mattoni dell’impianto automatico di riciclaggio della porta accanto. Re Billy guardò il panorama. «Conosce l’antica leggenda dello Shrike?» chiese.
«Ne ho sentito qualche frammento.»
«Gli indigeni associano quel mostro alle Tombe del Tempo.»
«Gli indigeni si dipingono la pancia per la celebrazione della mietitura e fumano tabacco non ricombinante» replicai.
Re Billy annuì alla saggezza di queste parole. Disse: «La prima squadra di coloni dell’Egemonia diffidava di questa zona. Installarono i registratori multicanale e mantennero le basi a sud della Briglia».
«Senta, maestà, cosa vuole? L’assoluzione per aver fatto casino e avere eretto qui la città? È assolto. Vai e non peccare più, figlio mio. Ora, sé non le spiace, Altezza, adiós. Devo scrivere limerick osceni.»
Re Billy continuò a guardare dalla finestra. «Mi consiglia di evacuare la città, Martin?»
Esitai solo un secondo. «Certo.»
«E lei se ne andrebbe con gli altri?»
«Perché non dovrei?»
Re Billy si girò e mi guardò negli occhi. «Se ne andrebbe davvero?»
Non risposi. Dopo un minuto, distolsi lo sguardo.
«Ne ero sicuro» disse il monarca del pianeta. Mise dietro la schiena le mani tozze e fissò di nuovo la parete. «Se fossi un investigatore» disse «sarei sospettoso. Il cittadino meno produttivo ricomincia a scrivere dopo un decennio di silenzio, solo… quanto, Martin?… due giorni dopo il primo assassinio. È scomparso dalla vita sociale che un tempo dominava e trascorre il tempo a comporre un poema epico… diamine, perfino le fanciulle sono al sicuro dal suo ardore caprino.»
Sospirai. «Ardore caprino, milord?»
Re Billy mi lanciò un’occhiata girando solo la testa.
«E va bene» dissi. «Mi ha fregato. Confesso. Li ho uccisi tutti io e faccio il bagno nel loro sangue. Funziona da fottuto afrodisiaco letterario. Calcolo che fra altre due… altre trecento vittime… il mio nuovo libro sarà pronto per la pubblicazione.»
Re Billy tornò a girarsi verso la finestra.
«Cosa c’è? Non mi crede?»
«No.»
«Perché no?»
«Perché» disse il re «so chi è l’assassino.»
Sedemmo ne la piazzuola di proiezione oscurata e guardammo lo Shrike uccidere la scrittrice Sira Rob e il suo amante. Il livello di luce era molto basso, la carne di mezz’età di Sira sembrava brillare di una pallida fosforescenza, mentre nella penombra le chiappe bianche del ganzo molto più giovane di lei davano l’illusione di galleggiare separatamente dal resto del corpo abbronzato. Il loro amplesso amoroso stava per raggiungere la frenesia dell’orgasmo, quando si verificò l’inesplicabile. Invece della spinta finale e dell’improvvisa pausa dell’orgasmo, il giovanotto sembrò levitare all’indietro e alzarsi nell’aria come se Sira l’avesse espulso a forza dal suo corpo. La pista sonora del dischetto, fino a quel punto composta dei soliti, banali ansiti, sospiri, incitazioni e istruzioni che ci si aspettano da simili attività, all’improvviso riempì di grida la piazzuola: prima le urla del giovanotto, poi gli strilli di Sira.
Si sentì un botto sordo quando il corpo del giovane colpì, fuori quadro, la parete. Sira aspettava, distesa, con vulnerabilità tragicomica: gambe divaricate, braccia larghe, seni appiattiti, cosce ceree. Trovò il tempo di rialzare la testa, prima gettata all’indietro nell’estasi, e di scuoterla, mentre la collera sostituiva l’espressione bizzarramente simile dell’orgasmo imminente. Aprì la bocca per urlare.
Non emise nessun suono. Si sentì un rumore simile a quello prodotto da un’anguria affettata, di lame conficcate nella carne, di uncini liberati con uno strattone dall’intralcio di tendini e ossa. La testa di Sira ricadde con la bocca spalancata in modo impossibile, e il suo corpo esplose dallo sterno in giù. La carne si separò come se un’ascia invisibile stesse riducendo Sira Rob a legna da ardere. Bisturi non visti conclusero il lavoro di aprirla; apparvero delle incisioni laterali come se fosse in atto l’operazione prediletta di un chirurgo folle: una brutale autopsia eseguita su una persona vivente. Un tempo vivente, per meglio dire: infatti, quando il sangue smise di schizzare e il corpo di contrarsi negli spasmi, le membra di Sira si rilassarono nella morte e le gambe si divaricarono di nuovo in un’eco dell’oscena esibizione delle interiora più in alto. E allora, per un brevissimo istante, accanto al letto ci fu un lampo confuso di rosso e di cromo.
«Blocca, espandi e ingrandisci» ordinò re Billy al computer domestico.
Il lampo confuso si rivelò per una testa uscita dall’incubo d’un vizioso dedito alla scossa: una faccia in parte acciaio, in parte cromo, in parte teschio; denti simili all’incrocio fra un lupo meccanico e una vanga a vapore; occhi come laser color rubino che ardessero attraverso gemme piene di sangue; fronte con una punta ricurva che spuntava per trenta centimetri dal cranio color mercurio; collo circondato da spine analoghe.
«Lo Shrike?» domandai.
Re Billy annuì: un movimento appena accennato di mento e mascella.
«Cos’è accaduto al ragazzo?»
«Non c’era traccia di lui, quando hanno trovato il cadavere di Sira» rispose il re. «Nessuno sapeva che fosse scomparso finché non è stato scoperto questo dischetto. È stato identificato come un giovane specialista ricreativo di Endymion.»
«Avete trovato solo l’ologramma?»
«Ieri» disse re Billy, annuendo. «Gli agenti della sicurezza hanno trovato l’olocamera sul soffitto. Meno d’un millimetro di diametro. Sira aveva una biblioteca di dischetti del genere. L’olocamera serviva chiaramente solo a registrare… ah…»
«Le follie di letto» dissi.
«Appunto.»
Mi accostai all’immagine sospesa della creatura. Passai la mano attraverso fronte, spina e mascella. Il computer aveva calcolato le dimensioni e l’aveva rappresentata nel modo giusto. A giudicare dalla testa della creatura, il nostro Grendel locale era alto più di tre metri. «Shrike» mormorai, più come saluto che identificazione.
«Che mi dice di lui, Martin?»
«Perché lo chiede a me?» replicai, brusco. «Sono un poeta, non uno storico dei miti.»
«Si è collegato al computer della nave coloniale e ha fatto una richiesta d’indagine sulla natura e le origini dello Shrike.»
Inarcai un sopracciglio. In teoria l’accesso al computer era riservato e anonimo quanto il collegamento alle sfere dati nell’Egemonia. «E allora?» replicai. «Centinaia di persone avranno indagato sulla leggenda dello Shrike, dall’inizio degli omicidi. Forse migliaia. È la nostra unica e merdosa leggenda di un mostro!»
Re Billy mosse su e giù rughe e pieghe. «Sì» disse. «Ma ha frugato nei file con tre mesi d’anticipo sulla prima sparizione.»
Sospirai e mi lasciai cadere sui cuscini della piazzuola. «E va bene» dissi. «Ho fatto l’indagine. E allora? Volevo usare quella stronzissima leggenda nel mio stronzissimo poema in corso di composizione; per questo ho fatto delle ricerche. Mi arresti.»
«Cos’ha scoperto?»
Adesso ero davvero infuriato. Pestai sul morbido tappeto gli zoccoli da satiro. «Solo la roba che c’è in quello stronzissimo file» sbottai. «Che cristo vuole da me, Billy?»
Il re si strofinò la fronte; trasalì, quando senza volerlo si cacciò il mignolo nell’occhio. «Non so» disse. «Gli uomini della sicurezza volevano portarla sulla nave e interfacciarla per l’interrogatorio. Io invece ho preferito parlare con lei.»
Battei le palpebre, colpito allo stomaco da una bizzarra sensazione di gravità zero. L’interrogatorio computerizzato significava scambi corticali e prese nel cranio. La maggior parte delle persone interrogate con questo sistema guariva. La maggior parte.
«Può dirmi quale aspetto della leggenda dello Shrike intendeva usare nel suo poema?» domandò piano re Billy.
«Certo» risposi. «Secondo il vangelo del culto iniziato dagli indigeni, lo Shrike è il Signore della Sofferenza e l’Angelo della Redenzione Finale, venuto da un luogo al di là del tempo ad annunciare la fine della razza umana. Mi piaceva l’idea.»
«La fine della razza umana» ripeté re Billy.
«Già. L’arcangelo Michele, Moroni, Satana, l’Entropia Mascherata e il mostro di Frankenstein, riuniti in un’unica confezione. Lo Shrike si aggira nelle vicinanze delle Tombe del Tempo e aspetta di uscirne e di scatenare la rovina, quando verrà il momento che l’umanità si unisca al dodo, al gorilla e al capodoglio, nell’Hit Parade degli animali estinti.»
«Il mostro di Frankenstein» meditò quell’ometto tozzo e grasso col manto spiegazzato. «Perché lui?»
Tirai un sospiro. «Perché i suoi fedeli credono che l’umanità, chissà come, abbia creato lo Shrike» risposi, pur sapendo che re Billy era informato quanto me, se non di più.
«Sa come ucciderlo?» domandò lui.
«Non c’è modo, che io sappia. In teoria è immortale, al di fuori del tempo.»
«Un dio?»
Esitai. «Non proprio» dissi infine. «Uno dei peggiori incubi dell’universo venuto in vita. Una sorta di Sinistra Mietitrice, ma con il pallino d’infilzare nelle spine d’un albero gigantesco le anime… mentre sono ancora nel corpo.»
Re Billy annuì.
«Senta» dissi. «Se insiste per spaccare in quattro il capello sulle teologie dei mondi periferici, perché non vola a Jacktown e si rivolge ai preti del culto?»
«Sì» disse il re col mento appoggiato al pugno tozzo, chiaramente distratto. «Si trovano già sulla nave coloniale, sotto interrogatorio. C’è grande perplessità.»
Mi alzai per andarmene, ma non ero sicuro che me l’avrebbe permesso.
«Martin?»
«Eh?»
«Prima di andare via, non le viene in mente nient’altro che possa aiutarci a capire?»
Mi fermai sulla soglia, con il cuore che batteva all’impazzata. «Sì» risposi, con voce solo apparentemente ferma. «Posso dirle chi è in realtà lo Shrike.»
«Oh?»
«È la mia musa» dissi. Mi girai e tornai in camera a scrivere.
Ovviamente avevo evocato io lo Shrike. Lo sapevo. L’avevo evocato iniziando il poema epico su di lui. In principio era il Verbo.
Cambiai il titolo al poema: I canti di Hyperion. Non trattavano del pianeta, ma della fine dei sedicenti Titani chiamati uomini. Trattava dell’irriflessiva hubris di una razza che osava assassinare il mondo natio per semplice menefreghismo e che poi portava fra le stelle questa pericolosa arroganza, solo per incorrere nell’ira di un dio che l’umanità aveva aiutato a generare. Hyperion era il primo lavoro serio da me fatto in molti anni e il migliore che mai potessi fare. Quel che iniziava come un omaggio tra il serio e il faceto al fantasma di John Keats, diventò la mia ultima ragione d’esistere, un epico tour de force in un’epoca di farsa mediocre. I canti di Hyperion furono scritti con un’abilità che non avrei mai potuto raggiungere, con una padronanza che non avrei mai potuto conseguire; e furono cantati con una voce che non era la mia. La fine dell’umanità fu il mio soggetto. Lo Shrike fu la mia musa.
Morirono ancora una ventina di persone, prima che re Billy facesse evacuare la Città dei Poeti. Alcuni profughi si trasferirono a Endymion o a Keats o in una delle altre nuove città; ma la maggior parte preferì riprendere le navi coloniali e tornare nella Rete. Il sogno di re Billy, l’utopia creativa, morì, anche se il re stesso si trattenne nel tetro palazzo di Keats. La guida della colonia passò al Consiglio Autonomo, che fece all’Egemonia domanda d’ammissione e subito creò una Forza di Autodifesa. La FAD, composta principalmente dagli stessi indigeni che si bastonavano l’un l’altro un decennio prima, ma comandata ora da sedicenti funzionari della nostra nuova colonia, riuscì solo a turbare la pace notturna con le sue pattuglie di skimmer automatici e a rovinare la bellezza dell’invadente deserto con i suoi mecc di sorveglianza mobile.
Sorprendentemente, non fui l’unico a rimanere: almeno duecento persone si fermarono, anche se molti di noi evitavano le relazioni sociali e si limitavano a scambiarsi un sorriso educato quando s’incontravano lungo la Passeggiata dei Poeti, o pranzavano ai tavolini dell’echeggiante e vuota cupola ristorante.
Omicidi e sparizioni continuarono, in media uno ogni quindici giorni locali: in genere non li scoprivamo noi, ma il comandante regionale della FAD, che ogni mese faceva il censimento dei cittadini.
Di quel primo anno mi resta in mente un’insolita immagine di gruppo: la sera in cui ci riunimmo nel parco a guardare la partenza delle navi coloniali. Si era all’apice della stagione meteorica autunnale e i cieli notturni di Hyperion ardevano di scie dorate e di reticoli rossastri di fuoco, quando i motori delle navi si accesero e un piccolo sole avvampò; per un’ora guardammo amici e colleghi artisti rimpicciolire come la scia di una fiamma di fusione. Re Billy il Triste si unì a noi, quella sera; ricordo che mi guardò, prima di rientrare con solennità nella carrozza riccamente ornata e fare ritorno alla sicurezza di Keats.
Nella decina d’anni che seguirono, lasciai la città solo sei volte; una, per cercare uno scultore che mi liberasse del finto aspetto da satiro; le altre, per comprare cibi e provviste. Intanto il Tempio Shrike aveva ripreso i pellegrinaggi e nei miei giri usavo in senso contrario le loro complesse vie verso la morte… il tratto a piedi fino a Castel Crono, la funivia per superare la Briglia, i carri a vela, la chiatta di Caronte per scendere l’Hoolie. Al ritorno, guardavo i pellegrini e mi domandavo chi sarebbe sopravvissuto.
Pochi visitavano la Città dei Poeti. Le nostre torri incompiute cominciarono a sembrare rovine diroccate. Le gallerie, con le splendide cupole di metalvetro e i portici coperti, erano rivestite di fitti rampicanti; fra le lastre di pietra spuntavano piromigna e sfregerba. La FAD accresceva il caos, piazzando mine e trappole esplosive per uccidere lo Shrike con l’unico risultato di devastare parti della città un tempo molto belle. L’irrigazione s’interruppe. L’acquedotto crollò. Il deserto invase la città. Nel palazzo abbandonato di re Billy, passavo di stanza in stanza lavorando al poema e aspettando la mia musa.
Quando ci si pensa, il rapporto causa/effetto comincia a sembrare un folle ciclo d’iterazione logico dell’artista-dati Carolus, o magari una stampa di Escher: lo Shrike era venuto all’esistenza a causa dei poteri incantatori del mio poema, ma il poema non sarebbe esistito senza la presenza/minaccia dello Shrike come musa. Forse in quei giorni ero un po’ matto.
In una decina d’anni la morte improvvisa passò al setaccio quella città di dilettanti, finché non restammo che lo Shrike e io. Il passaggio annuale del Pellegrinaggio Shrike era un fastidio di secondaria importanza, una carovana che attraversava in lontananza il deserto diretta alle Tombe del Tempo. A volte qualche figura tornava, fuggiva fra le sabbie vermiglie per rifugiarsi a Castel Crono, venti chilometri a sudovest. Più spesso, dalle Tombe non emergeva nessuno.
Dalle ombre della città, stavo a guardare. Barba e capelli mi erano cresciuti al punto da coprire in parte gli stracci che indossavo. Uscivo soprattutto di notte, mi muovevo come un’ombra furtiva fra le rovine, a volte osservavo la mia torre palatina illuminata, come David Hume quando scrutava le sue stesse finestre e solennemente stabiliva di non essere in casa. Non trasferii dalla cupola da pranzo alle mie stanze il sintetizzatore di cibo: preferivo consumare i pasti nel silenzio pieno d’echi sotto quel duomo tutto crepe, come uno sciocco Eloi che si lasci ingrassare per l’inevitabile Morlock.
Non vidi mai lo Shrike. Molte notti, sul fare dell’alba, mi svegliavo per un rumore improvviso… un grattare di metallo sulla pietra, un fruscio di sabbia sotto i piedi di qualcuno. Ma, pur essendo sicuro di essere osservato, non vidi mai chi mi osservava.
Di tanto in tanto facevo una breve gita alle Tombe, soprattutto di notte, evitando l’attrazione debole e sconcertante delle maree temporali anti-entropiche, mentre mi muovevo fra ombre complicate sotto le ali della Sfinge o fissavo le stelle da dentro le pareti di smeraldo della Tomba di Giada. Di ritorno da uno di questi pellegrinaggi notturni, trovai nel mio studio un intruso.
«Impressionante, M-m-martin» disse re Billy, battendo il dito su uno dei fasci di fogli scritti a mano sparsi per la stanza. Seduto al lungo tavolo, nella poltrona per lui troppo grande, il monarca fallito sembrava vecchio, più fuso che mai. Era chiaro che leggeva da qualche ora. «P-p-pensa davvero che l’umanità m-m-meriti una fine del genere?» chiese piano. Era da una decina d’anni che non lo sentivo più balbettare.
Mi scostai dalla porta, ma non risposi. Per più di vent’anni standard, Billy era stato un amico e un mecenate, ma in quel momento l’avrei ucciso. Il pensiero che qualcuno leggesse Hyperion senza il mio permesso mi riempiva di rabbia.
«Mette la d-d-data, ai Canti?» disse re Billy, sfogliando il fascicolo di pagine completate più di recente.
«Com’è arrivato?» replicai, brusco. Non era una domanda sciocca. Negli ultimi anni, skimmer, navette ed elicotteri non avevano avuto molta fortuna, nel sorvolare la regione delle Tombe. Le macchine arrivavano sans passeggeri. La cosa aveva fatto meraviglie, nell’alimentare il mito dello Shrike.
L’ometto col manto spiegazzato scrollò le spalle. In teoria il suo vestito doveva essere brillante e regale, ma riusciva solo a farlo sembrare un Arlecchino sovrappeso. «Ho seguito l’ultima infornata di pellegrini» disse. «E poi da Castel Crono sono venuto a farle visita. Ho notato che in parecchi mesi non ha scritto molto, M-m-martin. Può spiegarlo?»
In silenzio gli lanciai un’occhiata feroce, mentre mi avvicinavo a lui camminando di lato.
«Forse posso spiegarlo io» continuò re Billy. Guardò l’ultima pagina dei Canti di Hyperion come se contenesse la risposta a un indovinello che da tempo lo rendeva perplesso. «Le ultime stanze sono state scritte nella stessa settimana dello scorso anno in cui J.T. Telio scomparve.»
«E allora?» Ero arrivato all’estremità del tavolo. Con finta noncuranza tirai via una piccola pila di pagine manoscritte mettendole fuori portata di Billy.
«E allora, s-s-secondo i monitor della FAD, quella è la d-d-data della m-m-morte dell’ultimo abitante della Città dei Poeti» disse re Billy. «L’ultimo, M-m-martin, a parte lei.»
Scrollai le spalle e cominciai a girare intorno al tavolo. Dovevo arrivare a Billy senza mettere in mezzo il manoscritto.
«Sa, non l’ha t-t-terminato, Martin» disse lui, con voce profonda, triste. «C’è ancora una possibilità che la razza umana sopravviva alla Caduta.»
«No» dissi, facendomi ancora più vicino.
«Ma non può scriverlo, vero, Martin? Non può comporre v-v-versi, se la sua m-m-musa non sparge sangue, vero?»
«Stronzate» replicai.
«Forse. Ma è una coincidenza affascinante. Si è mai chiesto, Martin, perché lei è stato risparmiato?»
Di nuovo alzai le spalle e spostai fuori della sua portata un’altra pila di fogli. Ero più alto, più robusto e più cattivo di Billy; ma dovevo assicurarmi che il manoscritto non restasse danneggiato se si fosse dibattuto mentre lo sollevavo di peso dalla poltrona e lo buttavo fuori.
«È ora che facciamo q-q-qualcosa a questo proposito» disse il mio mecenate.
«No» risposi. «È ora che se ne vada.» Spinsi da parte l’ultima pila di fogli e alzai le braccia, sorpreso di vedere che stringevo in pugno un candeliere d’ottone.
«Fermo dove sei, per favore» disse piano re Billy, alzando lo storditore neurale che aveva tenuto in grembo.
Esitai solo un secondo, poi scoppiai a ridere. «Piccolo, miserabile impostore truffaldino» dissi. «Non saprebbe usare una stronzissima arma nemmeno se ne andasse della sua vita.»
Avanzai d’un passo, per picchiarlo e buttarlo fuori.
Avevo la guancia contro la pietra del cortile, ma un occhio era aperto quanto bastava a mostrarmi che le stelle brillavano ancora attraverso il graticcio rovinato della cupola della galleria. Non potevo muovere le palpebre. Le membra e il tronco mi formicolavano per le punture di spillo causate dal ritorno delle sensazioni, come se tutto il corpo si fosse addormentato e ora si svegliasse dolorosamente. Avevo voglia di gridare, ma le mascelle e la lingua si rifiutavano di funzionare. A un tratto fui sollevato e appoggiato a una panca di pietra, cosicché vedevo il cortile e la fontana asciutta progettata da Rithmet Corbet: il Laocoonte di bronzo lottava con i serpenti bronzei nella tremula luce della pioggia di meteoriti prima dell’alba.
«M-m-i s-scusi, Martin» disse una voce ben nota «Ma questa f-f-follia deve finire.» Re Billy entrò nel mio campo visivo: teneva in mano una grossa pila di fogli. Altri mucchi di pagine erano posati sullo zoccolo della fontana, ai piedi del troiano di bronzo. Poco più in là c’era un bidone di cherosene aperto.
Riuscii a battere le palpebre. Sembravano di ferro arrugginito.
«Ormai lo s-s-stordimento dovrebbe passare da un m-m-mo-mento all’altro» disse re Billy. Allungò la mano nella vasca, alzò un mucchietto di fogli e con l’accendino gli diede fuoco.
«No!» riuscii a gridare fra le mascelle serrate.
La fiamma danzò e morì. Re Billy lasciò cadere le ceneri e prese un altro mucchietto di fogli. Li arrotolò. Delle lacrime brillarono sulle guance rugose illuminate dalla fiamma. «L’ha v-v-voluto lei» ansimò l’ometto. «Bisogna f-f-finirla.»
Mi sforzai d’alzarmi. Braccie e gambe si mossero a scatti come quelle d’una marionetta mal guidata. Il dolore era incredibile. Gridai di nuovo: il mio grido di dolore echeggiò contro il marmo e il granito.
Re Billy sollevò un grasso mucchietto di fogli e si soffermò a leggere dal primo:
Senza storia né sostegno
tranne la mia debole mortalità, porto
il peso di questa quiete eterna,
della tristezza immutabile e delle tre sagome
pesanti sui miei sensi come un’intera luna.
Perché col mio cervello ardente ho misurato
le sue stagioni d’argento perse nella notte
e giorno dopo giorno ho pensato di diventare
più magro e spettrale… Spesso ho pregato
intensamente che la Morte prendesse dalla valle
me e tutti i suoi fardelli… Ansimando per la disperazione
del mutamento, ora dopo ora ho maledetto me stesso.
Re Billy levò alle stelle il viso e consegnò alle fiamme la pagina.
«No!» gridai di nuovo. Costrinsi le gambe a piegarsi. Mi alzai sul ginocchio, cercai di sostenermi con il braccio ardente di formicolii, caddi sul fianco.
L’ombra sotto il manto alzò un mucchietto di fogli, troppo spesso per arrotolarlo; nella fioca luce lo scrutò.
Poi vidi un pallido viso
non segnato da crucci umani, ma sbiancato
da un male immortale che non uccide;
opera un costante mutamento, a cui la morte felice
non può porre termine; avanzava verso la morte
quel viso per cui non c’è morte; oltrepassato
aveva il giglio e la neve; e più che a questi
ora non devo pensare, anche se vidi quel viso…
Re Billy mosse l’accendino: altre cinquanta pagine presero fuoco. Lui lasciò cadere nella fontana i fogli accesi e allungò la mano per prenderne altri.
«La prego!» gridai. Mi alzai, tesi le gambe per superare gli spasmi d’impulsi nervosi casuali, mi appoggiai alla panca di pietra. «La prego.»
La terza figura in realtà non si materializzò fino al punto di permettere che la sua presenza colpisse la mia consapevolezza; era come se fosse sempre stata lì, come se re Billy e io non l’avessimo notata finché le fiamme non furono abbastanza luminose. Irrealmente alto, munito di quattro braccia, modellato in cromo e cartilagine, lo Shrike rivolse su di noi il suo sguardo rossastro.
Re Billy ansimò, arretrò d’un passo, poi si mosse in avanti per alimentare con altri canti le fiamme. Faville si levarono su correnti d’aria calda. Uno stormo di tortore volò via dalle travi soffocate dai rampicanti della cupola infranta in un’esplosione di frullo d’ali.
Avanzai, barcollando più che camminando. Lo Shrike non si mosse, non spostò lo sguardo sanguigno.
«Sparisci!» gridò re Billy, in tono esaltato, dimentico della balbuzie; reggeva in ogni mano un fascio di poesia in fiamme. «Torna nell’abisso dal quale sei uscito!»
Lo Shrike sembrò inclinare appena la testa. Una luce rossastra brillò sulle superfici acuminate.
«Milord!» gridai; non sapevo, e non so neppure ora, se a re Billy o all’infernale apparizione. Barcollai ancora per qualche passo, allungai la mano verso il braccio di Billy.
Non era più lì. Un istante prima il re ormai anziano era a un palmo da me, l’istante dopo era a dieci metri di altezza sulle lastre di pietra della corte. Dita simili a spine d’acciaio gli trapassavano braccia, torace e cosce, ma lui si contorceva ancora e nei suoi pugni i miei Canti bruciavano. Lo Shrike lo sollevò come un padre che offrisse al battesimo il figlio.
«Distruggilo!» gridò Billy, con gesti pietosi delle braccia imprigionate. «Distruggilo!»
Mi fermai contro il bordo della fontana, ondeggiai debolmente sull’orlo. A tutta prima pensai che si riferisse allo Shrike… poi credetti che parlasse del poema… infine capii che intendeva l’uno e l’altro. Nella vasca asciutta, mille e più pagine manoscritte giacevano accartocciate. Presi il secchio di cherosene.
Lo Shrike si mosse solo per portarsi lentamente al petto re Billy, in un gesto bizzarramente affettuoso. Billy si contorse e urlò mentre una lunga spina d’acciaio emergeva dalla seta arlecchinesca della sua veste, giusto sopra lo sterno. Rimasi lì, istupidito, e pensai alla collezione di farfalle che avevo da bambino. Lentamente, con gesti meccanici, versai cherosene sopra le pagine sparpagliate.
«Finiscilo!» boccheggiò re Billy. «Martin, per l’amor di Dio!»
Presi l’accendino caduto per terra. Lo Shrike non si mosse. Il sangue inzuppava le pezze nere della veste di Billy, fino a mescolarsi ai riquadri cremisi. Azionai l’antico accendino, una, due, tre volte: ottenni solo delle scintille. Tra le lacrime vedevo il lavoro della mia vita sparso nella fontana polverosa. Lasciai cadere l’accendino.
Billy urlò. Confusamente udii le lame sfregare contro le ossa, mentre lui si contorceva nell’abbraccio dello Shrike. «Distruggilo!» gridò Billy. «Martin… oh, mio Dio!»
Allora mi girai, avanzai in fretta di cinque passi, lanciai il secchio mezzo pieno di cherosene. Vapori mi offuscarono la vista già confusa. Billy e l’impossibile creatura che lo teneva stretto a sé furono inzuppati come due pagliacci di una farsa in 3-D. Billy batté le palpebre e sputacchiò, il muso levigato dello Shrike rifletté il ciclo illuminato di meteoriti; poi le braci morenti delle pagine bruciate nelle mani di Billy ancora strette a pugno diedero fuoco al cherosene.
Alzai le mani a proteggermi il viso… troppo tardi: barba e sopracciglia si strinarono e mandarono fumo… e barcollai all’indietro fino a incontrare il bordo della fontana.
Per un secondo il rogo fu una perfetta scultura di fuoco, una Pietà livida e giallastra, con una Madonna a quattro braccia che reggeva un Cristo fiammeggiante. Poi la figura ardente si contorse e s’inarcò, prigioniera di spine d’acciaio e di venti e più artigli affilati, e si alzò un grido che ancora oggi non posso credere che provenisse dalla metà umana di quell’amplesso di morte. Il grido mi fece crollare in ginocchio, echeggiò contro ogni superficie solida della città, spinse i colombi a volteggiare in preda al panico. E continuò per minuti interi, dopo che la visione infuocata cessò semplicemente d’esistere, senza lasciarsi dietro né ceneri né immagine retinica. Passarono ancora un paio di minuti, prima che mi rendessi conto che ora quel grido era il mio.
La caduta di tensione è, ovviamente, nell’ordine contorto e naturale delle cose. Ben di rado la vita reale propone epiloghi decenti.
Impiegai parecchi mesi, forse un anno, a ricopiare le pagine rovinate dal cherosene e a riscrivere i Canti bruciati. Non sarà una sorpresa, apprendere che non terminai il poema. Non fu per mia scelta. La mia musa era fuggita.
La Città dei Poeti decadde in pace. Vi rimasi ancora un paio d’anni… forse cinque, non so. A quel tempo ero completamente pazzo. Ancora oggi le testimonianze dei primi pellegrini Shrike parlano della figura magrissima, tutta capelli, stracci e occhi sporgenti, che li svegliava dal loro sonno di Getsemani urlando oscenità e agitando il pugno verso le silenziose Tombe del Tempo, sfidando il codardo rifugiato nel loro interno.
Alla fine la follia si esaurì… anche se le sue braci brilleranno sempre. Percorsi a piedi i millecinquecento chilometri fino alla civiltà, con lo zaino appesantito solo dai miei fogli manoscritti, vivendo di anguille delle rocce, di neve e, negli ultimi dieci giorni, di niente.
I due secoli e mezzo trascorsi nel frattempo meritano di essere raccontati ancor meno di quanto meritino di essere rivissuti. I trattamenti Poulsen mantennero in vita e in attesa lo strumento. Due lunghi e gelidi sonni in illegali crio-viaggi a velocità inferiore a quella della luce; ciascuno della durata di un secolo e passa; ciascuno con il suo pedaggio in cellule cerebrali e ricordi.
Aspettai allora. Aspetto adesso. Il poema dev’essere terminato. E sarà terminato.
In principio era il Verbo.
In fine… al di là dell’onore, della vita, delle cure…
In fine sarà il Verbo.