CAPITOLO PRIMO

Il bordo lucente del pianeta Rodeo balenò confuso davanti all’oblò di osservazione della stazione orbitale di trasferimento. Una donna, che Leo Graf aveva notato tra gli altri passeggeri sbarcati dalla nave a balzo, rimase a guardare affascinata per alcuni minuti, poi si voltò, battendo le palpebre e andò a sedersi di scatto su una delle sdraio imbottite di cuscini dagli allegri colori. Chiuse gli occhi, poi li riaprì, colse lo sguardo di Leo e scrollò le spalle, imbarazzata. Leo le rivolse un sorriso pieno di comprensione. Fortunatamente immune dai vari malesseri dei viaggi spaziali, egli si accostò al portello prendendo il suo posto.

Poche nuvole sparse turbinavano nella rarefatta atmosfera sottostante, velando a malapena quella che sembrava un’eccessiva quantità di sabbia rossastra. Rodeo era un pianeta di scarsa importanza, che ospitava solo le attività minerarie e di trivellazione della GalacTech oltre alle strutture di supporto vitale. Ma che cosa era venuto a fare lì? Si chiese per l’ennesima volta. Le operazioni sotterranee non erano il suo campo.

Il movimento di rotazione della stazione eclissò l’immagine del pianeta, allora Leo si accostò ad un altro portello per poter vedere il mozzo della ruota della stazione, annotando mentalmente i punti di sollecitazione e chiedendosi quando erano stati radiografati l’ultima volta per controllare la presenza di eventuali incrinature in espansione. Le forze di gravità centrifughe sul bordo esterno, dove era situato quel salone per i passeggeri, dovevano essere circa la metà di quelle standard terrestri, forse anche lievemente inferiori. Una deliberata riduzione di sollecitazione, in vista di noie alle strutture?

Ma lui era stato chiamato per tenere un corso di addestramento, così avevano detto al Quartier Generale della GalacTech sulla Terra, per insegnare le procedure di controllo di qualità delle tecniche di saldatura e di costruzione in assenza di gravità. A chi? E perché proprio lì, ai confini dell’universo? «Progetto Cay» era una designazione stranamente anonima per un incarico del genere.

— Leo Graf?

Leo si voltò. — Sì?

L’uomo che aveva parlato, alto e con i capelli scuri, poteva avere dai trenta ai quarant’anni. Indossava abiti civili di taglio sobrio, ma un distintivo poco appariscente sul risvolto della giacca indicava che era un uomo della Compagnia. Il classico dirigente sedentario, lo classificò Leo. La mano che gli tese era leggermente abbronzata ma morbida. — Sono Bruce Van Atta.

La mano robusta di Leo era pallida e punteggiata da macchie marroni. Ormai prossimo ai quaranta, robusto e chiaro di capelli, Leo indossava invece, per abitudine di vecchia data, la comoda tuta rossa della Compagnia, in parte per non spiccare troppo in mezzo agli operai con i quali lavorava, ma soprattutto perché non aveva mai né voglia né tempo da perdere alla mattina per decidere cosa mettersi. «Graf» indicava la dicitura stampata sopra il taschino sinistro, eliminando ogni dubbio.

— Benvenuto su Rodeo, l’ascella dell’universo — lo salutò Van Atta con un sorrisetto.

— Grazie — fu la risposta automatica di Leo accompagnata da un sorriso.

— Sono io il responsabile del Progetto Cay ora, e quindi sarò il suo capo — spiegò Van Atta. — Sono stato io a volerla qui, sa. Lei mi aiuterà a dare finalmente una scossa a questa sezione, ed a farla finalmente decollare. Siamo uguali, io e lei, lo so, non sopportiamo i fannulloni. Mi hanno scaricato addosso un bel fardello, quando hanno deciso di far funzionare come si deve questa sezione… ma se ci riuscirò, sarò considerato un fenomeno.

— È stato lei a volermi qui? — Era consolante sapere che la sua reputazione l’aveva preceduto, ma perché non capitava mai di venir richiesti personalmente per un incarico in un luogo paradisiaco? Ah, be’… — Al Quartier Generale mi è stato detto che mi mandavano qui perché tenessi una versione ampliata del mio breve corso in procedure di controllo non distruttive.

— E non le hanno detto altro? — chiese sbalordito Van Atta, e quando Leo scosse le spalle in segno di diniego, gettò la testa all’indietro, scoppiando in una risata. — Ragioni di sicurezza, immagino — spiegò, quando riuscì a smettere di ridacchiare. — L’aspetta una bella sorpresa. Bene, bene, non sarò certo io a rovinargliela. — Il sorrisetto malizioso di Van Atta era sgradevole quanto una confidenziale gomitata nelle costole.

Troppo confidenziale… oh, all’inferno, pensò Leo, questo tizio mi ha già conosciuto da qualche parte e crede che anch’io lo riconosca… Una vaga sensazione di panico congelò il sorriso educato di Leo. Nei suoi diciotto anni di carriera aveva incontrato migliaia di funzionari della GalacTech; forse Van Atta avrebbe presto rivelato qualcosa che avrebbe ridotto la rosa di possibilità.

— Le mie istruzioni parlano di un certo Dottor Cay come responsabile del Progetto Cay — azzardò Leo. — Quando lo incontrerò?

— Informazione non aggiornata — disse Van Atta. — Il Dottor Cay è morto lo scorso anno, ben oltre la data in cui, a parer mio, avrebbe dovuto essere spedito in pensione, ma era uno dei vice-presidenti e tra i maggiori azionisti, e inoltre aveva molti appoggi… ma questa è acqua passata. Il suo posto l’ho preso io. — Van Atta scosse il capo. — Ma non vedo l’ora di godermi l’espressione della sua faccia quando vedrà… venga, c’è una navetta privata che ci sta aspettando.


A parte il pilota, la navetta a sei posti adibita al trasporto del personale, era tutta per loro. Il sedile si modellò attorno al corpo di Leo durante le brevi fasi di accelerazione. Periodi davvero brevi: era chiaro che non stavano frenando per rientrare nell’atmosfera del pianeta. Rodeo ruotava sotto di loro, allontanandosi sempre di più.

— Dove stiamo andando? — chiese a Van Atta seduto accanto a lui.

— Ah! Vede quel puntolino a circa trenta gradi sopra l’orizzonte? Lo osservi bene, è quella la sede del Progetto Cay.

Il puntolino s’ingrandì rapidamente, trasformandosi in una struttura caotica, tutta ad angoli e spigoli, con luci colorate che illuminavano come lustrini le ombre nette. L’occhio esercitato di Leo individuò le strutture principali: i serbatoi, i portelli di carico, i filtri per le serre che baluginavano alla luce del sole, le dimensioni dei pannelli solari in rapporto al volume approssimativo della struttura.

— Un habitat orbitale?

— Esatto — rispose Van Atta.

— È enorme.

— Davvero. Quante persone pensa che ospiti?

— Oh… mille e cinquecento.

Van Atta sollevò un sopracciglio, forse per il disappunto di non poter correggere la cifra. — Praticamente esatto: millequattrocentonovantaquattro dipendenti della GalacTech a rotazione e mille abitanti permanenti.

Le labbra di Leo ripeterono la parola «permanenti»… — Parlando di rotazione: come vi regolate con il personale per il decondizionamento dall’assenza di gravità? — Il suo sguardo abbracciò l’enorme struttura. — Perché infatti non vedo neppure una ruota per l’esercizio fisico… niente palestra rotante?

— C’è una palestra a gravità zero. Il personale che si avvicenda, trascorre un mese a terra per ogni turno di tre mesi.

— Costoso.

— Ma abbiamo costruito l’Habitat a meno di un quarto del costo necessario per lo stesso volume di spazio abitativo con un sistema di gravità artificiale.

— Ma certamente a lungo termine perderete quello che avete risparmiato sulla costruzione, dovendo sostenere i costi di trasporto del personale e le spese mediche — ribatté Leo. — I viaggi delle navette, le lunghe licenze, tutti coloro che se ne vanno in pensione con un braccio o una gamba rotte, citeranno la GalacTech per i danni, compresi quelli psicologici, anche nel caso che non fosse stata accertata una significativa demineralizzazione delle ossa.

— Abbiamo risolto anche questo problema — rispose Van Atta. — Se la soluzione sia efficace rispetto ai costi… be’, questo è ciò che lei ed io siamo qui per verificare.

Dolcemente, la navetta si spostò di lato, allineandosi con un portello posto nel fianco della struttura e vi si ancorò con uno scatto rassicurante e definitivo. Il pilota spense i pannelli di controllo e si alzò dal sedile, fluttuando oltre Leo e Van Atta per controllare il portello stagno. — Pronti a sbarcare, signor Van Atta.

— Grazie, Grant.

Leo slacciò le cinture del sedile e si rilassò nella sensazione di piacevole familiarità data dall’assenza di peso. Lo sgradevole senso di nausea da gravità zero, che minava l’efficienza di tanti impiegati, non lo sfiorava neppure. A terra, il suo era un corpo assolutamente comune: ma lì, dove la capacità di controllo, la pratica e l’esperienza contavano più della forza, Leo era finalmente un atleta. Sorridendo tra sé, seguì Van Atta da un appiglio all’altro, attraversando il portello di attracco.

Un tecnico dal viso roseo sedeva davanti al pannello di controllo nel corridoio fuori del portello. Indossava una maglia rossa con l’insegna della GalacTech e aveva folti riccioli biondi che ricordarono a Leo il manto di un agnellino, ma forse quello era l’effetto della sua giovane età.

— Salve, Tony — lo salutò Van Atta con allegra familiarità.

— Buongiorno, signor Van Atta — rispose il giovane in tono rispettoso, sorridendo a Leo e piegando il capo in una parodistica richiesta di presentazione. — Questo è il nuovo insegnante di cui ci ha parlato?

— Appunto. Leo Graf, questo è Tony: sarà tra i suoi primi allievi. Fa parte dei residenti permanenti dell’Habitat — aggiunse Van Atta con particolare enfasi. — Tony è saldatore e giuntatore di secondo grado, e sta lavorando per passare al primo, vero Tony? Stringi la mano al signor Graf.

Van Atta sorrise compiaciuto. Leo ebbe l’impressione che, se non fossero stati in assenza di peso, si sarebbe messo a saltellare sulle punte dei piedi.

Obbediente, Tony si sporse oltre il pannello di controllo. Vide che indossava dei pantaloncini rossi…

Leo sbatté le palpebre, sconvolto: il ragazzo non aveva gambe e dai pantaloncini sbucava un secondo paio di braccia.

Braccia perfettamente funzionanti, perché in quello stesso istante Tony stava usando la… mano sinistra inferiore (Leo pensò di poterla definire così) per ancorarsi, mentre si sporgeva verso di lui, sorridendo con assoluta innocenza.

Leo aveva perso l’appiglio e dovette armeggiare per riafferrarlo e nel contempo allungarsi imbarazzato per stringere la mano che Tony gli offriva. — Lieto di conoscerti — riuscì a gracchiare. Era praticamente impossibile evitare di fissarlo ad occhi spalancati. Leo si costrinse a guardare dritto negli occhi azzurri del giovane.

— Salve, signore, non vedevo l’ora di conoscerla. — La stretta di Tony era timida ma sincera, la mano forte e asciutta.

— Uh… — balbettò Leo, — come ti chiami di cognome, uhm, Tony?

— Oh, Tony è solo il mio soprannome, signore. La mia designazione ufficiale è TY-776-424-XG.

— Oh, allora penso che ti chiamerò Tony — mormorò Leo sempre più strabiliato, mentre Van Atta sembrava divertirsi un mondo osservando il suo imbarazzo.

— È quello che fanno tutti — rispose amabilmente Tony.

— Ti spiace andare a prendere il bagaglio del signor Graf, Tony? — disse Van Atta. — Venga, Leo, le mostrerò il suo alloggio e poi faremo un giro completo.

Leo seguì la sua guida fluttuante nel corridoio trasversale e gettò un’occhiata alle sue spalle con rinnovato stupore nel momento in cui Tony si lanciava con accurata precisione attraverso la stanza, roteando verso il portello della navetta.

— Quella — disse Leo deglutendo, — è la più straordinaria malformazione di nascita che abbia mai visto. Qualcuno ha avuto un colpo di genio trovandogli un lavoro in assenza di gravità. A terra sarebbe stato semplicemente uno storpio.

— Malformazione di nascita. — Il sorrisetto di Van Atta si era tramutato in una smorfia. — Già, anche quello è un modo di descriverlo. Vorrei che avesse potuto vedere l’espressione della sua faccia quando si è trovato di fronte Tony. Congratulazioni per il suo autocontrollo. La prima volta che ho visto uno di loro, quasi mi sentivo male, eppure ero stato preparato. Ma ci si abitua in fretta a quegli scimmiotti.

— Perché, ce n’è più di uno?

Van Atta aprì e chiuse le mani, contando. — Un migliaio tondo. La prima generazione di nuovi super-operai della GalacTech. Il nome del gioco, Leo, è ingegneria genetica, e intendo vincere.

Tony, con la valigia di Leo stretta nella mano destra inferiore, sfrecciò tra Leo e Van Atta nel corridoio cilindrico, e con tre rapidi e abili tocchi sugli appigli, frenò davanti a loro.

— Signor Van Atta, mentre andiamo nella Sezione Visitatori, posso presentare il signor Graf a una persona? Non dovremmo deviare troppo: lavora agli Impianti Idroponici.

Van Atta protese le labbra apparentemente seccato, ma poi le aprì in un sorriso. — Perché no? Dopo tutto gli Impianti Idroponici erano in programma per la visita di oggi pomeriggio.

— Grazie, signore — esclamò Tony, e sfrecciò via con entusiasmo ad aprire il sigillo di un portello stagno che si trovava in fondo al corridoio, fermandosi a chiuderlo alle loro spalle dall’altra parte.

Leo concentrò la propria attenzione sull’ambiente che lo circondava, soluzione che gli parve più educata che quella di studiare di sottecchi il ragazzo. In effetti, l’Habitat era stato costruito con poca spesa, con largo uso di combinazioni di materiali prefabbricati. Non era il più estetico ed elegante dei progetti: la disposizione casuale e in confusi agglomerati indicava uno schema di crescita utilitaristico, con le unità disposte qua e là per far fronte di volta in volta alle nuove esigenze. Ma proprio la povertà architettonica presentava dei vantaggi intrinseci di sicurezza, notò con approvazione Leo, come l’intercambiabilità del sistema di sigilli a tenuta d’aria, per esempio.

Passarono lungo le zone dormitorio, le aree di preparazione e distribuzione del cibo, il laboratorio per le piccole riparazioni (qui Leo si fermò ad osservare con attenzione e così dovette poi affrettarsi per raggiungere la sua guida). A differenza di molti spazi abitativi a gravità zero in cui si era trovato a lavorare, qui non si faceva nessuno sforzo per mantenere un’arbitraria illusione del «su» o «giù» per facilitare l’adattamento psicologico degli abitanti. La maggior parte delle camere erano di forma cilindrica, con gli spazi di lavoro e le aree magazzino allineate lungo le pareti, mentre il centro era lasciato libero da ostacoli per il passaggio dei… be’, non si potevano certo chiamare pedoni.

Lungo il tragitto, incontrarono una trentina di quelle persone con quattro mani, il nuovo modello di operai, insomma… gente simile a Tony, comunque venissero chiamati. A proposito, avevano una designazione ufficiale, si chiese Leo? Li guardò di nascosto, distogliendo lo sguardo ogni volta che qualcuno guardava verso di lui, il che avvenne spesso: quelli lo fissavano apertamente, sussurrando tra loro.

Capì perché Van Atta li aveva soprannominati scimmiotti: avevano i fianchi stretti, privi dei muscoli locomotori situati nei glutei, comuni invece alla gente che aveva le gambe. Le braccia inferiori, come una coppia di potenti pinze, erano generalmente più muscolose di quelle superiori, sia nei maschi che nelle femmine, e davano così la falsa impressione di essere più corte di quelle superiori; se le si guardava socchiudendo gli occhi fino a sfumare l’immagine, si potevano scambiare per gambe flesse.

Tutti portavano una comoda e pratica maglietta con i calzoni corti, come Tony, ed era chiaro che i diversi colori erano una sorta di codificazione; passando, Leo aveva visto un gruppo vestito di giallo stretto intorno ad un normale essere umano con la tuta della GalacTech, il quale aveva smontato un’unità di pompaggio e stava tenendo una lezione sul suo funzionamento e sui sistemi di riparazione. Leo pensò a uno stormo di canarini, di scoiattoli volanti, di scimmie, di ragni, o di luccicanti e veloci lucertole che corrono sulle pareti.

Gli venne voglia di gridare, quasi di piangere; ma non era per le braccia, o per il numero eccessivo di mani abili e rapide. Avevano quasi raggiunto i laboratori idroponici prima che egli fosse in grado di analizzare il suo intenso disagio: erano i loro visi a colpirlo in quel modo, si rese conto Leo. Parevano tanti bambini.

Una porta con la scritta «Laboratorio Idroponico D» scivolò di lato, rivelando un’anticamera, e dietro di essa una stanza spaziosa di circa quindici metri. Finestre munite di filtri sul lato rivolto al sole e una serie di specchi su quello in ombra riempivano lo spazio di una luce viva, mitigata dalle piante verdi che crescevano in ampolle disposte con cura. L’aria era pervasa da un pungente odore di sostanze chimiche e di vegetazione.

Un paio di giovani donne con quattro braccia, vestite di azzurro, stavano lavorando nell’anticamera, fluttuando lungo un tubo di plexiplastica lungo tre metri, intente a trapiantare con cura minuscoli germogli, presi da una cassetta di germinazione per essere inseriti in una serie di fori disposti a spirale nel tubo, una pianticella per ogni buco, e fissandoli poi con un collante flessibile steso attorno ad ogni tenero stelo. Le radici sarebbero cresciute all’interno, fino a diventare una massa intricata che assorbiva il vapore idroponico nutritivo pompato attraverso il tubo, mentre le foglie e le gemme sarebbero fiorite all’esterno, nella luce del sole, e alla fine avrebbero dato i frutti codificati nel loro patrimonio genetico. In un posto come questo, chissà, probabilmente sarebbero uscite mele con tanto di corna, pensò Leo vagamente isterico, o patate con occhi ammiccanti.

La ragazza con i capelli scuri si fermò un istante per sistemare un fagotto che teneva sotto il braccio… la mente di Leo si fermò del tutto: il fagotto era un bambino.

Un bambino vivo… (certo che era vivo, che cosa credeva? farneticò dentro di sé)… si sporse dal fianco di sua… madre, per occhieggiare con sospetto Leo-lo-sconosciuto, e rinforzò la presa a quattro mani sulla casa base, afferrando con gesto difensivo uno dei seni della ragazza come se temesse la concorrenza. — Aaargh — esclamò in tono aggressivo.

— Ehi! — La ragazza dai capelli neri rise, e con una delle mani inferiori, staccò le dita grassocce senza che per questo le mani superiori perdessero un solo colpo nell’applicare il sigillante attorno a uno stelo. Terminò con un rapido spruzzo di fissante da un tubetto che galleggiava accanto a lei, appena fuori della portata del piccolo.

La ragazza era snella e dall’aria sbarazzina e, agli occhi inesperti di Leo, meravigliosamente magica. I capelli corti e folti le incorniciavano il viso, terminando a punta sulla nuca. Ed erano tanto folti da richiamare alla mente di Leo il pelo di un gatto: si poteva accarezzare con un effetto calmante.

L’altra ragazza era bionda e non aveva bambini con sé. Fu la prima ad alzare lo sguardo, sorridendo. — Abbiamo compagnia, Claire.

Il viso della ragazza bruna si illuminò di piacere e lei arrossì. — Tony! — esclamò felice, e Leo si rese conto di avere ricevuto solo una minima parte di quella radiosa espressione rivolta al suo vero destinatario.

Il bambino staccò tre delle sue mani e le agitò, inquieto. — Ah, ah! — La ragazza effettuò una rapida evoluzione in aria per guardare i visitatori. — Ah! Ah! Ah! - ripeté il bambino.

— Oh, va bene — rise lei. — Vuoi volare da papà, vero? — Sciolse un corto guinzaglio da una sorta di morbida imbracatura legata al torace del bambino, sganciandolo dalla cintura assicurata alla vita e sollevò in alto il piccolo. — Vuoi volare da papà, Andy? Volare da papà?

Il bambino mostrò il suo entusiasmo per la proposta, strillando e agitando vigorosamente tutte e quattro le mani. Lei lo lanciò verso Tony ad una velocità molto maggiore di quanto Leo avrebbe mai osato impartire. Sorridendo allegro, Tony lo afferrò… con le mani, pensò Leo con un improvviso senso di confusione.

— Vuoi volare dalla mamma? — chiese a sua volta Tony. — Ah, ah — esclamò il bambino e Tony lo tenne sospeso in aria, allargandogli delicatamente le braccia (come se stesse stendendo una stella marina, pensò Leo) e, impartendogli una leggera rotazione, lo fece volteggiare in aria in tutto e per tutto come una trottola. Il bambino ritrasse le mani, raggrinzendo la faccina per lo sforzo e si mise a roteare più rapidamente, gorgogliando felice quando il suo tentativo venne coronato da successo. Conservazione del momento angolare, pensò Leo, era naturale…

Claire lanciò ancora una volta il bambino verso il padre (il pensiero che quel ragazzino biondo fosse il padre di qualcuno lo faceva impazzire) e poi lo seguì, andando a frenare accanto a Tony, afferrandogli la mano che questi aveva proteso come appiglio proprio a quello scopo. Il fatto che poi continuassero a tenersi per mano indicava che si trattava di qualcosa più che di un cortese ancoraggio.

— Claire, questo è il signor Graf — Più che presentarlo, Tony lo esibì come un trofeo. — Sarà il mio insegnante nel corso avanzato di tecniche di saldatura. Signor Graf, questa è Claire, e questo è nostro figlio Andy. — Andy si era arrampicato sulla testa del padre e stava afferrandogli con una mano i capelli biondi e con l’altra un orecchio, ammiccando come un gufo in direzione di Leo. Delicatamente, Tony allontanò la presa del piccolo dall’orecchio, dirigendola verso un lembo della sua maglietta rossa. — Claire è stata scelta per essere la prima delle madri naturali tra noi — continuò con orgoglio.

— Io e quattro altre ragazze — lo corresse lei con modestia.

— Anche Claire era nella sezione Saldatura e Giuntatura, ma ora non può più eseguire lavoro all’esterno — spiegò Tony. — Dalla nascita di Andy è stata trasferita in Manutenzione Domestica, Tecnologie della Nutrizione e Idroponica.

— La dottoressa Yei ha detto che costituivo un esperimento molto importante per determinare quali fossero i tipi di produttività meno compromessi, dovendomi al tempo stesso occupare di Andy — spiegò Claire. — Non poter uscire all’esterno mi pesa un po’, perché era eccitante, ma anche questo mi piace, c’è più varietà.

La GalacTech che reinventa il Lavoro delle Donne? pensò Leo divertito. Stiamo forse per mettere al lavoro anche un gruppo del reparto Ricerche e Sviluppo sulle applicazioni del fuoco? Oh, ma tu un esperimento lo sei di certo… il suo viso composto e imperscrutabile non rivelava i suoi pensieri. — Lieto di conoscerti, Claire — disse con gravità.

Claire diede di gomito a Tony e fece un cenno in direzione della sua bionda compagna, che si era avvicinata unendosi al gruppetto.

— Oh… questa è Silver — proseguì obbediente Tony, — anche lei lavora quasi sempre in Idroponica.

Silver mosse la testa e i capelli fluttuarono in morbide onde color platino; Leo si chiese se fosse quella la causa del suo soprannome. Aveva quel tipo di ossatura facciale che a tredici anni è troppo marcata e tristemente imbarazzante, ma che a trentacinque è di un’eleganza mozzafiato, e in quel momento aveva appena cominciato la transizione. Lo sguardo dei suoi occhi azzurri era più freddo e meno timido di quello dell’affaccendata Claire, che già era stata distratta da qualche nuova richiesta di Andy. Claire recuperò il bambino e riagganciò la fune di sicurezza.

— Buon pomeriggio, signor Van Atta — aggiunse Silver con enfasi, facendo un piroetta in aria mentre gli occhi gridavano in silenzio «Accorgiti di me!». Leo notò che tutte e venti le unghie delle mani curate erano dipinte di rosa.

Van Atta rispose sorridendo in modo furtivo e compiaciuto. — Ciao, Silver: come vanno le cose?

— Dopo questo ci resta un solo tubo da piantare. Avremo finito prima del cambio di turno — gli comunicò Silver.

— Bene, bene — disse gioviale Van Atta. — Ah, cerca di ricordare di metterti a testa in su quando parli con un terricolo, zuccherino.

Rapidamente, Silver si capovolse per mettersi nella stessa posizione di Van Atta. Dal momento che la stanza era cilindrica, «a testa in su» era una direzione puramente soggettiva indicata da Van Atta, rilevò seccato Leo. Dove aveva già incontrato quell’uomo?

— Bene, continuate pure, ragazze. — E Van Atta si incamminò seguito da Leo e da Tony che lanciava occhiate nostalgiche alle sue spalle.

Andy aveva di nuovo rivolto la propria attenzione alla madre, e le sue manine decise premevano sulla maglietta, sulla quale, in una sorta di reazione automatica, cominciarono a comparire alcune macchie scure. Sembrava che questa fosse una funzione della vecchia biologia che la Compagnia non aveva alterato. Dopo tutto, i dispensatori di latte erano certo idealmente preadattati alla vita in caduta libera, e persino i pannolini, per quanto ne sapeva Leo, avevano avuto una storia eroica agli albori del volo spaziale.

Quella considerazione divertita durò pochi istanti. Seguì Van Atta, riflettendo in silenzio: non era inquieto, si rassicurò, ma si riservava di emettere un giudizio e, nel frattempo, tenere la bocca chiusa non gli avrebbe impedito di raccogliere dati.


Si fermarono davanti all’ufficio di Van Atta, e questi accese le luci e l’impianto dell’aria appena entrarono. Dall’odore di chiuso, Leo arguì che l’ufficio non doveva venire usato molto spesso: probabilmente, il funzionario passava la maggior parte del proprio tempo molto più comodamente sul pianeta. Un grande oblò incorniciava una splendida vista del pianeta Rodeo.

— Ho fatto un po’ di strada dall’ultima volta che ci siamo visti — disse Van Atta incontrando il suo sguardo. L’atmosfera lungo il bordo superiore di Rodeo, osservata da quella particolare angolazione, produceva degli spettacolari effetti prismatici di luce. — In molti sensi. E non mi dispiace restituire il favore. Ritengo che chi arrivi in cima abbia il dovere di ricordarsi come ci è arrivato. Noblesse oblige e tutto il resto. — Il leggero inarcarsi delle sopracciaglia invitò Leo ad unirsi a quelle soddisfatte autocongratulazioni.

Ricordarsi, appunto. Il completo vuoto di memoria di Leo stava diventando sgradevolmente imbarazzante. Sorrise e approfittò del fatto che Van Atta fosse occupato ad attivare la consolle di comunicazione della propria scrivania, per voltarsi e compiere un educato e tranquillo giro della stanza come se ne stesse esaminando il contenuto.

Una piccola targa sulla parete che recava inciso un allegro motto attirò la sua attenzione. Il sesto giorno Dio si accorse che non poteva fare tutto da solo e così creò gli INGEGNERI. Leo sbuffò, solo vagamente divertito.

— Piace anche a me — disse Van Atta, che aveva sollevato la testa dalla scrivania per vedere la causa di quella risatina. — Me lo ha dato la mia ex-moglie. È praticamente l’unica cosa che quella avida puttana non si è ripresa quando ci siamo separati.

— Lei era un… — cominciò Leo e poi si interruppe mentre stava per pronunciare la parola ingegnere, perché finalmente aveva ricordato; anzi, si chiese come avesse fatto a dimenticarsene. Leo aveva conosciuto Van Atta quando era un ingegnere di grado inferiore al suo e non ancora un funzionario superiore. Dunque, questo viscido intrallazzatore era lo stesso idiota che lui aveva spedito a calci in amministrazione solo per toglierselo dai piedi al tempo del progetto Stazione Morita, dieci, forse dodici anni prima? Il piccolo Brucie. Ah, sì. Oh, per la miseria…

Dalla consolle sbucarono un paio di dischi che Van Atta ritirò. — Lei mi ha dato la spinta giusta. Ho sempre pensato che dovesse essere una grossa soddisfazione vedere uno dei propri vecchi studenti, per addestrare il quale si è speso tanto tempo, arrivare così in alto.

Van Atta aveva solo cinque anni meno di lui. Leo si sentì profondamente irritato: non era un maestro novantenne in pensione, maledizione. Era un ingegnere, che lavorava e non aveva paura di sporcarsi le mani, se necessario. Le sue capacità tecniche, governate da una coscienziosità inflessibile, erano davvero invidiabili e il suo curriculum di sicurezza lo attestava… Con un sospiro, represse la rabbia. Non era forse sempre così? Aveva visto dozzine di subordinati salire di grado, e spesso erano uomini che lui stesso aveva addestrato. Già, e si poteva star certi che uno come Van Atta lo avrebbe fatto sembrare una debolezza e non un punto di orgoglio.

Van Atta gli lanciò i dischetti attraverso la stanza. — Questi sono il suo ruolino e il programma del corso di studi. Venga, le mostrerò alcune delle apparecchiature con cui lavorerà. La GalacTech ha in ballo due progetti per i quali pensa di impiegare questi quad del Progetto Cay.

Quad?

— Il soprannome ufficiale.

— Non è invece un… peggiorativo?

Van Atta lo fissò, sbuffando. — No. L’unico nome che non si usa mai apertamente nel definirli è «mutanti», dopo il clima di paranoia che si che si è creato a causa dell’ultimo fiasco del progetto militare di clonazione di Nuovo Brasilian. Se non fosse stato per le isteriche obiezioni di carattere legale sulla manipolazione dei geni umani, tutto questo progetto avrebbe potuto venir attuato molto più comodamente in orbita intorno alla Terra. Dicevamo dei due progetti: uno riguarda il montaggio di navi con propulsione a balzo in orbita intorno a Orient IV e l’altro la costruzione di una stazione spaziale di trasferimento in prossimità di un punto di connessione oltre Tau Ceti in un luogo dimenticato da Dio chiamato Stazione Kline: lavoro deprimente, sistema privo di pianeti abitabili, con il sole ridotto ad un tizzone, ma nello spazio locale vi sono non meno di sei punti di accesso ad altrettanti corridoi spaziotemporali. Potenzialmente molto redditizio. Gran lavoro di saldatura nelle più difficili condizioni di assenza di peso…

L’impeto di rabbia di Leo venne dissipato dall’interesse. Era sempre stato il lavoro in quanto tale e non lo stipendio e le gratifiche a mantenere vivo il suo entusiasmo. Cercare di ottenere i privilegi del dirigente significava solo essere relegato a terra. Seguì Van Atta fuori dall’ufficio, ritornando nel corridoio dove Tony attendeva paziente con il suo bagaglio.


— Immagino che sia stato lo sviluppo dei replicatori uterini a renderlo possibile — disse Van Atta mentre Leo riponeva le sue cose nell’alloggio. La stanza era ben più di un semplice cubicolo per dormire e comprendeva anche un bagno privato, una consolle per le comunicazioni e un’imbracatura dall’aspetto molto confortevole: niente mal di schiena mattutini, qui, pensò Leo soddisfatto. I mal di testa erano un altro problema.

— Ho sentito qualche accenno a queste cose — rispose. — Un’altra invenzione della Colonia Beta, vero?

Van Atta annuì. — I mondi esterni si stanno facendo troppo intraprendenti. La Terra rischia di perdere la supremazia, se non si mette al passo.

Fin troppo vero, pensò Leo. Anche se la storia delle innovazioni induceva a credere che si trattasse di uno schema inevitabile. Le amministrazioni che avevano fatto enormi investimenti di capitali in un determinato sistema, naturalmente non gradivano rimetterci e così i nuovi venuti si facevano avanti con forza, causando grande frustrazione negli ingegneri più fedeli… — Pensavo che l’uso dei replicatori uterini fosse rigorosamente ristretto ai casi di emergenza ginecologica.

— In realtà, l’unica limitazione al loro uso è che sono ignominiosamente costosi — rispose Van Atta. — Probabilmente è solo questione di tempo prima che le donne facoltose di ogni dove comincino a sottrarsi ai loro doveri biologici demandandoli ad essi… Ma per la GalacTech ciò ha permesso che gli esperimenti di ingegneria genetica potessero finalmente venir condotti senza coinvolgere schiere di madri ospiti per gli embrioni trapiantati. Un approccio ingegneristico pulito, controllato e senza ombre. E quel che è meglio, i quad sono costruiti artificialmente da capo a piedi, nel senso che i loro geni provengono da tali e tante fonti che è impossibile identificare i loro genitori genetici. E questo fa risparmiare una quantità di fastidi legali.

— Non ho dubbi — fu la debole risposta di Leo.

— Tutto questo è stato un’ossessione per il dottor Cay, da quanto ho capito. Non l’ho mai incontrato di persona, ma doveva essere uno di quei tipi, sa, con un gran carisma, per portare avanti un progetto che richiedeva un simile lasso di tempo prima di dare qualche frutto. La prima infornata compie adesso vent’anni. Le braccia in soprannumero sono la parte più folle…

— Mi capita spesso di desiderare di avere quattro mani, quando mi trovo in assenza di peso — mormorò Leo, cercando di non esprimere i propri dubbi ad alta voce.

— … ma i cambiamenti maggiori sono stati nel metabolismo. Non soffrono mai di nausea e vertigini, è qualcosa che ha a che fare con le modifiche del sistema vestibolare; e con un esercizio fisico di soli quindici minuti al giorno, mantengono il tono muscolare: niente a che vedere con le ore di palestra che io e lei dovremmo sorbirci nei periodi di lunga permanenza a gravità zero. Le loro ossa non si deteriorano. Mostrano persino una maggiore resistenza alle radiazioni. Il midollo spinale e le gonadi possono sopportare un’esposizione ai rem cinque volte maggiore di quella che noi potremmo sopportare prima che la GalacTech ci rispedisca a terra; tuttavia, i medici insistono perché attuino la riproduzione in giovane età, quando tutti quei costosissimi geni sono ancora freschi. Dopo tutto, per noi è una pacchia: lavoratori che non hanno mai bisogno di licenze a terra, sempre in piena salute, e in grado di ridurre drasticamente i costi dei ricambi; sono persino autoreplicanti — ridacchiò Van Atta.

Leo ripose l’ultimo dei suoi scarsi effetti personali e chiese lentamente: — Cosa… ne sarà di loro quando andranno in pensione?

Van Atta scrollò le spalle. — Immagino che la Compagnia troverà una soluzione, quando arriverà il momento. Per fortuna non è un problema mio; prima di allora, io sarò già in pensione.

— E se danno le dimissioni… o se ne vanno da un’altra parte? Supponiamo che qualcuno offra loro dei salari più alti? La GalacTech perderebbe tutto quello che ha speso per lo Sviluppo e le Ricerche.

— Ah, credo che lei non abbia afferrato in pieno la bellezza della cosa. Non possono dare le dimissioni. Non sono degli impiegati: sono come un capitale investito in apparecchiature. Non vengono pagati in denaro, anche se mi piacerebbe molto che il mio salario fosse pari a quanto spende la GalacTech ogni anno per mantenerli. Ma le cose miglioreranno quando l’ultima schiera di replicatori sarà completamente autosufficiente. Hanno smesso di produrne dei nuovi cinque anni fa, in attesa di poter passare questo compito agli stessi quad. — Van Atta sollevò un sopracciglio umettandosi le labbra, come se si divertisse per qualche barzelletta pepata. A Leo non dispiacque affatto di non aver afferrato l’umorismo.

Si voltò, raggomitolandosi in aria e incrociando le braccia. — Il Sindacato degli Spaziali lo chiamerà schiavismo — disse alla fine.

— Il Sindacato gli darà anche nomi peggiori; la loro produttività al confronto sembrerà inesistente — borbottò Van Atta. — Sottigliezze di linguaggio. Questi scimmiotti sono coccolati dalla culla alla tomba. La GalacTech non potrebbe trattarli meglio nemmeno se fossero di platino. Avessimo anche noi un trattamento del genere, amico mio!

— Ah — si limitò a rispondere Leo.

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