CAPITOLO DODICESIMO

Leo si sfilò la tuta in mezzo a un coro di lamentele proveniente dai quad agitati.

— Che cosa vuol dire, non li abbiamo presi tutti? — domandò, sentendo svanire l’euforia. Aveva tanto sperato che i suoi guai, o almeno quella parte che riguardava i terricoli, sarebbe finita con l’accensione delle cariche che avevano staccato il Modulo Conferenze C.

— Quattro supervisori sono chiusi nel frigorifero degli ortaggi: hanno i respiratori e si rifiutano di uscire — riferì Sinda, dell’Alimentazione.

— E i tre uomini dell’equipaggio del traghetto che è appena attraccato hanno cercato di tornare alla loro nave — disse un quad con la maglietta gialla del dipartimento Stive e Portelli. — Li abbiamo intrappolati fra due portelli stagni, ma si sono messi ad armeggiare sui comandi di apertura, e non penso che potremo tenerli buoni ancora a lungo.

— Il signor Wyzak e alcuni supervisori dei sistemi di supporto vitale si sono, ehm, legati alle maniglie delle pareti nella Centrale Sistemi — riferì un altro quad vestito di giallo, aggiungendo, in tono agitato, — il signor Wyzak è certamente pazzo!

— Tre madri del nido si sono rifiutate di lasciare i loro piccoli — disse una ragazza più grande con la divisa rosa. — Sono ancora nella palestra con tutti gli altri piccoli. Sono molto turbati. Nessuno aveva detto loro che cosa stava succedendo, almeno fino a quando io sono rimasta là.

— E poi, ehm, c’è un’altra persona — si intromise in tono incerto Bobbi, della squadra saldatura e giunture. — Non sappiamo cosa fare di lui…

— Tanto per cominciare, immobilizzatelo — disse Leo stancamente. — Dovremo adattare una capsula di salvataggio per raccogliere gli sbandati.

— Potrebbe non essere facile — disse Bobbi.

— Siete superiori di numero. Prendi dieci, venti uomini, e tutte le possibili precauzioni… è armato?

— Non esattamente — ammise Bobbi, che sembrava provare un interesse particolare per le unghie delle sue mani inferiori. L’equivalente quad dello strascichio imbarazzato dei piedi, si rese conto Leo.

— Graf! — tuonò una voce autoritaria quando si aprirono le porte stagne all’estremità dello spogliatoio. Il dottor Minchenko si lanciò attraverso il modulo, andando a fermarsi con un tonfo accanto a Leo e sferrando un pugno all’armadietto, quasi a sottolineare il suo stato d’animo. Dopo tutto, in assenza di peso, non si potevano pestare i piedi per terra. Il respiratore inutilizzato che gli pendeva da una mano oscillò e tremò visibilmente. — Che cosa diavolo sta succedendo, qui? Non c’è nessuna maledetta depressurizzazione… — e respirò profondamente come a provare quell’affermazione.

La ragazza di nome Kara, con la maglietta e i pantaloncini bianchi della Sezione Medica, lo aveva seguito con un’espressione mortificata sul volto. — Mi spiace, Leo — si scusò, — non siamo riusciti a smuoverlo.

— Dovevo andare a rinchiudermi in qualche sgabuzzino mentre tutti i miei quad morivano per asfissia? — le domandò indignato. — Per chi mi hai preso, ragazza?

— Praticamente tutti gli altri lo hanno fatto — fu l’esitante spiegazione.

— Codardi, canaglie… idioti - sbottò Minchenko.

— Hanno seguito le istruzioni del computer in caso di emergenza — disse Leo. — Perché lei non lo ha fatto?

Il dottore lo fulminò con lo sguardo. — Perché tutta questa faccenda puzza. Una perdita di pressione in tutto l’Habitat dovrebbe essere praticamente impossibile. Dovrebbe verificarsi una incredibile serie di coincidenze.

— Ma eventualità del genere accadono — rispose Leo, parlando dall’alto della sua esperienza. — Il mio campo è appunto questo.

— Appunto — rispose Minchenko con voce suadente, socchiudendo le palpebre. — E quel delinquente di Van Atta l’aveva indicata come il suo ingegnere di fiducia, invitandola a venire qui. Francamente, avevo pensato… — la sua espressione era solo leggermente imbarazzata, — che lei fosse il suo esecutore materiale. L’incidente giungeva troppo opportuno in un momento come questo, dal punto di vista di Van Atta, per non risultare sospetto, ed è stata la prima cosa a cui ho pensato.

— Grazie — ringhiò Leo.

— Conoscevo Van Atta… non conoscevo lei. — Minchenko si interruppe e poi riprese in tono più gentile, — e ancora non la conosco. Che cosa crede di fare?

— Non è ovvio?

— Non del tutto, no. Oh, certo, potrete resistere nell’Habitat per qualche mese, tagliati fuori da Rodeo… magari anche per anni, escludendo che vi sia qualche contrattacco, se saprete risparmiare e se sarete molto in gamba, ma dopo? Qui non c’è un’opinione pubblica che possa precipitarsi a mettervi in salvo, nessun pubblico a fare il tifo per voi. È una follia, Graf. Non avete fatto piani per procurarvi degli aiuti…

— Noi non chiediamo aiuto. Saranno i quad a salvare se stessi.

— Come? — chiese Minchenko in tono sarcastico, anche se una luce di interesse gli illuminò lo sguardo.

— Faranno compiere un balzo all’Habitat. Poi continueranno a viaggiare.

Minchenko era senza parole. — Oh…

Leo riuscì finalmente ad infilarsi la tuta rossa e trovò l’attrezzo che stava cercando. Puntò la saldatrice laser al torace di Minchenko. Quello non era un compito che poteva delegare ai quad. — E lei — disse in tono duro, — andrà alla Stazione di Trasferimento nella capsula di salvataggio con gli altri terrestri. Avanti.

Minchenko non degnò di un’occhiata la saldatrice, le sue labbra si piegarono in una smorfia di disprezzo per l’arma e, così parve a Leo, per colui che la brandiva. — Non sia più stupido del necessario, Graf. So che sono riuscite a farla in barba a quel cretino di Curry, per cui ci sono almeno quindici ragazze incinte, qui. Senza contare i risultati degli esperimenti non autorizzati, che, a giudicare dal modo in cui sta diminuendo il numero dei preservativi nel cassetto nel mio ufficio, cominciano a essere significativi.

Kara aveva un’espressione costernata e colpevole, e Minchenko aggiunse, rivolto proprio a lei: — Perché pensi che te li abbia fatti notare, mia cara? Sia come sia, Graf — e rivolse a Leo uno sguardo fermo, — se lei mi manda via, cosa farà quando una di loro arriverà al momento del travaglio con una placenta praevia? O le si presenterà un prolasso uterino post-parto? O per qualunque altra emergenza medica che richieda qualcosa di più di un semplice cerotto?

— Be’… ma… — Leo era stato colto alla sprovvista. Non aveva la più pallida idea di che cosa fosse una placenta praevia, ma era quasi sicuro che non si trattasse di un’espressione medica per definire un’unghia incarnita. Non che una spiegazione precisa del termine avrebbe dissipato la tremenda ansia che sentiva nascere dentro di sé. Certamente vi erano delle probabilità che tutto questo potesse accadere, date le alterazioni anatomiche dei quad. — Non c’è altra scelta. Restare qui significa la morte per tutti gli altri quad. Andarsene rappresenta una possibilità, non una garanzia, di sopravvivere.

— Ma avete bisogno di me — ribatté Minchenko.

— Lei deve… che cosa? — Leo non riuscì a proseguire.

— Avete bisogno di me. Non potete liquidarmi — gli occhi di Minchenko si posarono per un frazione di secondo sulla saldatrice.

— Be’… — balbettò Leo, — non posso certo sequestrarla.

— E chi glielo sta chiedendo?

— Lei, mi sembra… — si schiarì la voce. — Senta, non credo che lei abbia capito. Io porterò via questo Habitat, e non torneremo più indietro, mai più. Ce ne andremo il più lontano possibile, al di là di ogni mondo abitato. È un biglietto di sola andata.

— Mi sento più sollevato. Per un attimo avevo pensato che volesse tentare qualche pazzia.

Leo si sentì invadere da emozioni contrastanti, sospetto, gelosia?… un senso di grande aspettativa… che sollievo sarebbe stato non dover portare da solo tutto il peso. — Ne è sicuro?

— Sono i miei quad… — Minchenko strinse i pugni e subito li riaprì. — Miei e di Daryl. Non credo che lei abbia la minima idea del lavoro che abbiamo fatto. È stato un buon lavoro, creare questa gente. Sono perfettamente adattati al loro ambiente. Superiori in tutto. Trentacinque anni di lavoro… e dovrei lasciare che un perfetto sconosciuto li trascini per la Galassia verso chissà quale destino? E poi, la GalacTech mi avrebbe mandato in pensione tra un anno.

— Perderà la pensione — gli fece notare Leo, — forse anche la libertà… e la vita.

Minchenko sbuffò. — Non me ne è rimasta molta.

Non è vero, pensò Leo. Il biogenetista poteva vantare un’esistenza invidiabile, oltre tre quarti di secolo di esperienze. Alla morte di quell’uomo, un intero universo di conoscenze sarebbe morto con lui. Gli angeli avrebbero pianto quella perdita. A meno che… — Grazie al suo aiuto, potremmo avere un giorno dei dottori quad?

— Certo lei non potrebbe mai riuscirci. — Minchenko si passò la mano tra i corti capelli bianchi, con un gesto che era in parte di esasperazione e in parte di preghiera.

Leo rivolse lo sguardo verso i quad, sospesi tutt’attorno e intenti ad ascoltare… ascoltare mentre ancora una volta degli uomini muniti di gambe decidevano della loro sorte. Non era giusto… le parole gli uscirono di bocca prima che la cautela e il ragionamento potessero fermarle: — Cosa ne pensate, ragazzi?

Un coro di voci si levò immediatamente a favore del dottor Minchenko… anche negli occhi dei quad si leggeva un senso di sollievo. La familiare autorità del dottore sarebbe stata di immenso conforto per loro mentre si accingevano a inoltrarsi in un universo completamente sconosciuto. All’improvviso, Leo ricordò come l’universo fosse diventato per lui un luogo estraneo e diverso, il giorno in cui era morto suo padre. Il fatto di essere adulti non significa automaticamente che siamo in grado di salvarvi… ma questa era una cosa che ogni quad avrebbe scoperto da solo quando fosse arrivato il momento. Trasse un profondo respiro. — Va bene… — Come era possibile sentirsi di colpo più leggeri di cento chili quando già ci si trovava in assenza di peso? Placenta praevia, Dio!

Ma la reazione immediata di Minchenko non fu di compiacimento. — C’è solo una cosa — esordì, cercando di assumere un’espressione di umiltà che era orribilmente fuori posto sul suo viso.

Perché sta sudando, adesso? si chiese Leo, nuovamente sospettoso. — Che cosa?

— La signora Minchenko.

— Chi?

— Mia moglie. Devo andare a prenderla.

— Non… non sapevo che lei fosse sposato. Dove si trova?

— Giù. Su Rodeo.

— Al diavolo… — Leo represse l’impellente desiderio di strapparsi i pochi capelli che gli ancora restavano.

Pramod, che aveva ascoltato tutto, gli ricordò: — Anche Tony è laggiù.

— Lo so, lo so… e ho promesso a Claire… non so come faremo.

Minchenko aspettava con espressione tesa: non era un uomo abituato a pregare. Solo i suoi occhi imploravano. Leo si sentì commosso. — Tenteremo. Tenteremo. È tutto quello che posso promettere.

Minchenko annuì, con dignità.

— Ma cosa penserà la signora Minchenko di tutto questo?

— Sono venticinque anni che odia Rodeo — asserì Minchenko, con aria un po’ troppo disinvolta, pensò Leo. — Sarà felicissima di potersene andare. — Non aggiunse spero, ma Leo lo capì ugualmente.

— Va bene. Forza, dobbiamo ancora radunare i dispersi e sbarazzarci di loro… — e si chiese malinconicamente se fosse possibile morire per un attacco d’ansia, stramazzando a terra senza un gemito. Condusse il suo piccolo esercito fuori dallo spogliatoio.


Ormai incapace di aspettare oltre, Claire volava da un appiglio all’altro, attraversando il labirinto di corridoi. Il suo cuore esultava. Le porte stagne che immettevano nella palestra, da cui proveniva un rauco rumore di voci, erano affollate di quad e dovette trattenersi dall’impulso di aprirsi la strada a viva forza. Una delle sue vecchie compagne di camerata, che indossava la maglietta e i pantaloncini rosa degli addetti all’asilo, la riconobbe, le sorrise e allungò una delle mani inferiori per aiutarla a farsi largo tra la folla.

— I più piccoli sono vicini alla Porta D — le disse. — Ti stavo aspettando… — Dopo un rapido controllo visivo per accertarsi che il suo piano di volo non collidesse con quello di qualcun altro che aveva imboccato la stessa scorciatoia, la sua compagna la aiutò a lanciarsi verso la strada più breve, e cioè tagliando dritta attraverso la grande stanza.

La prosperosa figura in tuta rosa che Claire stava cercando era praticamente sommersa da uno sciame di mocciosi eccitati, spaventati e piangenti. Claire sentì una fitta di rimorso al pensiero che, per mantenere segreta la cosa, si fosse giudicato troppo pericoloso mettere al corrente i più piccoli dei cambiamenti che li attendevano. I piccoli non possono votare, pensò.

Andy era agganciato a Mamma Nilla e stava piangendo a dirotto. Mamma Nilla stava disperatamente tentando di calmarlo con un biberon a pressione che teneva in una mano, mentre con l’altra premeva una pezza di garza insanguinata sulla fronte di un altro bambino di cinque anni, anche lui in lacrime. Altri due o tre piccoli cercavano conforto aggrappati alle sue gambe, mentre lei cercava di istruire un sesto perché aiutasse un settimo, il quale aveva inavvertitamente aperto un pacchetto di proteine in compresse che si erano sparse in aria. E in mezzo a tutto quel bailamme, nel tono calmo e strascicato della sua voce si avvertiva appena una punta di tensione, finché non vide Claire. — Oh, Dio — disse allora debolmente.

— Andy! — esclamò Claire.

Il bambino girò il capo verso di lei e si lanciò lontano da Mamma Nilla con frenetiche movenze natatorie, ma fu costretto a fermarsi perché trattenuto dal guinzaglio e finì per ritrovarsi di nuovo a fianco della madre del nido. A quel punto cominciò a gridare con quanto fiato aveva in gola, e il bambino ferito gli fece eco, mettendosi a piangere come un disperato.

Claire scivolò accanto alla parete e si avvicinò.

— Claire, tesoro, mi spiace, ma non posso lasciartelo — disse Mamma Nilla ondeggiando i fianchi per nascondere Andy. — Il signor Van Atta ha detto che mi avrebbe licenziata in tronco, nonostante i miei vent’anni di servizio… e Dio solo sa chi prenderebbe il mio posto… sono così pochi quelli di cui posso fidarmi perché riescono a tenere la testa sulle spalle… — Andy interruppe le sue parole agitandosi di nuovo, poi diede un colpo violento al biberon che gli veniva offerto e questo finì per sfuggire di mano alla donna, cominciando a roteare, mentre minuscole goccioline di latte si aggiungevano alla degradazione generale dell’ambiente. Claire tese le mani verso di lui.

— Non posso, non posso davvero… oh, al diavolo, prendilo! — Era la prima volta che Claire udiva Mamma Nilla imprecare. Ella sganciò il guinzaglio e il fianco sinistro ormai libero venne immediatamente occupato dagli altri bambini.

Gli strilli di Andy si ridussero subito a un pianto soffocato, quando le sue manine si strinsero con forza a lei. Claire lo abbracciò con tutte e quattro le braccia, con uguale forza. Andy afferrò con le manine la maglietta di lei… inutilmente, constatò Claire. Il solo fatto di tenerlo fra le braccia poteva bastarle, ma il contrario non era necessariamente vero. Strofinò il naso in quei capelli morbidi e fini, deliziata dal profumo che sapeva di pulito, dalle sue orecchie finemente cesellate, dalla sua pelle traslucida, dalle ciglia sottili, insomma da ogni più piccola parte di quel corpicino che si agitava convulsamente. Felice, gli asciugò il naso con un angolo della maglietta azzurra che lei aveva indosso.

— È Claire — sentì che spiegava una bimba di cinque anni rivolta ad un’altra. — Lei è una mamma vera — Sollevò lo sguardo e vide che la stava scrutando con aria seria: le bimbe ridacchiarono e lei sorrise. Un bambino di sette anni aveva recuperato il biberon e galleggiava lì vicino, osservando incuriosito Andy.

Il taglio sulla fronte del piccolo quad aveva smesso di sanguinare e Mamma Nilla fu finalmente in grado di portare avanti la conversazione. — Per caso sai dove sia il signor Van Atta? — chiese preoccupata a Claire.

— Se n’è andato — disse Claire in tono gioioso, — andato per sempre. — Stiamo prendendo noi il comando.

Mamma Nilla spalancò gli occhi. — Claire, non vi lasceranno…

— Abbiamo chi ci aiuta. — Fece un cenno rivolta all’altra parte della palestra, dove Leo, con la sua tuta rossa, aveva attratto la sua attenzione… doveva essere appena arrivato. Insieme a lui c’era un’altra figura munita di gambe con una tuta bianca. Che cosa faceva ancora da queste parti il dottor Minchenko? Non poté reprimere una sensazione di paura. Non erano riusciti a liberare l’Habitat dai terricoli? Per la prima volta si domandò perché Mamma Nilla fosse rimasta. — Perché non sei andata alla tua zona di sicurezza? — le chiese.

— Non essere sciocca, cara. Oh, dottor Minchenko! — Mamma Nilla agitò una mano verso di lui. — Da questa parte!

I due terricoli, privi dell’agilità di volo dei quad attraversarono la stanza aggrappandosi a una rete di cavi che percorreva un arco più ampio e raggiunsero il gruppo di Mamma Nilla.

— C’è qui qualcuno che ha bisogno di una medicazione — disse Mamma Nilla al dottor Minchenko, appena questi fu abbastanza vicino da udirla, indicando il piccolo. — Che cosa sta succedendo? Possiamo riportarli senza pericolo al nido?

— Non c’è più pericolo — rispose Leo, — ma lei deve venire con me, signora Villanova.

— Non lascio i miei bambini finché non arriva il cambio — fu l’aspra replica di Mamma Nilla, — e i nove decimi del dipartimento sembrano svaniti, compreso il loro capo.

Leo aggrottò la fronte. — Non ha ancora avuto un colloquio informativo con la dottoressa Yei?

— No…

— Serbavano il meglio per ultimo — disse il dottor Minchenko con aria truce, — per ovvie ragioni. — Si rivolse alla madre del nido. — La GalacTech ha appena dichiarato terminato il Progetto Cay, Liz. Senza nemmeno consultarmi! — E senza mezzi termini, le descrisse il progetto finale. — Stavo inviando una protesta scritta, ma Graf mi ha battuto. E con molta più efficacia, direi. I ricoverati si appropriano dell’ospedale. Graf pensa di riuscire a convertire l’Habitat in una nave colonia. Io credo… ho scelto di credergli.

— Vuol dire che è lei il responsabile di questo pasticcio? — Mamma Nilla guardò infuriata Leo e poi si guardò intorno, chiaramente, sconvolta. — Pensavo che Claire stesse farneticando… — Le altre due madri terrestri del nido si erano unite al gruppo durante la spiegazione ed ora erano sospese in aria, con la stessa espressione sconvolta. — La GalacTech non le ha affidato l’Habitat, vero? — chiese Mamma Nilla con voce flebile.

— No, signora Villanova — spiegò paziente Leo. — Lo stiamo rubando. Ora, siccome non le chiederei mai di lasciarsi coinvolgere in qualcosa di illegale, se vuole seguirmi alle capsule di salvataggio…

Mamma Nilla fece vagare lo sguardo per la palestra. Qualche gruppo di piccoli veniva già condotto via dai quad più grandi. — Ma questi bambini non sono in grado di occuparsi di altri bambini!

— Dovranno farlo — disse Leo.

— No, no… lei non ha idea di quanto sia faticoso e intenso il lavoro di questo dipartimento!

— Non ce l’ha — confermò il dottor Minchenko, sfregandosi pensoso le labbra con un dito.

Non c’è altra scelta - concluse Leo a denti stretti. — Adesso, bambini, lasciate la signora Villanova: deve andare via — disse, rivolto ai quad che si aggrappavano a lei.

— No! — esclamò quello abbarbicato al suo ginocchio sinistro. — Deve leggerci le storie dopo cena, lo ha promesso! — Il bimbo con il taglio in fronte ricominciò a piangere. Un altro le tirò la manica sinistra e implorò a voce alta: — Mamma Nilla, devo andare al bagno!

Leo si passò le mani tra i capelli, poi si trattenne con uno sforzo visibile. — Deve vestirsi e andare fuori subito, non ho tempo di discutere, signora. Tutte voi — e il suo sguardo furente incluse anche le altre due madri, — muovetevi!

Una luce brillò negli occhi di Mamma Nilla. Distese il braccio a cui era ancora aggrappato il quad che, con occhi azzurri e spaventati, fissava Leo dietro il robusto bicipite di Mamma Nilla. — Allora la porta lei questa piccola al bagno?

La bimba e Leo si guardarono ugualmente terrorizzati. — No di certo — balbettò l’ingegnere, e si guardò intorno. — Lo farà un altro quad. Claire…?

Dopo un’attenta ricerca, Andy scelse proprio quel momento per cominciare il lamento di protesta per la mancanza di latte nel seno della madre, Claire cercò di calmarlo, accarezzandogli la schiena, ma aveva voglia di piangere per la delusione provata dal bambino.

— Immagino — si intromise il dottor Minchenko in tono blando, — che non te la senta di venire con noi, Liz. Naturalmente non si potrebbe più tornare indietro.

— Noi? — Mamma Nilla lo gratificò di uno sguardo tagliente. — Anche lei ha intenzione di continuare con questa follia?

— Penso proprio di sì.

— Allora va bene — accennò di sì con la testa.

— Ma lei non può… — cominciò Leo.

— Graf — lo interruppe il dottor Minchenko, — quel piccolo dramma da depressurizzazione da lei inscenato poco fa, ha indotto per caso queste signore a credere che avrebbero ancora avuto aria da respirare restando con i loro quad?

— Non aveva questo scopo — disse Leo.

— Io non ci ho nemmeno pensato — disse una delle madri, con espressione improvvisamente sconvolta.

— Io sì — disse l’altra, guardando imbronciata l’ingegnere.

— Sapevo che c’erano scorte d’aria di emergenza nel modulo della palestra — disse Mamma Nilla, — fa parte delle esercitazioni regolari, dopo tutto. L’intero dipartimento avrebbe dovuto confluire qui.

— Io li ho dirottati — fu la concisa replica di Leo.

— L’intero dipartimento avrebbe dovuto mandarla al diavolo — aggiunse Mamma Nilla in tono calmo. — Mi permetta di parlare a nome degli assenti — e rivolse all’ingegnere un sorriso gelido.

Una delle altre madri si rivolse agitata a Mamma Nilla. — Ma io non posso venire con voi! Mio marito lavora sul pianeta!

— Ma a chi pensa che interessi! — ruggì Leo.

L’altra madre del nido si limitò ad ignorarlo e si rivolse a Mamma Nilla. — Mi spiace, mi spiace davvero, ma non posso, Liz, è troppo per me.

— Ecco, appunto. — Esitando, Leo appoggiò la mano su un rigonfiamento della tuta, poi la lasciò ricadere e decise invece di farle sgomberare con larghi gesti delle mani.

— Va bene, ragazze, vi capisco — Mamma Nilla acquietò la loro evidente ansia. — Io rimarrò a difendere il forte, immagino. Dopo tutto, non ho nessuno che aspetti di vedere tornare questo vecchio corpo — e rise, un po’ forzatamente.

— Allora la responsabilità del dipartimento passa a te? — Il dottor Minchenko chiese conferma a Mamma Nilla. — Tienilo in funzione come puoi… e quando non puoi, vieni da me.

Lei annuì con aria assorta, come se solo in quel momento si fosse resa conto dell’enormità e della complessità del compito che l’attendeva.

Il dottor Minchenko si occupò del ragazzo con la ferita sulla fronte; Leo riuscì finalmente a disfarsi delle altre due donne dicendo: — Avanti, devo andare a svuotare il frigorifero degli ortaggi.

— Con tutto quello che sta succedendo, perché perde il suo tempo a ripulire un frigorifero? — mormorò tra sé Mamma Nilla. — Follie…

— Mamma Nilla, devo andare, ora - la piccola quad avviluppò tutte le braccia intorno al corpo della donna per sottolineare l’urgenza, e Mamma Nilla fu costretta a seguirla.

Andy stava ancora esprimendo la propria indignazione con strilli intermittenti.

— Ehi, piccolino — il dottor Minchenko si interruppe per rivolgersi al bambino, — non è questo il modo di parlare a tua madre…

— Niente latte — spiegò Claire. E con aria cupa, sentendosi assolutamente inadeguata, gli offrì il biberon, che lui rifiutò prontamente. Quando cercò di staccarsi per un attimo dal bambino per tuffarsi a recuperare la bottiglia, il piccolo le si avviluppò attorno ad un braccio, strillando frenetico. Uno degli altri piccoli di cinque anni si mise tutte e quattro le mani sulle orecchie, in un gesto molto espressivo.

— Vieni in infermeria con noi — disse Minchenko con un sorriso di comprensione. — Penso di avere qualcosa che risolverà il problema. A meno che tu non voglia cercare di allattarlo adesso, cosa che non raccomanderei.

— Oh, la prego — disse Claire piena di speranza.

— Ci vorranno un paio di giorni perché il tuo metabolismo si rimetta a funzionare — la avvertì Minchenko, — dato lo sfasamento del biofeedback. Ma in ogni caso non ho ancora avuto la possibilità di visitarti da quando sono risalito…

Claire lo seguì prontamente, piena di gratitudine e persino Andy smise di frignare.


Pramod non aveva scherzato quando aveva parlato delle ganasce, rifletté Leo con un sospiro, osservando il metallo fuso davanti a lui. Richiamò le specifiche sul quadro del computer che fluttuava accanto a lui con un po’ di goffaggine e lentezza a causa delle mani guantate. Quella particolare tubatura isolata serviva come fognatura. Non era per niente attraente, ma un errore in quel punto poteva provocare un disastro come da qualunque altra parte.

E forse anche peggiore, pensò Leo con una smorfia torva. Guardò Bobbi e Pramod che erano sospesi in attesa lì vicino nelle loro tute argentee; altre cinque squadre di quad erano visibili sulla superficie dell’Habitat mentre un rimorchiatore si stava mettendo in posizione poco lontano. Rodeo, a forma di mezzaluna crescente, campeggiava sullo sfondo. Be’, di certo loro potevano definirsi gli idraulici più cari di tutta la Galassia.

L’intrico di tubi e di condutture numerate che aveva davanti costituiva il cordone ombelicale tra un modulo e l’altro, mentre una ulteriore copertura li riparava dalla polvere microscopica e da altri rischi. Il loro compito era di riallineare i moduli in fasci longitudinali uniformi per resistere all’accelerazione. Ogni fascio, legato insieme come le capsule di carico, avrebbe formato una massa compatta, indipendente e bilanciata, almeno per quello che concerneva la spinta relativamente bassa che Leo intendeva imprimere. Come guidare una squadra di ippopotami aggiogati. Ma riallineare i moduli comportava anche il riallineamento di tutti loro collegamenti, e c’erano decine e decine e decine di collegamenti.

Con la coda dell’occhio, Leo colse un movimento. L’elmetto di Pramod seguì l’inclinazione di quello di Leo.

— Ecco che se ne vanno — disse Pramod con voce carica di soddisfazione ma anche di rammarico.

La capsula con a bordo gli ultimi scampati terrestri scivolava silenziosamente nel vuoto, e un lampo di luce si rifletté su uno degli oblò mentre scompariva alla vista dietro la curva di Rodeo. Ecco la fine dei terricoli con le gambe, tutti, escluso lui, il dottor Minchenko, Mamma Nilla e un giovane supervisore un po’ folle armato di una chiave inglese; lo avevano estratto da un condotto e questi si era dichiarato perdutamente innamorato di una ragazza quad della Manutenzione Sistemi di Aerazione e si era rifiutato di andarsene. Se avesse riacquistato la ragione una volta raggiunto Orient IV, decise Leo, avrebbero potuto sbarcarlo là. Nel frattempo la scelta era tra eliminarlo o metterlo al lavoro. Dopo un’occhiata alla chiave inglese, Leo lo aveva messo al lavoro.

Tempo. I secondi sembravano strisciare come bruchi sulla pelle di Leo, sotto la tuta. L’ultimo gruppo di terrestri presto avrebbe raggiunto gli altri e avrebbe potuto scambiare tutte le necessarie informazioni. E subito dopo, rifletté Leo, la GalacTech avrebbe iniziato le sue contromosse. Non ci voleva un ingegnere per individuare gli innumerevoli punti in cui l’Habitat era vulnerabile. L’unica scelta rimasta ai quad era di svignarsela a tutta velocità.

Una calma flemmatica, rammentò Leo a se stesso, era la chiave per uscirne vivi. Doveva ricordarlo sempre. Riportò la propria attenzione sul lavoro che lo attendeva. — Va bene: Bobbi, Pramod, diamoci da fare. Tenetevi pronti con le chiusure di emergenza da entrambe le estremità, e avremo ragione di questo mostro…

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