CAPITOLO OTTAVO

Per tutto il giorno Charley Estancia si era dedicato alle sue abituali occupazioni come se tutto fosse perfettamente normale. Si era svegliato all’alba, come sempre; nessuno riusciva a dormire a lungo nelle due stanze della casa di mattoni imbiancata a calce che ospitava i quattro adulti ed i cinque ragazzi della famiglia Estancia. Il pupo, Luis, cominciava a frignare al primo canto del gallo. Ciò provocava abitualmente una sequela di imprecazioni da parte di George, zio materno di Charley, un ubriacone che comunque aveva sempre il sonno agitato; Lupe, sorella di Charley, rispondeva di solito con altre imprecazioni, e così cominciava la mattinata. Tutti andavano avanti e indietro per la casa, insonnoliti e di pessimo umore. La nonna di Charley accendeva la cucina per le tortillas, sua madre si occupava del piccolo Luis, l’altro fratello di Charley, Ramon, accendeva il televisore e vi si piantava davanti, mentre suo padre si dileguava silenziosamente fuori finché non era pronta la colazione; sua sorella Rosita, infine, goffa e trasandata nella camicia da notte malridotta, si inginocchiava davanti all’altare e pregava con voce monotona, senza dubbio chiedendo perdono per i nuovi peccati, qualsiasi essi fossero, che la sera prima aveva aggiunto a quelli precedenti. Era sempre così ogni mattina, e Charley Estancia lo detestava. Gli sarebbe piaciuto poter vivere da solo, in modo da non dovere imbattersi nella malizia di Lupe, nella stupidità di Ramon, nei miagolii di Luis e nel corpo seminudo di Rosita, che dava spettacolo di sé in casa; in modo da non dover ascoltare gli striduli lamenti di sua madre e le repliche sottomesse e avvilenti, da fallito, di suo padre; in modo da non dover più essere vittima delle fantasie senili di sua nonna, sempre in attesa di un tempo in cui la vecchia religione sarebbe stata seguita di nuovo. L’esistenza in un museo vivente come quello non era piacevole. Charley detestava ogni cosa del villaggio: le sue strade polverose e non pavimentate, le sue tozze case di fango, la sua mescolanza di disordinate vecchie abitudini e di sgradevoli nuove usanze, e soprattutto le orde di turisti dalla faccia pallida che si facevano vivi ogni luglio ed agosto per osservare la gente di San Miguel come se si trattasse di animali in un giardino zoologico.

Ora, finalmente, Charley aveva qualcosa per distogliere la sua mente da tutti quei pensieri. C’era l’uomo delle stelle, Mirtin, dentro la grotta vicino all’arroyo.

Mentre si dedicava alle sue grigie incombenze giornaliere, Charley non riusciva a togliersi dalla testa la meraviglia e l’eccitazione di sapere che un uomo venuto dalle stelle lo attendeva là fuori. Era proprio come aveva affermato Marty Moquino: quella vampa di luce nel cielo non era stata una meteora, ma un disco volante che era esploso. Che cosa avrebbe detto Marty Moquino, se avesse saputo di Mirtin?

Charley Estancia era deciso a non permettere che ciò accadesse. Non poteva fidarsi di Marty. Marty pensava solo a se stesso; avrebbe venduto Mirtin ad un giornale di Albuquerque per un centinaio di dollari, ed il giorno dopo avrebbe acquistato un biglietto d’autobus per Los Angeles, e sarebbe scomparso. Charley non aveva in programma di fornire a Marty Moquino neppure il minimo indizio di ciò che si trovava in quella grotta vicino all’arroyo.

Dalle nove a mezzogiorno della mattina Charley andò a scuola. Un vecchio autobus arrugginito giungeva al villaggio cinque volte a settimana, tranne che nella stagione delle messi, e raccoglieva tutti i ragazzi tra i sei ed i tredici anni, conducendoli alla grossa scuola statale per gli indiani. La scuola non insegnava loro granché. Charley immaginava che le cose stessero più o meno così: bisognava tener tranquilli gli indiani, costringerli nelle riserve, in modo che i turisti potessero andare a vederli. Tutto denaro per lo stato. Su a Taos, dove avevano il più grande e fantastico villaggio della zona, facevano pagare due dollari solo per portarsi appresso la macchina fotografica. Perciò l’istruzione era ben poca cosa nella scuola statale… un po’ di lettura, scrittura ed aritmetica. La storia che insegnavano era la storia dell’uomo bianco: George Washington e Abramo Lincoln. Perché non insegnavano la storia del villaggio?, si chiedeva Charley. Perché non insegnavano come erano giunti lì gli spagnoli ed avevano fatto schiavi gli indiani? E di come questi ultimi si erano ribellati, e di come il grande spagnolo, Vargas, aveva represso nel sangue la rivolta? Forse, si diceva Charley, non vogliono mettere strane idee nelle nostre testoline felici.

A volte Charley otteneva i migliori risultati, a scuola, a volte i peggiori. Tutto dipendeva dall’interesse che riusciva a metterci, perché gli argomenti erano facili. Sapeva leggere, sapeva scrivere, sapeva far di conto ed altro ancora. Aveva imparato da solo l’algebra da un libro, perché con l’algebra si poteva capire in che rapporto stavano fra loro le cose. Aveva anche studiato un po’ di geometria. Conosceva le stelle, e sapeva come funzionavano i razzi. Una donna che insegnava alle scuole pensava che lui doveva diventare falegname nel villaggio, ma Charley aveva altre idee per la testa. C’era un insegnante, uno molto in gamba, il signor Jamieson, il quale aveva affermato che, fra due anni, quando fosse stato più grande, Charley sarebbe dovuto andare al liceo. Al liceo di Albuquerque non c’era separazione fra gli indiani e gli altri. Chi aveva voglia e capacità di apprendere, poteva farlo, e non importava se i suoi capelli erano neri e lucenti o no. Ma Charley già sapeva che cosa sarebbe successo, se avesse chiesto ai suoi genitori di andare al liceo. Gli avrebbero detto di farsi furbo, di imparare a fare il falegname come diceva quella donna. Marty Moquino era andato al liceo, gli avrebbero detto, e quale vantaggio gli aveva portato? Aveva solo imparato a fumare, a bere, a frequentare le ragazze. Aveva bisogno di andare al liceo per quelle cose? Non lo avrebbero lasciato andare, Charley lo sapeva, e ciò significava che probabilmente lui sarebbe fuggito da casa.

All’una del pomeriggio ritornò a San Miguel dopo aver trascorso la solita inutile mattinata a scuola. Nel pomeriggio aveva occupazioni diverse a seconda del periodo dell’anno. La primavera era, naturalmente, la stagione della semina. Tutte le donne e i bambini lavoravano nei campi. In estate venivano i turisti. Charley doveva aggirarsi qua e là, dimostrarsi servizievole e lasciare che scattassero le loro fotografie, sperando poi che gli regalassero un quartino. In autunno c’era il raccolto, e in inverno giungeva il tempo dei rituali sacri, che iniziavano proprio nel mese di dicembre con la danza della Società del Fuoco, e proseguivano poi con tutto un calendario di celebrazioni fino a primavera. Le celebrazioni significavano lavoro per tutti; il villaggio doveva essere ripulito e drappeggiato di vivaci ornamenti, gli uomini dovevano ridipingere i loro costumi, le donne dovevano cuocere una gran quantità di vasellame da vendere. Nelle intenzioni quei rituali dovevano portare le leggere piogge primaverili, ma Charley sapeva che in realtà portavano solo i turisti invernali, la gente bianca che non si stancava mai di osservare i riti strani e primitivi degli indigeni. La stagione iniziava nel territorio Hopi con la danza del serpente, e proseguiva poi via via attraverso Zuni fino ai villaggi del Rio Grande.

La danza della Società del Fuoco si sarebbe svolta fra alcuni giorni. Charley finse di lavorare per metà del pomeriggio. Nel frattempo raccolse pazientemente una piccola scorta di tortillas fredde, e le nascose in un pezzo di stoffa ricamata, stando molto attento che nessuno si accorgesse di ciò che stava facendo. Quando cominciò a farsi buio, sistemò le tortillas accanto al vecchio kiva abbandonato all’estremità più lontana del villaggio, dove non si recava mai nessuno perché si diceva che ci fossero gli spiriti maligni. Riempì una borraccia di plastica con acqua fresca presa alla sorgente e la nascose accanto alle tortillas. Poi attese l’oscurità. Giocherellò con il suo cane, ebbe un alterco con sua sorella Lupe e diede un’occhiata al libro di astronomia che aveva preso dalla biblioteca. Vide il prete che cercava di radunare qualcuno dei suoi parrocchiani per la funzione serale. Vide anche Marty Moquino che, afferrata sua sorella Rosita e portatala dietro il negozio di souvenir, le infilava una mano sotto la gonna. La sua cena fu rapida e squallida, sottolineata dal ciarlare del televisore e da una furiosa discussione fra Lupe e lo zio George.

Finalmente giunse la notte.

Tutti erano tornati al lavoro. Gli uomini importanti del villaggio impartivano ordini: il cacicco, capo a vita del villaggio, era in piedi accanto alla scala del kiva, intento a parlare con un prete della Società del Fuoco, mentre Jesus Aquilar, il governatore del villaggio di fresca elezione, si aggirava qua e là dando istruzioni a tutti. Era un’occasione ideale per recarsi da Mirtin. Facendo finta di niente, Charley si diresse verso il fondo della strada in cui viveva, fiancheggiata da tozze case di mattoni a due piani. Guardò in tutte le direzioni, fece una sortita al vecchio kiva per raccogliere le tortillas e la borraccia, e sparì nella bassa e stentata vegetazione che circondava il villaggio.

Si mosse a passo rapido, quasi saltellando. Si immaginò come un adulto, che correva come il vento, ma le sue gambe erano così corte che gli ci voleva molto tempo per raggiungere qualsiasi destinazione, e dovette anche fermarsi, ansimando, quando era ad appena un chilometro e mezzo dal villaggio. Si fermò poi nuovamente alla sottostazione elettrica, a guardarla con occhi ammirati. La compagnia elettrica l’aveva costruita due anni prima, poiché tutti ormai, nel villaggio di San Miguel, avevano la televisione e l’illuminazione elettrica, e quindi c’era bisogno di maggiore potenza. Però si erano preoccupati di sistemarla in un luogo ben appartato, in modo che non deturpasse l’immagine del villaggio. Ai turisti piaceva cullarsi nell’illusione che stavano viaggiando all’indietro nel tempo, quando visitavano un villaggio, e che ritornavano al 1500 o giù di lì. Le antenne televisive e le automobili non sembravano disturbarli troppo ma una sottostazione elettrica sarebbe stata eccessiva. Eccola lì, dunque. Charley guardò i grossi trasformatori e gli isolatori scintillanti, e pensò con aria sognante all’impianto generatore, sistemato chissà dove, dove atomi in esplosione trasformavano il vapore in elettricità perché il villaggio fosse illuminato di notte. Desiderò che la sua scuola lo portasse, un giorno o l’altro, in visita all’impianto di energia.

Sentendo che il fiato gli stava ritornando, riprese a correre. Adesso procedeva senza sforzo: prese un sentiero che si infilava tra le piante di iucca, scese lungo il fianco del primo arroyo risalendo dall’altra parte, si lanciò nell’ampia distesa e giunse al secondo arroyo, quello più grosso, oltre il quale il terreno si rialzava bruscamente. Sull’altura al di là dell’arroyo si apriva la caverna dove giaceva l’uomo delle stelle. Charley sostò sull’orlo del profondo avvallamento.

Guardò in alto. La notte era di nuovo illune; il plenilunio era atteso per la notte in cui si sarebbe svolta la danza della Società del Fuoco. Le stelle erano straordinariamente vivide e scintillanti. Charley individuò subito Orione, ed i suoi occhi corsero alla stella che si trovava all’estremità orientale della costellazione. Non ne conosceva il nome, malgrado lo avesse cercato sul suo libro, ma gli sembrò la più bella che avesse mai visto. Un brivido di timore gli scivolò lungo la schiena. Pensò ai grandi pianeti che ruotavano intorno a quella stella, alle strane città, alle creature che non erano uomini ed ai velocissimi veicoli sui quali sfrecciavano da un posto all’altro. Cercò di immaginare come potessero essere le città di quell’altro mondo, poi si accorse dell’ironia insita nel suo pensiero, ed arricciò il naso in una smorfia di amaro divertimento. Che cosa sapeva, delle città del suo mondo? Poteva immaginare Los Angeles e Chicago e New York, per non parlare della città di Mirtin? Non era mai stato in nessun luogo.

In un empito improvviso di furiosa energia si lanciò nell’arroyo e poi su per il fianco opposto, attraversò il piccolo pianoro e giunse ai bordi del pendio. Entrò nella caverna. Era lunga forse sei metri, e non più alta di quattro. Abituò gli occhi all’oscurità e scorse Mirtin sdraiato sulla schiena lì dove lo aveva lasciato, con le braccia e le gambe accuratamente protese all’infuori. L’uomo delle stelle non si muoveva. I suoi occhi erano aperti, e scintillavano alla debole luce delle stelle che penetrava nella caverna.

— Mirtin? Stai bene, Mirtin? Non sei morto?

— Ciao, Charley.

Sollevato, Charley si inginocchiò accanto all’essere ferito. — Ti ho portato da mangiare e da bere. Come ti senti, comunque? Ho fatto più presto che potevo.

— Sto molto meglio. Sento che l’osso si sta risanando. Recupererò le mie forze prima di quanto pensassi.

— Ecco qui. Ho delle tortillas per te. Sono fredde, ma buone.

— Prima l’acqua.

— Certo — disse Charley. — Scusa. — Svitò il tappo della borraccia e l’avvicinò alle labbra di Mirtin. L’acqua fluì lentamente nella gola dell’extraterrestre. Quando Charley ritenne che Mirtin ne avesse bevuta abbastanza, allontanò la borraccia, ma l’altro ne chiese ancora. Charley lo osservò stupito, mentre si scolava l’intera borraccia. Quanto beveva! E con quale velocità!

— Adesso le tortillas?

— Sì. Adesso.

Charley nutrì diligentemente Mirtin. Nessuna parte del corpo di quest’ultimo si muoveva, tranne la mascella che continuava a masticare con regolarità. Mirtin ingurgitò cinque tortillas, prima di far cenno che per il momento ne aveva abbastanza.

— Di che cosa sono fatte? — domandò.

— Di farina di granturco. Conosci il granturco? La pianta che noi coltiviamo.

— Sì, lo conosco.

— Lo maciniamo, e lo cuociamo sopra una pietra rovente. Proprio come facevano una volta. Facciamo un sacco di cose che venivano fatte una volta.

— Sembra che la cosa ti irriti — osservò Mirtin.

— Perché no? Che anno è questo, il 1982 o il 1492? Perché non dobbiamo essere civilizzati come gli altri? Perché dobbiamo continuare a fare le cose alla vecchia maniera?

— Chi è che vi fa fare le cose in questa maniera, Charley?

— I bianchi!

Mirtin aggrottò la fronte. — Vuoi dire che vi costringono a servirvi di sistemi antiquati? Che emanano leggi in tal senso?

— No, no, non è così. — Charley cercò le parole giuste. — Ci lasciano fare ciò che vogliamo, finché ce ne stiamo tranquilli. Possiamo eleggere il governatore del villaggio, sceglierci i nostri poliziotti, ogni cosa. Se lo volessimo, potremmo radere al suolo il villaggio e ricostruirne uno nuovo di plastica. Ma in tal caso non ci sarebbero più turisti. Né macchine fotografiche. Sai, noi siamo un museo, siamo i curiosi uomini del passato. Mi segui?

— Credo di sì — mormorò Mirtin. — Una deliberata conservazione delle usanze arcaiche.

— Usanze che cosa?

— Antiche.

— Proprio così. L’abbiamo scelto noi stessi, il popolo. Abbiamo messo su un bello spettacolo per i turisti. Loro ci portano il denaro, perché noi non ne abbiamo di nostro. Qualcuno di noi ha lasciato il villaggio ed ha aperto dei negozi ad Albuquerque, o cose del genere, ma siamo quasi tutti poveri, ed abbiamo bisogno del denaro che ci portano i turisti. Danziamo per loro, ci dipingiamo la faccia, facciamo ogni cosa alla maniera antica. Ma è falso, perché abbiamo dimenticato che cosa significhi. Abbiamo le società segrete, ma non ricordiamo le parole per l’iniziazione, così ne abbiamo inventate di nuove. È tutto falso, falso! — Charley scosse la testa con rabbia. — Magari vuoi un’altra tortilla?

— Sì, ti prego.

Soddisfatto, Charley osservò l’uomo delle stelle paralizzato mentre mangiava.

Poi riprese: — Dovremmo avere frigoriferi, riscaldamento, strade asfaltate, vere case, e tante altre cose. Invece viviamo nel fango. Abbiamo i televisori e le macchine, tutto qui. Il resto è ancora come nel 1500. È così che hanno voluto, e la cosa mi fa star male. Lo sai che cosa voglio, Mirtin? Voglio andarmene. Voglio andare a Los Angeles ed imparare a costruire i razzi. O diventare uno spaziale. So un sacco di cose. E potrei impararne molte altre.

— Però sei troppo giovane per andartene di casa?

— Già. Undici anni! Diavolo, chi vorrebbe avere undici anni? Se lascio casa, mi arrestano di corsa. E alla scuola del riformatorio non insegnano elettronica. Sono bloccato qui. — Raccolse un po’ di sabbia fredda dal terreno della caverna e la scagliò contro la parete lontana. — Senti — continuò poi il ragazzo. — Io non voglio parlare del mio piccolo e lurido villaggio. Raccontami del tuo mondo, vuoi? Dimmi tutto!

Mirtin rise. — Ci sarebbe molto da parlare. Da dove devo cominciare?

Dopo una breve esitazione, Charley domandò: — Avete delle grandi città?

— Sì. Molto grandi.

— Più grandi di New York? Di Los Angeles?

— Alcune, sì.

— Avete aerei a reazione?

— Qualcosa di simile — rispose Mirtin. — Usiamo… — fece una risatina — … usiamo i generatori a fusione. Ne hai visto uno che esplodeva nel cielo, ricordi?

— Oh, sì. Che sciocco! I dischi volanti! Che cosa li fa muovere? Qualcosa come l’energia solare?

— Sì — rispose Mirtin. — Un piccolo generatore a fusione che crea un plasma tenuto sotto controllo da un forte campo magnetico. Ciò che è successo alla nostra nave è stato causato dall’indebolimento di questo campo magnetico.

— Oh, oh! Bum!

Un bum gigantesco. È così che viaggiamo, però, sulle nostre navi rotonde ed appiattite, che voi chiamate dischi volanti.

— Quanto vanno veloci? — chiese Charley. — Ottomila chilometri l’ora?

— Più o meno — replicò Mirtin, vago.

Charley prese la sua risposta come una conferma. — Perciò potete andare da qui a New York in un’ora, eh? E sul vostro pianeta andate altrettanto veloci. Quanti abitanti ha il tuo pianeta?

Mirtin rise. — Non dovrei raccontarti tutte queste cose. Si tratta, come si dice, di informazioni riservate. Segretissimo.

— Suvvia! Non lo dirò ai giornali!

— Be’…

Charley fece dondolare una tortilla sopra le labbra dell’uomo delle stelle. — Ne vuoi un’altra, o no?

Mirtin sospirò, e i suoi occhi scintillarono nell’oscurità. — Abbiamo otto miliardi di abitanti — rispose. — Il nostro mondo è un po’ più grande della Terra, benché la gravità sia più o meno la stessa. E poi non occupiamo tanto spazio come voi. Siamo piuttosto piccoli. E adesso posso avere la tortilla?

Charley gliela diede. Mentre Mirtin masticava, il ragazzo lo interrogò sulle sue ultime affermazioni.

— Intendi dire che non assomigliate a noi?

— Proprio così.

— Già, hai detto che dentro siete differenti. Ma io immaginavo che aveste le ossa differenti, magari il cuore e lo stomaco sistemati in posti diversi. Siete molto più differenti?

— Molto più differenti — rispose Mirtin.

— E come siete? Dimmi a che cosa assomigliate senza il camuffamento.

— Piccoli. Lunghi meno di un metro, direi. Non abbiamo ossa, ma solo un rinforzo cartilaginoso. Noi… — Mirtin si interruppe. — Preferirei non descrivermi, Charley.

— Vuoi dire che in questo momento, dentro di te, dentro quello che io vedo, c’è una cosa del genere? Non più grande di un bambino, tutta rannicchiata dentro di te? È così?

— È così — ammise Mirtin.

Charley si alzò e si diresse verso l’imboccatura della caverna. Si sentiva scosso da quella rivelazione, ma non avrebbe saputo spiegare il perché. Nel breve tempo intercorso dal momento in cui aveva conosciuto Mirtin, si era abituato a pensare all’uomo delle stelle come ad un uomo, appunto, qualcuno che era nato su un altro pianeta nello stesso modo in cui si nasce in ogni luogo, ma non troppo diverso, in fondo. Più intelligente di un terrestre, ma non diverso da lui, se non per la collocazione dei suoi organi interni. Invece pareva che Mirtin assomigliasse in realtà ad una specie di grosso verme. O peggio ancora. In effetti non si era descritto. Charley sollevò gli occhi verso le tre stelle luminose, e gli sembrò di accorgersi solo allora di aver fatto amicizia con chissà quale creatura aliena.

— Vorrei un’altra tortilla — disse Mirtin.

— Questa è l’ultima. Non credevo che fossi così affamato, conciato com’eri.

— Rimarresti sorpreso della fame che ho.

Charley lo nutrì. Poi parlarono un altro po’. Parlarono del pianeta di Mirtin, che si chiamava Dirna, parlarono degli osservatori e del perché osservavano la Terra, parlarono di stelle e di pianeti e di dischi volanti. Quando Mirtin si stancò di quegli argomenti, la conversazione mutò soggetto, e parlarono di San Miguel. Charley cercò di spiegare che cosa significava vivere in un villaggio tuttora ancorato ad abitudini preistoriche. Le parole gli sgorgarono ribollenti, mentre cercava di esprimere la frustrazione che provava, di comunicare la frenetica impazienza che lo tormentava, la fame di conoscere, di sapere, di vedere, di fare.

Mirtin ascoltò. Era un buon ascoltatore, che sapeva quando tacere e quando porre una domanda. Sembrò capire. Raccomandò a Charley di non preoccuparsi, di continuare semplicemente ad osservare ed a fare domande, e sarebbe giunto il tempo in cui avrebbe lasciato San Miguel per il mondo più vero. Ciò era incoraggiante. Charley fissava ad occhi sgranati quell’ometto dagli occhi amichevoli e la frangia di capelli grigi, e non riusciva ad accettare il fatto che Mirtin fosse una cosa di gomma senza ossa, sotto quella parvenza umana. Mirtin sembrava così umano, così gentile. Come un dottore o un insegnante, a parte il fatto che non era distratto e lontano, come i dottori e gli insegnanti che conosceva Charley. L’unico che avesse mai parlato a Charley in quel modo era il suo bravo signor Jamieson; e c’erano delle volte in cui il signor Jamieson dimenticava il nome di Charley e lo chiamava Juan, o Jesus, o Felipe. Mirtin non avrebbe mai dimenticato alcun nome, si disse Charley.

Dopo un poco decise che forse doveva aver fatto stancare l’uomo delle stelle. E non poteva rischiare di trattenersi troppo a lungo fuori dal villaggio. — Adesso devo andare — disse allora. — Tornerò domani, quando sarà buio. Ti porterò molte altre tortillas, e potremo parlare ancora. Va bene, Mirtin?

— Mi sembra un’ottima idea, Charley.

— Sei sicuro di star bene? Non hai troppo freddo, o qualcosa del genere?

— Sto benissimo — lo rassicurò Mirtin. — Ho solo bisogno di starmene qui sdraiato finché non sarò guarito. E se tu vieni da me, e mi porti tortillas ed acqua, e parliamo un po’ ogni sera, credo che guarirò molto prima.

Charley fece una smorfia. — Mi piaci, lo sai? Sei un amico. Non è tanto facile trovare degli amici. Arrivederci, Mirtin. Abbi cura di te.

Indietreggiò verso l’uscita della caverna, si voltò di scatto e si mise a correre come un matto verso il villaggio, saltellando e piroettando per la felicità. Aveva la testa che gli turbinava di tutti quei discorsi sul mondo di Mirtin e sulla sua superscienza, ma soprattutto era eccitatissimo per essere stato seduto lì a parlare, a parlare veramente, con l’uomo venuto dalle stelle. Charley provava una sensazione di calore, malgrado il freddo pungente di dicembre che si faceva sentire nell’aria. Quel calore proveniva direttamente da Mirtin. Non passa il tempo con me solo perché ha bisogno che io gli porti da mangiare, pensò Charley. Gli piaccio. Gli piace parlare con me. E può insegnarmi delle cose.

La felicità faceva muovere più velocemente le gambe di Charley. Era già in prossimità del villaggio. Si trovava alla sottostazione elettrica, ormai, e correva con la testa per aria, guardando i grossi cavi dell’alta tensione che giungevano in un’ampia campata dal pilone al di là dell’arroyo. Non si preoccupava di sapere dove andava, e fu così che andò ad imbattersi nella coppietta che stava facendo l’amore accanto al recinto di filo spinato della sottostazione.

In quella notte fredda, erano entrambi completamente vestiti, ma non poteva esservi dubbio alcuno su quello che stavano facendo. Charley conosceva le cose della vita; non gli interessava spiare nessuno, ed ancor meno aveva voglia di essere scorto mentre faceva ritorno dalla direzione dell’arroyo. Perciò, quando inciampò nella gamba protesa, boccheggiò ed agitò le braccia per non perdere l’equilibrio, cercando poi di scappare nel modo più rapido e discreto possibile.

La ragazza gli gridò qualcosa di osceno. L’uomo, voltandosi di scatto, si guardò torvamente intorno e scosse il pugno. Charley notò, nella fulminea chiarezza di un attimo, che la ragazza era la migliore amica di sua sorella Rosita, Maria Aguilar, e che l’uomo era Marty Moquino. Gli dispiaceva aver interrotto il loro piacevole incontro, ma gli dispiaceva assai di più d’essersi lasciato vedere in quel modo da una persona che avrebbe potuto costituire un guaio serio per lui. Il corpo magro di Charley Estancia fu trafitto da un brivido di paura, e lui si mise a correre ansiosamente verso il villaggio.

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