CAPITOLO QUARTO

Mentre precipitava verso la Terra, Mirtin sapeva che stava andando incontro a delle brutte lesioni. La prese con calma, come faceva sempre. Del resto la questione non era in mano sua. Ciò che gli dispiaceva era la fama che la sua involontaria impresa gli avrebbe guadagnato in patria, non il dolore che il suo corpo avrebbe sofferto in Un futuro molto prossimo. Prima o poi una nave osservatrice doveva per forza avere un guasto, costringendo così il suo equipaggio ad un imprevisto atterraggio sulla Terra, ma Mirtin non aveva mai pensato che sarebbe toccato proprio alla sua nave.

Esistevano delle tecniche per calmare lo spirito in casi di tensione particolare. Se ne servì, mentre piombava verso l’oscuro mondo sottostante.

La perdita della nave era per lui una questione di scarsa importanza, come lo era l’imbarazzo per l’incidente. I pericoli cui sarebbe andato incontro sulla Terra erano un po’ meno irrilevanti, ma non costituivano fonte di reale dolore; sarebbe sopravvissuto, oppure no, e dunque perché piagnucolare? Né lo preoccupavano eccessivamente le lesioni organiche che di sicuro l’impatto con il terreno gli avrebbe causato. Era una cosa a cui si poteva porre rimedio. No, ciò che angosciava Mirtin era lo smembramento del suo gruppo sessuale. Essendo il più anziano ed il più stabile, sentiva la responsabilità nei confronti degli altri due, ed ora essi erano al di là delle sue possibilità di aiuto.

Probabilmente Glair era morta. Era un duro colpo. Mirtin l’aveva osservata lanciarsi in quel modo goffo, l’aveva vista precipitare roteando nel vuoto, dopo aver effettuato il peggiore di tutti i balzi possibili. Forse era riuscita a cavarsela, ma era assai più probabile che fosse piombata giù come una pietra, verso una morte rapida ed orribile. Mirtin aveva già perso dei compagni di gruppo in precedenza, molto tempo prima, e sapeva quale trauma comportasse quella perdita. E Glair era speciale, straordinariamente sensibile alle necessità del gruppo, il perfetto legame femminile tra i due maschi. Non era un elemento facile da rimpiazzare.

Vorneen aveva compiuto un balzo migliore, ed in ogni caso Vorneen era in grado di badare a se stesso. Ma sarebbe atterrato a molti chilometri di distanza dal luogo di impatto di Mirtin, e forse non si sarebbero ritrovati mai più. E anche se ci fossero riusciti, la loro non sarebbe stata una situazione facile… soprattutto senza Glair.

Mirtin si impose la calma.

L’impatto non doveva essere lontano, ormai.

Si diceva che un balzo del genere procurasse un impatto analogo a quello ottenuto saltando senza sistemi frenanti dall’altezza di trenta metri. Una caduta simile non era sufficiente per uccidere un Dirnano, ma si trattava pur sempre di un bel salto. Poiché avevano abbandonato la nave ad una quota assai superiore a quella consigliata per un balzo, era ragionevole attendersi gravi danni organici. Mirtin fece quello che poté, raccogliendo la sua anima Dirnana all’interno del suo guscio corporeo esterno, il camuffamento da terrestre. Era tutto ciò che poteva fare. Le ossa che sorreggevano il suo guscio si sarebbero probabilmente spezzate; il tessuto cartilaginoso Dirnano in esso racchiuso si sarebbe salvato. Ma rompersi le ossa gli avrebbe pur sempre causato dolore e scomodità. Quella struttura che lo ricopriva era ora il suo corpo, anche se lui non ci era nato dentro.

Giù.

La coscienza minacciava di abbandonarlo proprio negli ultimi istanti. Con un disperato sforzo di volontà, Mirtin riuscì a conservarsi lucido. Vide che stava per toccare terra lontano da grosse città. Verso est scorse gli edifici rettangolari di fango di un villaggio indiano, uno di quegli anacronismi viventi che i terrestri preservavano con tanta cura in quella parte del mondo. Verso ovest, più lontana, c’era l’enorme spaccatura di un canyon. Nel mezzo c’era la zona in cui sarebbe atterrato, una landa solcata da profonde gole, terrazze corrose e «mesas» che si ergevano ripide. Ad una quota così bassa, era preda delle correnti atmosferiche; Mirtin sentì che lo sollevavano dolcemente, deviando il suo volo di due o tre chilometri in direzione del villaggio indiano. Cercò di equilibrare la caduta servendosi del sistema stabilizzatore a propulsione, e chiuse lo schermo frenante per evitare gli effetti peggiori dell’impatto.

All’ultimo momento, malgrado il suo impegno, perse lo stesso conoscenza. Non fece molta differenza, poiché, quando si riebbe, capì di essere gravemente ferito.

La cosa più urgente era calmare il dolore; perciò allungò la mano verso le file di gangli, disattivandoli. Naturalmente alcuni dovevano rimanere attivi… quelli che presiedevano al funzionamento del suo sistema nervoso autonomo. Ed aveva bisogno del riflesso per respirare, e del fascio di nervi che trasmettevano energia al sistema digestivo/respiratorio/circolatorio. Ma staccò i collegamenti di tutto ciò che non serviva, almeno per il momento. Senza quella febbrile cortina di dolore, era in grado di valutare assai più chiaramente la sua situazione e di stabilire che cosa dovesse fare.

Trascorse più di un’ora prima che Mirtin riuscisse a disconnettere il sistema nervoso di quel tanto che bastava a rendere tollerabile il dolore. Un’altra mezz’ora gli ci volle per rimuovere dal suo corpo l’avvelenamento accumulatosi col dolore. A questo punto cominciò a guardarsi intorno.

Giaceva sulla schiena, sulla punta orientale di un cuneo di terreno leggermente rialzato rispetto alla zona circostante. Sulla sua sinistra scorreva l’alveo asciutto di quello che doveva essere un torrentello primaverile. Sulla sua destra c’era un irto costone, e, alla debole luce del mattino imminente, vide che la pietra era sabbiosa e friabile, costellata da innumerevoli piccole fenditure. A non più di una ventina di metri da lui si apriva la nera imboccatura di una caverna. Se fosse riuscito a strisciare in qualche modo fin lì, avrebbe trovato la protezione di cui aveva bisogno mentre il suo corpo era impegnato nel processo di risanamento.

Ma non poteva strisciare.

Non poteva muoversi affatto.

Era difficile valutare l’entità del danno fisico con il suo sistema nervoso in larga parte disinserito, ma Mirtin ipotizzò una frattura perpendicolare della spina dorsale. Braccia e gambe sembravano a posto, ma non reagivano agli stimoli motori, il che implicava una lesione alla spina dorsale. Con un po’ di tempo a disposizione, avrebbe potuto ripararla. Per prima cosa si sarebbe dovuto saldare l’osso, poi lui avrebbe dovuto rigenerare i fasci nervosi. Ci sarebbero voluti, ad occhio, un paio di mesi, tempo locale. Il suo corpo interiore, quello Dirnano, era fondamentalmente sano, perciò non doveva far altro che ricreare il guscio.

Sdraiato sulla schiena, lì all’aperto, però? In inverno? Senza cibo?

Il suo corpo aveva molte capacità particolari sconosciute sulla Terra, ma non poteva sopravvivere per un tempo indefinito senza cibo. Mirtin calcolò che sarebbe morto di fame molto prima di essersi ripreso al punto da potersi alzare e procurarsi da mangiare. Quello era comunque un discorso accademico; una settimana senz’acqua lo avrebbe spacciato prima. Aveva bisogno di un riparo, di cibo e di acqua, e nelle sue condizioni non era in grado di ottenere nessuna di quelle cose senza l’aiuto di qualcuno, il che significava che aveva bisogno di qualcuno che venisse in suo soccorso.

Vorneen? Glair? Se anche erano vivi, dovevano avere i loro problemi. Mirtin non era in grado di attivare il suo comunicatore, installato di lato proprio sopra l’anca, e non c’era alcun modo di trasmettere loro dei segnali. La sua unica speranza consisteva nell’arrivo di qualche terrestre dalle intenzioni amichevoli. E, in quel deserto, Mirtin non la riteneva una eventualità troppo probabile.

Si rese conto di essere destinato a morire.

Non ancora, però. Decise di aspettare tre giorni, e di vedere che cosa succedeva. A quel punto, la mancanza d’acqua avrebbe cominciato a tormentarlo seriamente, ed allora gli sarebbe rimasta solo la forza per disconnettere il resto del suo sistema nervoso, e scivolare così in una morte tranquilla. Il suo cadavere si sarebbe dissolto presto, anche in quel clima secco, ed un giorno avrebbero scoperto solo la sua tuta vuota. Quei corpi artificiali da terrestre erano stati progettati per putrefarsi rapidamente, ossa e tutto il resto, dopo che la scintilla vitale Dirnana si era spenta; gli organizzatori avevano preso le loro precauzioni per evitare che gli osservati venissero a conoscenza dei loro osservatori.

Mirtin attese.

Giunse il mattino, un lento incedere di chiarore che spuntava dal burrone. Attese con pazienza. Un altro mattino, poi un altro ancora, e tutto sarebbe finito. Rivide la sua vita. Pensò a Glair ed a Vorneen, a quanto profondamente li aveva amati. Si domandò, con la massima tranquillità, se era stato utile donare così la sua vita per quel mondo.

Alla fine si rese conto che qualcuno si stava avvicinando.

Mirtin non se lo aspettava. Era già rassegnato a rimanere sdraiato con la schiena spezzata in mezzo al deserto per i tre giorni da lui scelti volontariamente, lasciando che il tempo passasse, e consumandosi poco a poco. Invece sembrava che sarebbe stato scoperto.

Benché non fosse in grado di sollevare la testa, poteva girare gli occhi. Scorse ad una certa distanza un terrestre ed un piccolo animale domestico che si dirigevano verso di lui, seppure senza intenzioni apparenti. Si muovevano con circospezione, l’animale saltellando e dimenandosi, il terrestre fermandosi ogni tanto per lanciare delle pietre nel burrone. Mirtin discusse tra sé e sé la miglior condotta da seguire. Una morte rapida, subito, prima di essere scoperto? Se esisteva il minimo rischio che potesse essere condotto di fronte alle autorità, era impegnato da un giuramento ad uccidersi. Ma il terrestre sembrava giovane. Poco più che un ragazzo. Mirtin si costrinse a pensare in inglese, a mutare l’intero suo sistema di riferimenti. Che cos’era quell’animale? Aveva dimenticato gran parte di quello che sapeva sui mammiferi locali. Gatto, topo, pipistrello? Cane. Cane. Il cane aveva ormai identificato il suo odore. Una piccola e snella creatura bruna con una lunga coda dal ciuffetto bianco, un naso ruvido, occhi giallastri. Puntava su di lui, annusando. Mirtin poteva scorgere le ossa che sporgevano dal dorso della bestia. Il ragazzo lo seguiva.

Il muso nero era ormai davanti alla sua visiera. Il ragazzo era in piedi sopra di lui, con gli occhi sgranati, e la bocca aperta. Mirtin fece appello alle sue cognizioni. Il ragazzo era nell’età prepuberale; aveva forse dieci o undici anni. Capelli neri, occhi bruno-scuri, carnagione bruno chiaro. Membro di un gruppo negro? No. I capelli erano lisci, le labbra sottili, il naso stretto. Un membro degli aborigeni superstiti di quel continente. Parlerà inglese? Avrà intenzioni malvage? La bocca non era più spalancata. Adesso era chiusa, con gli angoli ripiegati all’insú. Un sorriso. Un segno amichevole. Anche Mirtin cercò di sorridere, e si accorse con sollievo che i suoi muscoli facciali funzionavano.

— Ciao — disse il ragazzo. — Sei ferito?

— Io… sì. Sono ferito molto gravemente.

Il ragazzo si inginocchiò accanto a lui. Occhi neri e scintillanti fissarono i suoi. Il cane, agitando la coda, annusò intorno a Mirtin, punzecchiandolo. Con una rapida manata il ragazzo fece allontanare l’animale. Mirtin provò simpatia per il giovane terrestre.

— Da dove vieni? — domandò il ragazzo con un filo di voce. — Sei caduto da un aeroplano?

Mirtin evitò la domanda imbarazzante. — Ho bisogno di cibo… di acqua…

— Già. Che cosa dovrei fare? Chiamare il capo? Possono far venire un camion, o forse portarti in ospedale ad Albuquerque.

Mirtin si irrigidì. Ospedale? Esame interno? Non poteva correre un rischio del genere. Se avesse lasciato che un medico terrestre gli puntasse sul corpo una delle sue macchine a radiazioni, e si accorgesse di quel che c’era sotto, il gioco era fatto. Sarebbe stato costretto ad uccidersi.

Scegliendo con cura le parole, Mirtin disse: — Potresti portarmi qui del cibo? Qualcosa da bere? Aiutami ad arrivare in quella caverna, vuoi? Solo finché non starò meglio.

Vi fu un lungo silenzio.

Poi — un colpo a caso, un guizzo di intuizione, forse? — il ragazzo strinse la bocca, emise una specie di fischio e disse: — Ehi, ho capito! Sei caduto dal disco volante!

Fu un centro pieno, e Mirtin lo accusò. Non era preparato ad una cosa del genere. Automaticamente disse: — Disco volante? No… no, non un disco volante. Io ero a bordo di una macchina. C’è stato un incidente. Sono stato lanciato fuori.

— E allora dov’è la macchina?

Gli occhi di Mirtin guardarono verso il burrone. — Laggiù, credo. Non lo so. Sono svenuto.

— Non c’è nessuna macchina. E da queste parti non è possibile guidare alcun veicolo. Stammi a sentire, signore, tu sei venuto da quel disco volante. Non prendermi in giro. Da quale pianeta vieni, eh? E come mai assomigli tanto a un terrestre?

Mirtin ebbe voglia di ridere. C’era tanta intelligenza in quel piccolo viso angoloso e schiacciato, una mente così acuta e scettica dietro quegli occhi scintillanti. Il ragazzo gli piaceva moltissimo. Poco più che uno straccione, che non parlava nemmeno troppo bene l’inglese, eppure Mirtin avvertiva un potenziale dentro di lui, una scintilla di qualcosa. Desiderò di poter essere onesto con il ragazzo, e di lasciar crollare il suo complicato castello di bugie.

Mirtin disse: — Puoi procurarmi del cibo? Qualcosa da bere?

— Intendi dire, portartelo qui?

— Sì. Se solo potessi stare dentro quella caverna… finché non mi sentirò di nuovo bene…

— Ma io potrei trovare aiuto giù al villaggio. Ti potremmo portare all’ospedale.

— Non voglio andare in un ospedale. Voglio solo restare qui… da solo.

Silenzio per un attimo.

Poi il ragazzo disse: — Non hai l’aspetto di un avanzo di galera. Non stai scappando. E allora perché non vuoi andare in ospedale? Questa strana tuta… e parli in modo strano; hai un accento buffo. Andiamo, signore. Da quale pianeta vieni? Marte? Saturno? Puoi fidarti di me. Non vado molto d’accordo con la gente del villaggio, di questi tempi. Io aiuto te, tu aiuti me. D’accordo?

Mirtin vide l’opportunità che gli si presentava. Perché non fidarsi di quel ragazzo? In fondo, nessun giuramento gli impediva di rivelare ad un terrestre la sua origine extraterrestre. Quanto a questo, doveva servirsi del suo giudizio. Poteva aver più da guadagnare dicendo la verità a quel ragazzo dal volto sudicio, ed ottenendo in tal modo un aiuto, che mantenendo il suo segreto. Specialmente se l’unica alternativa era quella di morire oppure di andare a finire in un ospedale, e di far scoprire il suo segreto a coloro che con maggiori probabilità l’avrebbero reso di dominio pubblico.

— Posso fidarmi di te? — domandò Mirtin.

— Tu aiuti me, io aiuto te. Certo.

— Va bene. Io mi sono lanciato col paracadute da una nave osservatrice. Un disco. L’hai visto esplodere ieri sera?

— Ci puoi scommettere!

— Be’, ero io. Noi. Io sono atterrato qui. Sono ferito… ho la schiena spezzata. Mi ci vorrà parecchio tempo per guarire. Ma se tu avrai cura di me, e mi porterai cibo ed acqua, e non dirai a nessuno che mi trovo qui, ce la farò. Poi cercherò di aiutarti, qualsiasi cosa tu voglia. Ma non devi raccontare a nessuno di questa faccenda.

— Pensi che qualcuno mi crederebbe, in ogni caso? Il pilota di un disco volante in mezzo al deserto. Non lo dirò a nessuno.

— Bene. Come ti chiami?

— Charley Estancia. Della tribù di San Miguel. Ho due sorelle, Lupe e Rosita, e due fratelli. Ma sono tutti degli scemi. E tu come ti chiami?

— Mirtin.

Charley lo ripeté. — Tutto qui? Solo Mirtin?

— Tutto qui.

— Che cosa significa?

— Si tratta di uno schema sonoro codificato. Include informazioni sul luogo della mia nascita, i nomi dei membri del mio gruppo di genitori, e le mie capacità vocazionali. In quelle due sillabe è concentrata un bel po’ di roba.

— E come mai hai l’aspetto di un terrestre, Mirtin?

— È un camuffamento. Dentro sono diverso. Ecco perché non voglio andare in un ospedale.

— Ti farebbero i raggi X e lo scoprirebbero, eh?

— Proprio così.

— Come sei, dentro?

— Tu diresti che sono piuttosto strano. Cercherò di spiegarti a cosa assomiglio. Più tardi.

— Me lo farai vedere?

— Non posso farlo — rispose Mirtin. — Il mio camuffamento… non viene via così facilmente, Charley. Fa parte di me. Ma quando avremo tempo ti spiegherò che cosa c’è sotto. Ti racconterò tutto.

— Parli inglese piuttosto bene.

— Ho avuto molto tempo per studiarlo. È dal… — fece una pausa — … dal 1972 che sono assegnato alla Terra. Dieci anni.

— Parli altre lingue? Spagnolo?

— Abbastanza bene.

— E il Tewa? È la lingua del mio villaggio. La conosci?

— Ho paura di no — confessò Mirtin.

Il ragazzo rise fragorosamente. — Benissimo! Perché neanche noi la conosciamo bene. I vecchi, loro pensano di saper dire le cose in Tewa, ma non si capiscono troppo l’uno con l’altro, a dire la verità. Credono di comprendersi, ma si illudono. È piuttosto divertente. Ehi, vieni da Saturno? Da Nettuno?

— Vengo da un diverso sistema solare — rispose Mirtin. — Molto lontano da qui. Da un pianeta che ruota intorno ad un’altra stella. Sai che cos’è un sistema solare? E stelle e pianeti? Questo qui è un pianeta, la Terra, e ci sono altri…

— Credi che sia uno stupido indiano? — lo interruppe risentito Charley Estancia. — Conosco le stelle e i pianeti. E le galassie, e le nebulose. So tutto quello che c’è da sapere. Non sono uno sciocco. So leggere. C’è una biblioteca mobile, che ogni tanto capita anche da noi. Da dove vieni? Quando spunteranno le stelle, stanotte, indicamelo.

— Non posso indicarti nulla, Charley. Non posso sollevare il braccio. È paralizzato.

— È così grave, eh?

— Per il momento, sì. Ma starò meglio, se ti prenderai cura di me. Comunque ti indicherò dove guardare, stanotte. Vedrai tre stelle assai brillanti, tutte in fila.

— Vuoi dire la costellazione di Orione?

Mirtin rifletté, considerando la geografia stellare dal punto di vista terrestre. — Sì. Proprio quella.

— E tu vieni da lì?

— Vengo da lì. Dal quinto pianeta della stella all’estremità orientale. È un bel viaggio, da qui.

— E tu hai fatto tutto quel viaggio in un disco volante?

Mirtin sorrise. — Su una nave osservatrice, sì. Per pattugliare la Terra. E ieri sera la nostra nave è esplosa. Abbiamo fatto appena in tempo a lanciarci, ed io sono atterrato qui. Non so nulla degli altri due.

Il ragazzo tacque e prese a fissarlo: gli occhi scintillanti si soffermarono su ogni particolare della tuta, poi si spotarono sul suo volto, forse in cerca di qualche sfumatura che rivelasse la sua natura aliena. Infine Charley disse: — Non so chi è più matto, se tu che mi racconti queste cose, o io che ci credo.

— Non credi che questa sia la verità?

— Non lo so. Che cosa dovrei fare? Prendere un coltello ed aprirti per vedere che cosa c’è dentro?

— Preferirei di no.

Il ragazzo si concesse una delle sue fragorose risate. — Non preoccuparti, non lo farò. Però mi sembra tutto così strano. Un uomo di un disco volante che atterra proprio qui. Senti, tu devi raccontarmi come vanno le cose lassù, eh? Tu parli, io ti ascolto, e poi saprò se dici la verità o se ti prendi gioco di me. Ti condurrò in quella caverna, e mi parlerai delle stelle. Devo sapere tutto. Non mi sono mai allontanato da casa, e tu vieni da un altro pianeta. Mi racconterai tutto, d’accordo?

— D’accordo — rispose Mirtin.

— Però adesso bisogna portarti dentro la caverna. E poi ti rimedierò qualcosa da mangiare e da bere. Il villaggio non è lontano. Ti farà male se ti aiuto ad alzarti in piedi? Puoi appoggiarti a me.

— Non servirebbe a niente. Anche le mie gambe sono paralizzate. Dovrai trascinarmi sul terreno.

— Trascinarti per le braccia? Ridotto così? Non credo che ti farebbe piacere. Ehi, ho un’idea migliore, Mirtin. Ti metterò su una barella. È meglio.

Mirtin osservò il ragazzo che si alzava, estraeva un coltello da caccia dalla guaina che portava sul fianco ed incominciava a tagliare la vegetazione circostante. Ricavò due paletti sottili da un albero scheletrico, li sfrondò dai rami e poi cominciò a tagliare i gambi delle piante spinose grigioverdi che crescevano basse sul terreno. Aveva il volto rigido per la tensione e le labbra serrate. Le sue dita si muovevano rapidamente, intrecciando una rete di fuscelli tra i due paletti. La scena affascinò Mirtin. Era così primitivo, quel ragazzo, eppure così efficiente!

Dopo un’ora silenziosa di energico lavoro, la barella era pronta.

— Adesso sentirai dolore — disse Charley. — In qualche modo devo metterti sulla barella. Quando sarai sopra andrà meglio, ma mentre ti sollevo…

— Posso disinserire il mio corpo — lo interruppe Mirtin. — Per parecchi minuti non sentirò nulla. Ma se durasse troppo a lungo morirei.

— Puoi spegnerlo? Semplicemente, come se ci fosse un interruttore?

— Qualcosa del genere. Quando chiuderò gli occhi, agisci rapidamente e mettimi sulla barella.

Per la prima volta, Mirtin scorse negli occhi del ragazzo qualcosa di molto vicino ad un genuino sgomento, addirittura terrore. Ma fu solo un attimo. Era come se il ragazzo avesse continuato a ritenere fino ad allora che quella faccenda era tutto uno scherzo, e, solo in seguito alla proposta di Mirtin di disattivare il suo sistema nervoso centrale, si fosse definitivamente convinto di trovarsi in presenza di un vero e proprio extraterrestre. Il terrore, tuttavia, passò in fretta. Charley Estancia non sembrava avere affatto paura. Mirtin si rese conto di aver avuto una fortuna incredibile ad essere stato scoperto da lui. Si sarebbero intesi benissimo.

— Dimmi quando sei pronto — annunciò Charley.

— Ora — rispose Mirtin.

Staccò i gangli rimanenti. Subito avvertì delle mani magre e fredde che gli afferravano i polsi, e poi sprofondò nell’oscurità di una morte temporanea.

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