CAPITOLO SETTIMO

Per tre giorni Glair rimase in bilico tra coscienza e incoscienza. I suoi arti le trasmettevano fitte di dolore lancinante, ed il suo intero corpo era gonfio in modo innaturale. Sapeva di essere orribile, in quei momenti, e ciò era per lei più insopportabile del dolore stesso.

Un sistema di alimentazione in «feedback» continuava a farla oscillare sulla soglia della consapevolezza. Quando era sveglia il dolore si faceva sentire più forte, e lei ne approfittava per disattivare i gangli di cui poteva fare a meno. Dopo un po’ riusciva a rilassarsi, e scivolava di nuovo nel non-dolore dell’incoscienza. Ma non si fidava a disinserire anche il sistema nervoso, e così, quando si sentiva cedere, rimetteva in funzione i gangli, ritornando dalla grigia foschia della non-esistenza ad un rinnovato dolore. Il dolore portava a sua volta con sé una forma d’incoscienza, quando gli lasciava campo libero. Non solo i nervi dell’involucro esterno, ma anche quelli del suo corpo Dirnano erano aggrediti dalle fitte, talora così forti che i canali neurali tendevano a sovraccaricarsi.

Vagamente, Glair capì di essere stata raccolta nel deserto e condotta nell’abitazione di qualche terrestre. Vagamente, si rese conto che la tuta ed anche la fascia lombare le erano state tolte. Avvertiva il succedersi del giorno e della notte, e supponeva di essere sotto l’effetto di droghe antidolorifiche — un espediente inutile, poiché non funzionavano su di lei — e aveva l’impressione che qualcosa fosse stato fatto per le sue gambe ferite, il che era molto più proficuo.

Però non recuperò completamente la consapevolezza, e non si preoccupò di dare un’occhiata all’ambiente che la circondava. Rimase tranquilla nel suo guscio di dolore.

Vorneen era sopravvissuto all’esplosione? Mirtin era ancora vivo?

Era stata troppo occupata nel tentativo di porre rimedio al balzo imperfetto, per prestare attenzione a ciò che succedeva sopra la sua testa. Glair presumeva che i suoi due compagni fossero saltati in tempo, ma non poteva esserne certa. Rivisse più e più volte il suo volo: quel salto così goffo, quel momento di totale paralisi mentre il terrore le riempiva l’anima, quell’orribile tuffo a capofitto, che non finiva mai. Poi la ripresa dei sensi, dopo un volo di migliaia di metri, ed il sentimento di sollievo quando lo schermo frenante si era dispiegato in aria, rallentando la sua caduta. Certo, non c’era speranza di un atterraggio morbido: aveva già raggiunto una velocità pazzesca, e lo schermo non era in grado di farla decelerare in tempo. Il meglio che poteva fare era evitarle di spiaccicarsi al suolo in maniera disastrosa. Aveva toccato terra… pur perdendo i sensi un attimo prima dell’impatto. Era rimasta gravemente ferita. Era stata trovata. Glair non sapeva nient’altro, con certezza.

Il quarto giorno si svegliò.

Avvertì una sensazione di prurito al braccio, all’inizio, e malgrado si trattasse di una sensazione che aveva già provato in quei giorni di sofferenza, stavolta non le procurava disagio ma piacere. Glair aprì gli occhi per vedere che cosa stava succedendo. Un terrestre muscoloso era in piedi sopra di lei, e le premeva un tubetto di porcellana marrone e rilucente contro la parte carnosa del braccio. Quando incontrò i suoi occhi, l’uomo si irrigidì all’istante.

— Finalmente ti sei svegliata — le disse. — Come ti senti?

— Malissimo. Che cosa sta facendo al mio braccio?

— Un’iniezione intravenosa. Sto cercando di nutrirti. Ma ho avuto qualche problema a trovare le tue vene.

Glair si concesse una risata. Ridere, lo sapeva, era il modo in cui i terrestri mitigavano le tensioni sociali. Ma era molto tempo che non si esercitava più nell’apprendimento delle abitudini terrestri, ed i suoi muscoli facciali trovarono qualche difficoltà ad atteggiarsi nella risata. Dovette sforzarsi, ed il risultato dovette assomigliare più ad una smorfia di dolore che ad una risata, poiché l’uomo reagì con un sospiro di affettuosa comprensione.

— Tu soffri — le disse. — Ho qui dell’anestetico…

Glair scosse la testa. — No. No, andrà tutto bene. Questo è un ospedale? Lei è un dottore?

— No. E no.

Ne fu sollevata e stupita. — Dove mi trovo, allora?

— A casa mia. Ad Albuquerque. Mi sono preso cura di te da quando ti ho trovata, quella notte.

Glair lo studiò. Era il primo terrestre che vedeva in carne ed ossa — e non sulle registrazioni solidografiche con cui aveva a che fare ogni osservatore Dirnano durante il periodo di addestramento — e quella vista la affascinò. Com’era compatto il suo corpo! E com’erano ampie le sue spalle. Colse con le narici sensibilissime il profumo del suo corpo, fragrante ed eccitante, che contrastava con quello più acre dell’aria terrestre. Assomigliava quasi più ad una bestia che ad una creatura intelligente, tanto possente e primordiale era la sua struttura.

E a Glair sembrò che quell’uomo, il suo salvatore, fosse in preda ad un’angoscia mortale. Sprovveduta com’era in fatto di psicologia terrestre, poteva tuttavia leggere sul suo volto i segni della tensione. L’uomo serrava così strette le mascelle che i muscoli guizzavano e si increspavano sulle sue guance. La lingua continuava a muoversi incessantemente sulle labbra; le narici erano contratte. Gli occhi, rossi e cerchiati da linee scure, tradivano una lunga mancanza di sonno. C’era qualcosa di terrificante nella vista di un essere intelligente sottoposto a una tale tensione. Dimenticando per il momento le sue difficoltà, le sue ferite, il suo isolamento dai propri simili, la sua paura per essere stata scoperta, Glair cercò di irradiare un senso di calda partecipazione per i problemi di quell’uomo, qualsiasi essi fossero.

Diede un’occhiata alla stanza. Era piccola, austera, con il soffitto basso e mobilia modesta. Attraverso la sezione trasparente di una delle pareti penetrava la luce del sole. Lei si trovava sopra un letto stretto, nuda, con una coperta leggera che le arrivava fino alla vita e lasciava in mostra i globi sodi che erano i suoi seni. Ciò non le creava nessun problema, ma sembrava invece provocare qualche disturbo di tipo sessuale nel suo ospite, almeno a giudicare dal modo in cui continuava a posare ed a distogliere in continuazione lo sguardo dal suo petto. Il terrestre sembrava soffrire contemporaneamente di almeno una mezza dozzina di differenti tipi di tensione.

Glair si rilassò, esausta per lo sforzo di dover tradurre fatti teorici appresi tanto tempo prima in cose concrete. Era stata ben preparata, come tutti gli osservatori, all’eventualità di essere costretta ad un atterraggio forzato sulla Terra. Ma ci voleva ugualmente un grosso sforzo per adattarsi a quella nuova situazione, per pensare: questo è un letto, queste sono delle coperte, quella è una parete, il terrestre indossa una. camicia grigia e dei pantaloni marroni. Non si trattava solo di trovare degli equivalenti terrestri per i termini Dirnani, ma di identificare degli interi concetti. I Dirnani non usavano letti, coperte, camicie o pantaloni. Né molte altre cose che all’improvviso erano divenute enormemente importanti per lei.

L’uomo disse: — Avevi tutte e due le gambe rotte. Te le ho sistemate. Sono riuscito a farti scivolare un po’ di cibo nella gola. Ti ho vegliato per tre giorni e tre notti. Ho pensato che stessi per morire, per il primo giorno e metà di quello successivo. Ma tu mi hai detto «Aiutami», te lo ricordi? Eri in te quando ti ho trovato, e questo è ciò che mi hai detto. Sono le ultime parole che ho udito da te, fino a poco fa’. Ti ho aiutato, spero.

— Lei è stato molto gentile. Probabilmente sarei morta senza il suo aiuto.

— Ma io sono un tipo strano. Non avrei dovuto mai portarti qui. Avrei dovuto portarti diritta in città, all’ospedale militare. Sotto stretta sorveglianza. — Tremava, come se ogni muscolo del suo grosso corpo fosse in guerra con gli altri. — Comportandomi così, rischio la corte marziale. È pura follia.

Glair non sapeva che cosa fosse una corte marziale, ma il terrestre sembrava chiaramente prossimo ad un collasso. Con voce dolce gli disse: — Ha bisogno di riposo. Non deve aver dormito per niente, mentre si prendeva cura di me. Ha l’aria afflitta.

Lui si inginocchiò accanto al letto, e le sollevò la coperta fino al mento, come se la vista dei suoi seni lo disturbasse o addirittura lo disgustasse. Il suo volto era vicinissimo a quello di Glair, e quest’ultima scorse il tormento negli occhi dell’uomo.

Con voce bassa e tagliente, lui bisbigliò: — Che cosa sei?

La storiella che si era improvvisata le salì spontaneamente alle labbra. — Sono iscritta ad un corso di pilotaggio. Sono decollata subito dopo cena dall’aeroporto di Taos insieme al mio istruttore, e sopra Santa Fe abbiamo cominciato ad avere noie al motore…

Le mani dell’uomo si chiusero in pugni massicci. — Stammi a sentire; la tua storiella è ben congegnata, ma io non la bevo. Sei stata qui in casa mia per tre giorni, nuda. Ti ho fatto da infermiere. Ho avuto tutta l’opportunità di esaminarti. Io non so che cosa tu sia, ma so quello che non sei. Non sei una bella ragazza di Taos che ha dovuto gettarsi col paracadute quando il suo jet è rimasto in panne. Non sei affatto umana. Non fingere. Per l’amor di Dio, dimmi che cosa sei, da dove vieni! Ho vissuto le pene dell’inferno, da quando sei qui dentro!

Glair esitò. Conosceva le regole che si dovevano osservare in caso di contatto accidentale con un terrestre. Bisognava evitare a tutti i costi di farsi scoprire per ciò che si era, soprattutto da parte di qualsiasi autorità governativa. Ma le regole non erano inflessibili. Si potevano intraprendere i passi che si ritenevano necessari per salvare la propria vita, e in certi casi si poteva addirittura ritenere ammissibile una giudiziosa rivelazione della propria vera identità. Lo scopo era quello di sopravvivere, e di abbandonare la Terra il più presto possibile. Ma, nelle sue condizioni fisiche, non poteva andare da nessuna parte, e quell’uomo costituiva la sua unica possibilità di sopravvivenza. Glair interpretò le regole nel senso che poteva confidarsi con lui in nome della sua salvezza, presumendo che una volta riuscita a sfuggire nessuno avrebbe prestato comunque fede alla storia dell’uomo.

— Che cosa pensi che io sia? — gli domandò.

— Sei atterrata nel deserto dopo il più clamoroso avvistamento di un globo di fuoco che si sia mai verificato. Non avevi un paracadute, ma solo una specie di tuta elastica piena di strani congegni. Farfugliavi qualcosa in una lingua che non avevo mai udito prima. D’accordo, potevo ancora pensare che tu fossi una spia di qualche paese straniero. Ma ti ho portato a casa. Non avrei dovuto farlo, e non so perché l’ho fatto, ma l’ho fatto lo stesso, ed ho fatto anche trasferire il guidatore del mio cingolato nel Wyoming perché non dicesse nulla, ti ho messo nel mio letto, ti ho sfilato la tuta, ed anche quella fascia che portavi sotto. Mentre facevo tutto ciò, continuavo a cercare di convincermi che tu fossi un essere umano.

Si alzò e si diresse verso la finestra, stringendo le grosse mani l’una nell’altra. Glair udì un rumore secco, mentre lui faceva schioccare le nocche.

Poi l’uomo riprese: — Ti ho esaminato. Le due gambe rotte. Mentre ne stavo osservando una, semplicemente toccandola per capire l’entità della lesione, ho sentito l’osso che scivolava al suo posto. Che razza di ossa hai, a proposito? Dovevano essersi spezzate di netto, eppure si sono rimesse in sesto da sole. Tu non sudi nemmeno. E non espelli rifiuti organici. L’attrezzatura è là, ma tu non te ne servi. La temperatura del tuo corpo è di ventinove gradi, e quanto al polso, non sono stato in grado di misurarlo. Quando ho cercato di praticarti delle iniezioni intravenose per nutrirti, non sono riuscito a trovare neanche una vena giusta, perciò ho dovuto infilarti il cibo nella bocca. Ma non so neppure se tu ne avessi davvero bisogno. — Tornò verso di lei e la fissò direttamente negli occhi. — Tu non sei un essere umano. Sei il perfetto guscio di plastica di una splendida ragazza, che ricopre Dio solo sa che cosa. Sei umana solo all’occhio. E allora che cosa sei?

Con voce tranquilla, Glair rispose: — Sono un’osservatrice. Vengo da Dirna, un lontano pianeta di un altro sole. Sei contento di saperlo?

Lui reagì come se fosse stato trafitto da una lama. Fece un passo indietro, emettendo un leggero sibilo, ed indurendo i lineamenti per lo stupore. Sollevò rigidamente la mano portandosela al petto, e strofinandoselo come se provasse dolore. Poi le chiese, con voce metallica: — Vieni da un disco volante, vero?

— Voi chiamate così le nostre navi. Sì.

— Dillo! Tu vieni da un disco volante! Pronuncia tutta questa stupida frase!

— Io vengo da un disco volante — mormorò Glair, sentendosi sciocca nel dire quella cosa sciocca.

Il terrestre si allontanò di nuovo da lei. — Potrei andare giù in città e tenere un sermone al Culto del Contatto, adesso — disse con voce roca. — Potrei raccontare loro della bellissima donna proveniente da un disco volante che ho trovato nel deserto, di come l’ho portata a casa, e curata, e delle storie che lei mi ha raccontato sul suo lontano pianeta. Le solite fesserie da visionari, come tante altre. Solo che tu sei reale, no? Tutte queste non sono allucinazioni! Capisci che cosa sto dicendo?

— In buona parte.

— Tutto questo sta realmente succedendo?

— Sì — rispose Glair a bassa voce. — Vieni qui.

Lui si avvicinò. Glair protese la mano verso il ruvido, muscoloso pistone che era il suo braccio. Non aveva mai toccato prima la carne di un terrestre. Le sue dita affondarono, ma la carne solida resistette alla sua stretta.

— Toccami — gli disse.

Lei allontanò la coperta dal suo corpo e la gettò a terra. Il terrestre sbatté gli occhi come se fosse stato accecato da una luce improvvisa. Abbassando lo sguardo su se stessa, sulle colline e sulle valli di quel corpo che negli ultimi dieci anni le era divenuto ormai familiare, Glair scorse le leggere bende marroni che le ricoprivano le gambe dalla caviglia al ginocchio. L’uomo l’aveva curata bene, facendo affettuosamente tutto ciò che poteva per guarire i suoi arti spezzati.

Lui la toccò.

Con una timidezza che sembrava fuori luogo in un uomo dall’aria così matura, posò le mani sulle sue spalle e le fece scorrere lungo le braccia. Di sfuggita, e solo per un attimo, sfiorò le protuberanze elastiche dei suoi seni. Carezzò i lati del suo addome e le rigide colonne delle sue cosce. Aveva il fiato corto, ansimante, irregolare; le sue mani tremavano, e Glair sentì l’odore acre del suo sudore sovrapporsi a quello più gradevole della sua carne. Ormai si era impratichita nella tecnica del sorriso, ed il suo sorriso non ebbe cedimenti mentre le mani di lui le frugavano la carne. Alla fine l’uomo si ritrasse, raccolse la coperta e gliela mise di nuovo sopra.

— Sono reale, o sono un sogno? — gli chiese.

— Reale. La tua pelle è così morbida… così convincente.

— Gli osservatori devono assomigliare a dei terrestri. A volte dobbiamo mescolarci a voi. Non spesso. Ma quando succede, dobbiamo sembrare uguali a voi. C’è però sempre la possibilità che qualcuno di voi si avvicini un po’ troppo e scopra cosa c’è sotto la nostra pelle. Non abbiamo alcun modo di cambiare la nostra natura interna e di riprodurre la vostra.

— Dunque è vero? Esseri provenienti dallo spazio osservano la Terra dai… dai dischi volanti?

— Da molti anni. Osserviamo la terra da molto prima che tu nascessi. Da molto prima che io nascessi. Le prime pattuglie giunsero qui molte migliaia di anni fa’. Oggi facciamo osservazioni assai più accurate di un tempo.

Il terrestre si portò le mani sui fianchi con un movimento istintivo, meccanico. Aprì la bocca come per dire qualcosa, ma non ne uscì alcun suono.

Infine riuscì a dire: — Sai che cos’è il SOA? Lo Studio Oggetti Atmosferici?

Glair ne aveva sentito parlare. — È l’organizzazione fondata da voi terrestri americani. Per osservare gli osservatori, se si può dire così.

— Sì. Per osservare gli osservatori. Be’, io lavoro per il SOA. Il mio compito è quello di raccogliere ogni possibile informazione in merito a ciò che quegli idioti chiamano dischi volanti, e controllare se in esse c’è qualche fondamento di verità. Sono pagato tutti i mesi per dare la caccia agli alieni. Non capisci, io non posso tenerti qui! È mio dovere consegnarti al mio governo! Mio dovere, dannazione!

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