CAPITOLO SEDICESIMO

Charley Estancia teneva sempre il laser Dirnano legato sul ventre con una cinghia, anche quando dormiva. Non osava staccarsene mai. Per fortuna era abbastanza piccolo da non sporgere sotto i vestiti, soprattutto se lui lasciava penzolare i lembi della camicia. Il freddo del metallo contro la pelle gli dava un senso di sicurezza.

Sapeva che non avrebbe dovuto rubarlo in quel modo a Mirtin. Ma non era riuscito a resistere. Quel piccolo strumento lo aveva affascinato a tal punto che lui se lo era messo in tasca mentre Mirtin guardava dall’altra parte. Sperava che l’uomo delle stelle gli avrebbe perdonato quel furto, ma non ne era troppo sicuro.

La cosa peggiore era che Charley non riusciva a trovare il modo per lasciare il villaggio. Le danze della Società del Fuoco erano in pieno svolgimento, ed era rischioso allontanarsi. Dovevano essere presenti tutti. Stavano mettendo in scena le iniziazioni; sceglievano i nuovi candidati e li conducevano nel kiva per rivelare loro a mezza bocca le parole semidimenticate, poi li riconducevano fuori per eseguire la danza del fuoco e la danza dell’ingoiamento di bastoni. Charley non si aspettava di essere scelto come membro della Società del Fuoco; tutti nel villaggio sapevano che era una testa calda, ed era meglio che le teste calde rimanessero al di fuori delle società segrete. Ma c’era sempre l’assurda possibilità che quell’anno lui venisse scelto per l’iniziazione, e se fosse stato così, e non lo avessero trovato, allora Charley sarebbe stato davvero nei guai.

Perciò dovette rassegnarsi, lasciando che Mirtin se la cavasse da solo. Non temeva che Mirtin potesse morire di sete o di fame; ciò che realmente lo preoccupava era l’idea che l’extraterrestre arrivasse a pensare che Charley gli aveva rubato il laser e lo aveva abbandonato, dopo tutte le loro conversazioni amichevoli. Charley non aveva avuto occasione di parlargli della Società del Fuoco e della sua danza. Aveva sbagliato i calcoli, pensando che dovesse incominciare un giorno più tardi. Aveva deciso di metterne a conoscenza Mirtin subito prima dell’inizio delle celebrazioni, ma ormai non poteva più farlo. Si aggirava per il villaggio come un disperato, in cerca di un modo per allontanarsene. Il villaggio era pieno di turisti. Dappertutto macchine fotografiche, corpulente donne bianche che facevano i complimenti ai bambini, mariti dall’aria annoiata. I turisti erano dovunque, perfino nelle case. Si sarebbero infilati nel kiva, se il governatore non avesse piazzato un paio di muscolosi giovanotti a guardia dell’ingresso.

Nei suoi pochi momenti di intimità, Charley esaminò lo strumento che aveva rubato.

Esitava ad aprirlo; non ora, almeno. Ciò che gli aveva detto Mirtin sulle cose che un terrestre non avrebbe dovuto conoscere non preoccupava Charley; lui aveva paura che si potesse rompere mentre lo apriva. Prima di tutto voleva studiarlo nei particolari dall’esterno, per capire come funzionava.

Se ne servì per tagliare a metà un grosso ciocco di legno. Lo puntò addosso ad una roccia ed osservò la pietra ridursi ad una pozza liquefatta. Scavò un solco profondo trenta centimetri e largo tre metri. Commise qualche errore, mancando il bersaglio o coprendo una zona troppo vasta, ma dopo un’ora aveva imparato a maneggiarlo con assoluta padronanza. Proprio un bel giocattolo, pensò. Un piccolo miracolo. Quegli uomini delle stelle erano davvero eccezionali! Gli sarebbe piaciuto potersi recare a dare un’occhiata al pianeta di Mirtin. Ed andare a scuola lì.

Due giorni trascorsero in quel modo.

Vennero i danzatori della Società del Fuoco e scelsero Tomas Aguirre, quel grosso sciocco. Lo iniziarono, e poi presero Mark Gachupin. Di solito sceglievano solo tre nuovi membri ogni anno. Charley si domandò che cosa avrebbe fatto se fossero venuti a prendere lui. Sarebbe andato con loro, per poi scoppiare a ridere nel bel mezzo dei sacri riti? O si sarebbe semplicemente voltato e sarebbe corso via? Lo avrebbero chiamato con il suo nome indiano, Tsiwaiwonyi, un nome che non usava mai. Alcuni dei vecchi tentavano di chiamare la gente con il nome indiano, ma Charley era attaccato al suo nome di battesimo. Se gli dicevano «Tsiwaiwonyi, vieni con noi al kiva», lui rimaneva lì a bocca aperta.

Ma naturalmente non vennero da lui; non lo volevano. Il mattino del terzo giorno scelsero José Galvan, e Charley seppe che per un altro anno poteva stare tranquillo. Adesso poteva tornare nel deserto e scusarsi con Mirtin, e raccontargli della cerimonia, e magari anche restituirgli il laser, poiché Charley si sentiva molto in colpa per averlo preso. Incartò un bel po’ di tortillas, riempì una borraccia d’acqua, e lasciò tranquillamente il villaggio mentre nessuno era in vista.

Era a metà del tragitto che conduceva alla caverna di Mirtin, quando si accorse che qualcuno lo seguiva.

Dapprima udì uno scricchiolio di ramoscelli secchi alle sue spalle. Poteva trattarsi di qualsiasi cosa, da un coniglio selvatico diretto alla sua tana ad una lince in cerca di preda. Charley si fermò e si voltò, ma non vide nulla di strano. Tuttavia non era convinto. Dopo qualche altro passo gli sembrò di udire un colpo di tosse soffocato. I conigli non tossivano. Charley si girò all’improvviso e scorse la figura alta e magra di Marty Moquino che si trovava ad una decina di metri dietro di lui.

— Ciao — disse Marty, gettando via il mozzicone di sigaretta ed accendendone un’altra. — Dove te ne vai, Charley?

— A spasso.

— Tutto solo nel cuore dell’inverno?

— Quello che faccio non ti riguarda — replicò Charley, cercando di nascondere il panico. Perché Marty lo aveva seguito dal villaggio? Sapeva della caverna e del suo occupante? Se lo avesse scoperto, sarebbe stata la fine di Mirtin. Senza alcun dubbio Marty lo avrebbe venduto al governo. Oppure ai giornali.

— Perché non mi porti dove stai andando? — gli chiese Marty Moquino.

— Sto solo facendo una passeggiata.

— Già. Pare che tu la faccia tutte le sere. Ti ho tenuto d’occhio, ragazzo. Cosa c’è là fuori, dunque?

— N… niente.

— E che cos’hai in quel pacchetto che porti con te? Fammi dare un’occhiata.

Marty fece un paio di passi avanti. Charley strinse a sé l’involto con le tortillas ed indietreggiò. — Lasciami in pace, Marty. Non ho niente a che spartire con te.

— Voglio sapere che cosa succede.

— Per favore, Marty…

— Hai un amico nascosto laggiù? Magari un prigioniero evaso di prigione, e te ne prendi cura? Forse c’è una taglia su di lui, eh? E tu invece sei così scemo da assisterlo. Come stanno le cose, Charley?

Charley fu scosso da un leggero brivido. Marty continuava ad avanzare verso di lui, e Charley ad indietreggiare, ma la cosa non poteva proseguire a lungo. Se si fosse messo a correre, non sarebbe mai riuscito a distanziare Marty Moquino, con quelle gambe lunghe che aveva. L’unica cosa da fare era fingere.

— Non c’è niente da sapere — asserì ostinato Charley. — Non so di che cosa stai parlando.

Un braccio magro scattò, e dita robuste afferrarono la carne di Charley. Marty Moquino torreggiava su di lui, volgare e crudele. — Ti ho tenuto d’occhio — gli disse — fin da quella notte in cui sei capitato addosso a me e Maria. Quando scende il buio, tu prendi una borraccia, riempi un pacchetto di cibo, forse, e te ne vai nel deserto. Dunque hai un amico laggiù, vero? Stavolta dovrai portarmi da lui, altrimenti te ne farò pentire.

— Marty…

— Portami là.

— Lasciami… andare…

Le dita affondarono ancor più nel braccio di Charley, il quale, dimenandosi come un forsennato, riuscì però a liberarsi. Scappò via e fece una dozzina di passi di corsa, poi si fermò. Naturalmente Marty Moquino lo inseguì. Ma Charley estrasse il laser dal nascondiglio sotto la camicia e lo puntò al petto di Marty come se fosse una pistola.

— Che diavolo hai lì? — gli domandò Marty.

— Un raggio della morte — rispose Charley. Gli tremava tanto la voce che le parole gli uscirono a fatica. — Una leggera pressione e ti faccio un buco nella pancia. Dico davvero.

Marty sghignazzò. — Adesso so che sei proprio matto, ragazzo!

Però non si mosse. Charley continuò a tenergli puntato addosso il laser.

— Voltati e ritorna al villaggio, Marty. Sennò farò fuoco. Ti ucciderò, te lo giuro. — Il cuore gli batteva all’impazzata, e sul momento era convinto di ciò che diceva. Gli sarebbe piaciuto un mondo far fuori Marty Moquino. Con il laser avrebbe potuto fare un lavoro così completo che non sarebbe rimasto assolutamente nulla del suo corpo, e non avrebbero mai potuto arrestarlo.

Sorridendo beffardamente, Marty disse: — Metti via quello stupido giocattolo.

— Non è un giocattolo. Vuoi vedere? Vuoi che ti bruci la mano sinistra, tanto per incominciare?

Marty incominciò ad avanzare. Charley vide la sua gamba destra che muoveva il primo passo.

Attivò il laser e lo puntò verso una grossa iucca. Il raggio disintegrò in un attimo la pianta, aprendo un cratere profondo trenta centimetri e largo quasi un metro. Marty Moquino fece un salto all’indietro e si fece il segno della croce.

— Giocattolo, eh? — esclamò eccitato Charley. — Giocattolo? Ti taglierò le gambe! Ti spaccherò a metà!

— Che diavolo…

— Vattene! Di corsa! — Charley girò il laser e lo puntò verso terra, circa mezzo metro davanti ai piedi di Marty, bruciandogli con il bordo del raggio la punta degli stivali. Marty non attese ulteriori dimostrazioni. Divenne verde in faccia, poi se la diede a gambe. Charley non aveva mai visto qualcuno correre tanto veloce. Proseguì senza fermarsi giù per l’arroyo, poi su lungo la sponda opposta, oltre la sottostazione, finché scomparve in distanza. Charley gli lanciò dietro delle imprecazioni mentre l’altro si dileguava.

Poi si rese conto di essere debolissimo per la tensione. Si accasciò un attimo sulle ginocchia, finché non ebbe smesso di tremare. Sapeva di essere stato ad un pelo dall’uccidere Marty Moquino. Se soltanto fosse stato un po’ più arrabbiato, o un po’ più impaurito, avrebbe potuto deviare di pochi gradi l’angolo di mira del laser e ridurre Marty in molecole. Solo all’ultimo Charley era riuscito a controllarsi, altrimenti ora avrebbe avuto un cadavere sulla coscienza.

Si rialzò e ripose nuovamente il laser dov’era prima. Mordendosi forte le labbra, corse verso la caverna di Mirtin. Non sapeva con esattezza che cosa sarebbe successo ora, tranne che doveva assolutamente avvisare Mirtin dell’accaduto. Marty Moquino era fuggito in preda al terrore, ma avrebbe potuto ritornare e curiosare nei paraggi. Mirtin non era più al sicuro lì. Avrebbe dovuto trasferirsi in un’altra caverna, oppure chiamare i suoi amici perché lo portassero via. Altrimenti, senza alcun dubbio, Marty Moquino avrebbe scoperto in qualche modo la sua esistenza ed avrebbe avvisato quelli del governo.

Charley emerse dall’ultimo arroyo e si precipitò dentro la caverna di Mirtin.

Mirtin non c’era.

All’inizio, confuso, Charley pensò di aver sbagliato caverna. Ma ce n’era soltanto una come quella sulla scarpata, lo sapeva bene. Ed alla luce del giorno che penetrava all’interno, poteva vedere la striscia che aveva scavato lui stesso sul pavimento con il laser l’ultima volta che era stato lì. Era la caverna giusta, ma Mirtin se ne era andato, insieme a tutte le sue cose… la sua tuta, la sua attrezzatura. Tutto. Che cosa era successo? Dov’era Mirtin? Non poteva essersi alzato ed allontanato con le sue gambe, poiché non era ancora in grado di usarle. Perciò…

Charley scorse il bigliettino sul pavimento della caverna.

Era un pezzetto di carta giallastra, piccolo e quadrato, e non aveva la consistenza della carta ma piuttosto di qualche sostanza plastica. Su di esso c’erano poche parole, scarabocchiate in una specie di rozza calligrafia, come se colui che le aveva scritte non fosse in grado di usare bene la mano, o non fosse molto padrone della lingua inglese, o forse entrambe le cose. Diceva:


Charley,

finalmente i miei amici mi hanno trovato. Mi stanno portando via per completare il processo di guarigione. Mi dispiace di non poterti dire arrivederci, ma non sapevo che sarebbero venuti così presto. Ti ringrazio con tutto il cuore per le molte cose buone che hai fatto per me.

A proposito di ciò che hai preso in prestito da me: è tuo, puoi tenerlo ormai. Non sono per questo in collera con te, tienilo pure. Studialo. Impara ciò che puoi da esso. Solo, non mostrarlo mai ad altra persona. Me lo prometti?

Tieni sempre gli occhi aperti, cerca di capire il mondo e ricordati che un uomo non ha sempre undici anni. C’è una magnifica vita che ti aspetta, se tu saprai essere lì a viverla. Un giorno, molto presto, la tua gente raggiungerà le stelle. Mi piace pensare che tu sarai fra loro, e che tra poco ci ritroveremo di nuovo lassù. Fino ad allora…

Mirtin


Charley lesse la lettera una mezza dozzina di volte. Poi, delicatamente, la ripiegò e se la infilò sotto la camicia, accanto al laser. Inquieto, strascicò i piedi, tracciando dei segni sul terreno della caverna.

Quindi, a voce alta, disse: — Sono contento che il tuo popolo ti abbia trovato, Mirtin. Sono contento che tu non ti sia arrabbiato per il laser.

Poi si gettò a faccia in giù sul suolo morbido della caverna.

Pianse come non aveva più fatto dai tempi dell’infanzia.

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