Uscire da quella camera, che in capo a tante settimane sembrava essere l’ultimo rifugio… Per Burris era quasi una nascita.
E Aoudad faceva il possibile per rendere il parto indolore.
Uscirono a notte alta, quando la città dormiva. Burris, ammantellato e incappucciato, non poté fare a meno di sorridere per la propria aria da cospiratore. Ma gli pareva opportuna. Nascosto dal cappuccio, a testa bassa, era al sicuro dagli sguardi dei passanti casuali. Nell’uscire, si tenne in un cantuccio della gabbia di discesa, augurandosi intensamente che, mentre se ne servivano, nessun altro chiamasse per salire. Nessuno chiamò; ma, mentre percorrevano l’andito, una chiazza vagante di luce lo illuminò un attimo, proprio mentre un inquilino rientrava. L’uomo, impietrito, guardò sotto il cappuccio. Burris rimase impassibile. Costui strabuzzò gli occhi, colto di sorpresa; ma proseguì in fretta, di fronte al viso truce e deformato di Burris, che lo fissava freddamente. Avrebbe avuto gli incubi, quella notte; ma Burris pensò che erano bazzecole, rispetto a certi incubi che si intrufolavano nel tessuto stesso della vita, come era capitato a lui.
Fuori, c’era una macchina pronta.
— I colloqui di Chalk, generalmente, non si svolgono a queste ore — chiacchierava Aoudad. — Ma lei capirà che questa è un’occasione particolare. Chalk desidera usarle ogni riguardo.
— Magnifico — disse cupo Burris.
Salirono in macchina. Era un po’ come uscire da una cella di prigione per entrare in un’altra più angusta, ma anche più invitante. Burris si accomodò su un sedile così ampio, che era quasi un sofà per varie persone, ma modellato, palesemente, per adattarsi a un solo paio di chiappe enormi. Aoudad sedette accanto a lui, su un sedile un po’ più convenzionale. La vettura si mise in moto, scivolando via silenziosa nel rombo muto delle turbine. Radiolocalizzata la più vicina autostrada ad accesso limitato, li portò in breve fuori dalle vie cittadine e si proiettò avanti a tutta velocità.
I finestrini della vettura erano opacizzati e Burris gettò indietro il cappuccio. Si stava allenando, poco per volta, in brevi riprese, a farsi vedere da altri. Aoudad, che non pareva far caso alle sue mutilazioni, era un buon soggetto di esercitazione.
— Qualcosa da bere? — chiese Aoudad. — Da fumare? Uno stimolante qualsiasi?
— Grazie, no.
— Lei può farne uso, così com’è?
Burris sorrise in modo truce. — Anche adesso, il mio metabolismo è uguale al suo. Differiscono le tubature; ma mangio i vostri cibi e bevo le vostre bibite. Ora come ora, però, non ne ho voglia.
— Me lo chiedevo. Vorrà scusare la mia curiosità.
— Naturalmente.
— E le funzioni corporali…
— Il sistema escretivo è migliorato. La riproduzione, non so che cosa abbiano fatto. Gli organi ci sono ancora; ma funzionano? Non ho fatto la prova.
I muscoli della guancia di Aoudad ebbero una contrazione, che non sfuggì a Burris. Perché si interessava talmente alla sua vita sessuale? Normale libidine, o cosa?
— Vorrà scusare la mia curiosità — ripeté Aoudad.
— L’ho già fatto. — Burris si appoggiò allo schienale e sentì una curiosa attività del sedile. Voleva forse fargli un massaggio. Senza dubbio egli era in uno stato di tensione e quell’affare, poveretto, cercava di rimettere a posto le cose. Ma era un sedile programmato per un uomo più grosso. Sembrava ronzare, come un circuito sovraccarico. Burris si chiese se la difficoltà di funzionamento derivasse solo dalla differenza di dimensione, o se l’inceppamento fosse dovuto alle caratteristiche della sua anatomia ristrutturata.
Avvisò Aoudad a proposito del sedile, e il contatto venne tolto. Burris, sorridente, si felicitò di essere così affabile e rilassato. Non aveva pronunciato una sola frase sarcastica o sgarbata, da quando Aoudad si era presentato. Era calmo, fuori della tempesta, librato al centro esatto. Bene, bene, aveva trascorso troppo tempo in solitudine, lasciando che le sue infelicità lo corrodessero. Quello sciocco Aoudad era un angelo salvatore venuto a tirarlo fuori da se stesso. Gliene sono grato, si disse Burris, scherzosamente.
— Eccoci arrivati. Questo è l’ufficio di Chalk.
Era un edificio relativamente basso, non aveva più di tre o quattro piani; ma reggeva il confronto con i grattacieli vicini. La sua mole, che si estendeva orizzontalmente, compensava l’altezza. A destra e a sinistra, l’edificio proseguiva ad angoli ottusi. Burris, sfruttando l’incremento del suo campo visivo periferico, spinse lo sguardo fin dove poteva lungo i fianchi e valutò che doveva trattarsi di un ottagono. Le mura esterne erano di un metallo opaco e marrone, lisciato e rifinito, con incastri di pietre che formavano motivi ornamentali. Nessuna luce trapelava dall’interno; del resto, non c’erano finestre.
Dinanzi a loro un muro si spalancò repentinamente, per l’alzarsi silenzioso di una saracinesca, e a tutta velocità la vettura vi passò attraverso, andando a fermarsi nelle viscere dell’edificio. Il tetto della vettura si aprì a molla e Burris si accorse che un uomo piccolo di statura, dagli occhi lucenti, lo stava guardando.
Provò una scossa, nel trovarsi così repentinamente di fronte a uno sconosciuto; ma si riprese e invertì la sensazione, ricambiando lo sguardo. Anche quell’ometto faceva sgranare gli occhi. Era di una bruttezza stupefacente, e, in questa, non c’era stato intervento di infausti chirurghi. Aveva la testa incassata, capelli bruni e folti che gli scendevano sul collo, grandi orecchie a sventola, naso piatto, incredibili labbra lunghe e sottili che in quel momento sporgevano in una smorfia repellente di meraviglia. Non era una bellezza.
Aoudad fece le presentazioni: — Minner Burris. Leontes d’Amore, appartenente allo stato maggiore di Chalk.
— Chalk è sveglio. Vi aspetta — disse d’Amore. Era brutta anche la voce.
Eppure, rifletté Burris, costui affronta il mondo ogni giorno.
Tirato su il cappuccio nuovamente, si lasciò trasportare attraverso una rete di condotti pneumatici fino a sgusciar fuori in una stanza, simile a una caverna immensa, costellata di centri lavorativi a vari livelli. Ma le scrivanie erano vuote, gli schermi erano silenziosi. L’ambiente era illuminato dallo splendore soffuso di fungosità termoluminescenti. Girando gli occhi lentamente, Burris spinse lo sguardo attraverso la stanza e, su per una serie di piuoli di cristallo, fino a scorgere, seduto come in trono vicino al soffitto, un individuo immenso.
Chalk, ovviamente.
Burris rimase assorto a guardarlo, dimenticando per un momento la miriade di punzecchiature che erano sue compagne costanti. Così grosso? Così gonfio? Costui doveva avere divorato mandrie intere di bovini, per ingrassare a quel modo.
Aoudad, al suo fianco, lo sollecitò ad avanzare, senza proprio osare di spingerlo per un gomito.
— Si lasci vedere — disse Chalk. Aveva una voce leggera, amichevole. — Su, qui da me, Burris.
In un attimo furono a faccia a faccia.
Burris si scrollò di dosso prima il cappuccio e poi il mantello. Pensava: guardi pure, costui. Di fronte a questa montagna di carne non ho da vergognarmi.
L’espressione placida di Chalk non cambiò.
Egli esaminava Burris attentamente, con profondo interesse e senza ombra di ripugnanza. A un suo cenno di congedo Aoudad e d’Amore sparirono, lasciandoli soli nell’enorme sala in penombra.
— Le hanno fatto un bel lavoro! — commentò Chalk. — Ha un’idea del perché?
— Pura curiosità. E anche il desiderio di perfezionare. Nel loro modo inumano, sono molto umani.
— Che aspetto hanno?
— Butterati. Coriacei. Preferirei non parlarne.
— Sta bene. — Chalk non si era alzato. Burris stava in piedi dinanzi a lui e i piccoli tentacoli delle mani conserte si annodavano e si scioglievano. Sentì una sedia dietro di sé, e si sedette senza essere invitato.
Disse: — Che magnifici uffici!
Chalk lasciò correre il complimento. Disse: — Fa male?
— Che cosa?
— Questo cambiamento?
— Procura un malessere notevole. Gli analgesici terrestri non giovano. Il sistema nervoso è sottosopra e qui nessuno sa bene dove applicare i blocchi. Ma è sopportabile. Si dice che gli arti degli amputati continuino a pizzicare per anni, dopo essere stati tagliati. Dev’essere una sensazione analoga, suppongo.
— Le hanno tagliato qualche parte del corpo?
— Tutte, dalla prima all’ultima — disse Burris. — Poi le hanno rimesse insieme, diversamente. I sanitari che mi hanno esaminato erano assai ammirati delle mie giunture. Anche dei tendini e legamenti. Queste son le mie mani, originali, un po’ ritoccate. Per il resto, non sono realmente sicuro di quanto sia mio e di quanto sia loro.
— E internamente?
— Tutto diverso. Un caos. Si sta stendendo una relazione. Non sono tornato sulla Terra da molto tempo. Mi hanno esaminato per un po’, poi mi sono ribellato.
— Perché?
— Stavo diventando un oggetto. Non solo ai loro occhi, ma anche ai miei. Ma non sono un oggetto. Sono un essere umano che è stato ricomposto. Nell’intimo, continuo a essere umano. Se lei mi punge, sanguino. Che cosa può fare per me, Chalk?
Una mano carnosa venne agitata. — Un po’ di pazienza. Desidero saperne di più sul suo conto. Era un ufficiale spaziale?
— Sì.
— Veniva dall’accademia?
— Naturalmente.
— Deve avere avuto dei voti eccellenti. Le hanno dato degli incarichi difficili. E lo sbarco su pianeti abitati da esseri intelligenti… Non è certo uno scherzo. In quanti eravate?
— In tre. Sottoposti tutti e tre a operazione chirurgica. Prima è morto Prolisse, poi Malcondotto. Hanno avuto fortuna.
— Il suo corpo attuale le è sgradito?
— Offre qualche vantaggio. I medici dicono che vivrò probabilmente cinquecento anni. Ma è penoso e anche imbarazzante. Non ero assolutamente fatto per essere un mostro.
— Non è brutto come forse lei crede — obiettò Chalk. — Oh, sì, i bambini che scappano urlando, eccetera eccetera. Ma i bambini sono conservatori. Odiano qualsiasi novità. Secondo me, il suo viso ha un fascino notevole. Direi che una quantità di donne sarebbero pronte a gettarsi ai suoi piedi.
— Non so. Non ho provato.
— Esiste un certo fascino del grottesco, Burris. Io, nascendo, pesavo più di sei chili. Il mio peso non ha mai costituito un intralcio. Lo considero un bene patrimoniale.
— Lei ha avuto tutta una vita per abituarsi alla sua mole — disse Burris. — Vi si è adattato in mille modi, è anzi ha voluto essere com’è. Io sono vittima di un capriccio incomprensibile. Di una sopraffazione. Mi hanno violentato, Chalk.
— Vuole che tutto ciò venga annullato?
— Lei che ne pensa?
Chalk annuì. Le sue palpebre si abbassarono, e parve che fosse caduto a un tratto in un sonno profondo. Burris attese, perplesso. Più di un minuto trascorse così. Senza muoversi affatto, Chalk disse: — Ci sono dei chirurghi, qui sulla Terra, capaci di effettuare con successo il trapianto del cervello, da un corpo a un altro.
Burris sussultò, colto da una crisi di eccitazione febbrile. Dentro il suo corpo, un nuovo organo iniettò spruzzi di un ormone ignoto, nella cavità estranea accanto al suo cuore. Ebbe le vertigini. Annaspò nei frangenti di una risacca che lo scagliava a ripetizione sulla sabbia abrasiva di una spiaggia.
Chalk proseguì con calma: — Posso darle i particolari tecnici dell’operazione, se le interessano.
I tentacoli, sulle mani di Burris, si contorcevano, incontrollati.
— Non è gran cosa — concedette Chalk — se la paragoniamo a quel che è stato fatto su di lei. Ma l’operazione è stata eseguita con successo sui mammiferi superiori. Anche sui primati.
— E su esseri umani?
— No.
— Allora…
— Si sono usati casi terminali. Cervelli trapiantati in individui appena deceduti. Ma in questo modo le probabilità sfavorevoli sono troppe. Ciò non toglie che talvolta si è andati a un pelo dal successo. Altri tre anni, Burris, e gli esseri umani scambieranno cervello con la stessa facilità con cui oggi scambiano gambe e braccia.
Burris non era contento di quelle sensazioni di ansiosa attesa che lo attraversavano con grande tumulto. La temperatura della sua pelle era spiacevolmente alta. Aveva pulsazioni in gola.
Chalk disse: — Per lei, costruiamo un duplicato sintetico, che riproduca per quanto possibile il suo aspetto originale. Mettiamo insieme un “golem”, capisce, prelevando le parti dalla banca anatomica, ma senza includervi il cervello. In questo montaggio trapiantiamo il suo cervello. Ci saranno delle differenze, naturalmente, ma lei sarà, in sostanza, tutto intero. La interessa?
— Non mi tormenti, Chalk.
— Le do la mia parola che parlo seriamente. Due problemi di ordine tecnico si frappongono. Dobbiamo ancora mettere a punto la tecnica di montaggio totale del “recipiente”, e dobbiamo tenerlo in vita fino a quando non si possa eseguire il trapianto con successo. Ho già detto che occorreranno tre anni per superare il secondo ostacolo. Diciamo altri due per poter costruire il “golem”. Cinque anni, Burris, e lei sarà di nuovo un essere umano.
— Che cosa costerà?
— Forse cento milioni. Forse più.
Burris rise aspramente, e la sua lingua, così simile, ora, a quella di un serpente, apparì in un guizzo.
Chalk disse: — Sono disposto ad accollarmi l’intera spesa della sua riabilitazione.
— Non mi racconti favole.
— La prego di far credito alle mie risorse. È disposto a separarsi dal suo corpo attuale se, dal canto mio, le posso fornire qualcosa che si avvicini di più alla norma umana?
Burris non si aspettava che nessuno gli rivolgesse mai una domanda simile. Rimase sconcertato per la forte esitazione che provava. Detestava quel corpo e gemeva sotto il peso di ciò che gli era stato fatto, tuttavia… Stava forse avviandosi ad amare la propria straniazione?
Dopo un breve silenzio, disse: — Quanto prima riesco a spogliarmene, tanto meglio.
— Bene. Ora c’è il problema di farle passare i cinque anni circa che ci vorranno. Le propongo di lasciarci fare un tentativo per modificare almeno l’aspetto del suo viso, di modo che lei possa andare un po’ d’accordo con la società, fino a quando non potremo operare il trasferimento. Ciò la interessa?
— Non è fattibile. Ho già esaminato questa idea con i medici che mi hanno visitato al mio ritorno. Io sono un guazzabuglio di strani anticorpi e qualsiasi trapianto provocherà una crisi di rigetto.
— Crede che sia così? Oppure le dicevano una bugia di comodo?
— Credo che sia così.
— Lasci che la mandi in un ospedale — suggerì Chalk. — Faremo qualche accertamento per avere conferma della diagnosi precedente. Se così è, così sarà. Altrimenti le potremmo rendere la vita un po’ più facile. Sì?
— Perché fa questo, Chalk? Che cosa chiede in cambio?
L’uomo grasso girò sulla sedia e si sporse in avanti fino ad avere gli occhi a pochi centimetri dal viso di Burris. Questi passò in rassegna le labbra stranamente delicate, il naso fine, le guance immense, le palpebre gonfie. A bassa voce, Chalk mormorò: — Il prezzo è alto. Lei ne sarà nauseato fino al midollo. Respingerà l’accordo.
— Ed è…?
— Pieni diritti per lo sfruttamento commerciale della sua storia — disse Chalk. — A cominciare dalla sua cattura a opera degli esseri di un altro mondo, passando attraverso il suo ritorno alla Terra e al suo difficile rapporto con le sue condizioni alterate, e continuando col suo prossimo periodo di riadattamento. Il mondo sa già che tre uomini sono andati su un pianeta chiamato Manipol, che due sono stati uccisi e che un terzo è tornato, vittima di esperimenti chirurgici. Questo è stato reso noto; poi lei è sparito. Io voglio farla ricomparire in piena vista. Voglio mostrarla mentre scopre da capo la propria umanità, riprende i rapporti con gli altri, si arrampica fuori dell’inferno, per trionfare infine sulla catastrofe che le è capitata e uscirne purgato. Ciò significherebbe un’intrusione frequente nella sua vita privata e non mi meraviglierò se lei rifiuta. Infatti…
— Che cos’è? Una nuova forma di tortura?
— Forse una prova alquanto penosa — convenne Chalk. La sua vasta fronte era cosparsa di sudore. Appariva congestionato e teso, come se si avvicinasse a un culmine emotivo interiore.
— Purgato — bisbigliò Burris. — Lei mi offre il Purgatorio.
— Lo chiami pure così.
— Mi nascondo per varie settimane. Poi mi espongo nudo agli occhi dell’universo per cinque anni. Eh?
— Spese pagate.
— Spese pagate — disse Burris. — Sì, sì. Accetto la tortura, Sono il suo giocattolo, Chalk. Un essere umano rifiuterebbe. Ma io accetto. Accetto!