Partirono per Luna Tivoli in una giornata di sole, entrando così nella seconda fase della loro peregrinazione attraverso i nidi di delizie di Chalk. Per quanto la giornata fosse luminosa, era ancora inverno; essi fuggivano dall’inverno vero, boreale, e dall’invernale estate australe, nell’inverno immutabile del vuoto. Alla base spaziale godettero del trattamento riservato alle celebrità: cineprese nell’aerostazione, poi la vetturetta dal muso piatto che li portò velocemente attraverso il campo sotto gli occhi meravigliati della gente qualunque che, anche senza sapere chi fossero, applaudì vagamente i notabili.
Tutto ciò era odioso a Burris. Ogni casuale occhiata, ora, sembrava incidere di nuovo col bisturi la sua anima.
— E allora perché ti ci sei messo? — chiese Lona. — Se sei così restio a farti vedere, perché mai hai lasciato che Chalk ti imbarcasse in un simile viaggio?
— Come penitenza. Come deliberata espiazione per essermi ritirato dal mondo. Per amore della disciplina.
Questa sfilza di astrazioni non la convinse. Forse non capì nemmeno.
— Ma non avevi una ragione?
— Te le ho dette, le mie ragioni.
— Solo parole.
— Non sottovalutare le parole, Lona.
— Stai di nuovo prendendomi in giro! — disse, con un breve palpito delle nari.
— Scusami. — Lo disse sinceramente. Era troppo facile burlarsi di lei.
— Io lo so — disse lei — che cosa significa avere tutti gli sguardi puntati addosso. Mi intimidiscono. Ma l’ho dovuto fare, affinché Chalk mi dia qualcuno dei miei bambini.
— Anche a me ha promesso qualcosa.
— Ecco! Sapevo che l’avresti ammesso.
— Un trapianto di corpo — confessò Burris. — Mi metterà in un corpo sano, normale. Devo solo lasciarmi vivisezionare dalle sue macchine da presa, per qualche mese.
— Davvero la cosa è possibile?
— Lona, se quelli possono fare cento bambini da una ragazza che non ha mai conosciuto l’uomo, possono fare qualsiasi cosa.
— Ma… scambiare i corpi…
Stancamente egli disse: — Non hanno ancora messo perfettamente a punto la tecnica. Forse ci vorrà qualche anno. Dovrò aspettare.
— Oh, Minner! Sarebbe meraviglioso! Metterti in un vero corpo!
— Questo è il mio vero corpo.
— Un altro corpo. Che non sia così diverso. Che non ti faccia talmente male. Se solo potessero!…
— Già, se solo potessero.
Lona era eccitata; più di lui, che viveva in compagnia di quell’idea da alcune settimane: un tempo sufficiente a fargli dubitare che sarebbe mai stato possibile attuarla. E adesso l’aveva fatta ballonzolare davanti agli occhi di Lona, come un nuovo balocco. Ma, a lei, che cosa gliene im portava? Non erano sposati. Avrebbe ottenuto da Chalk i suoi bambini, come ricompensa per quella farsa, e sarebbe scomparsa di nuovo nell’oscurità, a suo modo appagata, contenta di essersi sbarazzata di quel compagno irritante, esasperante, sarcastico. Anche lui se ne sarebbe andato per la propria strada, forse condannato per sempre a star dentro quella spoglia grottesca, forse trasferito in un corpo inappuntabile e snello, di modello standard.
La vetturetta schizzò su per una rampa d’accesso, e furono dentro la nave. Il tettuccio del veicolo scattò indietro, Bart Aoudad guardò dentro.
— Come stanno, i piccioncini?
La loro uscita fu silenziosa, senza sorriso. Aoudad, preoccupato, svolazzava intorno a loro. — Tutti contenti, riposati? Niente mal di spazio, eh, Minner? A lei, non ho da fare raccomandazioni! Ah! ah! ah!
— Ah! — fece Burris.
C’era anche Nikolaides, con documenti, opuscoli, tagliandi. Dante si era accontentato di Virgilio, come guida nei gironi dell’inferno; ma (pensò Burris) io, di guide, ne ho ben due; viviamo in tempi di inflazione… Porse il braccio a Lona e si mossero verso gli interni recessi della nave. Ne sentiva le dita rigide contro la sua carne. Egli pensò che era impaurita per il fatto di affrontare lo spazio, oppure che la tensione ininterrotta di quel “grand tour” fosse un peso eccessivo per lei.
Si trattava di un viaggio breve: otto ore per coprire 384.000 chilometri. Un tempo, quella stessa linea compiva il tragitto in due tappe, sostando prima al satellite artificiale degli svaghi orbitante a 80.000 chilometri dalla Terra. Ma dieci anni fa il satellite era esploso, per uno dei rari errori di calcolo di un’epoca di sicurezza. Migliaia di vite umane perdute, pioggia di rottami sulla Terra durante un mese. Le nude travature metalliche del globo fracassato avevano orbitato come le ossa di un gigante per quasi tre anni, prima che l’operazione di salvataggio fosse portata a compimento.
A bordo del Disco, al momento della fine, c’era una donna amata da Burris. Era lì, tuttavia, con un altro, ad assaporare il piacere delle tavole da gioco, degli spettacoli sensori, della “haute cuisine”, in quell’atmosfera libera da ogni pensiero del domani. Il domani era sopraggiunto inaspettato.
Quando lei lo aveva respinto, Burris aveva creduto che non gli sarebbe mai accaduto nulla di peggio per il resto dei suoi giorni. Questa era una fantasia da giovane romantico, poiché, poco dopo, lei era morta, ed era stato peggio di quando aveva preferito un altro. Morta, era irrecuperabile, e, per qualche tempo, anch’egli fu come un morto che cammina. Dopo di che, strano a dirsi, la sofferenza si ritirò pian piano, fino a sparire. Veder preferire un altro, poi perdere l’amata in una catastrofe era forse la cosa peggiore? Macché! Dieci anni dopo, Burris aveva perduto se stesso. E adesso credeva di sapere veramente che cosa fosse “il peggio”.
— Signore e signori, benvenuti a bordo dell’Aristarchus IV. Da parte del comandante Villeparisis, desidero augurarvi un buon viaggio. Dobbiamo chiedervi di rimanere nelle vostre rispettive culle fino a quando non sarà superata là fase di massima accelerazione. Una volta sottratti all’influsso della Terra, sarete liberi di sgranchirvi un po’ le gambe e godervi la veduta dello spazio.
La nave trasportava quattrocento passeggeri, merci e corriere postale. Lungo i suoi fianchi c’erano venti cabine private; una era riservata per Burris e Lona. Gli altri sedevano a fianco a fianco, in una vasta conglomerazione, contorcendosi per vedere qualcosa attraverso il portello più vicino.
— Ecco che si parte — disse Burris piano.
Sentì che i jet flagellavano e respingevano il terreno, sentì l’intervento dei razzi, sentì che la nave si sollevava senza sforzo. Una triplice fila di gravitroni proteggeva i passeggeri dagli effetti più violenti del lancio; ma, su una nave così grande, era impossibile abolire completamente la gravità come poteva invece fare Chalk sul suo piccolo spazioscafo da diporto.
La Terra, che rimpiccioliva a vista d’occhio, pendeva come una prugna verde proprio fuori del finestrino. Burris si accorse che, invece di guardarla, Lona lo stava osservando con amorevole sollecitudine.
— Come ti senti? — gli chiese.
— Bene. Bene.
— Non sembri rilassato.
— È la trazione della gravità. Credi forse che mi impaurisca il fatto di andare nello spazio?
Una spallucciata. — È il tuo primo lancio dopo… dopo Manipol, non è vero?
— Ho fatto anch’io quella passeggiata nella nave di Chalk, non ricordi?
— Era un’altra cosa.
— Credi che mi sentirò agghiacciare solo per un viaggio spaziale? — egli chiese. — Pensi forse che io prenda questo traghetto per un direttissimo che mi riporta a Manipol?
— Stai travisando le mie parole.
— Davvero? Ti ho detto che stavo bene. E tu, ti sei messa a costruire sul mio conto una gran fantasia complicata su un presunto malessere. Tu…
— Basta, Minner.
Lo guardava con occhi tetri. Le sue parole avevano un accento calcato, pungente, tagliente. Con uno sforzo, egli tornò ad appoggiare le spalle nella culla a sospensione e cercò di costringere i tentacoli della sua mano a sciogliersi. Era riuscita a innervosirlo, mentre prima era calmo e disteso. Perché si ostinava a circondarlo di cure? Non era un infermo. Non aveva bisogno di essere tranquillizzato per un lancio. Lui faceva dei lanci spaziali già da anni quando lei non era ancora nata. Che cosa, dunque, lo spaventava, adesso? Come mai le parole di Lona avevano minato con tale facilità la sua sicurezza?
Smisero di bisticciare come si taglia un nastro registrato; ma le cime sfrangiate rimanevano. Egli le disse, con la maggior gentilezza che poté: — Non mancare la veduta, Lona. Non hai mai visto la Terra da quassù, vero?
Il pianeta, adesso, era lontano. Se ne vedeva l’intero contorno. Avevano di fronte, in piena luce, l’emisfero occidentale. Non vedevano l’Antartide, dove si trovavano poche ore prima, tranne il lungo dito sporgente della Penisola, simile a un pollice puntato verso Capo Horn.
Sforzandosi di non sembrare didattico, Burris le indicò come, in quella stagione, il sole colpisse il pianeta di traverso, riscaldando la parte meridionale e illuminando appena quella settentrionale. Parlò dell’eclittica e del suo piano, dei moti di rotazione e rivoluzione del pianeta, della sequenza delle stagioni. Lona ascoltava con aria seria, annuendo spesso, compiacente. Egli aveva il sospetto che continuasse a non capire; ma, a questo punto, era disposto, se non poteva avere la sostanza della comprensione, a contentarsi di una semplice parvenza. E lei gliela forniva.
Uscirono dalla cabina e fecero il giro della nave. Videro la Terra da vari angoli. Ordinarono qualcosa da bere al bar. Fu servito un pasto. Aoudad, dal suo posto in classe turistica, mandò loro un sorriso. Furono notevolmente mitragliati dagli sguardi della gente.
Tornati in cabina, sonnecchiarono.
Dormivano nel momento mistico del capovolgimento, quando infine passarono dall’influsso terrestre a quello lunare. Burris si svegliò di scatto, aguzzando gli occhi nelle tenebre, oltre il corpo della ragazza addormentata. Gli parve di vedere, lì fuori, le ossature frantumate del Disco, alla deriva nello spazio. No, no, impossibile! Ma in un viaggio, dieci anni prima, le aveva effettivamente vedute. Correva voce che alcuni dei corpi, caduti dal Disco quando si era spaccato, fossero ancora in orbita, seguendo una vasta parabola intorno al Sole. Per quanto ne sapeva Burris, nessuno, in tanti anni, aveva mai veduto uno solo di quei girovaghi. La maggior parte dei cadaveri, forse tutti, erano stati onoratamente raccolti da vedette spaziali e portati via; quanto agli altri, egli voleva credere che avessero trovato modo di giungere fino al Sole, per il più bel funerale possibile. Era un suo vecchio terrore privato, quello di veder apparire il viso contorto di lei, passando in quella zona.
La nave si inclinò e girò dolcemente su se stessa, e l’amata faccia butterata della Luna apparve.
Burris toccò il braccio di Lona. Lei si mosse, sbatté le palpebre, guardò lui e poi fuori del finestrino. Osservandola, egli si accorse dello stupore che le si stendeva sul viso, nonostante avesse le spalle girate.
Ora si scorgeva una decina di cupole sulla superficie lunare.
— Tivoli! — esclamò lei.
Burris dubitava che una di quelle cupole fosse davvero il parco dei divertimenti. La Luna era infestata di cupole, costruite nel corso dei decenni per motivi svariati, bellici, commerciali o scientifici. Nessuna di quelle corrispondeva all’idea che si faceva del Tivoli. Però si astenne dal contraddirla. Stava imparando.
Il trasporto passeggeri, decelerando, spiralò giù verso il punto di allunaggio.
Le cupole erano una caratteristica di quell’epoca, e molte erano opera di Duncan Chalk. Sulla Terra si preferivano (ma non sempre) le cupole geodesiche a contrafforti. Qui invece, data la gravità minore, si usava in genere il tipo di cupola più semplice, e meno rigido, costruito in un sol pezzo, per soffiatura. L’impero dei piaceri di Chalk era segnato di cupole, da quella della sua vasca da bagno privata alla cupola della Sala Galattica, per proseguire con quelle dell’albergo-rifugio nell’Antartide, del Tivoli, e così via, sempre più lontano nello spazio. L’allunaggio fu morbido.
— Cerchiamo di divertirci, qui, Minner! Ho sempre desiderato di venirci!
— Ci divertiremo — le promise.
Le scintillavano gli occhi. Era una bambina, solo una bambina. Innocente, piena di entusiasmo, semplice… Egli faceva lo spunto delle sue doti. In più, era calda, affettuosa. Lo coccolava, fin troppo. Egli sapeva di non apprezzarla come sarebbe stato giusto. La sua vita era stata così avara di piaceri, che lei non si era stancata delle piccole gioie. Poteva entusiasmarsi apertamente e di tutto cuore di fronte ai parchi di divertimento di Chalk. Era giovane. Ma non era una sciocchina, si diceva Burris, cercando di convincersi; era una ragazza che aveva sofferto, piena di cicatrici quanto lui.
Fu calata la rampa e lei corse giù, fin dentro la cupola di attesa. Egli la seguì, stentando solo un poco a coordinare i movimenti delle gambe.