18 “Nel paese dei balocchi”

Si faceva alla svelta molta strada, quando si era nelle mani di Duncan Chalk. I tuoi tirapiedi avevano trasportato Burris e Lona direttamente dall’ospedale alla base spaziale privata di Chalk e, dopo la rapida orbita intorno al mondo, li avevano condotti difilato all’albergo. Era l’albergo più sontuoso che mai si fosse visto in tutto l’emisfero occidentale, e questo fatto, che sembrava abbagliare Lona, infastidiva oscuramente Burris.

Entrato nell’atrio fu sul punto di ribaltarsi.

Gli accadeva sempre più spesso, ora che appariva in pubblico. Non aveva mai imparato a servirsi bene di quelle gambe. I ginocchi erano una specie complessa di giunto a sfera, ideato evidentemente per abolire l’attrito; e nei momenti più imprevisti accadeva talvolta che facessero cilecca, come appunto in quel momento. Ebbe la sensazione che la sua gamba sinistra di disgregasse e fu sul punto di slittare verso lo spesso tappeto giallo.

I vigili robot-fattorini scattarono in suo aiuto. Aoudad, in possesso di riflessi un po’ meno pronti dei loro, lo agguantò in ritardo. Ma Lona, la più vicina, piegò i ginocchi puntandogli la propria spalla contro il petto e sostenendolo mentre annaspava per ritrovare l’equilibrio. Burris rimase sorpreso dal fatto che fosse così forte da reggerlo mentre gli altri si gettavano avanti per tenerlo.

— Stai bene? — chiese lei, col fiato in gola.

— Più o meno. — Fece giocare la gamba avanti e indietro fino a quando non fu certo che il ginocchio fosse nuovamente ingranato. Fitte feroci gli saettavano fino all’anca. — Sei stata forte. Mi hai tenuto in piedi.

— Tutto è successo così in fretta. Non sapevo neanche quel che facevo. Mi sono mossa, e tu eri lì.

— Però io sono così pesante.

Aoudad lo teneva ancora per un braccio. Come accorgendosene in quel momento, lo mollò di colpo. — Ce la fa da solo, adesso? — chiese. — Che cos’è accaduto?

— Ho dimenticato, per un attimo, come devono funzionare le mie gambe — disse Burris. Le fitte erano lancinanti. Dominandole, prese Lona per mano e, adagio, guidò il gruppo verso il quadro di comando dei gravitroni, mentre Nikolaides si occupava di svolgere le solite formalità per registrare il loro arrivo in albergo. Dovevano fermarsi lì due giorni. Aoudad entrò con loro nella gabbia di sollevamento più vicina, e salirono.

— Ottantaduesimo — disse Aoudad al monitor dell’ascensore.

— È una camera grande? — chiese Lona.

— È un appartamento — rispose Aoudad — con una quantità di camere.

Erano nel complesso sette locali: un gruppo di camere da letto, una cucina, un soggiorno e una vasta sala di riunioni dove i rappresentanti dei giornali si sarebbero riuniti, più tardi, per la conferenza stampa.

Burris aveva chiesto, discretamente, che a lui e a Lona fossero assegnate delle camere comunicanti. Non c’erano stati ancora rapporti fisici tra loro. Burris sapeva bene che la difficoltà non faceva che crescere, aspettando; tuttavia, se ne asteneva. Sulla profondità dei sentimenti di lei, non aveva elementi di giudizio; e, a questo punto, nutriva seri dubbi sui propri.

Chalk non aveva badato a spese. Era un appartamento lussuoso, dove i tendaggi erano fatti con materie di altri mondi, materie che pulsavano e scintillavano di luce propria. I ninnoli di vetro metallico che ornavano il tavolo emettevano dolci melodie, solo che venissero tenuti a contatto del calore della mano. Erano costosi. Nella camera di Burris c’era un letto buono per un reggimento. Quello di Lona era rotondo e, premendo un bottone, girava. I soffitti erano di specchio. Potevano distorcersi in sfaccettature, oppure in schegge e frammenti, o ancora fornire un’immagine riflessa e ingrandita, più luminosa del vero. Potevano anche venire opacizzati. E Burris era certo che le camere erano piene di molti altri trucchi.

— Stasera, cena nella Sala Galattica — annunciò Aoudad. — Terrete una conferenza stampa domani alle undici del mattino. Il pomeriggio, vedrete Chalk. La mattina seguente, partirete per il Polo.

— Ottimamente — disse Burris, sedendosi.

— Devo far salire un dottore per dare un’occhiata alla tua gamba?

— Non occorre.

— Tornerò fra un’ora e mezzo, per scortarvi a cena. Troverete degli abiti negli armadi.

E Aoudad si congedò.

— Lona aveva gli occhi che brillavano. Era nel paese delle meraviglie. Lo stesso Burris, al quale il lusso non faceva facilmente impressione, era se non altro incuriosito dalla profusione di comodità. Sorrise alla ragazza. Lei si animò in viso ancora di più. Burris ammiccò.

— Diamo di nuovo un’occhiata in giro — mormorò lei.

Fecero una nuova visita a tutto l’appartamento. La camera di Burris, quella di Lona, la cucina. Lei sfiorò la manopola di programmazione sul quadro dei cibi. — Potremmo mangiare qui, stasera — suggerì Burris. — Se lo preferisci possiamo avere tutto quel che vogliamo.

— Andiamo fuori lo stesso.

— Certo.

Egli non aveva bisogno di radersi e nemmeno di lavarsi: piccoli vantaggi della sua nuova pelle. Ma Lona era più vicina alla natura umana. Egli la lasciò nella sua camera. In quel momento lei stava fissando il vibraspray nell’apposito cubicolo, dove, per regolarlo, c’era un cruscotto da fare invidia a un’astronave. Be’, lasciamola un po’ giocare.

Passò in rassegna il proprio guardaroba.

Lo avevano rifornito come se dovesse recitare la parte di protagonista in un dramma tridimensionale. Su una scansia c’era una ventina di lattine di sprayon, ciascuna con un’immagine che ne raffigurava il contenuto a vivaci colori. In questa, una giacca corta da sera, verde, e una tunica rilucente di fili purpurei. In quest’altra, un abito tutto d’un pezzo, lungo e sciolto, luminoso. In quest’altra ancora, una cosa sgargiante, blu pavone, con spalline e coste sporgenti. I suoi gusti erano rivolti a modelli più semplici, persino a materiali più convenzionali, come il lino e il cotone dei tessuti antichi. Ma non erano i suoi gusti privati a governare quell’impresa. Lasciato ai suoi gusti privati, egli sarebbe stato ancora rincantucciato nella sua camera scrostata, alle Torri Martlet, parlando al proprio spettro. Invece era qui, burattino volontario per ballare secondo i fili tirati da Chalk, e doveva fare i passi dovuti. Questo era il suo purgatorio. Scelse le spalline e le coste.

Ma chissà se lo sprayon avrebbe funzionato?

La sua pelle era diversa, in quanto a porosità e altre caratteristiche fisiche. Forse avrebbe rifiutato l’indumento. O, come in un incubo, ma reale, avrebbe mollato l’una dopo l’altra le molecole adesive, così che il suo vestito si sarebbe dissolto a brandelli in piena Sala Galattica, lasciandolo non solo nudo fra la folla, ma esposto in tutta la sua soprannaturale estraneità. Ebbene, avrebbe corso questo rischio. Che guardassero pure! Che vedessero tutto! Gli attraversò la mente l’immagine di Elisa Prolisse che portava una mano a un fermaglio segreto e cancellava in un attimo il suo vestito nero, rivelando bianche tentazioni. Questo tipo di abiti era malfido. E così sia. Burris si spogliò e inserì la lattina di sprayon nel distributore. Vi si mise sotto.

Con destrezza, l’abito si drappeggiò intorno al suo corpo.

Questa applicazione richiese meno di cinque minuti. Osservando in uno specchio il suo aspetto sgargiante, Burris non rimase scontento. Lona sarebbe stata orgogliosa di lui.

Aspettò che lei lo chiamasse.

Ma passò quasi un’ora ed egli non udiva venire alcun suono dalla sua camera. Certamente doveva essere pronta, ormai. — Lona… — chiamò, e non ottenne risposta.

Fu colto di colpo dal panico. Quella ragazza aveva la mania del suicidio. Il fasto e l’eleganza di quell’albergo erano proprio la goccia che poteva far traboccare il vaso. Si trovavano, lì, a trecento metri sul livello del suolo: questo tentativo non sarebbe fallito. Non avrei mai dovuto lasciarla sola, si disse Burris con furore.

Lona!

Passò attraverso il divisorio scorrevole delle loro camere. La vide subito e il sollievo lo fece ammutolire. Lei stava nel suo armadio-spogliatoio, nuda, di schiena. Aveva le spalle strette e i fianchi ancora più stretti, così che la vita sottile non era messa in risalto. La spina dorsale sporgeva come la galleria di una talpa nel terreno. Il sedere era come quello di un maschietto. Egli si rammaricò per l’intrusione. — Non ti sentivo — le disse — mi sono preoccupato e poiché non rispondevi…

Lei si voltò, e Burris vide che lei aveva ben altro in mente che la violazione della sua modestia. Aveva gli occhi cerchiati di rosso, le guance rigate di lacrime. In un gesto simbolico di pudicizia, sollevò un braccio gracile, a riparo dei suoi piccoli seni; ma fu un gesto puramente automatico, che non nascondeva niente. Le tremavano le labbra. Egli sentì, sotto l’epidermide estranea, il contraccolpo di quel corpo, e si chiese perché una nudità così poco fornita di attributi gli facesse una simile impressione. Concluse che ciò dipendeva dalla barriera che ora era andata in frantumi.

— Oh, Minner, Minner, mi vergognavo di chiamarti! Sono qui, ferma, da mezz’ora!

— Che c’è?

— Non trovo niente da mettermi!

Burris si avvicinò. Lei si scostò dallo spogliatoio, mettendosi al suo fianco e abbassando il braccio che teneva sul petto. Egli guardò nello stanzino. Sulle scansie, erano stivate decine di lattine di sprayon. Cinquanta, forse cento.

— E allora?

— Non posso mettermi quelli!

Ne prese uno, a caso. Secondo l’immagine sull’etichetta, si trattava di una cosa di notte e di nebbia, casta, elegante, stupenda.

— Perché no?

— Mi occorre qualcosa di semplice. Non c’è niente di semplice, qui.

— Semplice? Per la Sala Galattica?

— Ho paura, Minner.

Ed era vero. Aveva la pelle d’oca.

— Che bambina sei a volte! — sbottò lui.

Quelle parole la punsero sul vivo. Arretrò, con un’aria più nuda che mai, e gli occhi si riempirono nuovamente di lacrime. Le parole cattive parvero indugiare, come un deposito limaccioso, nella camera, quando il suono era già svanito.

— Se sono una bambina — disse, rauca — perché devo andare nella Sala Galattica?

Prenderla fra le braccia? Consolarla? Burris era in un vortice di incertezze. Regolò la voce a un che di mezzo fra l’ira paterna e una premura fasulla, dicendo: — Non fare la stupida, Lona. Tu sei una persona importante. Tutto il mondo, stasera, ti guarderà, dicendosi come sei bella e fortunata. Mettiti qualcosa che sarebbe piaciuto a Cleopatra e persuaditi di essere Cleopatra.

— Ho un’aria da Cleopatra, io?

Gli occhi di Burris percorsero il suo corpo. Egli sentiva che era proprio quello che lei voleva. E dovette riconoscere che era tutto meno che un tipo voluttuoso. Tuttavia, nel suo modo furtivo, era attraente. Persino femminile. In bilico fra la fanciullezza ingrata e la femminilità irrequieta.

— Prendine uno e mettitelo — le disse. — Ti farò fiorire. Non sentirti a disagio. Guardami qua, in questo abbigliamento pazzesco. Ma penso che sia uno scherzo colossale. Devi fare come me. Avanti!

— Questo è il secondo guaio. Non so quale scegliere.

Burris non poté darle torto. Guardando sulle scansie, vide che c’era l’imbarazzo della scelta. Ne sarebbe rimasta abbagliata la stessa Cleopatra; e questa povera piccola derelitta era sbalordita. Egli cercò in giro, a disagio, sperando di capitare su qualcosa che, all’istante, apparisse adatto per Lona. Ma nessuno di quei vestiti era stato ideato per una derelitta, e finché egli continuò a pensarla sotto tale aspetto, non riuscì a scegliere nulla. Alla fine, tornò a quello che aveva preso a caso, l’abito elegante e casto. — Questo — disse — credo che vada proprio bene.

Con aria dubbiosa, lei esaminò l’etichetta. — Mi sentirò imbarazzata, con un abito cosi stravagante.

— Abbiamo già parlato di questo, Lona. Mettitelo.

— Non sono capace di adoperare il meccanismo. Non so come si fa.

— È la cosa più semplice del mondo! — esplose lui, e si mandò al diavolo per la facilità con cui scivolava in toni di voce autoritari, con lei. — Sulla lattina ci sono le istruzioni. Si mette la lattina nella fessura…

— Fallo tu.

Lo fece lui. Lei si mise, dritta e ferma, nel raggio del distributore, mentre ne usciva l’abito, sotto forma di una nebbiolina, andando ad avvolgersi sulla sua persona. Burris cominciava a sospettare che, in tutta quella faccenda, era stato manovrato, con notevole destrezza. In un solo balzo gigantesco, avevano superato la barriera della nudità, e ora lei si mostrava a lui con la stessa naturalezza che se fosse sua moglie da decenni, chiedendogli consigli sull’abito da mettersi, piroettando sotto il distributore che la vestiva con eleganza. Quella piccola strega! Ne ammirò la tecnica. Le lacrime, il corpicino nudo e rannicchiato, l’aria da povera bambina… Oppure egli stava vedendo, nel suo panico, quel che non c’era? Forse, forse.

— Che effetto faccio? — ella chiese, venendo avanti.

— Magnifico. — Lo pensava realmente. — Qua c’è lo specchio. Giudica tu stessa.

Il modo in cui lei arrossì di piacere valeva parecchi chiloWatt. Burris giunse alla conclusione che si era sbagliato interamente sui moventi di Lona; era meno complicata. Il suo terrore, all’idea dell’eleganza, era stato genuino, come lo era, adesso, il suo piacere per il risultato finale.

Ed era un risultato stupendo. Il beccuccio del distributore aveva fatto venir fuori un vestito che non era del tutto trasparente, né del tutto aderente. Stava su di lei come una nuvola, velando i fianchi magri e le spalle cadenti, e riusciva abilmente a suggerire una linea voluttuosa che non c’era. Con un abito di sprayon non si portavano indumenti intimi e quindi il corpo era nascosto alla vista da una frazione minima di materia; ma i disegnatori erano stati accorti, e il drappeggio morbido di quel vestito metteva in risalto e ampliava colei che lo indossava. Anche i colori erano deliziosi. Per effetto di una qualche stregoneria molecolare, i polimeri non erano fissati saldamente a un solo segmento dello spettro. Quando Lona si muoveva, l’abito cambiava prontamente di colore, passando da un grigiore d’alba a un azzurro da cielo estivo, e da questo al nero, al color marrone-ferro, al perlaceo, al lilla.

Lona assumeva l’aria sofisticata che l’abito le dava. Sembrava più alta, meno giovane, più decisa e sicura di sé. Teneva le spalle dritte e, con una trasfigurazione sorprendente, i suoi seni sporgevano innanzi.

— Ti piace? — gli chiese piano.

— È meraviglioso, Lona.

— Mi sento così strana. Non ho mai indossato nulla di simile. Tutt’a un tratto eccomi trasformata in Cenerentola che va al ballo!

— E chi è la fata-madrina? Duncan Chalk?

Risero entrambi. — Gli auguro — disse lei — di trasformarsi in zucca a mezzanotte. Minner — andò allo specchio — sarò pronta in cinque minuti.

Egli tornò in camera propria e a lei occorsero non cinque, ma quindici minuti, per cancellare le tracce del pianto; ma Burris non stentò a perdonarla. Quando comparve, quasi non la riconosceva. Si era “fatta la faccia” con uno splendore brunito che, in pratica, la trasformava. Si era sottolineata l’orlo delle palpebre con una polvere lucente, le labbra scintillavano di una morbida fosforescenza e le orecchie erano coperte da piattelli d’oro. Entrò scivolando leggera come un lembo di foschia mattutina. — Credo che adesso possiamo andare — disse lei con una voce calda.

Burris era contento e divertito. Sotto un certo aspetto era come una bambina vestita da donna, ma, sotto un altro, era una donna che cominciava allora a scoprire di non essere più una bambina. Si era veramente schiusa la crisalide? Comunque, gli piaceva di vederla così. Era senz’altro bella. Forse la gente avrebbe guardato lei e lo avrebbe osservato un po’ meno.

Si diressero insieme verso la gabbia di discesa.

Al momento di uscire dalla camera, egli aveva comunicato ad Aoudad che stavano venendo giù per la cena. Poi discesero. Burris provò un impeto folle di timore e lo soffocò senza remissione. Da quando era tornato sulla Terra, non si era più esposto in pubblico così clamorosamente, in un pranzo al più famoso ristorante del mondo, facendo forse andar di traverso il caviale a un migliaio di avventori e con gli sguardi puntati addosso a lui da ogni parte. Considerava quella serata alla stregua di una prova. Con Lona vicina, si sentiva, in qualche modo, più forte; si ammantò di coraggio come lei aveva indossato le belle vesti alle quali non era abituata.

Appena misero piede, giù, nell’atrio, Burris udì le esclamazioni soffocate degli astanti. Sospiri di piacere? Di sbigottimento? Un brivido di compiaciuto orrore? Il sibilo di quel respiro mozzo non consentiva, da solo, di indovinarne la natura. Indubbiamente, guardavano la strana coppia che usciva dalla gabbia di discesa, e subivano una reazione.

Burris, che dava il braccio a Lona, tenne il viso impassibile. Guardateci, guardateci bene, pensava con sarcasmo. Siamo la coppia del secolo. L’astronauta mutilato e la vergine madre di cento figli. Lo spettacolo del secolo!

Tutti li guardavano, sì. Burris sentiva passare gli sguardi sulla linea delle sue mascelle che non finivano con un orecchio, sui suoi occhi con dei portelli che si aprivano e chiudevano a scatti, sulla sua bocca rifatta. Si meravigliò egli stesso per la propria mancanza di reazione alla loro volgare curiosità. Guardavano anche Lona; ma lei aveva meno da offrire in pasto al pubblico: le sue ferite erano ulteriori.

Improvvisamente, a sinistra di Burris, ci fu del trambusto.

Un attimo dopo, Elisa Prolisse, uscita di mezzo alla gente, si precipitava verso di lui, con un grido squarciante: — Minner, Minner!

Sembrava un’ossessa. Si era pitturata il viso bizzarramente, con una truccatura di una violenza mostruosa, righe azzurre sulle guance, sporgenze rosse sopra gli occhi. Sdegnando lo sprayon, indossava questa volta un abito di un tessuto naturale, frusciante, seducente, con una profonda scollatura che scopriva i globi bianchi come il latte dei suoi seni. Tendeva in avanti le mani, che terminavano in artigli lucenti.

— Ho cercato di parlarti — ansimò. — Non mi hanno lasciata avvicinare…

Aoudad piombava verso di loro. — Elisa…

Lei gli graffiò la guancia con le unghie. Aoudad barcollò indietro ed Elisa si girò verso Burris. Guardò Lona velenosamente. Agguantò il braccio di Burris, tirandolo e dicendo: — Vieni via con me. Non ti lascio, ora che ti ho ritrovato.

Levagli le mani di dosso!

Era Lona. Le sillabe erano uscite dalle sue labbra come lame roteanti.

La donna più matura guardò la ragazza. Burris, attonito, pensò: adesso si picchiano. Elisa pesava almeno venti chili più di Lona, e, come Burris ben sapeva, era fortissima. Ma anche Lona aveva risorse di forza insospettate.

Una scenata nell’atrio dell’albergo, pensò egli con una curiosa chiarezza. Nulla ci verrà risparmiato.

— Io lo amo, puttanella! — gridò Elisa con voce rauca.

Lona non rispose, ma la sua mano partì in un gesto rapido e falciante verso il braccio teso di Elisa, e colpì di taglio l’avrambaccio carnoso con un colpo secco. Elisa soffiò. Ritirò il braccio. Mise di nuovo le mani ad artiglio. Lona, scartando, si piegò un poco sulle ginocchia, pronta a scattare.

Tutto ciò si era svolto in pochissimi secondi. Ora gli astanti sbalorditi si mossero, Burris stesso, superato il primo attimo di paralisi, s’interpose con un passo facendo scudo a Lona contro la furia di Elisa. Aoudad afferrò quest’ultima per un braccio. Lei, cercò di scrollarlo e liberarlo, facendo tremolare i seni scoperti, nello sforzo. Nikolaides intervenne dall’altra parte. Elisa strillava, scalciava, si dibatteva. Si era formato un cerchio di robot-fattorini. Burris li guardò mentre tiravano via Elisa. Lona si appoggiò a una colonna di onice. Aveva il viso fortemente arrossato; ma, a parte ciò, non aveva niente fuori posto, neanche nel trucco e nell’acconciatura. Sembrava più stupita che spaventata.

— Chi era, quella? — chiese.

— Elisa Prolisse. La vedova di uno dei miei compagni di volo.

— Che cosa voleva?

— Chi lo sa? — mentì Burris.

Lona non si lasciò ingannare. — Ha detto che ti ama.

— Affari suoi. Credo che abbia attraversato un periodo di grande tensione.

— L’ho vista, all’ospedale. È venuta a trovarti. — Le verdi fiamme della gelosia guizzavano sul viso di Lona. — Che cosa vuole da te? Perché ha fatto quella scenata?

Aoudad venne alla riscossa. Tenendo appoggiata una pezzuola alla guancia insanguinata, disse: — Le abbiamo somministrato un sedativo. Non vi disturberà più. Sono dolentissimo di quanto è accaduto. Quella stupida isterica…

— Torniamo di sopra — disse Lona. — Non ho voglia di mangiare nella Sala Galattica, adesso.

— Oh, no! — disse Aoudad. — Non dovete disdire! Vi darò un tranquillante e in un attimo starete meglio. Non lasciate che un episodio stupido come questo sciupi una splendida serata.

— Togliamoci dall’atrio, per lo meno — disse Burris.

Il gruppetto si avviò in fretta a una saletta appartata, brillantemente illuminata. Lona si lasciò andare su un divano. Burris, nel quale ora scoppiettava l’agitazione trattenuta, sentiva delle fitte nelle cosce, ai polsi, nel petto. Aoudad tirò fuori un astuccio tascabile di tranquillanti, prendendone uno egli stesso e dandone uno a Lona. Burris rifiutò con una spallucciata il tubetto, sapendo che non avrebbe avuto effetto su di lui. Entro pochi istanti Lona era di nuovo sorridente.

Egli sapeva di non essersi sbagliato, quando le aveva visto la gelosia negli occhi. Elisa era piombata tra loro come un ciclone di carne, minacciando di spazzar via tutto ciò che Lona possedeva, e Lona aveva reagito combattendo fieramente. Burris era al tempo stesso lusingato e turbato. Non poteva negare che l’essere l’oggetto di quella lotta gli aveva fatto piacere, come l’avrebbe fatto a qualsiasi uomo. Ma quell’attimo rivelatore gli aveva mostrato soprattutto la profondità dell’attaccamento che Lona già provava per lui. Il suo non era altrettanto profondo. La ragazza, sì, gli piaceva, e gli era grata la sua compagnia; ma era lungi dall’esserne innamorato. Dubitava assai che avrebbe mai amato, lei o qualunque altra. Lei invece, senza che ci fosse tra loro nemmeno il vincolo di un legame fisico, si era evidentemente costruita, nell’intimo, una fantasia romantica. In questo (Burris lo sapeva) c’era un germe di guai futuri.

Svuotata dalla tensione grazie al tranquillante, Lona si era ripresa. Si alzarono, Aoudad, nonostante la guancia ferita, era raggiante.

— Adesso, volete andare a cena? — chiese.

— Mi sento molto meglio — disse Lona. — Tutto è stato così improvviso. Mi ha sconvolta.

— Cinque minuti nella Sala Galattica le faranno dimenticare tutta la faccenda — disse Burris. Le porse di nuovo il braccio. Aoudad li guidò alla speciale gabbia di salita che portava solo alla Sala Galattica. Salirono sulla piastra di gravità e filarono verso l’alto. Il ristorante stava proprio in cima all’albergo e dalla sua posizione elevata aveva di fronte il cielo, come un osservatorio privato, un sibaritico Uraniborg del cibo. Ancora tremante per l’inattesa aggressione di Elisa, Burris provò un’ulteriore ansia quando raggiunsero il vestibolo del ristorante, mantenne un’apparenza calma; ma forse, nello splendore supremo della Sala Galattica, l’avrebbe colto il panico?

C’era stato una volta, molto tempo prima. Ma con un altro corpo. E con una ragazza che adesso era morta.

L’asse di ascesa si arrestò ed essi penetrarono in un bagno di viva luce.

Aoudad disse, con tono ultrasolenne: — La Sala Galattica! Il vostro tavolo vi aspetta. Buon divertimento.

Sparì, e Burris fece volutamente un sorriso a Lona, che sembrava intontita dalla felicità e dal terrore. Dinanzi a loro si spalancarono le porte di cristallo. Entrarono.

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