28 Non sai che pianto

Si stava stancando di Titano. Si era assuefatto a quella luna glaciale come a una droga, dopo la partenza di Lona; ma ora non gli faceva più effetto. Nulla di ciò che Aoudad poteva fare o dirgli… o procurargli… l’avrebbe trattenuto un solo istante.

Elisa era stesa accanto a lui. Molto in alto sul loro capo, la Cascata di Ghiaccio precipitava nella sua immobilità. Avevano noleggiato una motoslitta personale ed erano venuti lì da soli a fermarsi alla bocca del ghiacciaio, per far l’amore, sulla crosta gelata di ammoniaca, sotto il riverbero Saturnino.

— Ti dispiace che io sia venuta qui da te, Minner? — chiese lei.

— Sì. — Con lei poteva fare a meno di aver peli sulla lingua.

— Ne senti ancora la mancanza? Non avevi bisogno di lei.

— L’ho offesa. Senza motivo.

— E lei, che ha fatto?

— Non voglio parlare di lei con te.

E alzatosi a sedere egli sporse la mano verso i comandi della motoslitta. Anche Elisa si risollevò, premendo la sua carne addosso a lui. In quella illuminazione strana pareva più bianca che mai. Aveva sangue, in quel suo corpo opulento? Era bianca come la morte. Egli mise in moto la slitta che strisciò lentamente lungo l’orlo del ghiacciaio, in direzione contraria a quella della cupola. Pozze di metano erano disseminate qua e là. Burris disse: — Protesteresti se aprissi il tettuccio della slitta, Elisa?

— Moriremmo. — Non pareva preoccupata.

— Tu moriresti. Io, forse no. Che ne so se questo corpo non possa respirare metano?

— Non è probabile. — Lei si stiracchiò voluttuosamente, languidamente. — Dove andiamo?

— Ad ammirare le bellezze naturali.

— Qui potrebbe essere pericoloso. Il ghiaccio potrebbe spezzarsi.

— Nel qual caso moriremmo. Sarebbe riposante, Elisa.

La slitta investì una lingua scricchiolante di ghiaccio nuovo. Sobbalzò un poco e fece sobbalzare Elisa. Burris osservò pigramente lo scorrere dell’increspatura lungo tutta quell’abbondanza di carne nuda. Elisa era con lui da una settimana. L’aveva fatta saltar fuori Aoudad. Le doti della sua voluttà erano notevoli, quelle dell’anima molto meno. Burris si chiedeva se il povero Prolisse avesse scoperto che razza di moglie si era preso.

Lei gli toccò la pelle. Lo toccava sempre, quasi deliziandosi di quella grana anomala. — Amami ancora — disse.

— Adesso no. Elisa, che cosa desideri, di me?

— Tutto.

— L’universo è pieno di uomini che possono farti felice a letto. Che cosa ho di particolare?

— I mutamenti di Manipol.

— Mi ami per il mio aspetto?

— Ti amo perché sei fuori del comune.

— E allora, perché non i ciechi, i guerci, i gobbi, gli uomini senza naso?

— Non ce ne sono. Tutti ormai si fanno le protesi. Tutti sono perfetti.

— Eccetto me.

— Sì. Eccetto te. — Gli ficcò le unghie nella pelle. — Non posso graffiarti. Non posso farti sudare. Non posso nemmeno guardarti senza sentirmi un pochino nauseata. Ecco che cosa desidero di te.

— La nausea?

— Non fare lo stupido.

— Sei masochista, Elisa. Vuoi abbassarti, strisciare. Scegli l’essere più inverosimile di tutto il nostro sistema solare per gettargli le braccia al collo; e lo chiami amore. Ma non è amore. Non è neanche questione di letto. Vuoi torturarti.

Lei lo guardò in modo curioso.

— Ti piace che ti facciano male — disse lui. Posò la mano su uno dei suoi seni, allargando le dita e i loro tentacoli quanto più poteva, per racchiuderne tutta la massa soffice e tiepida. Poi chiuse la mano. Elisa si contorse. Le sue narici delicate si allargarono, i suoi occhi si riempirono di lagrime. Ma, mentre egli continuava a stringere, non aprì bocca. Il suo respiro si fece più intenso, le sue pulsazioni diventarono quasi udibili. Era pronta ad assorbire quel genere di sofferenza senza un solo lamento illimitatamente, anche se egli avesse staccato netto dal suo corpo il globo di carne bianca. Quando egli abbandonò la presa, c’era, sul suo biancore, tutta una rosa di impronte, che diventarono subito rosse. Elisa sembrava una tigre pronta al balzo. Sopra di loro, la Cascata di Ghiaccio precipitava nella sua immobilità eterna. Stava per mettersi a scorrere? Saturno stava per cadere dal cielo e spazzar via Titano con i suoi anelli roteanti?

— Domani parto per la Terra.

Lei si abbandonò indietro, col corpo offerto. — Amami, Minner.

— Torno indietro solo. A cercare Lona.

— Non ne hai bisogno. Smettila di stuzzicarmi. — Si aggrappò a lui. — Stenditi vicino a me. Voglio vedere di nuovo Saturno mentre mi possiedi.

Egli passò la mano sulla seta della sua pelle. Le scintillarono gli occhi. Egli sussurrò: — Usciamo dalla slitta. Corriamo nudi fino a quel lago e gettiamoci a nuoto.

Intorno a loro sbuffavano nuvole di metano. La temperatura che c’era fuori avrebbe fatto apparire tropicale, al confronto, l’Antartide in pieno inverno. Sarebbero morti prima per il gelo o per il veleno nei polmoni? Non sarebbero mai giunti fino al lago. Gli parve di vedere entrambi, scompostamente stesi sulla duna nevosa, bianchi su bianco, duri come il marmo. Egli sarebbe sopravvissuto più a lungo, trattenendo il fiato, mentre lei traballava, si ribaltava, si dibatteva, con la pelle accarezzata dagli idrocarburi. Ma anch’egli non sarebbe durato a lungo.

— Sì! — esclamò lei. — Nuoteremo! E poi faremo l’amore accanto al lago!

Tese la mano al comando che sollevava il tetto trasparente della slitta. Burris ammirò il gesto, la tensione e il gioco dei muscoli, l’armonia della gamba ripiegata e dell’altra tesa, come a equilibrare il braccio. I suoi seni puntavano in alto; il suo collo, che aveva tendenza ad afflosciarsi, adesso era teso e sodo. Nell’insieme, era bella a vedersi. Le bastava girare una levetta, e il tettuccio sarebbe scattato indietro, esponendoli all’atmosfera virulenta di Titano. Aveva già le dita sulla leva. Burris smise di contemplarla. Le sbatté una mano sul braccio proprio mentre il muscolo si muoveva per compiere il gesto, la strappò via, respingendola sul divanetto. Ella cadde in modo scomposto. Quando fece per rialzarsi, egli le diede uno schiaffo sulle labbra. Il sangue le colò sul mento e i suoi occhi mandarono scintille di piacere. Egli la picchiò ancora, con colpi secchi, che le facevano sussultare la carne. Lei ansava, si aggrappava a lui. L’odore della lussuria gli aggredì le nari.

La colpì una volta ancora; ma, nel capire che le stava dando proprio ciò che voleva, si staccò da lei e le gettò lo scafandro che si era tolto.

— Indossalo. Si torna alla cupola.

Elisa era l’incarnazione della brama scatenata. Si contorceva al punto di essere una parodia del desiderio. Lo chiamava con voce roca.

— Rientriamo — egli disse. — E non rientreremo nudi.

Con riluttanza, lei si vestì.

Stava per aprire il tetto, si diceva Burris. Era pronta a gettarsi con me nel lago di metano.

Mise in moto la slitta e si diresse velocemente verso l’albergo.

— Parti davvero per la Terra, domani?

— Sì. Ho prenotato il biglietto.

— Senza di me?

— Senza di te.

— E se ti seguissi ancora?

— Non posso impedirtelo. Ma non ti servirà a niente.

La slitta giunse alla camera di decompressione della cupola. Egli la portò dentro e la restituì all’ufficio noleggio. Elisa, nel suo scafandro, sembrava arruffata e sudata.

Burris, raggiunta la propria camera, si affrettò a chiudere la porta a chiave. Elisa bussò alcune volte, poi se ne andò. Egli si prese la testa fra le mani. Provava nuovamente quella stanchezza, quello sfinimento totale che non si era più presentato dall’ultima e definitiva lite con Lona. Ma, in capo a pochi minuti, la sensazione passò.

Un’ora dopo venne a cercarlo la direzione dell’albergo. Tre uomini dal viso serio, che parlarono pochissimo. Burris indossò lo scafandro che gli tendevano, e uscì con loro all’aperto.

— È sotto quel lenzuolo. Vorremmo che la identificasse, prima che la portiamo dentro.

Cristalli lievi di neve di ammoniaca erano caduti sul lenzuolo. Volarono via quando Burris lo rimosse. Elisa, nuda, pareva abbracciare il ghiaccio. Le macchie sul suo seno, dove le dita di Burris si erano affondate, erano diventate dei lividi scuri, violacei. Egli la toccò. Era come il marmo.

— È morta istantaneamente — disse una voce accanto a lui.

Burris alzò gli occhi. — Aveva bevuto molto, questo pomeriggio. Forse questa è la spiegazione.

Rimase in camera sua per il resto della serata e per tutta la mattina successiva. A mezzogiorno lo chiamarono per trasportarlo alla base spaziale, e quattro ore dopo era lontano, con destinazione Terra, via Ganimede. Per tutto quel tempo quasi non aprì bocca, con nessuno.

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