Burris ricevette la cattiva notizia il quinto giorno del suo ricovero all’ospedale. Come al solito era in giardino. Aoudad venne da lui.
— Gli innesti di pelle sono impossibili. La risposta dei medici è “no”. Lei è pieno di anticorpi pazzeschi.
— Questo lo sapevo già. — Era calmissimo.
— La sua pelle rifiuta persino la sua pelle.
— Non posso darle torto — disse Burris.
Oltrepassarono il “saguaro”. — Ci sarebbe la possibilità di portare una specie di maschera. Soluzione un po’ scomoda, forse; ma oggi, in questo campo, si fanno delle ottime cose. La maschera, in pratica, respira. È in plastica porosa, e si infila direttamente sulla testa. Lei si abituerebbe nel giro di una settimana.
— Ci penserò — promise Burris. Si chinò su un ginocchio accanto al barilotto di un cactus. Le spine erano disposte in linee convesse, che seguivano un arco di circolo massimo verso il polo. Pareva che ci fossero dei boccioli in formazione. Sulla targhetta luminescente posata accanto alla pianta, nella terra, c’era scritto Echinocactus grusonii. Burris lesse il nome ad alta voce.
— Questi cactus sembrano affascinarla — disse Aoudad. — Perché? Che cosa hanno di speciale per lei?
— La bellezza.
— Questi cosi! Ma se son tutte spine!
— Amo i cactus. Vorrei vivere per sempre in un giardino di cactacee. — Con la punta di un dito sfiorò una spina. — Lo sa che su Manipol ci sono quasi unicamente piante grasse spinose? Naturalmente, non dico che fossero delle cactacee; ma l’effetto, complessivamente, è uguale. È un pianeta arido. Con delle zone pluviali intorno ai poli e poi una siccità crescente man mano che ci si avvicina all’equatore. Piove all’incirca una volta ogni miliardo d’anni all’equatore, e un pochino più spesso nelle zone temperate.
— Che cosa è questa? Nostalgia?
— No davvero. Ma è lì che ho imparato la bellezza delle spine.
— Delle spine? Pungono.
— Ciò fa parte della loro bellezza.
— Adesso lei si mette a parlare come Chalk — borbottò Aoudad. — La sofferenza è una grande maestra, secondo lui. La sofferenza rende, le spine sono belle… Preferisco una rosa.
— Anche le rose hanno le spine — commentò piano Burris.
Aoudad parve smarrito. — E allora, diciamo che preferisco i tulipani. I tulipani!
Burris disse: — La spina è solo una forma, molto evoluta, di foglia; una prova della capacità di adattamento a un ambiente sfavorevole. I cactus non possono permettersi di traspirare come fanno le piante frondose. Quindi, si adattano. Mi dispiace che lei trovi brutto un adattamento così elegante.
— Credo di non essermi mai fermato a pensare molto a lungo su questo argomento. Senta, Burris, Chalk desidererebbe che per una o due settimane lei rimanesse ancora qui. Ci sono da fare alcune prove.
— Ma, se una chirurgia plastica del viso è impossibile…
— Desiderano farle un controllo generale e completo. Tenendo d’occhio l’eventuale trapianto di corpo.
— Capisco. — Burris annuì brevemente. Si rivolse verso il sole, lasciando che i deboli raggi invernali colpissero il suo viso deformato. — Com’è bello stare di nuovo al sole! Lo sa, Bart, che le sono grato? È stato lei a trascinarmi fuori da quella stanza. Da quella notte tenebrosa dell’anima. Sento, dentro di me, un generale disgelo. Tutto si scioglie, si libera, si muove. Sto accumulando le metafore? Vede, come sono già meno rigido?
— La sua flessibilità è sufficiente a permetterle di ricevere una visita?
Immediatamente sospettoso: — Chi?
— La vedova di Marco Prolisse.
— Elisa? La credevo a Roma!
— Roma è a un’ora da qui. Desidera moltissimo vederla. Dice che le autorità le hanno impedito di parlare con lei. Non desidero esercitare nessuna pressione; ma, a mio parere, lei dovrebbe permetterle di vederla. Potrebbe rimettersi le fasciature, se vuole.
— No. Non voglio nascondermi dietro le fasce. Mai più. Quando verrà?
— È già qui. Basta che lei dica una parola e la farò apparire.
— Allora, la porti pure quaggiù. Le parlerò nel giardino. Questo luogo somiglia talmente a Manipol…
Aoudad, stranamente, rimase muto. Infine disse: — La riceva in camera sua.
Burris alzò le spalle. — Come vuole. — Accarezzava le spine.
Infermiere, inservienti, medici, tecnici, ammalati in sedia a rotelle, tutti lo guardarono con tanto d’occhi, quando entrò nell’edificio. Persino due robot di fatica lo squadrarono curiosamente, tentando di classificarlo in base alla loro conoscenza programmata delle configurazioni del corpo umano. Burris non se ne curava. La sua timidezza svaniva giorno per giorno. Le fasce che aveva portato il primo giorno del suo ricovero gli parevano ora un espediente assurdo. Pensava che la sua situazione fosse simile a quella di andare nudi in pubblico: dapprima la cosa pareva inconcepibile, poi, a suo tempo, diventava tollerabile e, alla lunga, consuetudinaria. Bastava abituarsi.
Tuttavia, nell’aspettare Elisa Prolisse, si sentì a disagio.
Era davanti alla finestra e guardava giù il giardino del cortile anteriore quando bussarono alla porta.
Un impulso dell’ultimo istante (tatto o timore?) lo indusse a rimanere con le spalle voltate quando lei entrò. La porta venne richiusa timidamente. Egli non vedeva quella donna da cinque anni, ma se la ricordava formosa, lussureggiante: una bella donna. L’udito affinato di Burris gli disse che era entrata sola, senza Aoudad, e che aveva il respiro affannoso.
La udì chiudere a chiave la porta.
— Minner? — disse lei, piano. — Minner, voltati e guardami. Va tutto bene. Posso sopportarlo.
Non era lo stesso che mostrarsi al personale anonimo dell’ospedale. Burris si accorse con sorpresa che la serenità degli ultimi giorni, in apparenza solida, fuggiva rapidamente. Fu colto dal panico. Ebbe voglia di nascondersi. Ma da questo smarrimento scaturì la crudeltà, una gelida volontà di far male. Girò di scatto sui tacchi, sbattendo di colpo la propria immagine nei grandi occhi scuri di Elisa Prolisse.
Diamogliene atto: Elisa aveva una gran capacità di ripresa.
— Oh! — sussurrò. — Oh, Minner, è… — (rapido cambiamento di marcia) — è meno peggio di quanto mi avevano detto.
— Vuoi dire che mi trovi bello?
— Non mi spaventi. Credevo che mi avresti spaventata.
Avanzò verso di lui. Indossava una tunica nera aderente, che probabilmente era stata creata con lo spray sulla sua persona. La moda del momento favoriva di nuovo i seni alti, e così li portava Elisa: alti al punto da schizzar quasi fuori, vicino alle scapole, e profondamente separati. Il segreto di questo stava nella chirurgia estetica del petto. La tunica nascondeva interamente quei volumi di carne; ma in realtà che cosa poteva mai nascondere un micron di spray? Le sue anche tondeggiavano, le sue cosce erano come colonne. Ma era un po’ smagrita, tutto sommato. Senza dubbio, durante gli ultimi mesi, la tensione e l’insonnia avevano smangiato qualche centimetro da quei mappamondi. Gli era molto vicina, ora. Burris fu aggredito da un profumo che dava un poco le vertigini e, quasi inconsciamente, ne neutralizzò l’effetto su di lui.
Lasciò scivolare la mano fra le sue.
I loro sguardi si incontrarono. Se gli occhi di Elisa vacillarono, fu appena un attimo.
— Marco è morto coraggiosamente? — chiese lei.
— È morto da uomo. In modo degno dell’uomo che era.
— Tu, hai visto?
— Non gli ultimi istanti. No. Ho visto quando l’hanno portato via. Mentre noi aspettavamo il nostro turno.
— Credevi di morire, anche tu?
— Ne ero certo. Ho detto le parole dell’ultimo commiato per Malcondotto. Lui le ha dette per me. Ma io sono tornato.
— Minner, Minner, Minner, come dev’essere stato terribile! — Gli stringeva ancora le mani. Gli carezzava le dita, persino quel vermiciattolo di carne, di fianco al mignolo. Nel sentirsi toccare quella cosa schifosa, Burris provò una stretta allo stomaco, per la sorpresa. Lei aveva gli occhi spalancati, gravi, senza lacrime. Questa donna ha due figli, o forse tre? Ma è ancora giovane, ancora piena di vita. Egli si augurò che gli lasciasse andare la mano. La sua vicinanza lo disturbava. Dalle sue cosce, sentiva provenire radiazioni di calore, deboli sullo spettro elettromagnetico, ma percepibili. Per ricacciare indietro la tensione, si sarebbe morso le labbra, se i suoi denti avessero ancora potuto raggiungerle.
— Come hai avuto la notizia di quel che ci era capitato?
— Quando è stata ritrasmessa da Ganimede. Mi hanno informata con molta delicatezza. Ma devo confessartelo: ho fatto orribili pensieri. Chiedevo a Dio perché Marco era morto e tu eri vivo. Mi dispiace, Minner.
— Non c’è motivo. Se fosse dipeso da me, io sarei morto e lui sarebbe vivo. Marco e Malcondotto, entrambi. Credimi, Elisa; non sono soltanto delle parole. Farei il cambio.
Si sentiva ipocrita. Egli voleva dire, naturalmente, che era meglio morto che mutilato; ma lei avrebbe interpretato diversamente le sue parole. Ne avrebbe visto solo l’aspetto nobile, quello del sopravvissuto scapolo che si augurava di dare la propria vita in cambio di quella dei mariti, e padri, che erano morti. Che cosa poteva dirle? Si era giurato di non piagnucolare mai più.
— Raccontami come è stato — disse lei, tenendogli sempre la mano, e tirandolo a sedere accanto a lei, sulla sponda del letto. — Come vi hanno presi. Come vi hanno trattati. Che impressione faceva. Devo sapere!
— Uno sbarco come gli altri — le raccontò Burris. — Solite formalità per lo sbarco e per stabilire i contatti. Non è male, il pianeta. Arido. Col tempo, fra un paio di milioni di anni, sarà come Marte. Per ora, sembra l’Arizona, con una sfumatura di Sonora e una bella fetta di Sahara. Abbiamo fatto conoscenza con loro. Hanno fatto conoscenza con noi.
I portelli degli occhi si chiusero di scatto. Sentì il soffio afoso. del vento su Manipol. Vide le forme simili a cactacee, piante grigiastre, spinose, serpentine che si snodavano sul terreno per centinaia di metri. I veicoli dei nativi tornavano a prenderlo.
— Sono stati beneducati, con noi. Avevano già ricevuto altre visite, conoscevano la solita prassi dei contatti. Non praticavano il volo spaziale, ma solo perché non li interessava. Parlavano alcune lingue. Malcondotto riuscì a parlare con loro. Aveva il dono delle lingue. Parlò in un dialetto di Sirio ed essi lo imitarono. Erano cordiali, distaccati… diversi. Ci hanno portati via.
Un tetto, sopra il suo capo. Vi crescevano degli esseri. E non erano nemmeno dei fitozoi o degli organismi inferiori. Nulla di simile a fungosità luminescenti. Erano creature provviste di scheletro, che spuntavano dalla volta del tetto.
C’erano anche delle vasche di una mistura in fermentazione, nella quale crescevano altri esseri viventi. Esseri minuscoli, rosei, biforcuti. — Un posto strano — disse Burris — ma non ostile. Ci hanno un po’ punzecchiato, palpato. Abbiamo parlato. Abbiamo eseguito delle osservazioni. Dopo un certo tempo ci siamo accorti di essere dei reclusi.
Gli occhi di Elisa, molto lucidi, sembravano seguire le sue parole, man mano che gli cadevano dalle labbra.
— Senza alcun dubbio, possedevano una cultura scientifica molto progredita. Quasi post-scientifica. Certamente post-industriale. Malcondotto era del parere che si servissero di energia nucleare, ma non ne abbiamo affatto raggiunto la certezza. Dopo il terzo o quarto giorno non abbiamo più avuto la possibilità di controllare.
Si accorse a un tratto che lei non era affatto interessata al suo racconto. Lo ascoltava appena. Perché era venuta, allora? Perché glielo aveva chiesto? Quella storia, che era il nodo, il nucleo, l’anima del suo essere, doveva riguardarla; invece stava lì con le sopracciglia contratte, fissandolo con gli occhi spalancati, senza ascoltarlo. Egli la fulminò con lo sguardo. La porta era chiusa. Non poteva fare a meno di ascoltare.
— Il sesto giorno, vennero e si portarono Via Marco.
Una increspatura di attenzione. Una incrinatura in quella superficie liscia e mollemente sensuale.
— Non dovevamo rivederlo più. Ma intuivamo che gli avrebbero fatto del male. Lo intuì, per primo, Marco stesso. Ha sempre avuto una lieve vena di preveggenza.
— Sì, sì, l’aveva. Un poco.
— Se ne andò. Malcondotto e io ci perdevamo in ipotesi. Passarono alcuni giorni, e quelli vennero a prendere anche Malcondotto. Marco non era tornato. Malcondotto, prima che lo portassero via, parlò con loro. Seppe che avevano condotto sulla persona di Marco una specie di… esperimento. Era stato un insuccesso. Lo seppellirono senza mostrarcelo. Poi si misero all’opera su Malcondotto.
Si accorse che lei aveva smesso nuovamente di ascoltarlo. Non gliene importa niente, si disse. Un barlume di interesse quando le ho detto come è morto Prolisse, e poi… nulla.
Non può fare altro che ascoltare.
— Alcuni giorni. Vennero a prendermi. Mi mostrarono Malcondotto, morto. Aveva un aspetto… un po’ come il mio di adesso. Diverso. Peggiore. Io non capivo quello che mi dicevano. Era un ronzio monotono, un chiacchierio raschiante. Che suono produrrebbero i cactus, se parlassero? Mi riportarono indietro e mi lasciarono cuocere a fuoco lento, in solitudine, per un po’. Immagino che stessero riesaminando i primi due esperimenti, cercando di capire dove stava l’errore, quali erano gli organi con i quali non ci si poteva gingillare. Mi è sembrato che passasse un milione di anni, nell’attesa che tornassero. Sono tornati. Mi hanno messo su un tavolo. Elisa. Il resto, puoi vederlo tu stessa.
— Ti amo — disse lei.
— Cosa?
— Ti voglio, Minner. Brucio.
— Il viaggio di ritorno è stato solitario. Mi hanno messo nella mia astronave. In qualche modo, potevo ancora governarla. Mi hanno dato via libera. Mi sono messo in viaggio verso il nostro sistema planetario. È stato un pessimo viaggio.
— Ma hai raggiunto la Terra.
Come mai, dunque, sei fuori dell’inferno?
Che dici! L’inferno è questo e non ne sono fuori.
Egli proseguì: — Sì, l’ho raggiunta. Quando sono atterrato, Elisa, avrei voluto parlarti; ma, devi capire, non ero libero delle mie azioni. Mi hanno preso per la gola, al principio. Poi mi hanno mollato e sono fuggito. Devi perdonarmi.
— Ti perdono. Ti amo.
— Elisa…
Lei toccò qualcosa vicino alla sua gola. Le giunture polimerizzate della sua veste resero l’anima. L’abito cadde ai suoi piedi in neri brandelli.
Tanta carne, erompente di vitalità. Ne emanava un calore da cui si sentiva sopraffatto.
— Elisa…
— Vieni, toccami. Con quel tuo strano corpo. Con quelle mani. Voglio sentire quelle cose arricciate che hai sulle mani, che mi accarezzino.
Gli era terribilmente vicina, e poi indietreggiò affinché egli la vedesse interamente.
— Non è giusto, Elisa.
— Ma ti amo! Non lo senti?
— Sì, sì…
— Non ho altro che te. Marco è morto. Tu l’hai visto per ultimo. Sei il mio legame con lui. E sei così…
Egli pensò: tu sei Elena.
— …così bello.
— Bello? Io?
L’aveva detto, Chalk… Lo aveva detto, Duncan il Corpulento, che un sacco di donne sarebbero state pronte a gettarsi ai suoi piedi.
— Per favore, Elisa, copriti.
Ora, una furia si era scatenata in quegli occhi dolci e caldi. — Non sei ammalato! Sei forte!
— Forse.
— Ma mi respingi? — Gli puntò un dito addosso. — Questi mostri… non ti hanno distrutto. Sei ancora un uomo.
— Forse.
— Allora…
— Ho passato dei così brutti momenti, Elisa.
— E io no?
— Tu hai perduto il marito. È una cosa vecchia quanto il mondo. Quel che mi è accaduto è nuovo di zecca. Non voglio…
— Hai paura?
— No.
— Allora mostrami il tuo corpo. Togliti la vestaglia.
Egli esitò. Lei conosceva sicuramente il suo colpevole segreto; l’aveva desiderata per anni. Ma non ci si mette a scherzare con le mogli degli amici, e lei era la moglie di Marco. Ora Marco era morto. Elisa lo fissava, in parte in preda a un desiderio struggente, in parte raggelata dalla collera. Elena, è Elena!
Lei gli si gettò addosso.
Le rotondità carnose fremevano in uno stretto contatto, le sue mani lo stringevano per le spalle. Era una donna alta. Egli vide il balenio dei suoi denti. Poi lei lo baciò, divorandogli la bocca, nonostante la sua rigidità.
Le sue labbra mi suggono l’anima: vedi come vola!
Caddero insieme. Lei aveva i neri capelli appiccicati sulle gote. Ansava, con gli occhi quasi vitrei. Gli agguantò la vestaglia.
Su, Helen, su, ridammi la mia anima.
Ci sono donne che cercano i gobbi, altre gli amputati, altre ancora che bramano i paralitici, gli sciancati, i decadenti. Elisa provava desiderio per lui. Lo invase l’ondata rovente della sensualità. La vestaglia si aprì.
Ed egli si lasciò guardare come era adesso.
Era una prova, ed egli pregò, in cuor suo, che quella donna non la superasse. Invece no. Egli vide, su di sé, le narici frementi, la pelle arrossata.
Mi ha vinto, si disse. Ma salverò qualcosa.
Aggressivamente, la afferrò per le spalle, la rovesciò sul letto.
E questa era l’estrema vittoria femminile: cedere nel momento del trionfo, arrendersi all’ultimo istante.