— Dovresti uscire dalla tua stanza — suggerì dolcemente l’apparizione. — Mostrarti al mondo. Affrontarlo a testa alta. Non c’è nulla da temere.
Burris gemette: — Ancora tu! Ma mi vuoi lasciare in pace?
— Come potrei mai lasciarti? — chiese il suo doppio.
Burris cercò di fissare lo sguardo negli strati di tenebre che si andavano addensando. Quel giorno aveva mangiato tre volte, quindi poteva darsi che fosse notte; non lo sapeva e, comunque, non gliene importava niente. Una fessura lucente gli forniva qualsiasi cibo chiedesse. Quelli che gli avevano riorganizzato il corpo avevano migliorato il suo sistema digestivo senza introdurvi mutamenti radicali. Non era un favore grandissimo; ma egli poteva ancora nutrirsi con alimenti terrestri. Gli enzimi, lo sapeva il cielo da dove venissero; ma erano gli stessi. Pepsina, ptialina, tutta la diligente tribù. Ma, dell’intestino tenue, che ne era stato? Dov’erano finiti il duodeno, l’intestino tenue secondo e l’ileo? Che cosa aveva sostituito il mesenterio e il peritoneo? Tutti andati, spariti; ma in qualche modo gli enzimi facevano il loro lavoro. Così avevano detto i medici terrestri che lo avevano esaminato. Burris sentiva che morivano dalla voglia di dissezionarlo per conoscere in modo più particolareggiato i suoi segreti.
Pazienza, un po’ di pazienza, che diamine. Quel momento sarebbe arrivato. Ma a suo tempo!
E il fantasma della felicità passata non voleva eclissarsi.
— Guarda un po’ che faccia hai — disse Burris. — Come si muovono stupidamente le tue palpebre. In su, in giù, apri, strizza, apri. Che occhi volgari! Hai il naso che ti manda in gola quel che non dovrebbe. Riconosco che, rispetto a te, rappresento un notevole miglioramento.
— Certo. Perciò ti dico: esci e fatti ammirare dall’umanità.
— Quando mai l’umanità ha ammirato un esemplare perfezionato di se stessa? Forse che il pitecantropo si è prosternato al primo uomo di Neanderthal? E questi ha acclamato il cro-magnon?
— Paragone inadatto: non hai superato gli altri con l’evoluzione, Minner. Ti ha cambiato un intervento estraneo. Gli altri non hanno motivo di odiarti per ciò che sei.
— Non occorre che mi odino. Basta che stiano a fissarmi con tanto d’occhi. Inoltre, sto male. È più facile restarmene qui.
— Il tuo male è davvero così difficile da sopportare?
— Mi sto abituando — disse Burris. — Però ogni movimento è una trafittura. Quegli Esseri erano solo allo stadio sperimentale. Hanno fatto i loro piccoli sbagli. Prendi, per esempio, quella camera supplementare del cuore: a ogni sua contrazione, me la sento in gola. E queste mie budella lucenti e permeabili: passano il cibo e io ho dei dolori. Dovrei uccidermi. È la migliore liberazione.
— Cerca conforto nella letteratura — consigliò l’apparizione. — Leggi. Un tempo leggevi. Eri assai istruito, Minner. Tremila anni di letteratura a disposizione. Parecchie lingue diverse. Omero. Chaucer. Shakespeare.
Burris guardò il viso sereno dell’uomo che era stato. Recitò: — Moder, merci; let me deye.
— «Madre, pietà, lasciami morire.» Finisci la strofa.
— Il resto non è pertinente.
— Finiscilo lo stesso.
Burris disse: — For Adam ut of helle beye and manken that is forloren.
— Muori, allora — disse blandamente il fantasma. — «Per riscattare dall’inferno Adamo e gli uomini perduti.» Altrimenti, vivi. Di’ un po’, Minner, ti prendi forse per Gesù?
— Egli patì per mano di stranieri.
— Per redimerli. Andrai a Manipol e morirai sulla soglia di quegli Esseri, per redimerli?
Burris alzò le spalle. — Non sono un redentore. Sono io che ho bisogno di essere redento. Sono ridotto male.
— Ricominci a piagnucolare? «Figlio, vedo il tuo corpo appeso, il tuo petto, le tue mani, i tuoi piedi trafitti…»
Burris fece un viso arcigno. Il suo nuovo viso andava benissimo per l’aria arcigna: le labbra si arricciavano in fuori, come un diaframma a iride quando si apre, scoprendo lo steccato regolarmente intervallato dei denti indistruttibili. — Che vuoi da me? — chiese.
— Tu, piuttosto, che vuoi?
— Spogliarmi di questa carne. Riavere il mio corpo di un tempo.
— Cioè, un miracolo. E vuoi che il miracolo ti accada fra queste quattro mura?
— Un posto come un altro. Che ne vale un altro.
— No. Va’ fuori. Chiedi aiuto.
— Fuori, ci sono stato. Mi hanno palpato e punzecchiato. Non aiutato. Che dovrei fare? Vendermi a un museo? Vattene, fantasma della malora! Via! Via!
— Il tuo redentore vive — disse l’apparizione.
— Dammi l’indirizzo.
Non ebbe risposta. Fissava una ragnatela di tenebre. Nella camera, il silenzio faceva le fusa. Burris, sentì pulsare l’irrequietezza. Il suo corpo di adesso era concepito in modo da conservare la buona forma fisica nonostante la totale mancanza di esercizio: un corpo perfetto per un viaggiatore dello spazio. Adatto a vagare di stella in stella e sopportare il silenzio all’infinito.
Era capitato così, a Manipol. Se l’era trovato sulla sua strada. Fra le stelle l’uomo era un nuovo venuto, che si era lasciato da poco alle spalle i suoi pianeti. Là fuori non si poteva mai sapere che cosa si sarebbe trovato o che cosa ti sarebbe capitato. Burris aveva avuto fortuna: era sopravvissuto. Gli altri giacevano in tombe felici sotto un sole screziato. Malcondotto e Prolisse, i due italiani, non erano usciti vivi dal tavolo chirurgico. Erano stati la prova generale per lui, capolavoro di Manipol. Burris aveva veduto Malcondotto morto, dopo che avevano smesso di manipolarlo: riposava in pace. Sembrava così tranquillo, ammesso che un mostro possa sembrar tranquillo, sia pure da morto. L’aveva preceduto Prolisse. Che cosa gli avessero fatto, Burris non l’aveva veduto. Tanto meglio.
Alla partenza per le stelle, Burris era un uomo civile, sveglio, di mente flessibile. Non c’era andato come grattatubi o spazzaponti, ma come ufficiale, prodotto numero uno dell’umanità, munito della più alta preparazione matematica e topologica. Con la mente imbottita di gemme letterarie. Un uomo che aveva conosciuto l’amore e la cultura. Burris era lieto, adesso, di non essersi sposato. L’astronauta che si sposa è un imprudente; peggio ancora se torna dalle stelle trasformato, ad abbracciare l’amata di un tempo.
Riapparve lo spettro: — Consulta Aoudad — consigliò. — Ti condurrà da chi ti può aiutare. Farà nuovamente di te un uomo completo.
— Aoudad?
— Aoudad.
— Non voglio vederlo. Burris si ritrovò solo.
Si guardò le mani. Le dita erano fini, affusolate, essenzialmente invariate, tranne che per un tentacolo prensile che gli Esseri avevano innestato da entrambi i lati di ogni falangetta. Era un altro dei loro giochetti. Sarebbe stato utile se gli avessero messo un paio di quei tentacoli sotto le braccia. O gli avessero dato una coda prensile, rendendolo capace di dondolare di ramo in ramo come una scimmia brasiliana. Ma a che pro quei due affaretti muscolari, cordonati, grossi quanto una matita e lunghi sette centimetri? Egli notò per la prima volta che gli avevano allargato la mano, in modo che potesse accogliere la nuova digitazione senza alterare le proporzioni. Bontà loro! Burris andava scoprendo giorno per giorno nuove sfaccettature della propria “novità”. Pensò a Malcondotto che era morto. Pensò a Prolisse che era morto. Pensò ad Aoudad. Aoudad? Com’era concepibile che Aoudad potesse aiutarlo in qualche modo?
L’avevano steso su un tavolo operatorio, o meglio, su quello che a Manipol ne era l’equivalente, un affare pencolante. L’avevano misurato. Che cosa avevano controllato? Temperatura, pulsazioni, pressione, peristalsi, dilatazione della pupilla, assorbimento di iodio, funzioni dei capillari, quante altre cose? Avevano applicato dei calibri per misurare il velo salino dei suoi bulbi oculari. Avevano calcolato il volume del contenuto in cellule del suo dotto seminale. Avevano individuato i tracciati dell’eccitamento nervoso per poterli inibire.
Anestesia. Riuscita.
Chirurgia.
Sollevare la corteccia. Cercare la pituitaria, l’ipotalamo, la tiroidea. Calmare lo sfarfallio dei ventricoli. Discendere con dei bisturi minuscoli, impalpabili, nelle connessioni. Galeno sospettava che il corpo fosse solo un sacco di sangue. C’era un sistema circolatorio? C’era una circolazione? Su Manipol, gli Esseri avevano imparato i segreti della struttura umana con facilità, in tre lezioni. Prolisse, Malcondotto, Burris. Ne avevano sprecati due. Il terzo aveva superato la prova.
Avevano allacciato i vasi sanguigni. Avevano messo allo scoperto la setosità grigia del cervello. Qui, l’indurimento di Chaucer. Qui “l’aratore di Pietro”. Qui l’aggressività. L’impulso vendicativo. La percezione sensoria. La carità. La fede. In questo rigonfio lucente stavano Proust, Hemingway, Mozart, Beethoven, Rembrandt.
Egli aspettava che cominciassero, sapendo che Malcondotto era perito sotto le loro cure e che Prolisse, scorticato e fatto a pezzettini, era morto. («Fermatevi, sfere celesti in perpetuo moto, affinché il tempo si arresti e mezzanotte non venga.») Mezzanotte era venuta. I coltelli taglienti erano affondati nel suo cervello. Indolori. Sapeva che sarebbero stati indolori, eppure temeva di soffrire. Il suo unico corpo, il suo io insostituibile. Egli non aveva fatto niente, a costoro. Era venuto con completa innocenza.
Da bambino, giocando, si era fatto un taglio a una gamba, un’incisione profonda, che si spalancava a mostrare la carne viva all’interno. “Uno sfregio” pensò “sono sfregiato”. Gli era schizzato il sangue sui piedi. Il taglio era stato richiuso, sia pure meno velocemente di quanto non si facesse oggi; ma osservando la riga rossa della ricucitura, egli aveva meditato sul cambiamento che si era prodotto. Mai più la sua gamba sarebbe stata la stessa di prima, poiché avrebbe sempre portato la cicatrice della ferita. Ciò, a dodici anni, lo aveva rimescolato profondamente: un cambiamento così radicale, così permanente, nel suo corpo. Pensò a questo negli ultimi istanti, prima che gli Esseri si mettessero al lavoro. («Venite, colline e montagne, venite, crollatemi addosso, per nascondermi alla collera furibonda di Dio! No, no! Allora mi precipiterò nella terra a capofitto: terra, spalancati!»)
Comando vano.
(«Oh, no, non mi accoglierà!»)
Un rapido giretto dei coltelli silenziosi, ed ecco andati i nuclei del midollo che ricevono gli impulsi dal meccanismo del vestibolo auricolare. I gangli. I bronchi con i loro anelli cartilaginosi. Gli alveoli, spugne stupefacenti. L’epiglottide. Il dotto deferente. I vasi linfatici. Le ramificazioni dendritiche. I dottori erano assai incuriositi: come funziona questa stupefacente creatura? Di che è fatta?
Lo smontarono finché fu tutto posato, in distesa, eterizzato, su una tavola che si allungava all’infinito. Era ancora vivo, a quel punto? Fasci di nervi, staia d’intestini. («Ora, corpo, tramutati in aria, o Lucifero ti porterà rapidamente all’inferno! Anima, cambiati in goccioline e cadi nell’oceano, affinché non ti si ritrovi mai più!»)
Pazientemente, l’avevano rimesso insieme. Avevano rifatto il montaggio, grazie a un lavoro noiosissimo, perfezionando, dove lo ritenevano opportuno, il modello originale. Poi, senza dubbio molto orgogliosi della propria opera, quelli di Manipol l’avevano rispedito alla sua gente.
(«Non venire, Lucifero!»)
— Consulta Aoudad — consigliò l’apparizione.
Aoudad? Aoudad?