Anche prima di aprire gli occhi, Loren sapeva esattamente dove si trovava, e ciò lo sorprese molto. Dopo aver dormito per duecento anni sarebbe stato più che comprensibile avere un po’ di confusione in testa; invece gli sembrava di aver fatto solo il giorno prima l’ultima annotazione sul libro di bordo. E non pareva nemmeno di aver sognato. Ringraziò il cielo per questo.
Continuando a tenere gli occhi chiusi si concentrò sugli altri organi di senso, uno alla volta. Sentiva un mormorio sommesso di voci, un suono sereno e rassicurante. C’era il sussurro familiare degli scambiatori d’aria, e infatti percepiva una debole corrente d’aria dal gradevole profumo di disinfettante sfiorargli il volto.
L’unica sensazione che non percepiva era quella del peso. Alzò il braccio destro senza il minimo sforzo, e il braccio rimase sospeso nell’aria in attesa di ulteriori ordini.
«Salve, signor Lorenson» disse una voce scherzosamente sfottente.
«Finalmente si è degnato di unirsi a noi. Come si sente?»
Loren aprì gli occhi e cercò di metterli a fuoco sulla vaga forma che fluttuava accanto al suo letto.
«Salve… dottore. Mi sento bene. E ho fame.»
«Buon segno. Si può rivestire. Non faccia movimenti bruschi, per qualche tempo. In seguito deciderà se si vuol tenere quella barba o se preferisce tagliarsela.»
Loren spostò il braccio ancora sospeso a mezz’aria e si toccò il mento; la barba era parecchio lunga, e ciò lo sorprese. Come la maggior parte degli uomini, non aveva voluto saperne della depilazione permanente — gli psicologi avevano scritto libri interi sull’argomento. Forse era arrivato il momento di decidersi. Era strano che gli venisse da pensare a queste sciocchezze in un momento come quello.
«Siamo arrivati? È tutto a posto?»
«Certo. Altrimenti starebbe ancora dormendo. Tutto è andato come previsto. La nave ha cominciato a svegliarci un mese fa. Ora siamo in orbita attorno a Thalassa. Gli addetti alla manutenzione hanno controllato tutti i sistemi; adesso tocca a lei. E c’è anche una piccola sorpresa.»
«Piacevole, spero.»
«Lo speriamo tutti. Il capitano Bey ha convocato una riunione tra due ore. Se ancora non se la sente di muoversi può guardare da qui.»
«Verrò anch’io. Voglio rivedere tutti quanti. Posso fare colazione, prima? È passato tanto tempo…»
Il capitano Sirdar Bey aveva l’aria stanca ma soddisfatta quando accolse le quindici persone appena risvegliate e le presentò alla trentina di uomini che al momento formavano l’equipaggio A e B. Secondo il regolamento di bordo l’equipaggio C avrebbe dovuto essere in branda, ma molte figure se ne stavano in fondo alla sala cercando di non farsi notare.
«Benvenuti tra noi» disse il capitano ai nuovi arrivati. «Fa piacere vedere in giro qualche faccia nuova. E dà ancora più soddisfazione vedere un pianeta sotto di noi e sapere che la nave ha svolto per duecento anni la prima fase della sua missione senza nessuna anomalia. Ecco Thalassa, in orario perfetto.»
Tutti si volsero verso il grande schermo che occupava gran parte di una parete. Parte di esso riportava i dati relativi alle condizioni della nave, ma la sezione centrale pareva una finestra aperta sullo spazio. Vi appariva l’immagine, bella da lasciar senza fiato, di un globo bianco e blu quasi completamente illuminato. Probabilmente tutti si erano accorti con un tuffo al cuore che assomigliava moltissimo alla Terra vista da sopra il Pacifico: quasi tutto mare, con poche terre emerse molto distanziate tra loro.
E c’era un arcipelago: tre isole molto vicine, in parte nascoste dalle nubi.
A Loren venne da pensare alle Hawaii, che non aveva mai visto e che non esistevano più. Ma c’era una differenza fondamentale tra i due pianeti.
L’altro emisfero della Terra era composto per lo più da terre emerse, mentre l’altro emisfero di Thalassa era soltanto oceano.
«Ecco qui» disse il capitano con orgoglio. «Proprio come chi ha predisposto la missione aveva previsto. C’è però un particolare inatteso, e di cui dobbiamo necessariamente tener conto.
«Come ricorderete, Thalassa fu inseminata da un modulo Mark 3A da cinquantamila unità partito dalla Terra nel 2751 e giunto a destinazione nel 3109. Tutto andò bene, e le prime trasmissioni continuarono a intermittenza per duecento anni, e quindi s’interruppero di colpo dopo un breve messaggio in cui si riferiva un’eruzione vulcanica di grandi proporzioni. Dopo di che non si sentì più nulla, e se ne concluse che la nostra colonia su Thalassa era stata completamente distrutta… o ricaduta nella barbarie, come sembra sia avvenuto in numerosi altri casi.
«Ora riassumerò, a beneficio di coloro che sono stati appena risvegliati, quanto abbiamo scoperto. Certo appena entrati nel sistema ci siamo posti in ascolto su tutte le frequenze. Non abbiamo sentito nulla, neppure qualche interferenza prodotta da motori elettrici.
«Quando ci fummo ulteriormente avvicinati ci siamo resi conto che ciò non dimostrava nulla. L’atmosfera di Thalassa è molto densa. Ci possono essere tutte le emissioni a onde corte e medie sulla superficie del pianeta senza che fuori dell’atmosfera si senta nulla. Naturalmente le microonde potrebbero agevolmente uscire dalla ionosfera, ma può essere che a loro non servano, o che noi non le abbiamo intercettate.
«Comunque sia, lì sotto c’è una civiltà ben sviluppata. Abbiamo visto le luci delle loro città, o per meglio dire, cittadine. Hanno molti piccoli impianti industriali e un certo traffico marittimo. Solo imbarcazioni piccole, però. Abbiamo anche individuato un paio di aerei che non superavano i cinquecento all’ora: quanto basta per arrivare ovunque nell’arcipelago in un quarto d’ora.
«È evidente che il trasporto aereo non è indispensabile trattandosi di distanze così brevi, e la rete stradale è ottima. Però non siamo ancora riusciti a captare nessuna comunicazione. E non hanno satelliti artificiali.
Neppure i satelliti meteorologici, che potrebbero far loro comodo… ma forse no, visto che molto di rado le loro navi perdono di vista la terra.
Anche perché non c’è altra terra cui approdare, naturalmente.
«Questa è dunque la situazione. Una situazione interessante, e anche sorprendente. Una sorpresa piacevole. Almeno, così spero. Domande? Sì, signor Lorenson?»
«Abbiamo provato a metterci in contatto, signore?»
«Non ancora; abbiamo preferito aspettare di conoscere il livello della loro cultura. Potrebbe essere un notevole shock, per loro.»
«Dunque non sanno che siamo arrivati?»
«Non credo.»
«Ma il nostro sistema di propulsione… quello devono averlo visto per forza!»
L’affermazione era ragionevole, giacché un motore quantico a piena potenza era uno degli spettacoli più prodigiosi mai messi in scena dall’uomo. Splendeva quanto una bomba atomica, ma la luce durava molto più a lungo: qualche mese invece che qualche millisecondo.
«Forse, ma ne dubito. Eravamo dall’altra parte del sole quando abbiamo decelerato. Non credo che possano averci visto.»
Quindi qualcuno fece la domanda che tutti avevano in mente.
«Capitano, in che misura ciò modifica la nostra missione?»
Il capitano fissò pensieroso chi aveva fatto la domanda.
«A questo punto è ancora impossibile dirlo. Qualche centinaio di migliaia di altri esseri umani — a tanto ammonta la popolazione, a occhio e croce — potrebbe renderci le cose molto più facili. O se non altro, molto più piacevoli. D’altra parte, se non ci trovano simpatici…»
Si strinse nelle spalle in modo molto espressivo.
«Vi ricordo il consiglio che un esploratore dei tempi andati dava ai suoi colleghi. Se partite dal presupposto che gli indigeni sono amichevoli, di solito sono amichevoli per davvero. E viceversa.
«Così fino a prova contraria partiremo dal presupposto che sono amichevoli. In caso contrario…»
Il volto del capitano si fece duro, e la voce divenne quella del comandante che ha appena portato la sua nave attraverso cinquanta anni luce di spazio vuoto.
«Io non sono mai stato del parere che la forza sia la stessa cosa del diritto, però dà lo stesso un gran senso di sicurezza sapere di essere forti.»