9. Un pomeriggio con Luther

Durante la prima domenica trascorsa coi Phoenix, Toodles disse a Zoe che, nonostante fosse il suo turno di passare il pomeriggio con Luther, sarebbe stata contenta se fosse andata lei al posto suo. — Non mi sento molto bene — spiegò. — E oltretutto per me questo è l’unico modo per essere veramente ospitale, non pensi? — Seduta sul letto, con le spalle coperte dall’orribile vestito Fujiyama di Yuichan, Toodles stava mangiando una brioche che un servomeccanismo simile ad un carrello aveva portato dalla cucina nella camera da letto comune. Un po’ di gelatina di pesche sintetiche le era finita sul labbro superiore e le aveva disegnato un baffo candito; Zoe cercò un tovagliolino per ripulirla.

— Se davvero non stai bene, perché ti ostini a mangiare dolci?

Toodles ammiccò. — Conosci il vecchio detto: la frutta in gelatina è come una medicina. Io la prendo adesso, così non avrò bisogno di un’altra dose questo pomeriggio.

— «Passare il pomeriggio» significa ciò che i giovani sfaccendati chiamano «rosolarsi»? — Perché lo aveva chiesto? Conosceva già la risposta. Parthena e Helen si trovavano fuori, da qualche parte nel West Peachtree per assistere a una funzione Orto-Urbanista; Paul era sveglio nella camera di fronte, e Jerry e Lutner si erano entrambi alzati presto per scendere nell’ingresso, verso la sala comune. Zoe aveva declinato l’invito di andare alla funzione con Parthena e Helen. Ma adesso avrebbe voluto essere insieme a loro.

— Tu non sei un tipo sveglio, Zoe — disse Toodles. — Avrei dovuto essere più esplicita, ma questo mette in imbarazzo Errol.

— Errol?

Dopo aver scostato le coperte e aver disteso la gamba appesantita, Toodles posò il piede calloso sul piano del servomeccanismo. — Errol — ripete. Il carrello ebbe un sussulto e si ritrasse, ma Toodles fu pronta a levare la gamba, evitando una caduta rovinosa. Una ciambella cadde a terra. — Errol è capriccioso… Non pensi di risparmiarti per dopo la cerimonia del contratto?

— Be’, ho dovuto risparmiarmi così tante volte che ora i miei interessi sono ben più cospicui dei miei principi. — Quella era la battuta finale di una storiella che Rabon raccontava spesso. Non si confaceva al carattere prudente e persino un po’ scettico di Zoe, ma si addiceva perfettamente a quello di Toodles: lei ne fu compiaciuta. Mi diverto sempre con il mio pubblico, pensò Zoe; non se ne può fare a meno. E poi ad alta voce, cercando di rimediare, — Non sono mai stata una che si lascia baciare al primo appuntamento, Toodles; non sono il tipo.

— Oh, neppure io. Tuttavia hai già dormito nella stessa camera coi Phoenix. Non è come se fossi andata a letto con qualche sporco ruffiano.

Finalmente si pulì il baffo di gelatina dal labbro superiore. — Ti prego, dimmi di sì. Luther se la prende facilmente. — Sfiorando il suo piccolo, dorato telecomando, Toodles richiamò Errol (il quale, Zoe notò con un certo fastidio, era un piagnucolone) più vicino al letto, per poter afferrare un altro dolce.

— E va bene — disse Zoe, ma come se fosse stato qualcun altro a rispondere.

Così quel pomeriggio lei e Luther passeggiarono per i cortili pedonali all’esterno del Ricovero Geriatrico e poi si fermarono a pranzo in un piccolo ristorante che pareva interamente rivestito di specchi; era nascosto sotto il cornicione di pietra di un edificio molto più alto, alle finestre c’erano delle verdi tapparelle di vimini per schermare la luce abbagliante delle lampade diurne della cupola. Rabon avrebbe detto che esse conferivano un’atmosfera particolare al locale.

Presero posto in un divanetto di finta pelle, fiancheggiato da due felci che impedivano di vedere l’entrata, e bevvero scotch e acqua in attesa del cameriere per le ordinazioni. Un brindisi. Be’, era una cosa che gli Editti di Soppressione non avevano dichiarato illegale. Si poteva bere tranquillamente dopo aver assistito alle funzioni Orto-Urbanistiche e, a quanto pare, era esattamente ciò che stava facendo la metà delle persone nel locale. L’altra metà si divideva dei narghilè, lasciando che le esili volute di fumo scivolassero fra le felci decorative.

— Il cibo è buono — disse Luther. — Qui sanno come procurarselo. — Zoe notò che era un po’ nervoso. Teneva appoggiate le sue grandi mani sul tavolo, le lasciava cadere sulle ginocchia, beveva un sorso del suo drink, e poi tornava a posarle goffamente sul tavolo. — Sei seccata dal fatto che Toodles ti abbia messo in questa situazione? — chiese, le sopracciglia aggrottate in modo ridicolo.

— Luther, sono stati mia figlia e mio genero a mettermi in questa situazione, e non Toodles. E loro due non si rendono neppure conto del favore che mi fanno.

Queste parole lo tranquillizzarono, anche più dello scotch. Poi le rivolse alcune domande sulla sua famiglia e le parlò di sé. Arrivarono le portate: un menù vegetariano a base di fagioli, zucchine, pomodori (cotti) e svariate qualità di verdure ibride, il tutto proveniente da colture idroponiche; Luther continuava a parlare, tra un boccone e l’altro. Un borbottio ovattato.

— Sono nato lo stesso giorno dell’assassinio del dottor King — disse ad un certo punto. — Questo spiega il mio nome. Ma la cosa peggiore è che ho vissuto abbastanza per vedere ripetersi quel genere di cose, prima della costruzione delle cupole, e anche dopo. Non avevo ancora sei anni quando vidi un giovane sparare alla moglie di Martin Luther King, Sn., e a molte altre persone proprio nella sua chiesa. Che è anche la mia chiesta. Poi, altri morirono dopo che la cupola venne ultimata. L’ultimo è stato quel giovane Bitler e sono ormai undici anni da quando abbiamo sfilato l’ultima volta per seppellire qualche brav’uomo.

«Sai, quell’anno ero così pieno di disgusto che ebbi la tentazione di suicidarmi, di tagliarmi le vene. Una volta, quando potevi respirare liberamente, quando potevi sollevare lo sguardo e vedere il sole e la luna, c’erano degli uomini che nascevano proprio nell’anno in cui una cometa attraversava il cielo, ed essi attendevano il suo ritorno per tutta la vita, e solo allora potevano morire. Quell’anno ero così depresso da credere che fosse destino che Luther Battle fosse nato e dovesse morire con l’assassinio di un uomo.

«Ma nel ’29 ormai lavoravo da trentadue anni per la Compagnia McAlpine, e c’era parecchio lavoro, quell’anno. Bitler aveva fatto arrabbiare un sacco di gente, e molti avevano dovuto alzare le chiappe.

«In seguito al suo assassinio, si verificò ogni tipo di protesta per spazzare via ogni ghetto di superficie e per costruire delle case decenti sopra le strade, anziché sotto. Io facevo parte delle squadre di demolizione, non di costruzione. Avevo sessant’anni, e sfogavo la rabbia e il dolore abbattendo vecchie abitazioni: era l’unico modo in cui potevamo fare qualcosa per noi stessi. Quell’anno ordinai la demolizione di quindici edifici, riuscendo a far crollare i muri con estrema precisione e liberando il terreno dalle macerie in breve tempo. Gru, scavatrici, trattori, camion, e tutti si davano da fare perché ero io ad ordinarglielo. C’era solo una cosa che mi impediva di impazzire, Zoe: abbattere i gabinetti del secolo scorso con attrezzi della stessa epoca. Poi quell’ondata si esaurì, i contratti di lavoro cominciarono a scarseggiare e il Consiglio Urbano non fece niente per incrementarli di nuovo. Così adesso abbiamo ancora dei maledetti ghetti ad Atlanta, contrariamente a ciò che dicono i rapporti del servizio d’ordine. Bondville è uno dei peggiori. Il figlio e il nipote di Parthena vivono ancora là… Ma quell’anno terribile passò, ed io sono sopravvissuto, Zoe.

«Quindi me ne sono andato in pensione. Ho vissuto da solo al Livello 7, là sotto, proprio come avevo fatto durante tutti gli anni in cui lavorai per la McAlpine. La Compagnia era stata la mia famiglia fin dal ’97. Mio padre e mia madre ebbero fortuna: morirono prima di vedere una cupola sopra le loro teste. Mentre io non fui fortunato: dovetti continuare a firmare per la McAlpine e contribuire alla costruzione di quella dannata cosa lassù.

— Anche tu hai partecipato alla costruzione? — chiese Zoe. Non aveva mai conosciuto nessuno che lo avesse fatto, o meglio nessuno che lo avesse ammesso.

— Sì. Vi erano impegnate dodici squadre di imprese diverse che lavoravano indipendentemente sulla base di un progetto elaborato da un computer dell’Est o forse della California. Eravamo in ritardo di un anno rispetto a New York e a Los Angeles, dicevano quelli della McAlpine, e dovevamo recuperare. E la stessa cosa dicevano nel ’97, quando mi assunsero, tre anni dopo l’inizio del Progetto Cupola; e mai nessuno chiese perché diavolo avremmo dovuto metterci alla pari con New York e L.A. in questa folle impresa. Prima del progetto, la maggior parte di noi era senza un lavoro: così restammo zitti e cogliemmo al volo quell’occasione di guadagno che la città offriva. Proprio così, Zoe. Incominciammo una piramide, un’enorme e antica tomba in cui barricarci per non uscirne mai più. In Egitto, gli schiavi avevano dovuto lavorare per vent’anni per costruire la Stanza Mortuaria per il Faraone, ma non dovettero poi restare chiusi là sotto. Noi abbiamo fatto di meglio. Abbiamo costruito la nostra in dieci anni, e in modo tale da metterci il coperchio dall’interno. Non c’era nessun Mosè a dirci: «Ehi, aspettate un momento: non vorrete vivere per sempre in questo posto!». Ma noi guadagnavamo discretamente, anche se eravamo pagati in dollari UrNu, e non pensavamo che un giorno non si sarebbe potuta scorgere neppure una piccola porzione di cielo, neppure un po’ di blu per colorare un paio di jeans. Fu un’avventura. Nessuno pensava ad una seconda, faraonica schiavitù. Neppure io. Anche quando mi assunsero nella McAlpine, mi sentivo come se io fossi il capo di chissà cosa.

— Come si svolse?

— Be’, dovevamo salire sulle sezioni dell’impalcatura della cupola già completate, e vi salivamo con le navette, come quelle che di sera vedi sfrecciare con i riflettori accesi. Si lavorava sulle piattaforme o sull’intelaiatura delle navette, e si era sempre lassù, sovrastando l’intera zona, e si poteva vedere ogni cosa, anche quando il vento ti investiva come se volesse ridurre a pezzi e brandelli tutta la tua dura fatica. Il Monte Stone. Parecchi laghi. Le montagne di Gainesville.

«E il kudzu, Zoe, kudzu come non l’hai mai visto o come non riesci neppure a ricordare. Quel rampicante impazzito serpeggiava su ogni cosa, pali telefonici e granai che crollavano al suolo, comprese alcune palazzine della città e i condomini che aveva cominciato ad intaccare verso la fine del secolo. Il mondo intero era diventato verde e stava forse morendo a causa del kudzu, così verde da farti male agli occhi. E là in cima, Luther Battle si sentiva Cheope, Re Tut o qualunque altro di quei bastardi che si fecero costruire le tombe più gigantesche. Ma non mi sono mai chiesto: «Hoooi! Luther, perché lo facciamo?».

Dopo mangiato, Zoe e Luther tornarono al ricovero e presero l’ascensore della Torre per raggiungere il quarto piano. Anche se sulla via del ritorno lungo i cortili pedonali, lei non glielo aveva permesso, ora, nell’ascensore lasciò che lui la prendesse la mano. Dieci anni dopo aver lavorato per la McAlpine, lui aveva ancora le mani callose, o coi segni di vecchi calli. Nell’ascensore era di nuovo imbarazzato, come se la sua conversazione durante il pranzo fosse stata uno sfogo che lo avesse lasciato indifeso e insicuro di sé. Be’, anche lei si sentiva in imbarazzo. Soltanto che Luther aveva un vantaggio: si notava meno quando arrossiva.

Quando furono nella stanza comune, che era rimasta deserta per una sorta di tacito accordo, Luther la condusse vicino al suo letto e fece scorrere i paraventi automatici. Rosolarsi, questo era il termine ora usato dai giovani. E a lei andava bene, anche se aveva qualche riserva su ciò che sembrava suggerire, e non perché Luther fosse un drago ansimante quando lo faceva. No, ma solo perché era passato molto tempo. Rabon era stato l’ultimo, naturalmente, e questa prontezza nell’accettare le regole dei Phoenix la sorprese un poco. Per anni aveva subito un processo di… (qual era la divertente volgarità usata da Melanie?) mummificazione, e non ci si poteva aspettare che lei si liberasse del sudario, dei balsami e degli altri conservanti, e che uscisse da un limbo durato molto a lungo in un solo pomeriggio.

Così quel giorno Zoe provò solo l’amara eccitazione del dolore, nonché la rapidità di Luther. Ma con il passare delle domeniche — la successiva con Paul, quella seguente con Luther, quella ancora dopo con Paul, e così via, secondo l’inclinazione ed una scaletta tutt’altro che rigida — le cose migliorarono. Poiché non era mai veramente morta, non ci volle un tempo così lungo come per l’ipotetica resurrezione di un Faraone. Assolutamente no. Perché lei era Zoe, Zoe Breedlove, e ormai non ricordava più il suo nome da ragazza.

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