Quasi tre mesi (secondo il vecchio calendario) dopo essere entrata nel Ricovero Geriatrico non come paziente o prigioniera, ma come una vera e propria libera residente, una sera Zoe andò a sedersi sul terrazzo e ripensò alle fasi del suo lento ingresso nell’unità Phoenix. Aveva già cenato: nello stomaco e nell’intestino c’era un piacevole tepore.
La famiglia avrebbe deciso abbastanza in fretta. Quando si precipita verso i settanta o gli ottant’anni, come verso qualunque altra cosa che non sia la morte, i lunghi corteggiamenti sono folli quanto quelli impetuosi. Tre mesi erano tanti per decidere, forse troppi. Comunque adesso la stavano formalmente prendendo in considerazione, e poteva darsi che, mentre le offrivano quest’ora di solitudine, questo momento retrospettivo sul terrazzo oscurato, loro stessero già iniziando la procedura per la decisione ufficiale. C’era da dubitarne? Non erano stati impegnati in questo senso durante i giorni che Zoe aveva vissuto al loro fianco, partecipando alla loro vita?
Quella sera vide una navetta, e dei colombi che volavano in stormo descrivendo ampie volute attorno ad un’insegna al neon della Coca-Cola.
Uno sguardo a quanto era accaduto durante gli ultimi tre mesi V. Cal.: come prima cosa aveva scoperto che le Unità Settigame della Torre non risiedevano qui come semplici beneficiarie, come moltissimi poveri mendicanti che percepivano il sussidio di vecchiaia. La maggior parte di loro aveva versato regolarmente denaro per i programmi medicaid e futuro-sicuro della città; dal 2035, l’anno in cui erano cominciati gli studi del dottor Leland, i contributi trimestrali di tutti i residenti del ricovero erano stati messi in comune e investiti. L’operazione avvenne col consenso dei residenti, e solo un numero esiguo di essi si rifiutò di affidare la gestione dei loro interessi alla Commissione per lo Sviluppo Umano UrNu. E contro questa minoranza non vi fu alcuna ritorsione. In ogni caso i dividendi degli investimenti comuni e gli interessi ricavati da operazioni sicure provvedevano al vitto e all’alloggio dei residenti e garantivano loro anche dei fondi personali ai quali attingere. Inoltre costituivano un aiuto economico per le famiglie superstiti di coloro che venivano ammessi a collaborare nella ricerca.
Ogni famiglia aveva il suo contabile: Helen era quello dei Phoenix e, inforcando quei piccoli occhiali scuri che l’aiutavano a vedere, aggiornava i registri come una esperta C.P.A. (anche se ora la sigla era C.U.A., ricordò Zoe). Altre volte usava la sua macchina da scrivere Braille. Perciò gli abitanti della Torre non vivevano di sussidi, benché Zoe dovesse ammettere che la buona amministrazione del ricovero era dovuta all’impegno e all’abilità affaristica di chi gestiva i loro beni. Ma questo inconveniente era parzialmente evitato sia dal contabile di ogni Unità Settigama che faceva parte della Commissione di Pianificazione Finanziaria, sia dai ragguagli forniti dalle previsioni di mercato elaborate dai computer.
Giù al Livello 3 con Sanders e Melanie, i dividendi trimestrali venivano divorati come farina d’avena speziata solo un giorno o due dopo l’emissione degli estratti conto del programma futuro-sicuro. I Noble avevano versato l’intero importo, senza neppure una ricevuta, per garantire a Zoe il privilegio di vivere insieme a loro. Solo l’arrivo del bambino e la prospettiva di una restituzione totale della somma da parte della commissione li avevano indotti a liberarsi di Zoe. Come uno scambio di prigionieri, o la vendita di uno schiavo decrepito e ribelle. Sissignore, pensava Zoe: venduta lungo il fiume. Ma un fiume da cui era possibile volare via come un uccello luminoso, stillante di luce come se fosse acqua. Zoe era un vecchio uccello; un uccello di fuoco rinato nel Lete, ovvero nella negligenza e trascuratezza di Sanders e Melanie.
— Uno sfogo di autocommiserazione — disse Zoe a voce alta, rimanendone sorpresa. Sopra di lei, la navetta illuminata aveva quasi raggiunto l’apice della cupola.
Che altro ricordava? Che altro? Un mucchio di cose. Aveva conosciuto i membri di altre unità settigame, gli O’Possum, i Cadillac, i Greypanthers e, oh! anche tutti gli altri. C’era stato un party in giardino, un sabato sera, con rinfreschi, musica, e frivoli addobbi di carta. Gli assistenti del Ricovero avevano chiuso le finestre del patio, avevano provveduto ad isolare acusticamente le stanze del settore di cura intensiva, e poi tutti quanti se ne erano andati in città. Era presente anche il giovane Leland, dietro loro invito, e nessuno dei Phoenix, tranne Paul, se ne andò a dormire prima delle quattro del mattino. Dopo mezzanotte, Toodles aveva trascinato tutti in un’allegra, cacofonica versione di «Ef Ya Gotta Zotta».
Poi, c’erano le domeniche pomeriggio, trascorse da sola con Paul o Luther e qualche volta, ma solo qualche volta, con una delle ragazze. Durante la settimana avevano visitato il Museo d’Arte di Atlanta (— Maledettamente noioso —, aveva detto Paul), la Consolidated Rich’s e i mercatini delle pulci nel parco pedonale. Quindi andarono due volte all’opera (il teatro aveva una struttura circolare), dove videro un paio di olofilm interessanti, approvati dal consiglio. Non furono male: senza trama e un po’ ingenui, ma discreti. Nel loro appartamento del quarto piano potevano proiettare vecchie pellicole bidimensionali; e proprio a cominciare dal giorno dell’arrivo di Zoe, i Phoenix avevano organizzato un ciclo dedicato a Rock Hudson e un seminario scherzoso intotolato «Estetica del Cinema vietato ai minori alla fine del Ventesimo secolo», durante il quale Jerry tolse l’audio e si mise a dissertare in modo parodistico, servendosi del fermoimmagine e di una freccetta indicatrice.
Dopo una di queste lezioni, quando il terrazzo rimaneva a loro disposizione, Luther e Zoe avevano preparato un campo da croquet; e tutti, tranne Jerry, con una temperatura di 23 °C (benché i meteorologi avessero previsto uno o due giorni di frescura), tutti giocarono senza vestiti! Nudi, come diceva Helen. E quella era stata una delle poche occasioni che non richiedevano una particolare attenzione ai dettagli (come cucire, ritirare i piatti, prendere dei libri), occasioni in cui Helen doveva mettersi gli occhiali. Soltanto gli occhiali, se non si conta il braccialetto trasmettitore. L’idea era stata di Toodles, che si era ispirata ad una vecchia antologia di racconti, e Paul l’aveva caldamente appoggiata. Così Zoe, come una ragazza che si volesse abbronzare nei pressi della parete della cupola, si tolse il vestito, la biancheria e le inibizioni, e lasciò che l’aria tiepida accarezzasse la sua pelle sensibile a ogni suo movimento deliberato. Tanta allegria. E nessuna ripugnanza per i loro corpi smunti e avvizziti; c’era invece un’insolita tenerezza che si agitava sotto l’apparente allegria.
Dopo tutto, che importanza avevano i calli, le vene varicose e la pelle flaccida? Zoe aveva una risposta: quella era una conseguenza dell’età e del loro spiccato senso di comunità, sia che fossero maschi o femmine. Infine, quel giorno, si dimenticò delle sensuali carezze del vento della cupola, si concentrò nel gioco, e si arrabbiò moltissimo quando Parthena tirò la palla in una posizione ingiocabile. Sissignore: quella fu una giornata proprio divertente.
E che altro ricordava? Be’, i Phoenix le avevano dato una macchina fotografica per istantanee e lei, per la prima volta dopo dieci o quindici anni, aveva ripreso a scattare foto. Era una vecchia Polaroid, ancora perfettamente funzionante, e la prima idea di Zoe fu quella di ritrarre in bianco e nero i volti della sua nuova famiglia. Foto in posa, alcune di sorpresa, riduzioni e ingrandimenti: ritratti di gruppo, primi piani, sovrimpressioni, meditazioni semiastratte. Le migliori vennero esposte nella sala comune. Questo locale era diventato la Galleria dei Phoenix, la quale fu addobbata su entrambi i lati con due brillanti stendardi trapuntati.
Paul e Toodles andavano molto orgogliosi di alcuni ritratti, e a volte, contemplando i loro preferiti, cadevano quasi in trance: ragazzini che ammiravano se stessi nello specchio. Vanità, vanità, disse qualcuno, ricordò Zoe. Helen invece non si mise mai gli occhiali per guardare la sua immagine fotografata, benché avesse un motivo più valido di quello di Paul o di Toodles. Zoe un giorno le chiese perché. — È da trent’anni che non guardo il mio volto — disse, — perché sono soddisfatta della mia immagine di quando avevo trent’anni, e che ancora conservo qui dentro. — Si batté un colpetto in testa. Poi mostrò a Zoe una vecchia foto che mandava riflessi nella luminescenza della stanza: mostrava una donna la cui innegabile bellezza era quasi disgustosa. — Io posso sentire come sono oggi. — disse Helen. — Non ho bisogno di guardare.
Anche così, le foto di Helen fatte da Zoe non le rendevano un cattivo servizio; infatti, erano oggetto di devota ammirazione da parte degli uomini, e di Paul in particolare… cioè, quando non era ipnotizzato dai propri occhi color ambra, dalla sua immagine proiettata sulla celluloide. Be’, perché no? Le foto di Zoe erano davvero straordinarie, ed era lei stessa a dirlo, in questo confortata dal giudizio degli altri.
Il mese di Primavera si stava avvicinando. Che cos’altro riusciva a ricordare dell’Inverno trascorso al Ricovero? Le visite di Melanie e Sanders. La prospettiva di avere un nipote. Questo pensiero la eccitava, la stimolava come l’aria sul suo corpo nudo, e solo per questo pregustava le visite, due volte la settimana, della figlia e del genero. No, non era vero. Era Lannie che desiderava vedere più di ogni altra cosa, sia che portasse una creatura in grembo oppure no. Sua figlia Lannie era carne della sua carne, nonché del defunto Rabon: era sua figlia. Le riusciva difficile sopportare soltanto il fatuo Sanders, eppure in vita sua, non aveva mai osato chiamarla con un appellativo tanto brutale come strega mummificata. Che cosa avreste fatto, allora?
Dal canto suo, Zoe non andò mai a trovarli nel cubicolo del Livello 3; così, quando venivano a trovarla, per adempiere malvolentieri al loro dovere di figli, lei li riceveva in quel cortile interno dove loro avevano decretato la sua condanna. Questo fatto metteva Sanders a disagio: strascicava le scarpette da passeggio sulla ghiaia e muoveva il capo come se stesse cercando il primo vecchio pazzo del ricovero che avesse voluto sfruttare la posizione favorevole del suo balcone per sparargli con un fucile a pallini o ad aria compressa. Un innocuo passatempo per Zoe, che osservava suo genero con la coda dell’occhio, mentre si informava sulla salute di Melanie, se le fosse passata la nausea mattutina (— Ci sono le pillole per quella, mamma! —), se il test Jastov-Hunter avesse stabilito il sesso del nascituro… e altre confidenze del genere.
Ma lei non aveva mai approfittato della sua libertà per far loro visita al Livello 3, e d’altra parte loro non l’avevano mai invitata. Nossignore. Neppure una volta.
Zoe piegò il capo all’indietro e notò che la navetta che aveva seguito con lo sguardo adesso era scomparsa. Oh Signore, non si era trattenuta sul tetto della Torre un po’ troppo a lungo? Quanto tempo era passato? I Phoenix stavano prendendo una decisione su di lei. Ecco tutto.
Il risultato era forse in dubbio? Mr. Leland l’avrebbe mandata in un’altra unità settigama incompleta (se mai ne esisteva un’altra) a causa di un solo voto contrario? Come Mr. Leland le aveva spiegato, potevano benissimo rifiutarla. Che cosa avrebbe provato nel caso che l’avessero fatto? E se l’avessero accettata, voleva veramente contrarre matrimonio coi Phoenix, unirsi a loro in un nuovo contratto?
Be’, era semplice rispondere a tutto ciò: la risposta era sì: sì, lei voleva sposarsi con Luther, Parthena, Toodles, Paul, Helen e Jerry. E la ragione per cui lo desiderava era altrettanto semplice: ne era innamorata.