Nell’appartamento del quarto piano, i Phoenix dormivano in una camera comune di forma circolare, i letti erano disposti attorno all’apparecchiatura mobile del biomonitor, sistemata al centro (la prima delle tre su quel piano), che aveva già ripreso i suoi silenziosi controlli. Ciascun letto disponeva di un comodino, un cassetto per gli effetti personali e una sedia nelle vicinanze, nonché un paravento di tessuto artificiale che, con il semplice contatto, si sarebbe dispiegato automaticamente. Poiché nessuno sembrava usarlo, dopo aver ringraziato Paul per averle procurato una camicia da notte, si preparò ad andare a letto davanti a tutti gli altri.
Era come avere sei Rabon nella propria stanza. Anzi cinque, perché Jerry era altrove. — Vuol stare un po’ solo, prima di coricarsi — disse Parthena. Ma cinque Rabon erano comunque molti, anche se abbastanza discreti da non tenerti gli occhi addosso. (Rabon non l’aveva mai fatto.) Ad eccezione, ancora una volta, del vecchio Paul.
Ad ogni modo, non ci volle molto perché tutti scivolassero nel mondo dei sogni. Nossignore. A quanto sembrava, tutti tranne Zoe. Lei aveva anche sentito Jerry scivolare con un ronzio nella stanza dove tutti russavano e alzarsi dalla sedia a rotelle per mettersi a letto. In cinque o dieci minuti si infilò sotto le coperte. Soltanto Zoe aveva la mente lucida, e il corpo indolenzito lottava contro il desiderio di sprofondare nel sonno. Oh, Signore. Che giornata! E mentalmente cercò di riviverne ogni istante.
Poi udì dei singhiozzi, e rimase ad ascoltarli a lungo. Era Toodles, due letti più in là. Toodles, che soffriva di cuore.
Cercando le pantofole che non aveva, Zoe si alzò dal letto. Andò a piedi nudi fino alla seggiola di fianco a Toodles. Si sedette e scostò le ciocche umide e arricciate della donna. — Vuoi dirmi che cosa non va?
Uuuuh, no-o. Lamenti soffocati, disperati.
— Si tratta di ciò che è accaduto a cena, Toodles? Spero di no. Non vorrei sembrarti la Strega Cattiva del Nord. — Era una bugia bella e buona, se mai ne aveva detta una: una bugia innocua, comunque.
I singhiozzi si attenuarono. — Non… è… per quello — riuscì a dire con voce soffocata. — Davvero… non è… per quello. — E quasi a confermare quanto diceva, si mise a sedere sul letto, arrotolandosi con cura attorno alla vita la camicia da notte che prima giaceva disordinatamente sulle coperte.
— Allora, ti va di parlarne?
Ora Toodles era un po’ più tranquilla. — Yuichan — disse. — Pensavo a Yuichan. Vedi questo indumento, Zoe… È stato lui darmelo. — Era troppo buio perché si potesse vedere con chiarezza, ma Toodles prese il vestito e lo mostrò a. Zoe, con le mani scosse da un occasionale tremito provocato dai singhiozzi. Ma Zoe avvertì solamente uno sgradevole e stantio odore di urina.
— Ecco — fece Zoe, ed accese la lampada da lettura sulla spalliera del letto. Un cerchio di luce tenue e tremula illuminò la veste da camera. Helen l’avrebbe definita di pessimo gusto, e a ragione: su un lato dell’indumento c’era ricamato un monte coperto di neve; sull’altro (quando Toodle sollevò i risvolti gualciti per mostrarlo) c’erano le parole Monte Fujiyama. Un capo brutto e puzzolente, non importava come fosse ricamato o lo si profumasse.
— Oh, so bene che non piace a nessuno — disse Toodles. — Ma mi ricordava Yuichan. Lo ordinò per posta a San Francisco quattro anni fa, quando seppe che nell’infermeria del ricovero si trovava una donna giapponese gravemente ammalata. Una come Yuichan. E lui regalò il vestito a quella povera donna. Due anni dopo, quando lei morì e suo figlio gettò via quasi tutte le sue cose, Yuichan si riprese il vestito e lo diede a me. Oh, mi stava stretto e puzzava di urina, d’accordo; ma sapevo con quale spirito Yuichan me l’aveva regalato, e io l’ho lavato e rilavato continuamente, al punto che temevo si strappasse. — Stese la veste da camera sulle ginocchia. — E questa sera… questa sera… mi ha ricordato Yuichan… intensamente. — Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si nascose il volto fra le mani.
Il conforto che Zoe le diede fu di restarle seduta accanto, finché la povera donna, con il viso tirato e senza più tracce di mascara, gli occhi cerchiati e simili a due crateri, cadde in un sonno leggero.
Ma il pomeriggio seguente, nella sala che chiamavano centro di ricreazione, Toodles sedeva all’orpianola a batteria e coinvolse tutti in una festicciola canora: esili corde vocali, tese allo spasimo, che cercavano di afferrare note ormai dimenticate. Infatti, soltanto Toodles aveva un’estensione vocale senza confronti, un contralto particolarmente dotato che poteva lanciarsi in un impervio glissando per passare subito con disinvoltura a una melodia in pianissimo. Guidava il loro canto con un braccio, mentre con la mano libera batteva sui tasti, premeva i pulsanti, azionava le levette e si divertiva con le percussioni. E nonostante le gambe appesantite non smetteva di pestare sui pedali, come un eretico sui carboni ardenti. L’intero appartamento risuonava della musica di Toodles, e Zoe, battendo le mani e gracchiando insieme agli altri, si chiese istintivamente se si fosse sognata, solo sognata, la disperazione notturna della chiassosa Phoenix.
— Benissimo! — Toodles gridò fra un ritornello e l’altro. — Non siete contenti di essere troppo vecchi perché quegli asini che hanno approvato l’Editto di Soppressione possano venire qui per farci stare zitti?!
Zoe lo era. Stavano facendo della musica illegale, canzoni fuorilegge, ritmi proibiti e moralmente riprovevoli. Vecchi tempi. Quando ripresero a battere le mani e a cantare, Helen spiegò a Zoe che Toodles un tempo era stata una capofila del nuovo swing, in una fumeria di New Orleans. — Nei primissimi anni del secolo — le bisbigliò Helen all’orecchio, mentre tutti insieme applaudivano l’orpianola che continuava a suonare. — A quarant’anni si occupava di una rivista di musica popolare indigena. A quarant’anni! Veramente professionale, come risulta dalle vecchie recensioni. — Dopo il ’35 quando il servizio d’ordine e i membri del consiglio cittadino cominciarono a temere disordini, questi spettacoli furono radicalmente soppressi, almeno ad Atlanta. Chi può sapere che cosa accadde nelle altre città?
— Molto bene! — strillò Toodles. — Questa s’intitola «Ef Ya Gotta Zotta»! Risale agli anni venti… forza, tutti insiemeee!
E tutti cantarono, con l’orpianola suonata con una mano sola, letteralmente con una mano sola, che pareva l’orchestra di un secolo prima, ormai defunta e dimenticata, di Benny Goodman, quella per intenderci dei gracchiami dischi di vinile. O forse era quella di Glenn Miller. Il ritornello era questo:
Ef ya gotta zotta
Thenna zotta wa me:
Durnchur lay ya hodwah
Oh tha furji Marie.
Ef ya gotta zotta,
Then ya gotta zotta wa me!
Mio Dio! Zoe ricordava l’intera canzone, ogni maledetta parola dei sette versi. Lei e Rabon avevano ballato sulle sue note; si erano scatenati a quel ritmo indiavolato nella rimodernata sala da ballo di Regency. Mio Dio, pensò: — «Ef ya Gotta Zotta!»
Ma dopo l’ultimo intermezzo del coro, Toodles abbandonò quella retrospettiva del nuovo swing per una puntata in quel terrorismo sonoro che era la musica computerizzata «dura» tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta. All’inizio di questa deliberata cacofonia, il vecchio Paul smise di battere il tempo e la sua bocca si spalancò, come già aveva fatto durante il gioco della reminiscenza rotazionale. Gli altri, Zoe compresa, cominciarono ad agitarsi irresistibilmente nelle loro sedie.
Toodles si mise a cantare quelle strane composizioni, e le cantò con una tale sicurezza che, guardando il suo viso rotondo e dalla mascella pronunciata, nonostante le rughe, i porri e le ridicole labbra chiazzate, ci si accorgeva che stava vivendo ogni nota, sillabando ogni inquietante parola e spremendola allo scopo di scatenare le sue paure irrazionali e quelle del suo pubblico. (Divertente: un film dell’orrore musicale.) Toodles cantava, cantava, cantava. «Incubo del guscio di noce», «Tomba dei Faraoni», «L’onda di marea cremisi» e «Il cielo all’esterno». Quando l’ultima nota dell’orpianola si spense, scrosciarono applausi fragorosi per Miz Joyce «Toodles» Malins-Phoenix, la quale, incredibilmente, arrossì. Anche Paul si unì agli altri, anche se si ostinava a battere i piedi come uno stupido invece di applaudire.
— È il suo primo concerto da quando Yuichan è morto — disse Helen.
— Ancora! — esclamò Jerry. — Ne vogliamo altre!
— Hooooi! — fece Luther. — Non l’ho più sentita cantare e suonare così bene dalla Settimana di Fine Anno del ’38.
— Mi è tornata la stessa voce che avevo a trent’anni — affermò Toodles, girandosi sullo sgabello. — È difficile da credere, e sembra una vanteria ma, per Dio, è la pura verità.
— Puoi dirlo — fece Luther.
— Però non abbiamo finito — disse Parthena. — Concludiamo al solito modo, prima di andare a mangiare.
Toodles fu d’accordo e tornò alla tastiera. Suonò con entrambe le mani, ignorando i pulsanti, gli interruttori, le levette d’intonazione sulla consolle, ed eseguì una vecchia melodia, di quasi duecento anni prima. Cantarono tutti, in armonia. Come per «Ef ya Gotta Zotta», Zoe si accorse di ricordare le parole, tutte quante… ognuna di esse riaffiorava sulle labbra proveniente da un’epoca molto remota, totalmente estranea alla realtà del Nucleo Urbano, di Sanders e Lannie, o di Mr. Leland o del Ricovero Geriatrico. E non era l’età avanzata o la nostalgia a rendere vivido il ricordo delle canzoni (ad alcune cose non si torna indietro volentieri), bensì l’affermazione della sicurezza del presente: questo presente, questo stesso istante. Cantarono:
Laggiù, lungo lo Swanee River
Lontano, molto lontano,
Là il mio cuore sempre si volge,
Là dove stanno i miei cari.
Cantarono anche la strofa che parlava di piantagioni, e il verso lamentoso: — Oh, negri, come piange il mio cuore —, compresi Luther e Parthena, i quali non si trovavano affatto a disagio. Un brano di Stephen Foster, ma non era il vero Stephen Foster, perché era eseguito da un’orpianola. Bastoni e pietre, pensò Zoe, e i nomi non potevano mai…
Accidenti, soltanto una settimana prima, in preda ad un momentaneo malessere, sua figlia l’aveva chiamata strega mummificata. E lei aveva reagito con una stupida risata. Che altro avrebbe potuto fare? Quando sei a due passi dal traguardo, tu ridi se i concorrenti che hai battuto ti lanciano degli insulti. Lo devi fare. E nell’esecuzione malinconica di un’opera morta-e-sepolta di un compositore sicuramente morto-e-sepolto, anche Toodles rideva con tutto il corpo. Era a due passi dal traguardo. Tutti loro lo erano. Ma di certo la meta verso cui correvano non era la morte, non come l’intendeva Zoe. Nossignore. Era qualcosa di completamente diverso.