Quella sera, dopo la festa canora accompagnata dall’orpianola, Parthena, Helen e Jerry si occuparono della cena. E dopo mangiato Zoe li aiutò a sistemare il piccolo locale attiguo alla sala da pranzo (mentre Lannie e Sanders, tre Livelli più sotto, nel loro cubicolo disponevano solo di un cucinino senza sala da pranzo). Era stata una bella giornata, una giornata indimenticabile, se mai ne aveva vissuta una. Non da quando Rabon…
— Sai trapuntare? — le chiese Parthena, dopo aver ritirato l’ultima stoviglia di porcellana. Ma in quel momento l’attenzione di Zoe era rivolta altrove. Jerry, nella sua sedia a rotelle, passava i piatti a Helen, e la donna cieca li sistemava con ordine nell’armadietto di plastica sopra il lavandino. Prima di cominciare, Helen aveva preso dalla tasca un paio di lenti scure, unite apparentemente solo da un ponticello metallico. Munita di questi occhiali, sembrava riuscisse di nuovo a vedere.
Era la prima volta che se li metteva in presenza di Zoe.
— Ehi, Zoe — disse ancora Parthen. — Sai trapuntare?
— Intendi unire i quadrati, e poi cucirli insieme? Può darsi. Esagero sempre, quando parlo delle cose che faccio. Mi piace bluffare.
— Di’ un po’, ancora non sappiamo che cosa sai fare. Dove lavoravi prima di avere il sussidio?
— Fotografia — disse Zoe. — Scattavo foto. Sia soggetti in posa che in movimento. Ed ero anche brava. A dir la verità, qualche foto usciva un po’ mossa.
Tutti risero. Zoe raccontò di come lei e Rabon avessero lavorato in équipe per il Journal/Constitution e per uno dei videomedia affiliati; ma non scrivevano i testi (io non avevo molta istruzione, e Rabon non voleva mettere la sua al servizio di quello scopo), ma si davano da fare con le macchine fotografiche, i video portatili e le varie stampatrici istantanee. Lei se la cavava meglio di Rabon, ma dal ’01 al ’09 si era assentata quattro volte dal lavoro a causa della maternità e lui aveva ottenuto un maggior numero di commissioni in virtù del fatto che, per usare le sue parole, non era suscettibile di gravidanza. Tutto era stato previsto, e dopo la nascita di Melanie il Programma di Cura Infantile UrNu li aveva messi in grado di proseguire la loro carriera. Più o meno. Dovettero impiegare una parte consistente dei loro guadagni perché Lannie potesse essere accudita per quattro ore al giorno, quattro giorni la settimana, mentre lei e Rabon si dividevano le ore restanti, lavorando insieme sempre più raramente. Ma lei e Rabon ci riuscirono, e il fatto che Lannie fosse figlia unica l’aveva resa una ragazza un po’ viziata, qualche volta dolce e più spesso petulante. Quanti ritratti aveva fatto Zoe alla piccola, viziata Lannie. Quella mattina Zoe aveva chiesto per telecom a sua figlia di portarle soltanto i pochi indumenti che teneva in camera, nell’armadietto, nonché le foto appese alle pareti, e Melanie aveva risposto che glieli avrebbe portati: forse Mr. Leland li aveva già ricevuti.
— Bene, se sai scattare foto — disse Parthena, — puoi aiutarci a togliere quel nuovo stendardo che hai visto sul telaio, nella sala comune. Adesso muoviamoci, Zoe.
Terminarono di sistemare la cucina. Quindi Parthena li precedette lungo il corridoio: aveva settantasei anni, e la sua figura era eretta e sottile come un manico di scopa.
— Ho altro da fare, stasera — disse Jerry. — Scusatemi. — Scivolò via nella sua sedia a rotelle e scomparve in una stanza nella quale Zoe non era ancora entrata.
Luther e Toodles si trovavano già vicini al telaio quando arrivarono: una mostruosa truttura di plastica su cui erano rigidamente stesi e fissati i riquadri cuciti, l’ovatta sintetica dell’imbottitura e il sottofodera. Zoe l’aveva notata quel pomeriggio, durante la festicciola musicale (un aereo dei fratelli Wright, realizzato con scarti da cucito), ma era sistemato dietro di loro e parzialmente nascosto da un paravento mobile, e nessuno si era preso la briga di spiegarle il suo scopo o la sua funzione.
Ora il paravento venne fatto scivolare lungo il muro, e Toodles e Luther sedettero ai lati opposti del telaio, facendo passare gli aghi attraverso i tre strati di tessuto. Helen, che ancora portava gli occhiali, sedeva tra i due, e Parthena e Zoe si misero sul lato del telaio che era piegato come un alettone. Era il 1903, e loro erano Orville e Wilbur, i folli piloti di Kitty Hawk, dove le sabbie del tempo si erano trasformate per magia in una superficie di linoleum.
— Helen — azzardò Zoe. — Con quegli occhiali sembra che tu intenda farci decollare fuori di qui, in cima alla cupola. — Oh. Poteva dire una cosa del genere ad una persona cieca?
Helen sollevò lo sguardo e fissò Zoe. Vista di fronte, gli occhiali (o lenti, o binocoli) le conferivano non tanto l’aspetto di un pilota di biplano, bensì di un ostile mostro spaziale. — Non sono orribili? — disse Helen. — È il motivo per cui non li porto sempre. — E con mossa esperta cominciò ad infilare l’ago negli strati di tessuto, estraendolo dalla parte opposta.
Parthena mostrò a Zoe come fare, dandole un ago e un ditale, e le fece osservare la sua tecnica. — Io ho insegnato a cucire a tutti gli altri… tranne che a Paul, lui non ama cucire e preferisce trascorrere i fine settimana pensando a come diventare immortale. Jerry si è seriamente impegnato ad imparare. Del resto è quasi sempre presente. Adesso infila il ditale sul pollice, ragazza, o ti pungerai con l’ago. Guarda me…
Zoe aveva cucito altre volte, in precedenza, e se l’era sempre cavata abbastanza bene. Calma, si disse, prenditela con calma; ed imparò piuttosto rapidamente a cucire come loro, unendo quei riquadri dai colori vivaci — giallo, verde e azzurro, secondo disegni floreali e a zigzag — e poi applicandoli alla fodera che ricopriva l’imbottitura. All’inizio occorse molta concentrazione, come per un pilota in fase di decollo; poi, una volta saliti in quota, diventava un volo senza problemi, rilassante. Nessuno parlava. Nessuno.
Quando mai si era sentita così serena e tranquilla? Sì, serena e tranquilla, ma con la sensazione di un piacere quasi fisico che le faceva scorrere deboli brividi lungo la schiena. La calma che regnava nella stanza era parte di quel piacere.
Poi Parthena cominciò a parlare, ma in un certo senso senza violare il silenzio in cui stavano lavorando: — Ero solita fare questo lavoro su a Bondville, quando mio figlio Maynard era molto piccolo e la costruzione della cupola non era neppure a metà. Oh, poi il vento cominciò a soffiare, e non c’erano cupole a fermarlo; allora noi usavamo queste trapunte per coprirci, e non per stenderle su questi vecchi muri scalcinati. Ricordo ancora come Maynard, mentre lavoravo, volesse infilarsi sotto al telaio, un telaio di legno che aveva costruito mio marito, camminando avanti e indietro, cosicché si vedeva solamente la sua testa spuntare da un capo all’altro del telaio, su e giù, finché dava l’impressione di voler sbucare fuori. Ridere? Oh Dio, di solito ridevo di lui con un certo risentimento, perché non capiva quanto era buffa la sua testolina.
La sua risata contagiò anche Zoe. — Adesso ha tre bambini, Georgia, Mack e Moses, e sua moglie che fa bene questo lavoro quanto me; forse meglio; lei è così dinamica.
Cucirono per un’ora. Quando smisero, Parthena insistette perché Zoe tornasse al dormitorio a vedere le foto dei nipotini. — Dimmi un po’, tu ami le foto e i bambini, vero? — Così Zoe la seguì. Si sedette su una seggiola mentre Parthena, dopo aver abbassato il suo letto ad un’altezza comoda, si mise a sedere sul bordo, come una cicogna color ebano.
— Questa è la mia impertinente Georgie — disse, porgendole la foto di una bella ragazza negra. — Adesso ha dodici anni ed è una ragazzina molto sveglia. Sta per andarsene da Bondville, e solo con i propri mezzi, con il suo fascino e la sua abilità. — I due ragazzi erano più cresciuti ed avevano un aspetto qualunque, e probabilmente erano persone qualunque. Nessuno di loro era più un bambino. — Voglio solo che tu sappia che avevo una famiglia, prima dei Phoenix. Io non sono come Luther e la povera Toodles che fino a sessant’anni hanno sofferto per non aver mai trovato una vera famiglia. Tuttavia, adesso hanno noi, e noi abbiamo loro, ma hanno fatto una lunga strada, Zoe, molto lunga. Anche Jerry. A volte prego per ringraziare della fortuna che ho avuto.
— Non ho mai pregato molto — disse Zoe, — ma ne ho provato il desiderio. — Era come amare qualcuno che non ti permette di dichiararlo, ricordò Zoe.
Le due donne continuarono a parlare mentre gli altri si preparavano per andare a letto. Parthena mostrò a Zoe alcune dentiere che le avevano fatto nel 2026, e volle che le prendesse e le esaminasse, quasi fossero i denti di un australopiteco. — Sono pulite — disse. — Non le ho più messe dal ’29. Il motivo per cui te le ho mostrate è che sono state fatte dal dottor Nettlinger.
— Chi?
— Gerard Nettlinger. Ti ricordi, Zoe. Quello che sparò a Carlo Bitler. Si alzò durante la riunione del Consiglio Urbano e sparò a quel sant’uomo. Il giorno in cui l’ho saputo, mi sono tolta le dentiere e non le ho più rimesse. Comunque, erano scadenti. Mi sono limitata a conservarle, così un giorno Maynard potrà venderle. La gente diventa follemente avida quando si tratta di cose appartenute a degli assassini. Impazzisce.
— Già — confermò Zoe. — Mio padre diceva che era il nuovo culto.
— Sciocchezze. Sono tutte cose prive di valore.
Chissà come, poi, la loro conversazione andò a finire sulle ragioni per cui i membri della famiglia d’origine avevano scelto Phoenix come nome del gruppo, anziché Sweetheart oppure O’Possum. Zoe aveva creduto che fosse perché a volte Atlanta veniva chiamata la Città della Fenice, dato che era rinata dalle sue stesse ceneri, dopo la Guerra Civile (che suo nonno, negli anni ’80 insisteva nel chiamare Guerra Tra gli Stati, come se ciò facesse una gran differenza). E quando, in quel decennio che collegava il nuovo secolo al precedente, venne costruita la cupola, Atlanta resuscitò. Era questa una delle ragioni del gruppo?
— Sì, anche questa — disse Parthena. — Ma non solo. C’è un altro motivo: tutti noi risorgiamo dalle nostre ceneri quando sottoscriviamo il contratto. Di nuovo carne ed ossa, Zoe, come Gesù.
— Sì, anch’io penso che sia per questo. E ciò rende il nome veramente appropriato.
— Già. Ma a Paul piace perché la fenice era un uccello egiziano che era immortale. Sembra morire, ma poi risorge, e la sua grazia nonché la bellezza delle sue piume rimangono immutate.
— Allora sarebbe stato felice con la Chiesa Orto-Urbanista. Essa sostiene che gli esseri umani risorgono dopo la morte.
— Paul dice che non è la stessa cosa. Perché gli uomini muoiono veramente, non fanno finta, e quindi non hanno un corpo a cui tornare. Paul è molto attaccato al suo corpo.
— E tu che ne sai? È bello sapere che lui non è solo uno Stupido Vecchio.
— Oh, anche lui lo sembra — mormorarono all’unisono. — Ma c’è un’altra cosa che lo fa riflettere, dubitare ed esitare. La fortuna della Fenice. La maggior parte di noi ha passato i suoi guai. Ma Paul ha più di ottant’anni e non ha mai avuto delle opinioni costanti da quando ci siamo sposati. Mancò poco che Mr. Leland non lo accettasse per il suo programma, cinque anni fa. Fummo noi a convincerlo. E alla fine Mr. Leland lo prese, nella speranza che li riportassimo sulla strada giusta. E noi lo abbiamo fatto, e anche piuttosto bene.
— È stato Paul a suggerire il nome?
— No. O forse sì. Non ricordo esattamente. Ciò che ricordo è che il nome andava bene, era appropriato per ciascuno di questi motivi. Un altro ancora, poi, e forse il più valido, era una storia che mio nonno aveva ascoltato da suo padre. Parlava di una ragazza schiava, molto carina, che aveva il compito di curare il bambino del padrone, del «badrone», come lo chiamava il padre di mio nonno.
«Bene, quel bimbo cadde dalle scale proprio mentre la ragazzina stava badando a lui: aveva distolto lo sguardo per un minuto e il piccolo era caduto dai gradini e si era messo a strillare. Era spaventato, ma non aveva niente di rotto. Quando le donne bianche all’interno della casa udirono le grida, cominciarono a piangere e a disperarsi come se il bambino fosse rimasto ucciso. E continuarono così finché il «badrone» in persona non sopraggiunse, e domandò spiegazioni. Quando fu messo al corrente dell’accaduto, prese una tavola e colpì la giovane schiava sulla testa, uccidendola. Poi chiamò a sé un gruppo di negri (stavolta era mio nonno a chiamarli in questo modo) e ordinò loro di gettare la ragazzina nel fiume. La madre implorò, pregò e supplicò il padrone di risparmiare sua figlia, ma lui non le diede ascolto e ripeté l’ordine.
«Adesso la storia diventa magica, Zoe. Il nome della ragazzina era Phoebe, e cinque schiavi con la madre la condussero al fiume; il più robusto di loro stava davanti agli altri altri reggendo la piccola Phoebe, la cui testa ciondolava coperta di sangue, lugubre e gelida. Questo negro corpulento la gettò nel fiume come gli aveva ordinato il padrone, mentre la madre di Phoebe gemeva e si percuoteva, e poi costui seguì la ragazzina e si tuffò nell’acqua, annegando. Anche gli altri decisero di imitarlo. Ed entrarono nel fiume, per ultima la madre, pregando Dio che li chiamasse a sé tutti insieme.
«La notte successiva, i coloni bianchi che abitavano la grande casa, mentre stavano passeggiando lungo il fiume, tutt’a un tratto scorsero sette piccoli uccelli dall’aspetto triste che spiccarono il volo dall’acqua, in direzione della luna. Più si spingevano in alto e più diventavano grandi e splendenti, finché alla fine rimasero nel cielo come stelle, e tuttora stanno sopra la grande casa dei coloni bianchi. Diventarono una nuova costellazione, quella che tutti nella piantagione chiamano la Fenice, solo che essa non si muove come le altre, ma se ne sta immobile con le ali tese, lontana e sicura sopra la casa del «badrone».
«E questa è la storia, Zoe. Jerry dice di non aver mai sentito parlare di una costellazione della Fenice. Ma con quella cupola lassù, chi riesce a ricordare esattamente com’è il cielo? Nessuno, proprio nessuno.
«E io credo che esista, lassù, da qualche parte.