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Mentre Hutchman ascoltava il giornale radio, Vicky spense due volte la radio, dicendo che aveva mal di testa. Ogni volta, regolarmente, lui si alzò e la riaccese, ma a volume basso. Le notizie riguardavano combattimenti sporadici ai confini della Siria con la Turchia e l’Iraq, provocati, ovviamente, da un senso violento di frustrazione da parte dei Siriani, ed erano inframmezzate da innumerevoli relazioni di incontri all’ONU e di attività diplomatiche in una dozzina di capitali, da messaggi di oscuri fronti di liberazione e da accenni a vasti movimenti della flotta nel Mediterraneo. Hutchman, intorpidito dal sole e dall’andirivieni domestico, seguiva ben poco della situazione mondiale, a parte il fatto che non era ancora stato identificato l’aggressore. Si dedicò a tutta una serie di comportamenti rituali, come legare le stringhe di David, togliere dal frigo lo yogurt, mettere vicino a ciascun piatto una capsula di olio di fegato di halibut, mentre la sua mente cercava di fare un primo bilancio di quanto avrebbe richiesto la costruzione della macchina.

Fare i calcoli per un risonatore a neutroni era una cosa, ma tradurre quelle cifre in un congegno funzionante era, per un teorico, una prospettiva tutt’altro che semplice, soprattutto se doveva contare esclusivamente sui propri mezzi. La macchina sarebbe costata parecchio denaro. Denaro reale, e una somma tale che forse l’avrebbe costretto a mettere un’ipoteca sulla casa, che, pensiero onnipresente, era un regalo del padre di Vicky. Tanto per cominciare, Hutchman disponeva di una frequenza corrispondente a una lunghezza d’onda Angstrom, e l’unico modo per produrre energia con quella frequenza era un laser cestron.

Prima difficoltà: non esistevano, per quanto ne sapeva lui, laser cestron. Il cestron era un gas scoperto da poco, un prodotto dell’isotopo praseodimio e, senza la stella guida delle equazioni di Hutchman, non c’era motivo per usarlo come base di un laser. Insomma, avrebbe dovuto costruirne uno di fortuna.

Osservando, al di là della tavola, la faccia trasognata di suo figlio, Hutchman si sentì prendere dallo sconforto all’idea delle difficoltà pratiche che l’aspettavano. Come prima cosa, aveva bisogno di una quantità sufficiente di praseodimio per produrre, diciamo, cinquanta milligrammi di cestron. Poi gli occorreva un cristallo di praseodimio, da usare nei circuiti di stimolazione del laser, e i circuiti, per conto loro, non erano semplici da fabbricare. Lui aveva una certa esperienza in fatto di elettronica, però una macchina che usava frequenze dell’ordine di 6 x 1018 Hertz richiedeva l’impiego di onde guida tubolari, anziché di fili. Avrà l’aria di un arnese da idraulici anziché…

«Lucas!» Vicky batté con la forchetta sul piatto. «Continuerai a fare il muso per tutta la giornata?»

«Non faccio il muso!» E le radiazioni non scherzeranno. Sono più pericolose dei raggi X! Sarà necessario proteggersi e bisognerà collegarle otticamente con il laser. Insomma, mi occorrono alcune piastre d’oro per collegarle con quegli aggeggi a specchio concavo…

«Lucas!» Vicky lo tirava per la manica, nervosa e arrabbiata. «Rispondi per lo meno a David, quando ti parla.»

«Scusami.» Hutchman diede un’occhiata a suo figlio. Aveva il cappotto e stava per andare a scuola. «Buona giornata, David. Hai finito il compito, ieri?»

«No.» David strinse le labbra, ostinato, e, per un momento, la faccia dell’uomo che sarebbe diventato apparve dietro i lineamenti infantili.

«E cosa dirai alla maestra?»

«Le dirò…» David fece una pausa, in cerca di ispirazione «…che ficchi la testa nel gabinetto.» Schizzò via dalla cucina e, poco dopo, lo sentirono sbattere la porta mentre correva a scuola.

«A casa fa lo spavaldo, però la signorina Lambert mi ha detto che è il più tranquillo della classe» disse Vicky.

«È questo che mi preoccupa. Mi chiedo se David è ben integrato nella scuola.»

«È integrato perfettamente.» Lei sedette a tavola, si versò una seconda tazza di caffè senza chiedergli se anche lui ne voleva un’altra, segno, da parte sua, di nervosismo. «Potresti almeno dargli una mano nei compiti a casa.»

Hutchman scosse la testa. «Non serve a niente suggerirgli le risposte ai problemi che deve svolgere a casa. In compenso vorrei insegnargli un metodo che gli serve per risolvere qualsiasi difficoltà, senza tener conto di…»

«E cosa sa, David, dei metodi di ben ragionare?» Vicky era sprezzante.

«Niente» disse Hutchman. «Per questo voglio insegnarglielo.» Ebbe una punta di soddisfazione maligna quando Vicky chiuse le labbra e si girò per alzare il volume della radio. Una volta alla settimana, in media, Lucas la metteva alle strette in una discussione ricorrendo all’espediente semplice, sebbene logicamente irrilevante, di rispondere a una domanda retorica come se si trattasse di un quesito molto serio. Lei, in questi casi, non chiedeva più niente. Lui pensava che tutto nascesse dal suo disprezzo istintivo per ogni razionalizzazione astratta, però l’effetto equivaleva a una vittoria decisiva e personale da parte di lui. Vicky, ora che aveva scelto di ascoltare la radio, lo aveva escluso totalmente da sé, interamente assorbita dall’apparecchio. Il sole del mattino si rifletteva sul pavimento, avvolgeva di luce la sua vestaglia, dava alla sua pelle una trasparenza particolare. Sarebbe la mattina buona per tornare a letto un’altra ora, pensò Hutchman, ma provava un senso di rimorso. La visione di sé e di Vicky sul divano fu oscurata dall’affresco dei corpi dilaniati. Quanti ragazzini di sette anni, indomabili come David, sono morti a Damasco? E quanti.

«Oh, Dio!» Vicky spense la radio. «Hai sentito?»

«No.»

«John e Yoko hanno incendiato la loro casa in Virginia come segno di protesta.»

«In segno di protesta?» disse Hutchman, distratto. In quell’attimo gli era venuto in mente che aveva bisogno di una centrifuga a gas, per depurare il cestron da usare nel laser.

«Alla presenza di stampa e televisione, s’intende. Quanto credi che serva loro, la pubblicità?»

«Forse non intendevano farsi pubblicità.»

«Forse, mio caro stupido» disse lei, aspra. «Lucas, tu non hai ancora capito la filosofia del diventare milionari per la pace. L’abilità consiste nel fare esattamente quello che ti piace, nel toglierti ogni voglia, per egoistica e sporca che sia, ma nel proclamare che lo fai per la pace. In questo modo te la godi quanto vuoi e, in più, ti senti moralmente superiore.»

«Non mi pare che sia il caso di prendersela tanto.» Hutchman era impaziente di andare in ufficio, per consultare il catalogo della Westfield. Forse sarebbe riuscito ad avere il parere di qualcuno del settore acquisti.

«Non sopporto l’ipocrisia» scattò Vicky.

«C’è un’ipocrisia dell’ipocrisia» disse Hutchman incautamente, ora che i suoi pensieri erano tutti rivolti alla macchina anti-bomba.

«Che cosa vuoi dire?»

Hutchman vide il pericolo di rispondere che sua moglie era più gelosa che arrabbiata. «Niente. Scherzavo.» Buttò giù l’ultimo sorso di caffè, non perché avesse voglia di finirlo, ma per farle capire che aveva fretta di andare al lavoro.


Passando attraverso il centro ricerche Westfield per andare in ufficio, vide i primi segni di come l’annientamento di una grossa città avesse lasciato un’impronta sulla vita quotidiana. Gli uffici più piccoli e i corridoi erano deserti, gli altri locali erano affollati di gente riunita per discutere le ultime notizie. Dappertutto regnava un’atmosfera di tensione che una risata sporadica, in tono di sfida, accentuava anziché alleviare. Hutchman si sentiva stranamente calmo. Sapeva benissimo che Vicky si preoccupava della sorte di altri esseri umani, dato che più di una volta era scoppiata in lacrime quando sullo schermo della TV compariva l’immagine di un bambino assassinato, però l’isolamento deliberato e pragmatico della sera prima lo aveva spaventato. Una donna, una fonte di vita che guardava la morte con occhi freddi, senza interesse.

Muriel Burnley arrivò in ufficio con Hutchman. Portava la solita borsa di paglia e, infilato sotto il braccio, un rotolo di carta che aveva tutta l’aria di essere un nuovo manifesto turistico per il suo ufficio.

«Buondì, signor Hutchman» disse, guardinga. Era l’equivalente verbale di una mossa al re, nella partita della giornata.

«Buongiorno, Muriel.» Hutchman avvertiva, senza capirne la ragione, l’importanza che Muriel attribuiva alla scambio giornaliero dei saluti, così le aveva sempre risposto. Aprì la porta dell’ufficio di lei, la seguì nell’antro claustrofobico e prese, dal tavolo, il mucchio di lettere. Muriel sgusciò fuori dal cappotto di tweed marrone, provocando un balzo verso l’alto del suo petto assurdamente voluminoso. Hutchman, consapevole che dietro le lenti scure lo fissava, girò gli occhi e cominciò a sfogliare la posta.

«Non c’è niente di particolarmente urgente» disse. «Potete occuparvene voi? Fate a vostra discrezione. Oggi avrò molto da fare e non voglio essere interrotto.»

Muriel tirò su col naso, chiaramente disapprovando, e prese il fascio di buste. Lui passò nel suo ufficio, chiuse la porta di comunicazione e, dopo aver riflettuto qualche secondo, chiamò al telefono Cliff Taylor, capo del settore elettronico della Westfield. Questi era ancora mezzo addormentato, ma non protestò per la telefonata a quell’ora mattutina.

«Cosa posso fare per te, Hutch?»

«Ah, ecco, sto facendo un esperimento sulla radiazione a micro-onde e vorrei fare da solo il lavoro di preparazione. Potresti concedermi un locale, per un mese o due?»

«Non lo so se sarà possibile. Con il programma Jack-and-Jill scaraventano tutto sulle nostre spalle. È importante?»

«Molto importante.» Hutchman tracciò sul piano lucido del tavolo due grosse M, come morte, morte a Damasco.

«Perché non vai da Mackenson?»

«È un lavoro semi privato. È probabile che, alla fine, sia vantaggioso per la Westfield ma, per ora, voglio tenere la cosa per me, nell’eventualità che tutto finisca in una bolla di sapone. Per questo non vorrei andare da lui.»

«Allora non posso proprio esserti di aiuto. Un attimo, cosa ti serve esattamente?» Taylor diventava curioso, evidentemente perché si era accorto che Hutchman nascondeva qualcosa.

«Molto poco. Un banco da lavoro in un locale che io possa chiudere. Non è neanche il caso di stabilizzare le prese di energia.»

«Un momento, Hutch. Un attimo fa hai parlato di micro-onde. Fino a che punto sono micro?»

«Molto micro.» Hutchman si accorse che la conversazione gli stava sfuggendo dalle mani. Il primo a cui aveva accennato il progetto più segreto del mondo, cominciava già a insospettirsi e a fare domande molto precise. «Forse 6 / 1018 Hertz.»

«Santo Dio, ma questo taglia la testa al toro. Le norme di sicurezza non consentono di maneggiare radiazioni di quel tipo, a meno che ci siano installazioni di sicurezza particolari. Spiacente, Hutch.»

«Non importa.» Mise giù il telefono e sedette, guardando la parete di vetro e la macchia grigia che rivelava che Don Spain era arrivato in ufficio prima del solito. Il progetto seguiva le sue previsioni, esattamente lo stesso cammino dei suoi incontri precedenti con la realtà fisica, ai livelli più bassi. Per esempio l’aggiustatura di un guasto alla macchina, che occupava al massimo dieci minuti e in cui, dopo un’ora di lavoro, stava ancora cercando di svitare il primo bullone. C’è gente che ha la capacità benedetta di saper dominare i materiali e le circostanze, mentre altri, come Hutchman, devono accontentarsi di costruire splendidi edifici teorici, senza essere capaci di tradurli in realtà. Hutchman, quando il citofono interno chiamò, si sentiva furioso quanto impotente. Alzò il microfono prima che Muriel prendesse la comunicazione.

«Senti, Hutch» era di nuovo Taylor. «Ho ripensato al tuo problema. Sapevi che la Westfield ha l’uso di un laboratorio dell’Istituto Jeavons, a Camburn?»

«Ne ho sentito parlare, vagamente.» Adesso il cuore gli batteva calmo, regolare.

«È una convenzione non ufficiale, che abbiamo stipulato all’incirca quando sono riusciti a convincere il vecchio Westfield a fornirsi del loro complesso criogenico. Il risultato è che possiamo usare il laboratorio quando non ne hanno bisogno loro per i lanci spaziali.»

«E adesso com’è la situazione?»

«Credo che stiano segnando il passo, per lo meno sarà così fin dopo Natale. Se vuoi, telefono al professor Duering e vedo se posso farti mettere a disposizione il laboratorio.»

«Ti sono davvero grato, Cliff.» Hutchman, semi strozzato dalla gratitudine, faticava ad articolare le parole e a usare un tono di voce normale. Dopo la telefonata provò un momento inebriante di certezza assoluta. Uscì dall’ufficio e corse su per le scale, fino alla sezione acquisti, dove passò più di due ore a scrivere appunti dal catalogo e a controllare la disponibilità degli articoli più importanti. Nel pomeriggio Taylor gli confermò che il laboratorio dell’Istituto Jeavons era a sua disposizione: andò subito a dargli un’occhiata e a ritirare le chiavi da Duering. Alle cinque, ora in cui di solito lasciava l’ufficio, non aveva ancora fatto mezz’ora di lavoro per la Westfield, ma era pronto a disegnare i piani particolareggiati della macchina anti-bomba. Disse a Muriel di ordinargli del tè quando andava via e, mentre il palazzo piombava nel silenzio del week-end, si preparò a tracciare i primi disegni.

Un’ora dopo, quand’era al massimo della concentrazione, avvertì come un disagio improvviso, la sensazione che qualcosa non andasse. La sua mente, sprofondata in una giungla di linee e di simboli, non si lasciò distrarre facilmente, ma una parte di lui entrò in allarme e lo costrinse ad allargare la sua rete di percezioni. C’è qualcosa che non va. Quell’oggetto grigio, appoggiato contro la parete di vetro, mi sembra una faccia. È questo che mi innervosisce. Hutchman, alzato il rullo, stava sistemando il cursore quando i suoi occhi si fissarono sulla forma grigia. I lineamenti, incerti, risposero al suo sguardo, imperturbabili.

Ma è una faccia!

Sussultò, convulso, notando che, dall’altra parte del vetro, qualcuno lo osservava e solo in un secondo momento pensò che, evidentemente, era Don Spain. Il ragioniere doveva aver lavorato fino a tardi, però il silenzio innaturale che aveva fatto sì che Hutchman, per un’ora intera, non si accorgesse della sua presenza, era senz’altro intenzionale. Ancora furente Hutchman mise i fogli di carta millimetrata in una cartellina. Poi la nascose. La faccia di Spain dietro il vetro non si mosse. Hutchman prese da un cassetto un temperamatite e lo lanciò, con forza, sulla faccia spettrale. L’oggetto colpì il vetro con un colpo secco che per poco non lo mandò in pezzi.

Spain sparì all’istante. Dopo qualche secondo aprì la porta di comunicazione e entrò.

«Ma cosa ti è saltato in mente, Hutch? Per poco non mandavi in pezzi il cristallo sulla mia faccia.»

«E tu, perché stavi là fuori a osservarmi?»

«Non sapevo che tu fossi in ufficio. Ho lavorato fino a tardi, mi è sembrato di sentire del rumore da te e sono venuto a guardare.»

«Grazie» disse Hutchman, senza nascondere il disgusto che l’altro gli ispirava. «E non ti è venuto in mente di provare ad aprire la porta?»

«Ma non volevo piombarti addosso all’improvviso. Dopo tutto…» Spain ridacchiò, gorgogliando «…poteva esserci una donna, con te.»

«È la prima idea che ti è venuta in mente, eh?»

Spain alzò le spalle, continuando a sogghignare. «Non sei il tipo che lavora fino a tardi, Hutch, e per tutto il giorno ti sei comportato in modo strano. Sono tutti sintomi della sindrome di Batterbee. Te lo ricordi Batterbee?»

Hutchman annuì, mentre riaffiorava con violenza la paura che gli ispirava Spain. Batterbee era un ingegnere progettista, molto stimato nell’ambiente della Westfield, che aveva perso l’impiego perché scoperto in «flagrante delicto» con la segretaria, sul tappeto dell’ufficio, quando tutti credevano che facesse gli straordinari. Spain raccontava sempre quell’aneddoto.

«Mi spiace darti una delusione» disse Hutchman. Prese una matita e si mise a scrivere una serie di cifre sul taccuino, ma Spain si fermò per un quarto d’ora a discutere dell’ufficio. Nel frattempo la capacità di concentrazione di Hutchman era stata messa a dura prova, e lui cominciava ad essere stanco. Cercò di finire lo schema prima di andare a letto, in modo da potersi concentrare il giorno dopo sul problema dell’acquisto delle parti metalliche. Erano le nove passate quando, finalmente, raccolse tutte le carte e uscì nell’oscurità della sera. L’aria di ottobre era piena del profumo delle foglie di castagno e nel cielo occidentale splendeva bassa una stella, grossa come una lampada da carro. Lucas respirò profondamente, raggiungendo la macchina. Inspirare per quattro passi, tenere il fiato per altri quattro, espirare dopo altri quattro passi! Uscendo fece un cenno di saluto al sorvegliante di servizio nella guardiola dell’ingresso principale. Era una bella serata, se uno riusciva a non pensare all’astro fabbricato dall’uomo, che sbocciava in un breve istante sulle città indifese.

Nella strada il traffico serale era convulso e, a un certo punto, invece di svoltare a destra per imboccare la Crymchurch Road, Lucas dovette girare a sinistra e fare un giro di una ventina di minuti con il risultato che arrivò a casa molto dopo le dieci. La casa, dietro la fila dei pioppi, era tutta illuminata, come per una festa, ma quando lui entrò, passando dalla porta del garage, fu accolto da un silenzio profondo. Vicky guardava una rivista in soggiorno, e bastò un’occhiata alla sua faccia pallida e tesa per far venire in mente a Lucas che non l’aveva avvertita che avrebbe fatto tardi. La lampada a stelo dietro la poltrona proiettava un cono di luce color albicocca che illuminava le pagine della rivista, via via che le girava.

«Scusami» disse lui, posando la borsa su una seggiola. «Ho lavorato fino a tardi, in ufficio.»

Sua moglie girò due pagine, poi rispose: «Lo chiami lavoro, tu?»

«Chiamo il lavoro, lavoro. Tardi è tardi, e l’ufficio, ufficio» disse Hutchman, aspro. «Quale di queste parole non ti va?»

Vicky annuì, in silenzio, e continuò a sfogliare la rivista. In questa prima fase del litigio, Hutchman, di solito se la cavava egregiamente, perché sua moglie detestava parlare. Dopo, messo fuori uso il fioretto, si sfoderavano i randelli e lei avrebbe avuto la meglio. Però si arrivava a questo stadio solo nelle prime ore del mattino, e indubbiamente nessuno dei due sarebbe riuscito a dormire. L’idea di un’altra notte insonne riempiva Hutchman di rabbia impotente.

Si piantò davanti a Vicky. «Senti, non penserai davvero che sia stato con un’altra donna.»

Lei alzò la testa, con gli occhi stupiti nel viso disperato. «Non sono stata io a parlare di un’altra donna, Lucas. Perché l’hai fatto?»

«Perché stavi per farlo tu.»

«Non farmi dire quello che vuoi.» Vicky era arrivata alla fine della rivista, ma ritornò da capo e ricominciò a sfogliarla, esattamente come prima.

«Non ne avevo l’intenzione.»

«Lo sapevo. Come si chiama, Lucas? Maudie Werner?»

«Ma per l’amor di Dio, chi è questa Maudie Werner?»

«La nuova sgualdrina dell’ufficio calcoli.»

Hutchman ammiccò, incredulo. «Sentimi bene! Io, alla Westfield, lavoro, e non conosco questa tizia. Come fai a conoscerla tu?»

«Sei davvero indietro, Lucas. O fingi di esserlo. Ho parlato con la signora Dunwoody, la settimana scorsa, e mi ha detto che tutti ne parlavano, quando è arrivata Maudie Werner.»

Hutchman si voltò senza dire una parola e andò in cucina. Nello sforzo di dominarsi, non riusciva quasi a camminare. Prese dal frigo un pezzo di pollo freddo, dell’insalata russa e li mise in un piatto.

Ci siamo, pensò. È quasi una telepatia. La mente di Spain e quella di Vicky funzionano allo stesso livello subterreno. Salò il pollo, prese una forchetta da un cassetto e tornò in soggiorno.

«Senti Vicky, ma credi proprio che io sia una specie di maniaco sessuale? Uomini e donne, quando escono da una stanza, si buttano uno addosso all’altro come tanti conigli?»

«Ma di cosa parli?»

«Dell’impressione che a volte provo quando sento parlare te, e un altro paio di persone.»

«E tu» disse Vicky, sarcastica «mi accusi di essere pazza!»


Quando sua moglie finalmente andò a letto; Hutchman rimase a lungo nel buio, ascoltando gli aliti invisibili della notte che giravano per la casa. Frammenti della giornata si affacciavano alla sua mente, si riunivano, si dissolvevano, si ricomponevano in immagini nuove cariche di minaccia. Poi il sonno lo colse all’improvviso, portando con sé nuovi incubi.

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