16

Era mezzanotte passata quando Hutchman scese dal treno, a Hastings. Aveva portato la macchina a sud di Swindon, nel punto più vicino alla meta in cui osasse arrivare lasciando una traccia così evidente. Poi, nel corso del pomeriggio, l’abbandonò in un posteggio di taxi che, in quel momento, era sgombro. Di lì prese il treno per Southampton, e successivamente un secondo che arrivava a Hastings seguendo la costa. Però, in mancanza di coincidenze buone, passò la giornata ad aspettare, nervosamente, tra un treno e l’altro e a viaggiare a una velocità ridottissima.

Mancavano solo trentasei ore all’ultimatum e Hutchman, mentre usciva dalla stazione, era oppresso da quel pensiero. La mattinata grigia e dolce aveva lasciato posto a una pioggia fitta e gelata che tamburellava sulle grondaie. Lucas, appena s’incamminò sotto l’acqua, si sentì bagnato fino all’osso. C’erano diversi taxi in attesa, ma lui decise che era troppo rischioso… Passò accanto alla fila di auto, al buio, senza farsi notare, e si diresse verso Channing Way. Impiegò un quarto d’ora per arrivarci e, quando raggiunse finalmente la casa, era bagnato come se fosse caduto in mare, e batteva i denti con violenza.

Aprì la porta della villetta buia, ma, prima di entrare, si fermò un momento, in preda a una timidezza strana. Questo era il penultimo passo senza ritorno, definitivo, come il momento in cui avrebbe premuto il pulsante nero. Una volta entrato, inghiottito dall’umidità dell’ingresso e chiusa la porta avrebbe tagliato tutti i legami che ancora lo legavano con il resto dell’umanità. Anche se l’avessero seguito, se altri uomini avessero cercato di fare irruzione all’interno, avrebbero ottenuto, come unico risultato, che premesse il pulsante un po’ prima. Lui era l’uomo al piano zero, e la sua missione…

La porta era gonfia per l’umido e Hutchman, per chiuderla, dovette far forza con la spalla. Al riverbero di un lampione che filtrava dallo spiraglio trovò la via per il piano superiore. Quando accese la luce non successe niente: tranne che ebbe modo di rendersi conto che, durante la sua assenza, non era capitato nulla. Dentro c’era la solita sedia, di legno incurvato, dipinta di verde, e c’erano diversi pezzi della macchina. Ritornò nell’ingresso, trovò l’interruttore principale sotto le scale e lo premette. Hutchman, con gli abiti gelidi e inzuppati, uscì dal cunicolo e passò per tutte le stanze, accendendo le luci e chiudendo le imposte. L’effetto finale fu che la sua minuscola proprietà sembrava più squallida e deprimente di prima. Uscì nel cortile coperto, dove la pioggia tamburellava sul vetro, e diede un’occhiata nel deposito del carbone. Ce n’era abbastanza per riempire un bidone, però mancava la pala. Cercò bene nel cortiletto finché trovò diversi stracci sul pavimento del gabinetto esterno, che usò per raccogliere i pezzi di carbone e portarli nel camino, nella stanza sul retro. Lucas non fumava e di conseguenza non aveva l’accendino, però riuscì a dar fuoco a un pezzo di giornale servendosi della stufa a gas, ad accensione automatica, della cucina. Gli stracci unti bruciarono sfrigolando ma, anche aiutati dalla carta di giornale, non riuscirono a dar fuoco al carbone. Hutchman ebbe un attimo di esitazione, e si stupì nel constatare com’erano forti le sue inibizioni. Poi andò a prendere il cassetto del tavolo, lo fece a pezzi e lo buttò nel fuoco. Questa volta i pezzi di carbone attaccarono, assicurandogli per un’oretta un po’ di calore.

Si tolse i vestiti bagnati, si avvolse nell’unico pezzo di stoffa disponibile, cioè la fodera di un grosso divano, e si preparò ad aspettare per altre trentacinque ore. Sogno una stanza ed un bel fuoco, pensò. E le lacrime gli inumidirono gli occhi.


Quando si svegliò il mattino dopo, aveva un gran mal di testa e gli bruciava la gola. Ogni volta che respirava immetteva dal naso un torrente di aria gelata. Nel camino era rimasto un pugno di cenere grigia, mentre gli abiti erano ancora bagnati. Sforzandosi di controllare i brividi, raccolse gli indumenti gualciti e li portò in cucina. Poi accese il forno e i quattro becchi della stufa e fece asciugare i vestiti, cercando di scaldarsi il più possibile nel corso dell’operazione. Mentre aspettava, gli venne una gran voglia di tè. Non di quello delicato che beveva di solito con Vicky, ma di un tè forte, da buon prezzo, servito dolce e bollente. Era fermamente convinto che una tazza di quel tè gli avrebbe fatto passare il mal di testa, guarito la gola e tolto l’indolenzimento dalle ossa. Cercò negli armadi di cucina, ma la padrona di casa non aveva lasciato assolutamente niente del genere.

Va bene, pensò. Se non c’è tè in casa, andrò a comprarlo.

L’idea lo riempì di una gioia febbrile, fanciullesca. Aveva giurato di non aprire la porta di casa fin dopo il termine della missione, nell’eventualità che di fuori ci fosse qualcuno, ma era chiaro che era stato troppo prudente. Se fosse stato pedinato, a quest’ora se ne sarebbe già accorto. Si vestì in fretta, assaporando il piacere della recente decisione. Sarebbe stato bello entrare in una drogheria un po’ vecchiotta e aspirare il profumo delle spezie e del pane fresco. E sarebbe stato bello fare come fanno tutti, per esempio comperare tè, latte e zucchero.

S’infilò il giubbotto grigio e, mentre si dirigeva verso la porta, a un tratto si vide nello specchio d’entrata. I capelli gli spiovevano sulla faccia barbuta, che lo faceva somigliare a un Cristo morto. Gli occhi erano arrossati e aveva un’aria sudicia, malconcia, ammalata. E strana, soprattutto strana. Un fantasma che avrebbe insospettito un vecchio droghiere, o chiunque lo avesse visto anche per un solo momento. No, era impossibile uscire di casa.

Salì al primo piano, verso la sua macchina, e si preoccupò quando si sentì mancare e dovette aggrapparsi alla ringhiera. Sto male, pensò. Sto proprio male. Temeva di non riuscire a montare la macchina, o di non essere abbastanza in sé per farla funzionare al momento stabilito. Si raddrizzò, passò nella stanza sul retro e si mise al lavoro.

Durante la giornata la coscienza della realtà andò e ritornò, a intervalli.

Qualche volta le sue mani non incontravano difficoltà, e procedevano senza sforzo nel complicato lavoro di montaggio. Per esempio, il tubo che serviva ai raggi generativi era controllato da un motore a orologeria e da un sistema di ingranaggi che lo mantenevano rivolto in direzione della luna, che era appunto il riflettore naturale scelto per disperdere la radiazione sull’intera superficie del globo. Hutchman montò facilmente questa sezione ma, quando si trattò di stabilire le coordinate in rapporto ai movimenti lunari, si accorse che i numeri gli ballavano davanti agli occhi. Non riusciva a concentrarsi perché aveva momenti di debolezza, momenti in cui pensava solo a un tè bollente e a frammenti di sogni quando, per un attimo, faceva un salto all’indietro. Vicky che non voleva essere consolata dopo un litigio: Quando uno è arrabbiato, a volte dice cose che pensa sul serio. O mentre passeggiava con lei in Bond Street, e sull’altro marciapiede una donna apriva un ombrello, un punto rosso che, nella visione di Hutchman, si allargava a cerchio e gli ricordava l’approssimarsi di un missile. Lucas faceva un balzo di fianco e, in quel momento, per la prima volta, capiva perché non bisognava aprire un ombrello vicino a un cavallo. David che gli si addormentava in braccio e intanto diceva forte: Chissà perché uno e zero fa dieci, due uno fa undici, al posto di fare uno e zero undici è due uno dieci! Starsene seduto a sorseggiare il whisky, mentre i pioppi diventano neri…

Finalmente, una volta montata la macchina, il resto della giornata passò più in fretta del previsto. Hutchman portò una poltrona nella cucina e rimase incollato alla stufa, con i piedi dentro il forno. La febbre e l’odore di gas, nell’ambiente senz’aria, gli davano una certa sonnolenza, e lui andava e veniva dal tempo reale. Una volta, dopo mezzanotte, il mal di gola lo fece uscire dallo stato di semi incoscienza in cui si trovava. Calmò il dolore con un po’ di acqua calda, fatta scaldare in una vecchia marmitta trovata in un angolo del cortile. Poi cercò di dormire.

Però non era facile, adesso che mancavano appena dodici ore al momento fatidico. C’era anche il particolare noioso di dover abbandonare la stufa e salire nella stanza della macchina, perché di sopra era meno facile essere colti di sorpresa. Ma se saliva di sopra subito, pensava, avrebbe preso freddo, e c’era il rischio che soccombesse al male. Rannicchiato nella poltrona, avvolto in quei panni sudici, Hutchman cercò di immaginare l’attività frenetica in cui la sua iniziativa aveva buttato gli altri uomini. Si chiedeva cosa stava succedendo in tutti i punti segreti del globo dove erano accatastate le armi nucleari. E, subitaneamente, Hutchman rimase impressionato pensando all’immensa presunzione che aveva dimostrato. Lui non sapeva assolutamente nulla dei particolari pratici della bomba H. E, se nella sua ignoranza abissale, non avesse concesso abbastanza tempo per smantellare le testate nucleari? E anche se aveva ampiamente informato i tecnici che erano al lavoro in circostanze normali, che cosa sarebbe avvenuto in un sottomarino Polaris in navigazione sotto i ghiacci dell’Antartide?

Al mattino si rimise faticosamente in piedi, spaventato da come sibilava il suo respiro, e bevve dell’altra acqua calda. Guardò l’orologio. Mancavano meno di tre ore. Sostenendosi alla parete e poi alla ringhiera della scala, Hutchman salì al piano di sopra e si sedette. Si piegò di lato e girò gli interruttori che mettevano la macchina in condizione di funzionare: poi si assicurò che la sua mano arrivasse facilmente al pulsante nero.

Ero pronto.

Chiuse gli occhi e aspettò e, intanto, sorrideva all’immagine di Vicky che adesso, finalmente, avrebbe capito.

Un rumore metallico nella strada lo riportò in piena coscienza. Rimase seduto, perfettamente immobile, col dito sul pulsante, tendendo l’orecchio. Pochi secondi dopo, sentì un ben noto rumore di tacchi alti sul marciapiede: passi di donna che correvano, seguiti da un colpo battuto alla porta d’ingresso. Hutchman non si mosse, però cominciò a togliere il dito dal pulsante.

«Lucas!» chiamò una voce, piano. «Lucas!»

Era Vicky.

Spinto da un nuovo terrore, Hutchman si precipitò giù per le scale e spalancò la porta. Vicky era lì, in piedi, davanti a lui. La sua faccia, appena lo vide, si afflosciò come cera molle.

«Va’ via» le gridò lui. «Va’ via di qui!» Guardò alle spalle di lei, e vide che due macchine si fermavano all’angolo della via. Uomini in cappotto e abito scuro correvano in direzione della villetta.

«Dio mio, Lucas. Ma cosa ti è successo?» Ogni colore era sparito dalla faccia di lei.

Hutchman la tirò dentro e richiuse la porta. Trascinandosela dietro, corse di sopra, nella camera da letto sul retro, poi crollò su una sedia.

«Perché sei venuta qui?» disse tra un rantolo e l’altro. «Perché sei venuta?»

«Ma tu sei solo!» Vicky parlava con voce appena intelligibile, e i suoi occhi smarriti si guardavano attorno, nella stanza nuda. «E stai male!»

«Sto benissimo» tentò di dire lui.

«Ma ti sei visto?» Vicky si coprì la faccia mettendosi a piangere. «Oh Lucas, ma cosa hai fatto?»

Lui raccolse la vecchia fodera del sofà e se la strinse attorno alle spalle. «Va bene, te lo spiego. Ma tu devi ascoltarmi con attenzione e devi credermi, perché non abbiamo molto tempo.»

Vicky annuì, tenendo la faccia nascosta tra le mani guantate.

«Ho costruito questa macchina.» Parlava con amarezza, abbandonandosi all’autocompassione, ora che anche Vicky stava per arrivare al suo momento della verità. «E quando la metterò in azione, oggi a mezzogiorno, tutte le bombe nucleari del mondo esploderanno. Ecco che cosa facevo quando tu pensavi…» La voce gli mancò, quando Vicky alzò la testa e lui la vide in faccia.

«Sei pazzo» sussurrò lei, smarrita. «Sei diventato pazzo!»

Hutchman scostò dalla fronte i capelli arruffati. «Ma non hai ancora capito? Ma perché credi che mi diano la caccia?»

«Tu stai male» disse con decisione Vicky, con quell’ostinazione che lui conosceva bene. «E hai bisogno di aiuto.»

«No, Vicky, no!»

Lei si girò e corse verso le scale. Hutchman cercò di fermarla, inciampò nello scialle improvvisato e cadde. Arrivò all’imbocco delle scale nel momento preciso in cui Vicky raggiungeva la porta d’ingresso.

La spalancò e finì addosso ai due uomini vestiti di nero. Uno dei due impugnava una grossa pistola. Spinse da parte Vicky, e Hutchman vide il braccio teso senza neanche rendersi conto che la pistola era puntata verso di lui. Lei piantò le unghie nella faccia dell’uomo. Il secondo figuro le fece fare un mezzo giro e la colpì alla nuca, con un colpo di karatè. Anche dall’alto delle scale, Hutchman sentì il rumore delle ossa spezzate. Posò il piede sull’ultimo scalino, nel momento in cui la pistola faceva fuoco. Il braccio gli ricadde, inerte. Gemendo per il dolore corse verso la camera da letto e posò il dito sul pulsante nero.

Col dito sul pulsante, si issò con fatica sulla seggiola di fronte alla porta. E quando i due uomini entrarono, Hutchman sorrideva.

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