9

Durante i Nove Giorni, Buckingham Palace era anda­to distrutto totalmente. Ma quando la Repubblica di Londra venne costituita come ente autonomo, il palaz­zo fu ricostruito, non come sede della monarchia, dato che la successione ereditaria non esisteva più, ma co­me sede simbolica dell’autorità.

Il nuovo Palazzo non aveva nessuna rassomiglianza col suo equivalente del passato. Sorgeva esattamente allo stesso punto, all’incrocio tra Costitution Hill e The Mall, ma era sparita per sempre la facciata di pie­tra severa, spariti i pesanti portali e le finestre mo­notone e inespressive. Al suo posto, si ergeva una strut­tura quasi sferica la cui superficie esterna era formata interamente da mattoni di vetro e argentati, in modo che l’impressione totale ricordava una palla di luce rotolata per caso nei Giardini del Palazzo.

Di notte, un elaborato sistema di illuminazione da­va l’impressione che il Palazzo ruotasse lentamente, con uno scintillio quasi allucinante.

Sebbene Markham si fosse dato la pena di arrivare puntualissimo al ricevimento del Presidente, capì dal numero di eliauto e di autogetti di non essere certo fra i primi. Lui e Marion-A furono ricevuti da un an­droide gallonato, che li condusse verso una delle quat­tro massicce colonne di metallo leggero che sorgevano dal suolo per sostenere la sfera nel suo diametro eriz zontale.

Ogni colonna era cava, e conteneva uno spazioso ascensore. Markham e Marion-A vennero sbarcati sul­la balconata principale del palazzo, dove un altro an­droide in livrea li scortò attraverso un portico semicir­colare e due vaste anticamere da dove gli invitati c©n vergevano nella Sala Grande.

Poco dopo si trovarono davanti a una grande porta ricoperta in bronzo, con graziosi sportelli schermati in vetro colorato. La porta si aprì silenziosamente all’av­vicinarsi di Markham e di Marion-A, e dall’altra parte apparve un maggiordomo. Markham si fece avanti e presentò il biglietto d’invito, dopo di che il maggior­domo batté cerimoniosamente il pavimento con una mazza d’oro e gridò a voce stentorea: «Il signor John Markham e il suo androide personale.»

Poi, prima ancora di avere il tempo di rendersi conto dell’ambiente che lo circondava, Markham si trovò a faccia a faccia con il Presidente.

Clement Bertrand era sui sessant’anni, massiccio e coi capelli bianchi. Aveva una carnagione sana e rosa e il tessuto liscio della sua pelle sembrava contrastare vivamente col resto del suo aspetto. Indossava una corta giacca nera da cerimonia orlata di ermellino, calzoni al ginocchio, calze bianche ben tirate e scarpe con grandi fibbie d’oro. Sembra il personaggio di una com­media in costume,pensò Markham.

«Buonasera» disse il Presidente, in tono formale. La faccia era sorridente, ma gli occhi si mantenevano seri e attenti.

«Buonasera, signore» rispose Markham inchinan­dosi leggermente come gli era stato raccomandato. «Siete stato molto gentile a invitarmi.»

Clement Bertrand rise. «Ero curioso di vedervi, ca­ro amico. Vivain mi ha detto tutto di voi. Ha detto che siete un puritano decadente, però io non so cosa voglia dire con esattezza. Immagino che la mia picco­la strega vi stia già cercando. Accomodatevi e cercate di essere socialmente osmotico. Dopo cena dobbiamo scambiare qualche parola insieme.»

Markham si affrettò ad avanzare nella Sala Grande. Pareva di essere in un’immensa grotta sottomarina. Al di là delle spesse pareti di cristallo, pesci di ogni mi­sura, forma e colore, guizzavano attraverso una fore­sta acquatica, gettando occasionali occhiate di noia al­la folla di gente che conversava nel salone.

Mentre esaminava la scena, gli abiti coloratissimi e ridottissimi delle donne, e le tenute leggermente più vistose degli uomini, Markham sentì che anche lui era entrato in una specie di acquario, e di esserne prigio­niero proprio come i pesci.

«Signore» disse una voce maschile «sarei onorato se mi permetteste di offrirvi un bicchiere di brandy Elisabettiano del Presidente. Ce ne sono soltanto sei casse in tutta la Repubblica.»

Lo sconosciuto aveva una faccia attraente e senza età. Era più alto di Markham, e la sua caratteristica dominante erano gli occhi profondi, penetranti. Gli abiti erano relativamente semplici, e c’era in lui un’a­ria di dignità e di decisione che, da sola, sarebbe ba­stata a distinguerlo da tutto il resto della compagnia.

«Grazie» disse Markham. «Brandy Elisabettiano. Un nome che fa pensare.»

Lo sconosciuto sorrise. «È genuino, imbottigliato nel mille novecentosessantatré. Nemmeno i conoscito­ri potranno apprezzarlo quanto voi, Markham.» Fe­ce un cenno con la mano. Apparve un androide, che venne spedito via con un ordine secco. Pochi secondi dopo l’androide tornò con un vassoio.

«Immobile» ordinò calmo lo sconosciuto. L’an­droide presentò il vassoio e rimase impietrito come una statua, con gli occhi fissi nel vuoto.

Lo sconosciuto fece un cenno a Marion-A: «Versa.»

Lei alzò la bottiglia. «Un bicchiere, signore, o due?»

«Permettete che vi faccia compagnia, signor Mar­kham?» chiese lo sconosciuto, con l’aria di trovare di­vertente la propria domanda.

Markham lo guardò meravigliato. «Naturalmente, signore. Pensavo che...»

«Voi pensate troppo, signor Markham, ma vi rin­grazio per il complimento implicito.» Di nuovo sem­brava che lo sconosciuto si divertisse per qualche scher­zo segreto. Diede uno dei bicchieri a Markham e pre­se l’altro per sé. «Berrò alla vostra felicità» disse, con ironia malcelata. Si bagnò le labbra col brandy, poi posò il bicchiere sul vassoio.

«E io» rispose Markham, lievemente a disagio «berrò alla vostra lunga vita.» Cercò di far suonare ironico anche il proprio brindisi, ma non vi riuscì.

La risposta fu una sonora risata. «Gentile da parte vostra, ma non necessario. Io non sono vivo.»

Comprendendo adesso la causa del proprio disagio, Markham parò immediatamente il colpo. «Dipende dalla definizione che uno dà alla vita.»

«Dunque, avete già incontrato i Fuggiaschi?» Più che una domanda, era una constatazione. «Lo pen­savo che si sarebbero messi in contatto con voi, ma evidentemente avevo sottovalutato il fattore tempo.»

Improvvisamente Markham si mise sulla difensiva. «È impossibile arrivare a una definizione della vita a meno che uno non si metta in contatto con i Fug­giaschi?»

«Non impossibile, signor Markham, ma semplice­mente improbabile. Ponderare sull’imponderabile è frequentemente un segno di accomodamento sbaglia­to della psiche.»

«O d’intelligenza.»

«Forse. A proposito, sono Solomon, primo ministro del Presidente Bertrand.»

«Per usare un’esclamazione molto in uso» disse secco Markham «dirò: androide vivo!»

«È una frase divertente, ma senza senso.»

«Alcuni non la pensano così.»

«I Fuggiaschi, soprattutto.»

«E forse» aggiunse Markham con un lieve sorriso, «qualche individuo intelligente che si adatta.»

«Spero» disse Solomon, ignorando l’osservazione «che non prendiate molto sul serio i Fuggiaschi. Po­trebbe compromettere la vostra orientazione.»

«Spero a mia volta» rispose Markham «che non vorrete preoccuparvi eccessivamente della mia orien­tazione. Potrebbe compromettere la vostra program­mazione base.»

Solomon rise. «Avete il senso dell’umorismo, signor Markham. È un’ottima cosa.»

«Anche voi, avete il senso dell’umorismo. Ma non sono certo che sia un’ottima cosa.»

Solomon gli versò un altro bicchiere di brandy. «Siete soddisfatto del vostro A.P.?» Diede una breve oc­chiata a Marion-A. «Se desiderate qualche modifica, possiamo riprogrammarvelo in brevissimo tempo.»

«È eccellente così com’è, grazie.»

«Mi fa piacere. Ma ora non posso trascurare oltre i miei doveri. Forse mi accorderete il privilegio di con­versare ancora con voi, signor Markham. Per il momento devo ritirarmi. Col vostro permesso, s’intende.»

«Il permesso è accordato» disse gelido Markham.

Solomon accennò un inchino che parve in qualche modo irrispettoso, poi si allontanò in fretta.

Markham lo seguì con gli occhi, vuotò il suo bic­chiere, lo posò sul vassoio e licenziò l’androide.

Si accorse di tremare di rabbia. Era stato trattato con condiscendenza da un androide. Ma quello che più lo infuriava era il fatto di non essersi reso conto immediatamente che Solomon era un androide. Di so­lito era in grado di riconoscere alla prima occhiata gli androidi personali ed esecutivi: per la loro rigidità di espressione, di lineamenti, per la precisione dei ge­sti ed altri segni rivelatori. Ma Solomon non manife­stava gli stessi segni; se non avesse dichiarato lui stes­so la propria identità, Markham probabilmente non avrebbe avuto nemmeno il sospetto della verità.

Improvvisamente, scoprì che Marion-A gli stava par­lando con voce che era poco più di un bisbiglio.

«Non è saggio sottovalutare Solomon, John. Dato che è lui il responsabile del funzionamento efficiente della Repubblica, la sua programmazione è estrema mente complessa.»

«Mi stai mettendo in guardia o mi stai minaccian­do?»

«Niente di tutto questo, John. Ti sto solo infor­mando. È mio dovere di A.P.»

«Se gli uomini cominciano ad avere paura degli androidi... C’è qualcosa di marcio in Danimarca.»

«Non capisco bene quello che vuoi dire.»

«Allora c’è ancora qualche speranza. Marion!»

«Sì, signore?»

«Mi spii per conto di Solomon?»

Lei esitò. «Sono programmata per prendere tutte le precauzioni necessarie per la vostra sicurezza, signore.»

«Non hai risposto alla domanda. Potremmo avere concezioni diverse sulla sicurezza.»

«Il mio programma si riferisce alla vostra sicurezza in termini fisici e psicologici, e anche alla sicurezza della Repubblica.»

«Insomma, mi devi spiare... quando ti è possibile e quando ti sembra necessario.»

Marion-A rimase silenziosa. In quel momento Markham vide Vivain venire verso di lui attraverso il sa­lone affollato. Era in compagnia di un giovanotto atle­tico, su per giù dell’età di Markham.

«Caro John! Ti abbiamo cercato dappertutto. Que­sto è Algis Norvens. Algis, ti presento un esemplare autentico dell’età della pietra. Siate amici, o non vi vorrò più bene.»

Markham strinse la mano di Algis Norvens e, sorri­dendo, scambiò i convenevoli d’uso. Ma Norvens non sorrideva. La sua stretta era leggera e impersonale.

«Spero che non troviate il nostro mondo troppo sconcertante» disse.

«Non più sconcertante, credo, di quanto possa sem­brare io a voi.»

Vivain fece un sorriso malizioso. «John è un cro­ciato di temperamento. Pieno di sentimentalismi e di convinzioni incontrollabili. Siamo nemici giurati.»

Norvens guardò Markham incuriosito. «Sapete sce­gliere rapidamente i vostri nemici, e con gusto eccel­lente.»

«Temo che il merito sia tutto di Vivain. È lei che ha trovato me.»

«E cosa vi ha resi nemici?»

«Tra le altre cose, l’amore» disse Vivain, sempre maliziosa.

In quel momento, una voce forte annunciò: «Si­gnore e signori, fra poco sarà servito il pranzo.»

«Venite, voi due. Ho disposto che ci facciano se­dere vicini.» Vivain li prese entrambi sottobraccio e si avviò verso lo scalone principale.

Markham fu lieto dell’interruzione. Aveva intuito in Algis Norvens una velata rivalità che non faceva presagire niente di buono per i rapporti futuri. Vivain non solo ne era conscia, ma l’aveva addirittura previ­sto, Markham ne era certo, e se ne serviva per provo­carli. Markham immaginava che questo solleticasse il bizzarro senso dell’umorismo di Vivain, dato che lei era in possesso di particolari molto personali, sul con­to di entrambi, che nessuno dei due avrebbe mai po­tuto scoprire dell’altro.

La sala da pranzo era quasi sulla sommità del Pa­lazzo. Il pavimento era di cristallo nero; le pareti cir­colari scintillavano di colori diversi, e si curvavano fino a formare una cupola il cui apice distava almeno quin­dici metri dal pavimento.

I tavoli erano disposti a forma di enorme ferro di cavallo, e quando tutti gli ospiti ebbero preso posto, Markham si rese conto che erano più di duecento. Vivain si sedette tra lui e Norvens, mentre Marion-A, come un centinaio di altri androidi personali, stava in piedi immobile dietro la sedia del padrone.

Il discorso che il Presidente Bertrand pronunciò co­me formale preludio al pranzo fu più che altro un bre­ve e banale elogio sul tema della vita nella Repubbli­ca di Londra. Tuttavia fece qualche riferimento in­diretto che Markham trovò molto interessante. Parlò con evidente disgusto dei moti antiandroidi nelle Midlands, e fece sapere che il cancelliere delle Midlands aveva finalmente accettato il consiglio del suo Primo Ministro, e stava emanando condanne a cinquant’anni di Animazione Sospesa a coloro che vi avevano preso parte. Parlò anche della recente campagna del Primo Generale Scozzese contro una colonia di Fuggiaschi che si erano stabiliti nelle Highlands. Markham rima­se perplesso nell’apprendere che c’era voluta una bri­gata psichiatrica di un migliaio di androidi per affron­tare meno di trecento Fuggiaschi, e che ciononostante solo sessanta Fuggiaschi erano stati catturati, mentre centocinquanta androidi erano stati distrutti o messi fuori uso.

Mentre si avvicinava alla fine del suo discorso, Clement Bertrand rivolse agli ospiti un sorriso benevolo. «Cari signori» disse, «converrete con me che una simile situazione non potrebbe mai verificarsi in Lon­dra. La società avrà sempre qualche psicopatico e qual­che pervertito, gente che, incapace di adattarsi allo schema sociale normale, tenterà di distruggerlo e di crearne un altro confacente al suo gusto anormale. Ma da noi i Fuggiaschi rappresentano una quantità trascurabile. Il loro sogno assurdo di un ritorno al barbarismo preandroide merita da noi soltanto pietà e derisione, perché la vigilanza dello Psicoprop conti­nua a ridurre regolarmente il loro numero... Androide vivo! Ho già sprecato troppo del vostro tempo con ar­gomenti seri. Questo è compito di Solomon. E adesso, pensiamo a divertirci.»

Dagli ospiti si levò un educato mormorio di appro­vazione, poi gli androidi camerieri si fecero avanti.

«Non sembra molto intelligente ed è troppo pom­poso, vero?» disse Vivain a Markham. «Ma a cono­scerlo bene, non è un completo disastro. In fondo, qualcuno deve pure gonfiare le penne e fare l’usigno­lo del re.»

«Credevo che fosse Solomon l’usignolo del re» dis­se Markham. Aveva notato che il Primo Ministro, se­duto a fianco di Clement Bertrand, era l’unico androi­de che avesse preso posto a tavola... a meno che qual­cun altro degli ospiti fosse un androide dotato della stessa possibilità di apparire assolutamente umano.

«L’hai conosciuto?» chiese Vivain.

«Abbiamo scambiato qualche parola poco prima che arrivassi tu. L’avevo preso per un umano vero.»

«È l’errore che fanno tutti la prima volta» disse lei, accigliandosi leggermente. «Si diverte a sorprendere la gente. Dev’esserci una striatura di vanità nella sua programmazione.»

«Se fossi al posto di tuo padre» disse Markham, «l’avrei già distrutto.»

Vivain gli diede un’occhiata sbalordita. «Non do­vresti dire queste cose, John... per lo meno a nessuno tranne che a me.»

«Perché? Come macchina, è un po’ troppo umano. Mi sembra pericoloso.»

«Ma è anche molto brillante... e indispensabile.»

Markham tornò a guardare il Primo Ministro che stava solennemente mangiando la sua minestra.

«Il che lo rende ancora più pericoloso.»

«Confesso di esserne anch’io un po’ intimorita» disse Vivain. «Ma dirige la Repubblica meravigliosa­mente. Clement non deve fare altro che autorizzare le decisioni di Solomon.»

«Per amor del cielo, non dirmi altro» disse Mar­kham disgustato, «altrimenti andrò ad unirmi ai Fug­giaschi.»

Verso la quinta portata, la conversazione generale era aumentata considerevolmente di volume, e i val­letti del vino andavano avanti e indietro con monoto­na regolarità. A questo punto una sezione del pavi­mento scivolò via, e al centro del ferro di cavallo for­mato dal tavolo sorse una piccola orchestra. La stan­za si oscurò leggermente, e una macchia di luce in­quadrò una figura femminile che se ne stava in posa su un piedistallo come una statua greca.

Era completamente immobile. La gamba e il braccio sinistro erano argentati, l’altro braccio e la gamba de­stra, dorati, il corpo e la faccia neri come l’ebano, e i capelli di un verde fosforescente.

All’improvviso, mentre la musica attaccava, la don­na balzò dal piedistallo con un lungo grido roco e co­minciò a cantare e a ballare, descrivendo con angoscia e ricchezza di particolari il suo primo incontro con l’amore.

La musica era stridula e discordante, i toni della cantante insistevano su tre note sole, mentre i movi­menti del corpo, sebbene appena accennati, erano estremamente evocativi. Tuttavia, Markham sentiva che la rappresentazione non era semplicemente eccitante. L’appello ai sensi era accompagnato da un altro ap­pello, diretto alla compassione e alla pietà. Markham, che non perdeva d’occhio i commensali, si accorse che molte donne avevano gli occhi pieni di lacrime. Ma l’aspetto più insolito della danza fu verso la fine, quan­do la danzatrice lasciò intendere di aspettare un figlio da un uomo che era già padre per la seconda volta nello stesso periodo di cinque anni. Mentre la can­tante continuava lamentando la conseguente condan­na del suo uomo a cinque anni di A.S., Markham vide che molti uomini presenti erano decisamente a disagio.

Alla fine della canzone, la donna balzò di nuovo sul piedistallo e riprese la posa originale, poi il piedistal­lo svanì.

La rappresentazione seguente era senza dubbio a tut­to beneficio di Markham. Si trattava di un balletto in maschera rappresentato da un uomo vestito in abiti caricaturali del ventesimo secolo, da un androide, e da una ballerina in abito da sera del ventesimo seco­lo. C’erano inoltre un coro di piccoli androidi, un cor­po di ballo, e tre ballerini vestiti da moglie e da bam­bini del Sopravvissuto.

Markham guardava, affascinato, mentre il finto So­pravvissuto, dopo essersi risvegliato dall’A.S. mostrava con la mimica orrore per l’androide e disgusto verso gli approcci della ballerina. Infine il Sopravvissuto ballava disperato attorno alle figure spettrali di sua moglie e dei suoi figli, cercando invano di raggiunger­li attraverso una barriera invisibile.

I gesti imploranti della donna e dei due ragazzi del ventesimo secolo fecero scrosciare le risate fra il pub­blico: soprattutto quando danzarono verso Markham stesso, per rendere più diretta l’allusione. Lui voltò la testa, chiudendo gli occhi per nascondere la propria infelicità. Ma gli ospiti del Presidente interpretarono quel gesto come una pubblica ripulsa verso l’antiqua­to concetto della vita di famiglia e le loro risate, che l’imbarazzo aveva un poco trattenuto, crebbero di in­tensità. Poi, quando il finto Sopravvissuto, conscio del­l’impossibilità di raggiungere la famiglia, crollò a ter­ra in un atteggiamento di disperazione, la musica ven­ne quasi coperta dal boato degli spettatori.

Infine l’androide personale convinceva il Sopravvis­suto a ricomporsi. L’uomo saltava in piedi, ricacciava nel buio la sua famiglia con un gesto noncurante del­la mano, ed eseguiva una breve danza di liberazione. Cambiando simbolicamente i propri abiti antiquati per altri moderni, si univa poi alla ballerina in una danza frenetica che terminava con l’inevitabile unio­ne felice. La sequenza finale mostrava il Sopravvissuto, che dopo essersi innamorato della ballerina, scopriva che moglie e figli si erano materializzati di nuovo. Al­lontanandosi da loro con disgusto, ordinava all’an­droide personale e al coro di portarli via.

Mentre la scena s’inabissava nel pavimento, Mar­kham sentì una mano sul braccio. «John caro, mi di­spiace tanto» mormorò Vivain. «Se avessi potuto im­maginare, avrei detto a Clement di mettere il veto.»

«Che importanza ha?» disse Markham controllan­do la voce. «In fin dei conti, tutti si sono divertiti un mondo.»

«Tranne te» disse Vivain «e me. Ti ha fatto mol­to male, vero?»

Lui le sorrise. «No. Ormai mi sto corazzando con­tro i tempi nuovi.»

«È stato un vero delirio» disse Algis Norvens con un largo sorriso. «Chissà chi avrà avuto una simile ispirazione?»

«Già, chissà?» disse Markham. «Mi piacerebbe congratularmi con l’autore.» E guardò Vivain con aria inquisitrice.

«Non lo so» confessò lei. «Di solito è Solomon che organizza gli spettacoli e le attrazioni. Lui dovreb­be saperlo. Vuoi che glielo chieda?»

«Lascia stare. Pensavo già che Solomon c’entrasse per qualcosa.»

Con silenziosa rapidità, gli androidi stavano sparec­chiando, e altri servivano caffè e liquori. Nel frattem­po, attraverso il pavimento sorse un ampio palcosce­nico circolare.

La scena che comparve fu salutata da uno scroscio di risate, misto a grida di meraviglia. Ma dopo aver osservato per pochi secondi, con occhi assolutamente increduli, il nuovo spettacolo, Markham si sentì pren­dere dalla nausea.

Sulla scena c’erano tre personaggi abbigliati in mo­do complicato: una donna con due teste, una delle quali aveva una faccia infantile, mentre l’altra l’ave­va stranamente matura, un uomo con quattro braccia, un altro uomo con una lunga coda prensile.

I tre mimavano l’antico tema della rivalità, i due uomini intenti a dimostrare i vantaggi specialissimi della propria afflizione. Quello dalle quattro braccia offriva fiori, dolciumi, profumi e un mantello da sera con due cappucci come segni della sua ammirazione. Poi la donna eseguiva con lui una breve danza, du­rante la quale l’uomo la conduceva ballando con due braccia, mentre con le altre due le accarezzava la fac­cia infantile. Alla fine il rivale, stanco della scena, lo afferrava per le caviglie con la coda facendolo cadere a terra. A sua volta, poi, danzava con la donna, con­centrando la sua attenzione sulla faccia matura e usando la coda in modo tale da dare quasi le convulsioni al pubblico.

Markham sentì di non poter assistere oltre alla sce­na odiosa, ma mentre si alzava per allontanarsi dal suo posto, Vivain lo trattenne.

«Devi ringraziare solo il ventesimo secolo per que­sto, John» gli disse molto seria. «Le mutazioni cau­sate dai Nove Giorni si verificano ancora. E gli scien­ziati androidi dicono che ne avremo per altri mille anni... Pensi che siamo duri e insensibili, vero? Ci giu­dichi decadenti e marci. Ma forse questo è soltanto un modo per tenere presenti gli orrori della guerra.»

Markham tentò di trovare una risposta soddisfacen­te, ma non ne trovò. Per lo meno non ne trovò una veramente onesta.

Alla fine la macabra esibizione terminò. Il palco di­sparve tra gli applausi e gli scrosci di risa. Ma c’era qualcosa di curioso in quelle risate, pensò Markham. Contenevano una nota isterica... in particolare quelle delle donne. Si disse che tutti, in fondo, erano vittime dei Nove Giorni. Per la prima volta cominciò a pro­vare verso tutti un senso di pena.

Algis Norvens si rivolse a Markham con un sorriso bizzarro.

«L’avete trovato divertente?»

«Niente affatto. E voi?»

«Se non ridessimo» rispose Norvens, sorprendendo Markham, «dovremmo diventare pazzi di rabbia. Ec­co perché ridiamo. La tragedia diventa uno scherzo e lo scherzo finisce col perdere a poco a poco tutto l’a­maro.»

Lo sbalordimento di Markham crebbe. Un momen­to la gente del ventiduesimo secolo sembrava dura e insensibile, un attimo dopo tutti lasciavano trapelare squarci di sensibilità e di sofferenza.

Stava per interrogare Norvens sulle possibilità di procurarsi l’eutanasia, quando apparve la diversione finale. L’ultimo trattenimento consisteva in una gros­sa palla di vetro o plastica trasparente, con un sedile sospeso al centro in modo tale che, da qualunque par­te la palla girasse, il sedile conservava la sua posizione verticale. Su questo sedeva un bambino di circa dieci anni. Ma osservandolo meglio, Markham notò che, in contrasto col resto del corpo, la faccia del bambino era incredibilmente avvizzita e rugosa, come quella di un vecchio.

Nella bolla c’era una piccola apertura, attraverso la quale usciva un intenso raggio di luce rossa provenien­te da un congegno che il bambino stringeva nella ma­no.

Un androide, che con un braccio sosteneva senza fa­tica la bolla, annunciò che essa conteneva Sylvero, il famoso chiaroveggente e lettore del pensiero.

Appena l’androide ebbe finito di parlare, Sylvero salutò l’assemblea e sorrise amabilmente. Poi, a un se­gno simultaneo del Presidente e di Solomon, l’androi­de fece roteare la bolla così che il raggio di Sylvero cadde sulla faccia di un commensale.

Markham vide l’uomo spalancare gli occhi e restare inebetito con lo sguardo fisso e inespressivo, mentre il suo corpo si irrigidiva.

Poi Sylvero parlò, e la vocetta sottile era resa com­prensibile da un amplificatore.

«Il soggetto si chiama Orland Joyce. Ha trentotto anni e ha subito tre mesi di A.S. Ha amato undici don­ne e ne ha resa madre una. A tredici anni riuscì a di­struggere un androide restando impunito, il che gli procurò un complesso di colpa e un terrore morboso delle identità nonbiologiche. A sedici anni amò una donna di ventisei, che in seguito divenne una Fuggia­sca e venne consegnata a una squadra psichiatrica dal soggetto stesso. A ventidue anni vinse il campionato di sci aereo alle Olimpiadi di Londra. A ventisette an­ni esibì dieci sculture alla Mostra d’Arte della Repubblica e ricevette il Turbante d’Oro. A trentatré anni procreò un normale. Stasera allaccerà una relazione con una donna che ha i capelli azzurri e una veste di columino. Domani si recherà nella Scozia per i Gio­chi Autunnali. Poi passerà due mesi nella City prima di partire per un corso di cultura psichica. A quarantun anni metterà al mondo un altro normale. A quarantasette anni resterà gravemente menomato in uno sport marino che non è ancora stato scoperto... Non è permesso dichiarare l’età in cui il soggetto cesserà di vivere. Non dirò altro.»

Sylvero spense il raggio rosso, e Orland Joyce ripre­se coscienza. Si guardò attorno con un sorriso meravi­gliato, mentre gli ospiti, specialmente quelli che lo co­noscevano ed erano quindi in grado di controllare la prima parte dell’analisi di Sylvero, applaudirono forte.

A un altro segnale venuto dal tavolo del Presidente, l’androide fece roteare la bolla trasparente; il raggio rosso di Sylvero colpì la faccia di una ragazza bruna che reagì immediatamente come aveva fatto l’uomo.

La voce stridula di Sylvero riprese a parlare. Il veg­gente disse che il soggetto si chiamava Ninelle Mar­chiant, di ventidue anni. Poi, con maggior ricchezza di particolari di quella usata per l’uomo, Sylvero passò a descrivere l’infanzia e i fatti intimi della vita della ra­gazza. La filastrocca continuò fino a illustrare malizio­samente quello che la giovane aveva fatto la sera pri­ma, poi passò a prevedere il futuro. Ma Sylvero s’in­terruppe quasi subito. Dopo un attimo di silenzio ri­peté la formula non è permesso dichiarare l’età in cui il soggetto cesserà di vivere. Non dirò altro.

L’applauso fu meno scrosciante, questa volta. Dopo gli abbondanti particolari sul passato di Ninelle, il pubblico aveva sperato in una identica lettura del fu­turo, ed era rimasto un po’ deluso.

Markham fissava il bambino con la testa da vecchio nella sfera di vetro, e si sentiva assalire da un’ondata di odio e di disgusto incontrollabili. La possibilità che Sylvero fosse un mutante, un prodotto ritardato della Guerra, non riusciva a convertire in pietà la sua ripu­gnanza.

Che diritto aveva quel mostro malevolo di mettere a nudo la vita degli altri? Di atteggiarsi a padreterno e predire il loro futuro?

Se Markham fosse stato un po’ più sereno si sareb­be reso conto che anche Sylvero era una vittima delle circostanze. Ma il piccolo veggente era divenuto il pun­to focale nel quale convergere il furore che si era ac­cumulato in Markham fin dall’incontro con Solomon, e che il resto della serata non aveva fatto che accre­scere.

Ma proprio mentre Markham si diceva che non vo­leva restare oltre a fare da spettatore impasibile delle cosiddette diversioni del Presidente, il raggio rosso di Sylvero gli balenò negli occhi, facendogli perdere co­noscenza.

L’intervallo non era misurabile dal soggetto, ma quando si risvegliò, Markham ebbe l’impressione che il raggio l’avesse accecato solo per un istante. Si rese conto, tuttavia, di un silenzio innaturale, e vide che tutti gli occhi erano rivolti alla sfera trasparente. Due androidi la reggevano, mentre un terzo ne aveva aper­to uno spicchio e stava estraendone il corpo inanima­to di Sylvero. Il bambino poteva essere svenuto, ma prima ancora che Vivain parlasse, Markham senti che Sylvero era morto.

«Stai bene, John?» gli mormorò lei, ansiosa.

«Credo di sì... Cos’è successo?»

Vivain diede un’occhiata inquieta verso il tavolo di suo padre, dove Solomon stava osservando con occhio inespressivo la rimozione di Sylvero.

«Solomon ti ha fatto ipnotizzare da Sylvero» gli spiegò Vivain. «Poi quel mostriciattolo ci ha detto tutto sulla tua infanzia, sul modo come sei cresciuto, sulla tua vita con Katy... Io... ero addoloratissima.»

Con un sorriso soddisfatto, Markham guardò spari­re la sfera e il cadavere di Sylvero.

«Perché?» chiese. «Ho soltanto subito lo stesso trat­tamento degli altri.»

«Tu non appartieni al nostro mondo. Mi è sembra­to ingiusto.»

«Come diavolo è morto Sylvero?» chiese Markham, fissando con aria cupa il punto dove poco prima c’era la sfera.

«È inesplicabile. Aveva cominciato a predire il tuo futuro quando si è interrotto. Ha cominciato a pia­gnucolare, e tutti si chiedevano cosa stesse succeden­do. Poi all’improvviso ha ricominciato a parlare mol­to in fretta. Ma urlava talmente che non si capiva una parola... Poi, senza motivo apparente tutt’a un tratto è rimasto un attimo immobile, quindi è crollato.»

«Forse» disse Markham, con cupa allegria «avrà previsto la propria morte, e la notizia l’ha ucciso.»

Nel frattempo, il Presidente Bertrand si era alzato da tavola: gli ospiti erano liberi di disperdersi a pia­cere.

Algis Norvens si rivolse a Vivain. «Al diavolo le mutazioni! Ce ne ricorderemo di questa diversione, eh? Pare che il nostro Sopravvissuto abbia talenti na­scosti... Andiamo nella Sala Grande per il ballo?»

Vivain guardò Markham. «Scegli tu, John. Se pre­ferisci, ti mostrerò i giardini tropicali, oppure» e die­de un’occhiata maliziosa a Norvens, «Algis sfiderà un pescecane nell’arena-serbatoio. Gli piace molte fare mostra della propria abilità subacquea. O forse vuoi assistere al ballo?»

«Sono un centenario» disse ironico Markham. «Il ballo mi affatica troppo. Vada per i giardini tropicali.»

«Allora non dobbiamo privare Algis del suo divertimento» disse Vivain. «Gli presteremo il tuo A.P. per ballare.»

Norvens accettò di malagrazia quel congedo, ma Vi­vain non si commosse. Con uno sguardo feroce a Markham, Norvens se ne andò con Marion-A nella Sala Grande, mentre Vivain e Markham salivano ai giar­dini sopra il palazzo.

I giardini tropicali erano una profusione di colori e di profumi di fiori esotici, frutta e piante, il tutto illuminato da un sole sintetico. Toccando un pulsante Vivain eliminò il sole,e rimase solo il chiaro di luna autunnale che entrava dal tetto trasparente.

I giardini erano deserti. Vivain condusse Markham su una collinetta artificiale, dove si sedettero a con­templare la luna.

«Norvens è il tuo innamorato?» chiese bruscamen­te Markham.

Lei rise. «Che significa? Lo è stato in passato, e for­se lo sarà qualche altra volta in futuro.»

«Non voglio intralciargli la strada, ecco tutto.»

«Caro John, ora esageri. Un po’ di sana competi­zione farà certamente un gran bene ad Algis.»

«E se io non volessi competere?»

«Allora dovrò costringerti, mio imperioso purita­no... così!» Gli prese la faccia tra le mani e lo baciò con passione, ma lui non rispose al bacio.

«Che scena edificante» disse una voce dall’ombra. «Vi state preoccupando con molta sollecitudine della sua orientazione, signora. Ma temo che sarà un com­pito assai complicato.»

Solomon si fece avanti, guardandoli con un sorriso benevolo. La sua presenza non pareva disturbare Vi­vain, ma Markham si sentì riassalire dalla collera.

«Il permesso di ritirarvi è accordato» disse, con chiaro sarcasmo.

Il sorriso di Solomon si fece più ossequioso che mai.

«Grazie, signore. Ma forse la figlia del Presidente mi permetterà di godere il privilegio di trattenermi qual­che minuto.»

«Il permesso è accordato» disse Vivain con voce incolore.

Solomon fece un inchino formale, poi si rivolse a Markham.

«Devo chiedervi scusa, signore, per qualche punto dello spettacolo che può avervi offeso, e soprattutto per il deplorevole incidente della morte di Sylvero.»

«In verità» disse Markham, «quella è l’unica par­te che mi è piaciuta. Un tipo antiquato come me, è ancora del parere che sia imperdonabile esporre la vi­ta privata di una persona al pubblico ludibrio.»

Gli occhi di Solomon parvero scintillare stranamen­te. «Tuttavia» disse «non era questa la funzione del­la stampa nel ventesimo secolo? Perdonatemi se sono in errore. Confesso di essere terribilmente mal pro­grammato in argomenti storici.»

Suo malgrado, Markham sorrise. «Non siete il pri­mo a ricordarmi che la grande arte del ventesimo seco­lo era l’ipocrisia. Ma preferisco ancora il mio tipo di ipocrisia al vostro.»

Solomon annuì cortese. «Ognuno ha i propri gusti, signore. Il periodo di centocinquant’anni ha se non altro liberato l’umanità da molte delle sue inibizioni.»

«Al prezzo di creargliene di nuove» disse Markham.

«Il che ci richiama alla mente l’argomento di co­loro che non si adattano» disse Solomon. «Il che a sua volta ci riconduce ai Fuggiaschi.»

«Il fatto è che, evidentemente, volete discuterne» disse Markham. «Proseguite.»

«Grazie, signore.» Solomon fece una breve pausa. «In vista della nostra precedente conversazione, ho pensato, signor Markham, che potreste venire a tro­varvi in considerevoli rischi personali.»

«In vista della nostra precedente conversazione» rispose Markham gelido, «sono d’accordo con voi. Ma secondo me, la fonte di questi rischi non è umana.»

Solomon scosse lentamente la testa, come per rim­proverare un bambino caparbio. «Il pericolo vi viene dai Fuggiaschi. Se veramente valgono qualcosa, tente­ranno di usarvi come simbolo.» Sorrise. «Ognuno, nella Repubblica, sa che il Sopravvissuto ha attitudi­ni tipiche del ventesimo secolo verso il lavoro, l’amore, la libertà economica e culturale.»

«Ho anche punti di vista ben radicati sull’uso illi­mitato degli androidi» disse Markham.

«Precisamente. Ecco perché ritengo che i Fuggia­schi tenteranno di fare di voi il loro capo spirituale.»

«Mi adulate.»

«Non sono programmato per l’adulazione, signore. Ma mi rendo conto che potreste essere usato come ca­po spirituale da elementi psiconeurotici che desidera­no cambiare con la forza lo stato attuale della società.»

«Se saranno abbastanza forti per farlo» disse Mar­kham, «significa che la società attuale è vulnerabile.»

Solomon sorrise. «So per esperienza che gli uomini non sono pericolosi in quanto tali. Solo gli ideali so­no pericolosi. I Fuggiaschi potrebbero usarvi facendo di voi la personificazione di un ideale.»

Markham sbadigliò. «Personalmente non mi sento né un simbolo né un ideale. Sono soltanto un comu­ne essere umano... irritato da troppi macchinari che camminano!»

«Allora spero, signore, che non vorrete mettere a repentaglio la vostra persona permettendo ai Fuggia­schi di idealizzarvi.»

«E se invece volessi?»

«Allora, signore, sarebbe necessario apportare qual­che leggero cambiamento alla vostra personalità, così come se foste troppo irritato da tanto macchinario che cammina.»

«Grazie per l’avvertimento. Me lo ricorderò.»

«Grazie per il colloquio, signore. Non lo dimenti­cherò.» Guardò Vivain. «Vi chiedo scusa dell’intru­sione, signora. Ho il permesso di ritirarmi?»

«Accordato» disse Vivain. «Penso, Solomon, che non dovresti misurare l’atteggiamento del signor Markham secondo la media contemporanea.»

Solomon si inchinò di nuovo «Se così fosse, signora, l’avrei già raccomandato per l’Analisi.»

Markham osservò l’androide che si allontanava. Ri­mase silenzioso, ascoltando attentamente per qualche momento. Poi disse: «E così, l’infallibile Solomon ha commesso il suo primo errore.»

«Cosa vuoi dire?»

«Si illude di poter stimare correttamente l’effetto di aver applicato qualche stimolo di paura a un esse­re umano.»

Vivain rabbrividì leggermente. «Vorrei che non avessi quell’aria così truce, caro.»

All’improvviso, Markham scoppiò a ridere. «Lotta o scappa» disse in tono allegro. «È sempre l’eterno dilemma.»

«Di che stai parlando?» chiese Vivain con voce pe­tulante.

«Della differenza tra determinismo e libero arbi­trio... tra androidi ed esseri umani.»

«Non mi piaci quando fai il misterioso.»

«Tu però ci guadagni molto da qualche dose oc­casionale di perplessità» ribatté Markham.

Rimasero nei giardini tropicali finché un androide gallonato venne a cercarli per annunciare che il Presi­dente Bertrand desiderava vedere Vivain e Markham nel suo studio privato.

Clement Bertrand si era tolto la maschera ufficiale. Nonostante la carnagione rosea e sana, la pelle liscia e levigata, ora dimostrava la stanchezza della sua età. Markham notò negli occhi del Presidente un’espres­sione di ansia. Bertrand congedò il servo androide, offrì da bere a Vivain e a Markham e scambiò con loro alcune frasi banali. Infine venne al sodo.

«Sono sufficientemente anziano, John, sufficiente­mente vecchio, per aver giocherellato un po’ quando il lavoro, diciamo così, era ancora socialmente de­siderabile. L’elettronica era il mio passatempo. Lo dico perché voglio assicurarvi che in questa stanza non è inserito alcun trucco acustico.» Rise. «Solomon, es­sendo l’oggetto più vicino all’efficienza chimica pura, una volta ci si è provato. Ma io ho sistemato una serie di risonatori che rovinavano tutti i suoi tentativi. So­no lieto di dirvi che ha capito l’antifona.»

Markham sorrise. «Non immaginavo che foste un antiandroidi, signore.»

«Non lo sono» rispose con fermezza Clement Ber­trand. «Ma sono contro i disturbatori... in ogni senso. Ed ecco perché ho voluto parlarvi. Pochi minuti fa ho visto Solomon. Ritiene che siate un pericolo potenziale per la Repubblica. Pensa che i Fuggiaschi vogliano ser­virsi di voi. Pensa inoltre che siate incline a lasciarvi usare. Cosa mi rispondete?»

«Non mi rendevo conto che gli androidi potessero essere programmati per il melodramma.»

«Non sviate la domanda. Avete incontrato qualche Fuggiasco?»

«Anche se l’avessi incontrato, non sarei tanto scioc­co da dirvelo, signore.»

«Sciocco, o semplicemente cittadino responsabile? Quando foste creato cittadino della Repubblica, ac­cettaste le responsabilità oltre che i privilegi.»

Markham si accigliò. «Mi riesce difficile considera­re lo spionaggio come una responsabilità civile.»

Il Presidente scrollò le spalle con aria stanca.

«Se volete essere temerario, è affare vostro» dis­se. «Ma non date giudizi affrettati, e non sottovaluta­te io Psicoprop. E lo Psicoprop è Solomon. Ogni altro androide del dipartimento è fondamentalmente una estensione del suo cervello.»

«Grazie, signore. Non lo dimenticherò.»

«C’è anche un’altra cosa da ricordare. Poiché siete prima di tutto un cittadino, e in secondo luogo un essere umano, Solomon non può farvi niente fino al momento in cui commetterete un errore. Ma a quel punto non avete scampo. E sarà la fine di John Markham come lo conosciamo oggi.»

Markham guardò incuriosito il Presidente. «Da co­me parlate, signore, ho l’impressione che non siate completamente dalla parte di Solomon» disse.

Il Presidente Bertrand gli restituì l’occhiata con aria impassibile. «Può darsi, ma sono Presidente della Re­pubblica, e non voglio che si sviluppi alcuna situazio­ne che possa condurre a una lotta diretta tra uomini e androidi. Perché gli androidi vincerebbero. Sono qui per servirci... con una magnifica organizzazione. Sono tutti ottimi servitori, ma potrebbero diventare nemici spietati, una volta ricevuto il programma adatto.»

«Presto o tardi» disse Markham, «la lotta scoppierà. A meno che l’umanità non scompaia prima. Ecco perché sarebbe meglio che scoppiasse presto, finché gli uomini hanno ancora un po’ di coraggio.»

Il Presidente Bertrand si riempì di nuovo il bicchie­re. «È strano» disse pensoso, «come i filosofi, i santi, i criminali, e i rivoluzionari abbiano tutti in comune l’elemento violenza.»

«Forse la violenza giustificata è preferibile alla pa­ce a tutti i costi.»

«Questo è un problema, lo so» disse lentamente Bertrand. «La violenza può avere giustificazioni? Voi parlate a nome di un mondo che ci diede i Nove Gior­ni. Io parlo per un mondo che è stato ricostruito dal­le ceneri... Un tempo ho studiato filosofia sotto un cer­to Hyggens. Aveva un suo punto di vista molto interessante sulla violenza... nonché sugli androidi e sulla vita. Tra parentesi, oggi è un Fuggiasco.»

Markham si irrigidì suo malgrado.

«Non preoccupatevi» continuò il Presidente. «È ancora vivo e libero. Almeno spero. Ma se lo vedeste di nuovo, avvertitelo di non sperare in eterno nei mi­racoli.»

«Come fate a sapere che l’ho incontrato, signore?»

«Me l’avete lasciato capire voi stesso... Un’altra cosa. C’è il problema di voi e di mia figlia.» Guardò calmo Vivain che aveva ascoltato chiusa in un silen­zio sbalordito. «Già, è insolito per te sentirmi parla­re così, vero? Io sono il pupazzo decorativo, l’oratore, l’uomo pieno di paroloni vuoti. Ma talvolta, Vivain, è necessario immettere un po’ di significato in un fiu­me di parole. Ora, per esempio, il momento lo richie­de. Nonostante quello che ho detto prima di cena, i Fuggiaschi sono diventati un problema serio. E loro lo sanno. Stanno cercando una forza unificatrice, un simbolo che possa dare fede agli incerti, attrarre quel­li che ancora non si sono decisi. John non è ancora stato chiamato in causa. Potrebbe non esserlo mai. Po­trebbe perfino orientarsi nella nostra società, e dimo­strare così che Solomon ha torto. Ma non voglio che tu lo veda troppo, per un po’ di tempo. Per lo meno, non voglio che venga risaputo, né dagli androidi né dagli uomini, che tu lo vedi. Mi sono spiegato?»

«E con incredibile solennità, anche» disse Vivain. «Non sapevo che potessi fare del melodramma, Clement.»

«Infatti... Finché non ci sono costretto.»

«Ditemi, signor Presidente» disse Markham, che da un certo tempo stava riflettendo su un punto in particolare «se sono una potenziale minaccia, perché non mi rimandate in A.S. o qualcosa del genere?»

«Per farlo, ci vorrebbero ragioni che potessero sod­disfare i cittadini di Londra. Possiamo sembrarvi decadenti o inefficaci, John. Ma nutriamo ancora qual­che illusione. E anche noi diamo un valore altissimo alle nostre nozioni in fatto di libertà individuale... Al diavolo le mutazioni, per questa sera sono stato abba­stanza solenne. È tempo che intrattenga un po’ gli al­tri ospiti.»

Mentre tornava con Vivain nella Sala Grande, Markham si sentiva veramente perplesso. Gli pareva che, appena formata un’opinione sulla gente e sulle usan­ze del ventiduesimo secolo, l’opinione stessa subisse una smentita immediata.

Trovarono Algis afflitto da un eccesso di danza, di alcol e di compagnia di Marion-A.

«Spero che i giardini tropicali vi siano piaciuti» disse il giovane, con un’occhiata velenosa a Markham.

«Immensamente.»

«Siamo stati a chiacchierare con Clement» disse Vivain in tono conciliante. «Voleva vedere John.»

Norven sorrise ironico. «Tutti vogliono vedere John» disse. «Però io preferisco vedere te.» Si rivol­se a Markham. «Grazie d’avermi prestato l’androide. Ve lo restituisco con gioia... Programmata in modo straordinario, però. E balla meglio di me.»

«Ha molte virtù insospettate» disse Markham, sor­ridendo.

Marion-A ricevette il complimento con un sorriso ri­gido. Molti ospiti avevano già cominciato ad andarse­ne, e Markham si chiedeva se fosse una buona idea tentare una ritirata strategica. Non sopportava più di stare chiuso lì dentro. Inoltre, molte cose erano suc­cesse nel corso della serata. Cose sulle quali doveva riflettere.

Guardò Algis e poi Vivain. E all’improvviso deside­rò allontanarsi da entrambi.

«Sono terribilmente stanco» disse. «Mi sono suc­cesse troppe cose nuove tutte insieme. Ho bisogno di un po’ di riposo... e di solitudine.»

«Sì, immagino che la vita vi sembri ancora un po’ sconvolgente» disse Norvens in tono divertito. «Pren­detela con calma, John, altrimenti diventerete triste.»

Markham sorrise. «Questa è la sera dei consigli sag­gi, pare.» Prese la mano di Vivain. «Ringrazia tuo padre e fagli le mie scuse, vuoi? Digli che rifletterò attentamente su quello che mi ha detto.»

Lei gli strinse gentilmente la mano. «Abbi cura del­la tua psiche primitiva, caro... e non pensare troppo. Ti fa male» gli disse poi.

Lui rise. «Conosco almeno un modo per evitare di essere cerebrale. Posso sempre ricorrervi, non credi?»

«Sì» mormorò Vivain. «E spero che tu lo faccia prestissimo...»

Markham lasciò la Sala Grande con Marion-A al fianco.

Quando uscirono dall’ascensore, ai piedi del Palaz­zo, già il senso di claustrofobia si stava dileguando.

Si sdraiò pigramente sul sedile dell’eliauto, sospirò di sollievo e sentì che la tensione diminuiva. Poi or­dinò a Marion-A di salire con l’eliauto a trecento me­tri. Volle restare fermo lassù per qualche minuto, a contemplare la City; cercava invano di ricordare un sogno che sonnecchiava in fondo al suo cervello. Alla fine vi rinunciò, e l’eliauto scese lentamente verso Knightsbridge.

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